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Autore: Anna Santarello

ex bimba rifugiata diventa un’eroina per centinaia di orfani

By Asieh Namdar,  CNN
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(CNN) – L’Afghanistan è stato definito il paese peggiore dove essere un bambino. Secondo UNICEF, uno su cinque muore prima dei 5 anni. Più di 600.000 bambini dormono sulle strade. Più di 2 milioni sono orfani. Ma c’è una donna che prova a migliorare le vite degli orfani afghani e a cambiare le tristi statistiche.
Andeisha Farid, 28, ha fondato a Kabul la Afghan Child Education and Care Organization nel 2008 in modo da costruire orfanotrofi che fossero un luogo sicuro, dove imparare e crearsi un futuro. Da Kabul, Farid ha raccontato a CNN la sua terribile infanzia e il suo insegnare ai bambini come vivere in tolleranza e sicurezza in Afghanistan.

CNN: Come hai pensato di iniziare con un orfanotrofio? Che cosa ti ha ispirato?
Farid: Sono cresciuta nei campi profughi in Iran e Pakistan. Ho visto miseria e sofferenza, povertà estrema, guerra e fame. So cosa vuol dire non avere nulla. L’idea di costruire un orfanotrofio mi è venuta dopo, quando ero all’università in Pakistan. Ho visto bimbi di strada elemosinare del cibo e mi ha spezzato il cuore.
Ho iniziato con 20 bambini in una casa sicura a Islamabad con un fantastico team di marito e moglie che si prendeva cura di loro. L’obiettivo fondamentale era anche far sì che andassero a scuola. Quando li ho visti fiorire stando in una casa sicura e andando a scuola, ho pensato che avrei dovuto fare di più che dargli solo cibo e rifugio. Volevo trasmettergli un senso di sicurezza, attraverso l’istruzione e magari l’indipendenza. Ero sicura che se li avessimo cresciuti ed istruiti in modo appropriato, se gli avessi offerto la possibilità di essere un dottore, un ingegnere o un futuro leader, loro avrebbero potuto restituire le stesse possibilità all’Afghanistan. Questo è quello di cui noi abbiamo disperatamente bisogno.
CNN: Parliamo della tua infanzia. E’ evidente che ha avuto un grosso impatto su di te, i tuoi sogni e obiettivi futuri.
Farid: Sono nata in Afghanistan nel 1983. Il giorno in cui sono nata, il mio villaggio è stato raso al suolo dagli attacchi aerei dei Sovietici. Siamo fuggiti in Iran, in uno sperduto campo profughi.  Il villaggio più vicino era a tre ore di distanza. Non c’era nulla. Le persone nel campo non avevano accesso a un ospedale, a una scuola o ad acqua potabile. Ci si sentiva perduti e disperati. Ho visto una donna incinta morire durante il travaglio e bambini morire di diarrea, cose che si sarebbero facilmente evitate con un accesso a un ospedale. Siamo vissuti in quel campo per qualche anno, prima che la mia famiglia decidesse di tornare in Afghanistan nel 1992. La traversata di ritorno in macchina si rivelò un viaggio tragico. La polizia di confine iraniana sparò sulla nostra auto. Il mio fratellino di 12 anni fu colpito e ucciso. Mio padre e la mia sorellina di tre anni furono feriti. Perdere mio fratello fu devastante.
Quando tornammo al nostro villaggio in Afghanistan non c’era rimasto nulla. Tutte era stato distrutto. Solo poche famiglie vivevano li, circondate dalle mine. Il paese era devastato dalla guerra civile. Le donne non erano al sicuro; molte venivano rapite e fatte vittime di stupri di gruppo. Anche i bambini erano un obiettivo vulnerabile. Erano vittime di traffici, abusi e schiavitù
CNN: Alcuni di questi bambini hanno visto o subito cose terribili. Alcuni hanno perso uno o entrambi i genitori…e possono provare rabbia e amarezza per il loro passato. Come riesci a fare in modo che l’estremismo non diventi un’opzione invitante? Cosa dici a questi bambini, che hanno subito tanto, per dargli speranza?
Farid: Penso che la chiave sia l’istruzione. Istruzione equa per ragazzi e ragazze. I giovani ragazzi sono reclutati dai Taliban a causa di povertà e mancanza di istruzione. Noi crediamo nelle libertà di base di ogni essere umano. Non spingiamo o forziamo nessun bambino a pregare o meno, digiunare o non digiunare. Libertà individuale e tolleranza sono cruciali. Il nostro motto è rispetto per gli altri senza distinzione di sesso, lingua, religione, razza o colore.
Accogliamo bambini di tutti i gruppi etnici dell’Afghanistan. Vivono tutti insieme. Capiscono che tutti sono uguali. Vogliamo che i nostri ragazzi e ragazze crescano in un ambiente sicuro e vogliamo essere sicuri che niente sia imposto a questi bambini. Quando arrivano da noi, molti di loro sono davvero pronti a seppellire il loro passato e andare oltre.
CNN: Come hai finanziato la tua idea e fatto del sogno una realtà?
Farid: Abbiamo iniziato affiancandoci a un gruppo no-profit, Charity Help International. L’idea era di sostenere ogni bambino attraverso diverse sponsorizzazioni. Oggi abbiamo circa 650 bambini e 11 orfanotrofi in Afghanistan e Pakistan. Speriamo che ogni bambino venga sponsorizzato da generose donazioni da tutto il mondo. Alcuni bambini non hanno ancora sponsor. Alcuni dei nostri volontari più appassionati ci hanno anche aiutati con lezioni di musica e una biblioteca.
CNN: Cosa ci dici dei problemi di sicurezza?
Farid: Ci sono sempre preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei nostri bambini e del nostro staff quando si lavora in Afghanistan. Abbiamo delle guardie che scortano i bambini a scuola. Le bambine sono portate avanti e indietro in un minibus. Viviamo in un paese e una società dominati dagli uomini, quindi quando promuoviamo la parità dei sessi e diamo alle ragazze la possibilità di diventare musiciste o leader nelle comunità, si crea resistenza. Molte delle nostre ragazze parlano orgogliosamente della parità tra i sessi.  Vogliono fermare la corruzione nel governo. Queste giovani ragazze vogliono diventare figure politiche, attiviste sociali e giornaliste. Per le donne, questo non è culturalmente e socialmente accettato.
CNN: come è cambiato la tua vita attraverso la gestione degli orfanotrofi?
Farid: Prima di tutto, ho capito quanto sono stata fortunata ad aver ricevuto un’istruzione, nonostante tutto quello che ho passato. Mi da speranza. Sapevo che avevo due possibilità di fronte a me: una era starmene seduta nell’angolo di una stanza, obbedire a mio marito e fare tanti figli. L’altra era dedicare la mia vita ad aiutare i bambini dell’Afghanistan ad avere lo stesso livello di istruzione che avevo ricevuto io. Quando vedo come questi bimbi cambiano le loro vite, mi rende orgogliosa e felice. La mia vita è diventata più dolce e ricca grazie questo programma. All’età di 28 anni ho tanti capelli bianchi, ma questo è ciò che ho voluto fare per l’Afghanistan. Certo, so che è una goccia nell’oceano. Ci sono ancora molto bambini che hanno bisogno d’aiuto.

Suona la campana per il Karzai narcotrafficante

di Enrico Campofreda – Il Pane e le Rose
Nella macelleria afghana scocca l’ora anche per i boss del narcotraffico. E’ accaduto al Re dei Signori della droga Ahmed Wali Karzai, fratello più giovane del presidente ucciso stamane. Un “amico” va trovarlo in casa, nel suo feudo nella provincia di Kandahar, e gli ha scarica addosso alcuni colpi di pistola prima d’essere a sua volta freddato dalle guardie del corpo. Inizialmente s’era ventilata l’ipotesi di un’esecuzione diretta da parte dei guardiaspalle sospettati d’essere Taliban infiltrati. Tattica, peraltro, consolidata ed efficace che ha già mietuto vittime fra figure di spicco e militari Isaf, e che rappresenta l’ossessione della strategia del disimpegno delle Forze Nato. Perché dimostra come i costosi piani McCrystal e Patraeus di rafforzare esercito e polizia afghane siano falliti. Cosicché l’inevitabile ritirata occidentale lascerà sul terreno, oltre ai propri soldati morti (oggi l’Italia paga l’ennesimo tributo con la sua 40° salma dal 2004 mentre le vittime complessive superano ampiamente le 2.500 unità), un territorio più instabile e meno controllato di quando Bush junior diede vita all’invasione dell’Enduring Freedom. Alcune testimonianze divulgate da Al Jazeera affermano che l’uccisore di Wali Karzai, Mohammad Sardar, era effettivamente un suo amico e socio. Come accade in tutti i sodalizi del malaffare evidentemente gli interessi divaricano le strade e le tagliano. Sardar era stato capo dei posti di blocco nella zona di Zakir Sharif, a pochi chilometri da Kandahar dov’è originaria la famiglia Karzai.
Di quella zona il fratello del presidente voleva diventare governatore. Una scalata meditata perché, come la carriera familiare insegna, la politica riesce a coprire meravigliosamente qualunque illecito e crea un incremento di opportunità a ogni genere di business. Per far conservare ad Hamid la carica di presidente Wali s’era ardentemente impegnato nella campagna elettorale del 2009. L’aveva fatto alla sua maniera: con un’infinità di episodi di corruzione e brogli a favore del chiacchierato premier. Verso taluni elettori non aveva disdegnato l’uso della forza e il sodale Sandar potrebbe averlo coadiuvato. Certo il loro brodo affaristico è stato quello che la stampa internazionale (Le Monde, Times) ha eufemisticamente definito “l’opaca e lucrativa attività delle società private di sicurezza”. Gli stessi documenti di WikiLeaks parlavano di una simile lobby attiva nel far circolare dietro compenso il materiale di aiuti e cooperazione nonostante la presenza su quel territorio di truppe canadesi e inglesi. Accanto a simili azioni, Wali Karzai brillava per la fama nel controllo di traffico di oppio e derivati i cui proventi ampliavano i conti di famiglia. Hamid Karzai sapeva e nascondeva. Gli dava manforte Baaz Mohammad Ahmadi, ministro della lotta (sic) al narcotraffico del suo governo. Il lavoro di Wali era doppiamente sporco. Grazie alle personali milizie diposte nel sud del Paese riusciva a sequestrare ingenti quantità di droga che venivano immesse sul mercato internazionale con la complicità della Cia.
L’Intelligence statunitense è stata la madrina di famiglia quando, durante il governo talebano, i membri erano riparati negli Usa. Wali faceva il ristoratore a Chicago. Al rientro in patria – mentre per Hamid si aprivano ampie prospettive di sostegno che passavano per l’alta politica di Pentagono e Casa Bianca – il fratellino si dedicava al lavoro di basso profilo morale ma di altissimo lucro. Di cui si avvalevano la Cia per la chiusura degli occhi di fronte a simili commerci e affaristi statunitensi. Entrambi ricevevano una profumatissima stecca. Secondo alcuni osservatori col tempo e con la crisi economica quest’ultimi incameravano fette sempre più consistenti di proventi del narcotraffico afghano. Per lavorare in tranquillità Wali un’altra stecca la versava ai Taliban che controllano le strade verso il Pakistan e verso l’area di Marja, dove oltre un anno fa scattò la famosa offensiva dell’Isaf diventata più campagna propagandistica che vigilanza sulle vie di comunicazioni. All’epoca i talebani operarono una ritirata strategica per poi rientrare in quella e altre zone, tanto che oggi da sud a ovest Kandahar, Helmand, Nimroz e, come ben sa la missione italiana, gran parte di Farah ed Herat sono sotto il continuo tiro guerrigliero. Ma ormai l’intero Paese è solo teoricamente sotto l’occhio della Nato, assediata nelle sue stesse caserme, attaccata nei luoghi simbolo come l’hotel Intercontinental di Kabul colpito due settimane or sono.
Il canale incrociato dell’affarismo del narcotraffico legato alla politica aveva visto nelle scorse settimane un altro incidente di percorso, meno grave perché non sanguinoso ma egualmente esplicativo dei loschi interessi di personaggi presentati come democratici. Il fratello dell’onorevole Fawzia Kofi era stato arrestato con due complici mentre trasportava un cospicuo carico di oppio. Naturalmente la parentela non è sinonimo di automatica partecipazione a illegalità o crimini, però nel sistema dei clan afghani i rapporti familiari sono funzionali a ruoli ben precisi. I fratelli Karzai insegnano. Ad Hamid non è rimasto che recitare un mesto epicedio durante il discorso davanti alla delegazione francese. Forse sente anche lui suonare la campana.

di Enrico Campofreda – Il Pane e le Rose
Nella macelleria afghana scocca l’ora anche per i boss del narcotraffico. E’ accaduto al Re dei Signori della droga Ahmed Wali Karzai, fratello più giovane del presidente ucciso stamane. Un “amico” va trovarlo in casa, nel suo feudo nella provincia di Kandahar, e gli ha scarica addosso alcuni colpi di pistola prima d’essere a sua volta freddato dalle guardie del corpo. Inizialmente s’era ventilata l’ipotesi di un’esecuzione diretta da parte dei guardiaspalle sospettati d’essere Taliban infiltrati. Tattica, peraltro, consolidata ed efficace che ha già mietuto vittime fra figure di spicco e militari Isaf, e che rappresenta l’ossessione della strategia del disimpegno delle Forze Nato. Perché dimostra come i costosi piani McCrystal e Patraeus di rafforzare esercito e polizia afghane siano falliti. Cosicché l’inevitabile ritirata occidentale lascerà sul terreno, oltre ai propri soldati morti (oggi l’Italia paga l’ennesimo tributo con la sua 40° salma dal 2004 mentre le vittime complessive superano ampiamente le 2.500 unità), un territorio più instabile e meno controllato di quando Bush junior diede vita all’invasione dell’Enduring Freedom. Alcune testimonianze divulgate da Al Jazeera affermano che l’uccisore di Wali Karzai, Mohammad Sardar, era effettivamente un suo amico e socio. Come accade in tutti i sodalizi del malaffare evidentemente gli interessi divaricano le strade e le tagliano. Sardar era stato capo dei posti di blocco nella zona di Zakir Sharif, a pochi chilometri da Kandahar dov’è originaria la famiglia Karzai.
Di quella zona il fratello del presidente voleva diventare governatore. Una scalata meditata perché, come la carriera familiare insegna, la politica riesce a coprire meravigliosamente qualunque illecito e crea un incremento di opportunità a ogni genere di business. Per far conservare ad Hamid la carica di presidente Wali s’era ardentemente impegnato nella campagna elettorale del 2009. L’aveva fatto alla sua maniera: con un’infinità di episodi di corruzione e brogli a favore del chiacchierato premier. Verso taluni elettori non aveva disdegnato l’uso della forza e il sodale Sandar potrebbe averlo coadiuvato. Certo il loro brodo affaristico è stato quello che la stampa internazionale (Le Monde, Times) ha eufemisticamente definito “l’opaca e lucrativa attività delle società private di sicurezza”. Gli stessi documenti di WikiLeaks parlavano di una simile lobby attiva nel far circolare dietro compenso il materiale di aiuti e cooperazione nonostante la presenza su quel territorio di truppe canadesi e inglesi. Accanto a simili azioni, Wali Karzai brillava per la fama nel controllo di traffico di oppio e derivati i cui proventi ampliavano i conti di famiglia. Hamid Karzai sapeva e nascondeva. Gli dava manforte Baaz Mohammad Ahmadi, ministro della lotta (sic) al narcotraffico del suo governo. Il lavoro di Wali era doppiamente sporco. Grazie alle personali milizie diposte nel sud del Paese riusciva a sequestrare ingenti quantità di droga che venivano immesse sul mercato internazionale con la complicità della Cia.
L’Intelligence statunitense è stata la madrina di famiglia quando, durante il governo talebano, i membri erano riparati negli Usa. Wali faceva il ristoratore a Chicago. Al rientro in patria – mentre per Hamid si aprivano ampie prospettive di sostegno che passavano per l’alta politica di Pentagono e Casa Bianca – il fratellino si dedicava al lavoro di basso profilo morale ma di altissimo lucro. Di cui si avvalevano la Cia per la chiusura degli occhi di fronte a simili commerci e affaristi statunitensi. Entrambi ricevevano una profumatissima stecca. Secondo alcuni osservatori col tempo e con la crisi economica quest’ultimi incameravano fette sempre più consistenti di proventi del narcotraffico afghano. Per lavorare in tranquillità Wali un’altra stecca la versava ai Taliban che controllano le strade verso il Pakistan e verso l’area di Marja, dove oltre un anno fa scattò la famosa offensiva dell’Isaf diventata più campagna propagandistica che vigilanza sulle vie di comunicazioni. All’epoca i talebani operarono una ritirata strategica per poi rientrare in quella e altre zone, tanto che oggi da sud a ovest Kandahar, Helmand, Nimroz e, come ben sa la missione italiana, gran parte di Farah ed Herat sono sotto il continuo tiro guerrigliero. Ma ormai l’intero Paese è solo teoricamente sotto l’occhio della Nato, assediata nelle sue stesse caserme, attaccata nei luoghi simbolo come l’hotel Intercontinental di Kabul colpito due settimane or sono.
Il canale incrociato dell’affarismo del narcotraffico legato alla politica aveva visto nelle scorse settimane un altro incidente di percorso, meno grave perché non sanguinoso ma egualmente esplicativo dei loschi interessi di personaggi presentati come democratici. Il fratello dell’onorevole Fawzia Kofi era stato arrestato con due complici mentre trasportava un cospicuo carico di oppio. Naturalmente la parentela non è sinonimo di automatica partecipazione a illegalità o crimini, però nel sistema dei clan afghani i rapporti familiari sono funzionali a ruoli ben precisi. I fratelli Karzai insegnano. Ad Hamid non è rimasto che recitare un mesto epicedio durante il discorso davanti alla delegazione francese. Forse sente anche lui suonare la campana.

Un bilancio di 10 anni di dittatura Usa-Nato

di Patrizia Fiocchetti C.I.S.D.A. da Confronti.net
A ottobre la guerra in Afghanistan «compirà» dieci anni. Quante vittime, soprattutto civili, hanno pagato il prezzo di questa campagna di occupazione occidentale? E quali obiettivi sono stati raggiunti? Incontro con Samia Walid, militante dell’organizzazione afghana Rawa, che si batte per i diritti delle donne.
In Afghanistan si combatte una guerra mai dichiarata. In Italia i rappresentanti politici, ipocritamente, continuano a definire l’intervento nel Paese centro-asiatico come una missione di peace keeping. Ma in Afghanistan si muore, ogni giorno e in quasi tutte le sue 34 province. Muoiono i militari delle forze Nato. Ma muoiono soprattutto i civili e di loro non si fa la conta che, invece, si tiene per i caduti delle forze di occupazione, come preferisce definirle il popolo afghano. Vengono uccisi dai bombardamenti indiscriminati degli aerei militari occidentali, che colpiscono matrimoni, bambini che si trovano in mezzo ai boschi, interi villaggi. Le vittime sono soprattutto loro: donne, anziani, bambini. Vittime collaterali di una vera e propria guerra, dove in realtà gli interessi in gioco, fin dall’inizio, sono stati ben altri. Basta guardare i risultati sul terreno. Il prossimo ottobre, ricorreranno i dieci anni di questo assurdo conflitto, durato già un anno in più rispetto a quello in Vietnam – dove però gli Usa erano da soli – e in molti si chiederanno che cosa si è ottenuto in questo lungo periodo, e se gli obiettivi sbandierati all’inizio della campagna di occupazione da parte delle forze occidentali siano di fatto stati raggiunti. A maggio è venuta a Roma Samia Walid, donna afghana di appena 30 anni, militante dell’organizzazione Rawa (Associazione delle donne afghane rivoluzionarie), che ha presenziato ad una serie di convegni, tra cui un incontro all’università La Sapienza. Rawa è un’associazione democratica, fondata nel 1977 a Kabul da Meena Keshwar Kamal. Pur essendo nata per il riscatto dei diritti delle donne e il riconoscimento della loro parità, a seguito dell’invasione sovietica, l’associazione cambiò il proprio obiettivo primario, che divenne la lotta per la liberazione del proprio Paese dall’occupazione straniera. La battaglia di Rawa si è protratta in tutti questi trent’anni, in cui ha fatto della denuncia dei signori della guerra, che hanno insanguinato e dilaniato il Paese dopo la cacciata dei sovietici e che tutt’ora siedono all’interno del governo e del parlamento afghano, il proprio compito più importante. La lotta contro ogni tipo di fondamentalismo, che vede come vittime principali proprio le donne, è stata ed è ancora adesso durissima: nel 1987 a Quetta, in Pakistan, dove era riparata, agenti dei servizi segreti afghani con l’appoggio di elementi fondamentalisti, uccidevano Meena; oggi, a dispetto della sbandierata «democrazia» che si sarebbe raggiunta in Afghanistan, Rawa opera in clandestinità. La sua voce è troppo scomoda per gli assassini, i criminali e i mafiosi che si sono suddivisi, grazie al sostegno degli Stati Uniti e degli alleati occidentali, il potere politico nel Paese. Con Samia, quindi dal punto di vista di una cittadina afghana, abbiamo fatto un bilancio di quanto accaduto in questi dieci anni, di quanto è cambiato per il suo popolo dal 2001 ad oggi. «La situazione – ci dice – è decisamente peggiorata. Le aspettative di democrazia, pace, sicurezza, diritti delle donne, rispetto dei diritti umani con cui si è giustificata l’occupazione, sono state tutte ampiamente disattese con risvolti drammatici per le donne e gli uomini afghani, sotto tutti i punti di vista». L’intervento militare, si era detto, avrebbe dovuto riportare la sicurezza nel Paese, sconfiggendo i talebani e i qaedisti legati a Bin Laden. «In realtà – prosegue – si è ottenuto ben altro: più dell’80% dell’Afghanistan è controllato dalle fazioni talebane, che nel mentre, per misurarsi con un nemico fornito delle armi più sofisticate, è ricorso alle azioni kamikaze, estranee alla tradizione guerriera afghana. Gli Stati Uniti utilizzano sempre più i bombardamenti aerei, cercando di limitare le proprie perdite sul campo di battaglia, ma mietendo vittime tra i civili inermi». Come è successo a metà maggio nella provincia settentrionale di Takhar, dove l’ennesimo raid aereo ha ucciso quattro persone di cui due donne. La manifestazione di protesta, seguita a questo ennesimo eccidio, è stata repressa violentemente: 12 i morti e 85 i feriti. Ma armati dagli occidentali sono anche i signori della guerra, i Mujaheddin dell’Alleanza del Nord, che dal 1992 al 1996 si sono affrontati spietatamente, trascinando il Paese nel baratro del terrore e della distruzione. «A causa di questi criminali – racconta ancora Samia Walid, parlando degli uomini attualmente al potere – il Paese nel 1996 è finito in mano ai talebani. Gli occidentali per il futuro dell’Afghanistan hanno pensato bene di sostenere questi figuri, che ora siedono all’interno del governo Karzai, la marionetta americana, e del parlamento afghano. Questi personaggi si sono macchiati di violazioni indicibili: stupri, eccidi di massa… dovrebbero rispondere di crimini contro l’umanità di fronte a un tribunale internazionale. E invece i loro supporters occidentali, Stati Uniti in testa, li hanno sdoganati davanti agli occhi delle loro opinioni pubbliche come i rappresentanti della democrazia in Afghanistan. Ma ci può essere democrazia reale in un Paese se non si riconoscono i diritti delle vittime?». Tra le mani dei warlords afghani passano i miliardi di dollari che l’Occidente riversa da 10 anni a questa parte nel Paese per la cosiddetta ricostruzione. «Ma quale ricostruzione? Basta andare a Kabul per rendersi conto di che fine hanno fatto e continuano a fare i soldi della ricostruzione. È una vera e propria mafia, quella gestita dalle ong afghane e internazionali, paragonabile alla mafia del traffico di droga, con cui si arricchiscono anche i contingenti stranieri; e quella dei latifondi, che vede capi clan afferenti a uno dei gruppi di potere impadronirsi di ettari e ettari di terra per poi sfruttarli con speculazioni di edilizia privata». Secondo Walid, tra il 40 e il 60% dei fondi torna in tasca ai Paesi donatori, tra stipendi e profitto d’impresa. Un’altra percentuale la prende il ministro a cui viene affidato il progetto di ricostruzione. «Molti ministri afghani – spiega sempre Samia Walid – hanno tutti una loro ong personale, chiaramente a nome di qualche loro famigliare, a cui appaltano la realizzazione del progetto. Ma, a sua volta, la ong che non ha mezzi e capacità necessarie la subappalta a una società privata. Quindi, di passaggio in passaggio, forse l’1% del totale rimarrà per il progetto vero e proprio». Il tessuto istituzionale afghano, dalle sue più alte cariche giù fino all’ultimo dei dipendenti, è corrotto: l’Afghanistan è diventato dopo l’occupazione occidentale il secondo Paese corrotto al mondo dopo la Somalia. In un contesto di insicurezza, ingiustizia, in assenza di democrazia, le donne continuano ad essere vittime. «La questione della donna è una tematica politica che si inquadra all’interno del contesto generale afghano. Le donne sono state vittime dei crimini perpetrati in questi trenta anni di guerra e continuano ad esserlo. Bambine di 12 anni, e anche più giovani, subiscono stupri, alcune volte anche di gruppo, da parte di uomini legati ai signori della guerra o a governatori di province e distretti, che per questo non incorreranno nella macchina giudiziaria, anch’essa corrotta e controllata. D’altra parte, negli ultimi anni il governo Karzai ha varato leggi volte a colpire i diritti delle donne: la legge contro le donne della comunità sciita nel 2009; la re-introduzione del Ministero per il vizio e le virtù di talebana memoria, nel 2006; la decisione lo scorso gennaio di portare sotto il controllo governativo gli shelter (rifugi) per donne maltrattate con l’accusa di essere covi di prostituzione, ma con lo scopo di accaparrarsi i fondi per la loro gestione». Dunque un fallimento in Afghanistan? «Lo abbiamo ripetuto più volte, il governo americano non vuole che libertà, democrazia e diritti delle donne trovino patria in Afghanistan. È disposto ad instaurare un governo corrotto e anche più anti-democratico di quello attuale. Il vero intento è arrivare a mantenere il controllo del Paese senza la
presenza di un proprio contingente militare, una sorta di “irachenizzazione”». Come in altri teatri di occupazione, gli Stati Uniti sono riusciti ad esasperare le divisioni etnico/religiose, frammentando a tal punto il sistema istituzionale da renderlo ingovernabile a livello centrale, corrotto in maniera endemica ma assolutamente funzionale ai reali obiettivi americani: penetrazione geo-strategica attraverso l’implementazione delle basi militari; controllo delle riserve di idrocarburi fossili presenti nel sottosuolo del Paese, ma ancora non sfruttate; creazione di vie alternative per le ricchezze energetiche delle Repubbliche centro-asiatiche. «Per questo, la formazione della Consultive Peace Jirga, la commissione preposta ai colloqui di riconciliazione con i talebani, è stata incoraggiata dagli Stati Uniti. Risponde ai propri desiderata. È stata una scelta dettata da logiche che fanno parte del modus operandi degli Stati Uniti e dei suoi alleati occidentali: mai appoggiare le forze democratiche che esistono all’interno di un Paese perché la tensione all’indipendenza non gioverebbe agli interessi perseguiti». Ma formazioni democratiche sono attive all’interno dell’Afghanistan e vitali, per quanto osteggiate e sempre a rischio di ritorsioni e repressione. «Certo è un embrione. Il processo democratico apertosi nella seconda metà degli anni Sessanta – conclude Samia Walid – è stato interrotto dalla guerra contro i sovietici, quindi è estremamente giovane. Ma opera in tutto il Paese, attraverso gli strumenti dell’informazione, la formazione, pubblicazioni, organizzando il malcontento della popolazione in manifestazioni e sit-in. Perché quello che la gente vuole, tanto per cominciare, è il ritiro di tutte le truppe straniere dal Paese. Quindi, l’interruzione di qualsiasi tipo di appoggio, militare ed economico, ai criminali che siedono nel governo Karzai. A quel punto rimarrebbero due nemici: i signori della guerra e i talebani. Non sarà facile, nessuno lo dice, ma sarà il popolo afghano ad affrontarli e a determinare il proprio percorso verso la democrazia»
Samia Walid:
«La situazione  è decisamente  peggiorata.  Le aspettative  di democrazia, pace,  sicurezza, diritti  delle donne, rispetto  dei diritti umani  con cui si è giustificata  l’occupazione,  sono state tutte  ampiamente  disattese con risvolti  drammatici  per le donne  e gli uomini afghani,  sotto tutti  i punti di vista».

La direttrice di HAWCA al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU

Nel suo discorso, Selay Ghaffar ha spiegato come oggi le donne e le ragazze afghane siano soggette a numerose forme di violenza e discriminazione, più che in ogni epoca passata. Le donne subiscono violenza nell’accesso negato alla giustizia, a causa della scarsa capacità degli organismi preposti a fare rispettare le leggi e della cultura dell’impunità verso i colpevoli di crimini.
L’istruzione delle ragazze è violentemente ostacolata da attacchi incendiari contro le scuole e dalla chiusura delle scuole femminili; accade che le ragazze che vanno a scuola vengano aggredite da criminali che gettano loro in faccia acido ustionante e siano gravemente intossicate con gas negli edifici scolastici; ragazze e bambine sono spesso rapite e stuprate mentre si recano a scuola; e il governo compie sempre meno sforzi per promuovere l’istruzione delle ragazze. Nel suo discorso, Selay Ghaffar ha sottolineato come la mancanza di sicurezza sia un gravissimo problema, che impedisce l’accesso delle ragazze all’educazione, al servizio di assistenza sanitaria e ad altri servizi di base.

Nel corso del dibattito presso il Consiglio per i Diritti Umani, Selay Ghaffar ha sottolineato come oggi le donne e le ragazze siano esposte a diversi livelli di violenza, a cominciare dalla violenza domestica fino alla violenza di Stato. Per porre fine all’impunità di cui godono i colpevoli delle violenze, dovrebbere messo in essere un meccanismo di pronta risposta, che possa offrire assistenza legale e protezione alle donne. HAWCA è una delle ONG di donne che oggi gestisce rifugi per le donne vittime di violenze e centri di assistenza legale e psicologica in alcune province dell’Afghanistan.
L’Afghanistan ha un sistema giudiziario debole in mano a incompetenti e corrotti. Il vero volto del sistema giuridico si è visto quando è stata scritta ed approvata la Legge Sciita sulla Persona [che vieta alle donne sciite di rifiutare qualsiasi richiesta sessuale da parte del marito, N.d.R.] e recentemente la bozza della cosiddetta Regolamentazione dei Rifugi. Quest’ultima intende togliere alle ONG il diritto di gestire i propri rifugi per vittime di violenza e impone loro di passare i rifugi in gestione al Ministro degli Affari Femminili. Si tratta di una mossa che serve in realtà a nascondere le cause legali per violenza contro le donne a carico di politici e uomini di governo, inclusi i membri del Parlamento e i loro figli che sono attualmente chiamati a rispondere. Per fortuna, la forte presa di posizione da parte delle attiviste afghane e le numerose pressioni internazionali hanno costretto il governo a rivedere la bozza di legge.

Per quanto riguarda il processo di pace e di riconciliazione, Selay Ghaffar si è detta molto preoccupata che si arrivi a negoziare i diritti della donne e dei bambini nei colloqui di pace con i gruppi armati dell’opposizione, cosa che annienterà completamente le donne, di qualsiasi estrazioni sociale essi siano. Alla fine, Selay Ghaffar ha sottolineato come HAWCA lavorerà con tutti gli altri organismi simili per rendere più forti le donne afghane e assicurare che i loro diritti e quelli dei loro bambini siano protetti.

Fai clic qui per leggere la notizia (in inglese) nel sito ufficiale di HAWCA.

I costi della guerra in Afghanistan, Iraq e Pakistan

Il recente studio pubblicato con il titolo Costs of War, scritto da più di 20 esperti tra economisti, analisti politici, giuristi, antropologi e operatori umanitari del Brown’s Watson Institute for International Studies, fornisce stime impressionanti sul costo delle operazioni militari in questi tre paesi. Oggi, a 10 anni da quando le forze armate statunitensi sono entrate in Afghanistan nel 2001, il report stima che il costo finale dei tre conflitti sarà tra i 3700 e i 4400 miliardi – molto più alto dei 1000 miliardi annunciati dal Presidente Obama all’inizio di quest’anno. Il report stima che il governo degli Stati Uniti abbia già speso tra i 2300 e i 2700 miliardi e spenderà ancora almeno 1000 miliardi nei prossimi 5 anni.

In questo video esclusivo del HuffPost, alcuni degli autori del report spiegano i motivi degli altissimi costi – sia passati sia futuri – di queste guerre. Le indennità e le pensioni dovute ai veterani di guerra continuano a fare crescere il prezzo dei conflitti ancora per decenni dopo che le truppe saranno state ritirate. Il report stima il costo dell’assistenza medica per i veterani si aggirerà tra i 600 e 950 miliardi e continuerà ad aumentare fino al 2050.

“Le guerre, possiamo dire, non finiscono mai quando finiscono”, dice nel video Catherine Lutz, antropologa della Brown University. “Vanno avanti per decenni, e il picco di questi costi sarà raggiunto solo tra 40 anni”. Poiché queste guerre non hanno propriamente prime linee di combattimento, c’è stato un enorme numero di feriti, soprattutto giovani militari. Il report sottolinea il numero particolarmente alto di morti in Pakistan. “I costi di queste guerre sono stati distribuiti in modo fortemente iniquo” afferma Lutz. “Le famiglie dei militari, le famiglie dei contractors, i civili in Iraq e in Afghanistan e in Pakistan hanno pagato un prezzo spropositato”.

Anche soltanto pagare gli interessi del debito di guerra degli Stati Uniti sarà un’impresa ardua, secondo il report, dato che il paese si sta avviando a sfondare la soglia dei 14.290 miliardi di debito. Il report spiega che il governo americano ha già pagato circa 185 milioni di interessi sulle spese di guerra, che entro il 2020 potrebbero salire di un altro miliardo – una cifra da aggiungere alla stima sopra citata dei 3700 miliardi di costo vivo delle guerre.  “Virtualmente, tutto il denaro che è stato usato per pagare i conflitti in Iraq e in Afghanistan, una cifra molto alta, è stato preso in prestito, aggiungendo almeno 1500 miliardi al nostro debito esterno nazionale” aggiunge nel video Linda Bilmes, economista della Harvard University.

Ora gli Stati Uniti sono giunti alla resa dei conti, davanti all’annunciata manovra per alzare il tetto del debito entro agosto. “Siamo di fronte a una richiesta pressante da parte dei cittadini di imparare dall’esperienza dei decenni passati e di tentare di prendere misure per non fare ancora sbagli su sbagli”, dice nel video Andrew Bacevich, studioso della storia militare della Boston University e veterano di guerra.

[dal sito Huffpost World, 29/06/2011]

La cooperazione internazionale in Afghanistan. Intervista a Selay Ghaffar

Selay Ghaffar, lei è impegnata a Kabul con l’ong Hawca, cosa pensa della cooperazione internazionale che lavora in Afghanistan?

Ci sono luci e ombre. Quando la cooperazione si rapporta alla mafia fa un gran danno. Nel nostro Paese la mafia è ovunque: s’occupa di economia gestendo il narcotraffico, è fra i Signori della Guerra, nell’Esecutivo di Karzai, si trova fra le varie etnie che determinano la vita della propria gente. Anche l’attività delle ONG risente della presenza di scelte e comportamenti dettati dal sistema mafioso. Negli ultimi anni le organizzazioni della cooperazione sono aumentate (più di 40 nazioni coinvolte, ndr) e con esse sono aumentati i finanziamenti che giungono dall’estero. Ma i risultati  peggiorano di anno in anno. I programmi seguono logiche autoreferenziali che non tengono conto delle reali esigenze della popolazione. Nel parlare di donne la situazione è catastrofica: l’istruzione, la formazione, l’inserimento lavorativo vengono ignorati. Altro problema è la mancata sintonia fra le organizzazioni straniere e le ONG locali come quella che rappresento. Chi invia i fondi segue logiche politiche spesso in discordanza con le esigenze delle persone; accade anche per il lassismo delle istituzioni che si rapportano a chi realizza i progetti in maniera ambigua e corrotta. Alzando la voce noi siamo riusciti a tamponare una situazione tutt’altro che buona.

C’è differenza fra le ONG delle varie nazioni?

Le organizzazioni non governative straniere, appartengano o meno alle Nazioni Unite, sviluppano progetti specifici. Quelle locali hanno radici nel Paese ma sono prive di denaro. Quando questo arriva finisce nelle mani del governo dove siedono guerrafondai e criminali. Ciò genera contrasti perché consentire a simili personaggi la gestione di aiuti umanitari, che spesso vengono destinati ad altri scopi, è un insulto alla popolazione. Non affermo che tutte le ONG sono truffaldine, ma l’esperienza fa dire all’Hawca che purtroppo la corruzione esiste anche in questo settore.

Alcune sono state al centro di scandali per la sparizione di fondi destinati a ospedali. Sono stati presi provvedimenti in merito?

Per accusare un’ONG di frode c’è bisogno di prove senza le quali la denuncia diventa un boomerang e magari favorisce ritorsioni. Certo l’Afghanistan è la seconda nazione più corrotta al mondo e non possiamo pensare che i vertici del potere siano esenti dal vizio, anzi. I nostri dubbi provengono da situazioni che mostrano come l’80% dei finanziamenti, e anche più, è utilizzato per sostenere la stessa ONG. Viaggi, alloggi, auto di servizio, vigilanza, una marea di denaro viene usata per questo. La corruzione e gli sprechi spesso sono di casa negli organismi internazionali.

Appurato che la cooperazione non può garantire un’equa attività sociale e in assenza di una struttura statale quali vie si possono percorrere?

Molti non sanno che negli ultimi tempi per le continue azioni di guerra la cooperazione internazionale non sta operando affatto. I progetti restano sulla carta. La popolazione non ha più fiducia di soggetti che non conoscono o non tengono conto dei suoi bisogni. Le poche ONG accettate sono quelle locali com’è accaduto in Nuristan, una delle zone più pericolose dove nessuno può accedere neppure con le truppe corazzate. Quegli abitanti si sono sentiti rassicurati dal rispetto dei costumi del luogo. Purtroppo alle ONG afghane vengono concessi piccoli finanziamenti per brevi periodi e la pianificazione resta incompleta. Come Hawca poniamo una questione di rappresentatività del governo del Paese, alcuni ministri che hanno in sospeso conti con la giustizia o annoverano un passato criminale non possono ricoprire incarichi istituzionali. La Comunità Internazionale ha il dovere di non sostenerli.

Lei ha affermato: “la società civile comincia nella casa di ciascuno di noi”. Cosa può fare un popolo in molte circostanze privo anche del tetto?

Per costruirsi un tetto servono i mezzi, ma ancor più necessaria è la volontà. Con quella frase sottolineavo come ogni abitante e soprattutto ogni donna dell’Afghanistan devono conquistarsi i loro diritti, nessuno glieli regalerà. Io in famiglia ho mosso le acque, se non avessi lottato in prima persona mio fratello non l’avrebbe fatto al mio posto. Ora anche le zie fanno studiare i figli. Una conferma viene da questa vicenda che mi piace ricordare. Una scuola aperta dall’Hawca nella provincia di Parwan era diventata anche centro d’incontro di analfabeti che per la prima volta prendevano coscienza dei propri diritti. Un giorno si presentò un gruppo armato con una lettera firmata nientemeno che da Hekmatyari che ne imponeva la chiusura. Non sapevamo se la lettera fosse originale o no però parlammo con tutti gli abitanti invitandoli a confrontarsi sulla difesa di quella scuola. Gli ripetevamo ciò che già si era radicato nelle loro teste: la struttura era un servizio per la comunità, era sciocco perderla. La gente non s’è fatta intimorire, riunita in moschea coi vecchi e i mullah ha difeso il progetto. Nulla hanno potuto le armi e la lettera di Hekmatyari, i rapporti di forza si erano totalmente rovesciati.

La politica mondiale talvolta congela le contraddizioni e le rende croniche. L’Afghanistan corre questo rischio?

La popolazione è convinta che i Paesi presenti in Afghanistan, in guerra e nella cooperazione, perseguono personali interessi economici e strategici. Un esempio è il narcotraffico cresciuto nei trent’anni di conflitti e durante l’Enduring Freedom. Prima delle varie invasioni non avevamo quei debiti che continuiamo ad accumulare proprio perché viene mantenuta una situazione di emergenza fuori da qualsiasi regola e normalità di vita. Potremmo gestire diversamente il territorio, sfruttando le risorse del sottosuolo e stabilendo un rapporto paritario con chi può fornirci la tecnologia necessaria senza cadere in una condizione subalterna o essere oggetto di rapina. Sarebbe bello utilizzare anche talune professionalità che i nostri giovani hanno conseguito laureandosi. Ma l’Occidente non dovrebbe interessarsi ossessivamente solo delle sue basi militari e della cooperazione di tipo affaristico. Servirebbe un’altra classe dirigente che facesse piazza pulita di Karzai e compari. Il vero aiuto alla democrazia passa per elezioni davvero libere alle quali possano partecipare le formazioni democratiche tuttora tenute ai margini. (Enrico Campofreda, dal sito della Federazione della Sinistra di Parigi)

Leghiamo a noi i sogni delle donne afghane: progetto VITE PREZIOSE

HAWCA: CHI SONO E COSA FANNO: CLICK QUI

COME CONTRIBUIRE AL PROGETTO VITE PREZIOSE‘: CLICK QUI

LE STORIE
Il racconto di Saniya arriva da lontano, da Laghman, Afghanistan. Potrebbe chiamarsi: il «Fiancé». «Ho 28 anni. Tutto è cominciato quando mi sono sposata. Ricordo quel giorno nei minimi particolari».
«Ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. Gli ospiti sono arrivati, il cibo pronto. Ma la festa non comincia. “Che succede, perché ?”. Le voci si alzano, le porte sbattono. Il mio fiancé, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Il futuro suocero dice che non mi vuole più. Litiga con mio padre. La mamma piange. A me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole e non lo voglio nemmeno io. Tutto è sistemato, rimango a casa mia. L’illusione dura poco. Bisogna riparare l’offesa e non si può sprecare tutto quel cibo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore. Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa. L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. È così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Sto zitta se no mi picchiano. Lo fanno spesso. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo. Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti. “È una bella notizia” dicono. “Finalmente servirai a qualcosa! Vedi? Pagano per te!”, dice mio suocero, mettendo in tasca i soldi. C’è un limite che non si deve superare. Basta. Sono di nuovo incinta, non so di chi. Prendo il bambino più piccolo e scappo. Via dal fiancé che non era brutto e dagli uomini che mi hanno resa brutta. Ho avuto fortuna, in fondo. Mio figlio è nato nella casa protetta. Non sono più sola. Voglio il divorzio da mio marito. E poi? Il sogno: vivere da sola con i miei bambini, un piccolo lavoro, così la vita avrà davvero quell’odore di nuovo».
Saniya è adesso al sicuro nella casa protetta di Hawca a Kabul, uno dei pochi luoghi del paese nei quali le donne maltrattate possono trovare aiuto. Ma non può restarci per sempre. Ha diritto a una nuova vita. Le avvocatesse di Hawca stanno cercando di ottenere il divorzio. Per avviare un futuro diverso ha bisogno di aiuto: deve essere in grado di mantenersi, pagare una casa sua, avere un lavoro, così otterrà la custodia dei figli. E potrà, forse, dimenticare la casa del fiancé.
Lena, invece, vuole salvare sua figlia, perché non debba un giorno raccontare una storia come quella di Saniya. Ecco il suo racconto che ci arriva da Herat. «Ho 45 anni, qui sono tanti. Un tempo non era così. 30 anni di guerra si sono portati via tutto quello che avevamo. Ora abitiamo in una casa diroccata per la quale paghiamo l’affitto. Mio marito è debole e malato e non è in grado di lavorare. I miei figli, due maschi, ancora ragazzini, vanno tutto il giorno a mendicare e a frugare nelle discariche. È così che campiamo. Ma qualcosa di peggio può sempre succedere. Mio marito un giorno mi ha detto: “Non è vero che non abbiamo niente, abbiamo una figlia in età da marito”. Ha 14 anni. Adesso ogni volta che la guardo ho paura che lui la venda a qualche uomo sconosciuto. Non è cattivo mio marito, lo ha deciso per farci vivere un po’ meglio. “Per la famiglia bisogna sacrificarsi”, dice. Lo so che da noi succede così ma non posso accettarlo. Non si vende una figlia a qualche diavolo di passaggio per campare qualche mese. Voglio salvare la mia bambina, e convincere mio marito a costruire una vita più decente, voglio trovare un lavoro per smettere di mendicare e per poter mandare a scuola i nostri figli».
Lena si è rivolta al Centro di assistenza legale ad Herat. Il personale di Hawca ha discusso a lungo con il marito: se le loro condizioni economiche fossero meno critiche, sarebbe d’accordo a non vendere la figlia.
Queste storie sono state raccolte per l’Unità, insieme alle altre (che saranno pubblicate nei prossimi giorni sul sito), dal personale della ong afghana che, nelle case protette e con i centri di aiuto legale, assiste le vittime della violenza, del fondamentalismo e della guerra. Costituiscono il primo nucleo del progetto di solidarietà “Vite Preziose”, che cercherà di contribuire a cambiare il futuro di 20 donne afghane, di dare un’altra chance alla loro vita. L’idea che ha dato inizio a questo lungo e paziente lavoro, nasce proprio dai nostri lettori. Dopo la pubblicazione dei racconti da Kabul sulle donne afghane, l’estate scorsa (30/31/07,02/08), alcune persone mi avevano scritto proponendosi di aiutarle con un sostegno mensile, come un’adozione a distanza. Perché potessero liberarsi dai loro aguzzini e ricostruirsi una vita con i loro figli. Il generoso messaggio è stato raccolto e ora siamo pronti a metterlo in pratica, costruendo un ponte tra la nostra società civile e quella afghana, tra la nostra vita e la loro. Donne mature, ragazze, bambine, ci hanno aperto la porta delle loro vite umiliate con estrema dignità. Nessun lamento, solo la crudezza della realtà che vivono. Qualche frase, ogni tanto, ricorrente: «Non ne posso più della vita», «Non ho desideri per il futuro», quasi in sordina, con pudore.
Come le voci del coro di una tragedia infinita, consumata quasi sempre nel silenzio. Non è facile ascoltarle. Ci parlano di condizioni di vita per noi inimmaginabili, fatte di violenza feroce, povertà estrema, pregiudizio, abbandono, ingiustizia. Di persone escluse da ogni elementare diritto umano. Ci raccontano la prigione delle loro case, la crudeltà di padri, mariti, suoceri e cognati. L’impossibilità di essere curate, rispettate, di lavorare, di istruirsi, di vivere. La tossicodipendenza, sempre più diffusa, che aggrava ulteriormente la violenza domestica. E ci parlano anche dei loro sogni che possiamo, adesso, contribuire a realizzare: una vita normale, quella che noi viviamo ogni giorno.
Racconteremo via via, sul giornale e sul sito, i piccoli e grandi cambiamenti delle loro storie, per partecipare alle loro conquiste e condividere la loro speranza. Accanto a loro, nella battaglia quotidiana per i loro diritti, ci sono donne testimoni di un altro Afghanistan. Donne che permettono con competenza e coraggio il riscatto delle loro vite. Il nostro aiuto nelle loro mani è uno strumento prezioso di libertà e di cura.
«Uno strumento fondamentale per le ragazze e le donne afghane costrette ancora a subire ogni tipo di abuso – dice Selay Ghaffar, presidente di Hawca –. Il contributo di uno sponsor è in grado di cambiare l’esistenza di ognuna di loro in modo radicale. Può salvare una bambina da un matrimonio forzato, una donna dal suicidio, dal mendicare nelle strade, dalla prostituzione forzata, dall’analfabetismo, dalla morte per percosse o per malattie che non vengono curate, o dall’essere vendute per un pezzo di pane per la famiglia. La sponsorizzazione di chi si batte al nostro fianco per i diritti delle donne, è, per noi, più valida perfino di un progetto da milioni di dollari perché interviene direttamente nelle condizioni di chi ha bisogno di aiuto e produce effetti immediati».
I PROGETTI A CUI ADERIRE

1) STORIA DI SANIYA: IL “FIANCE’”
Mi chiamo Saniya e vengo dalla provincia di Laghman.
Ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. Gli ospiti sono arrivati, il cibo pronto. Ma la festa non comincia. ‘Che succede, perché ?’. Le voci si alzano, le porte sbattono. Il mio “fiancé”, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Il futuro suocero ha detto che non mi vuole più. Litiga con mio padre. La mamma piange. Ma a me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole, e non lo voglio nemmeno io. Tutto è sistemato, rimango a casa mia. Ma l’illusione dura poco. Bisogna riparare l’offesa e non si può sprecare tutto quel cibo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore. Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa. L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. E’ così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Sto zitta se no mi picchiano. Lo fanno spesso. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo. Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti. ‘E’ una bella notizia,’ dicono. ‘Finalmente servirai a qualcosa! Vedi? Pagano per te!’, dice mio suocero, soddisfatto, mettendo in tasca i soldi. C’è un limite che non si deve superare. Basta. Sono di nuovo incinta, non so di chi. Prendo i bambini più piccoli e scappo via, via dal fiancé che non era brutto e dagli uomini che mi hanno resa brutta.
Ho avuto fortuna, in fondo. Mio figlio è nato nella casa protetta, nella vita protetta. Non sono più sola. Voglio il divorzio da mio marito. E poi? Il sogno: vivere da sola con i miei bambini, un piccolo lavoro, così la vita avrà davvero quell’odore di nuovo.
PROGETTO PER SANIYA. (sostegno mensile)
Saniya è adesso al sicuro nella casa protetta di Kabul. Le avvocatesse di Hawca stanno cercando di ottenere il divorzio. Per realizzare il suo sogno deve essere in grado di mantenersi, così potrà ottenere la custodia dei figli. La sponsorizzazione (un anno) serve a comprare per lei delle macchine per ricamare in modo che possa aprire una piccola attività in una casa sua e avviarla. E serve anche per mandare a scuola i bambini.
2) STORIA DI LENA: FIGLIA
Sono di Herat. Ho 45 anni, qui sono tanti. Un tempo stavamo meglio. 30 anni di guerra si sono portati via tutto quello che avevamo. Ora abitiamo in una casa diroccata per la quale paghiamo l’affitto. Mio marito è debole e malato e non è in grado di lavorare. I miei figli, due maschi, ancora ragazzini, vanno tutto il giorno a chiedere l’elemosina e a frugare nelle discariche. E’ così che campiamo. Ma qualcosa di peggio può sempre succedere. Mio marito un giorno mi ha detto: ‘Non è vero che non abbiamo niente, abbiamo una figlia in età da marito.’ Ha 14 anni. Adesso ogni volta che la guardo ho paura. Ho paura che lui la venda a qualche uomo sconosciuto. Non è cattivo mio marito, lo ha deciso per farci vivere un po’ meglio. Per la famiglia bisogna sacrificarsi, dice. Lo so che da noi succede così ma non posso accettarlo. Non si vende una figlia a qualche diavolo di passaggio per campare qualche mese. Voglio salvare la mia bambina, e convincere mio marito a costruire una vita più decente, a trovare un lavoro per smettere di mendicare e per poter mandare a scuola i nostri figli.
PROGETTO PER LENA (sostegno mensile)
Lena si è rivolta al Centro Legale di Herat. Hawca ha parlato con il marito. Se le loro condizioni economiche fossero meno critiche, sarebbe d’accordo a non vendere la figlia. Il sostegno quindi serve per evitare alla ragazza il matrimonio forzato e per aiutare Lena a organizzarsi un lavoro, al quale anche la figlia potrebbe contribuire, migliorando le condizioni di tutta la famiglia.
3) STORIA DI BASERA: PIETRE
Mi chiamo Basera e ho 14 anni. Vivo nella provincia di Bamyan, nel centro dell’Afghanistan. Tutto è cominciato dalla scuola. Non perché io ci andassi, no. Non c’era ancora, la stavano costruendo, non lontano da casa mia. Chissà se mio padre mi avrebbe permesso di frequentarla? Intanto era solo un mucchio di pietre. Ma c’era movimento, gente che veniva da fuori, per portare i materiali da costruzione.
Lui passava col camion, ogni giorno. Portava le pietre, rotolavano giù, con quel suono di cascata, la polvere entrava in casa. Un pomeriggio, il suo camion è andato a sbattere contro un albero. Mio padre lo ha tirato fuori, non si era fatto niente, purtroppo. Intorno a quell’albero ha girato la mia vita, come girano i jin, gli spiriti. Dalla parte sbagliata. Mio padre ha accolto in casa Sarvar, così si chiama, e gli ha offerto il tè. L’ho preparato io e gliel’ho portato. Mi ha guardato, in un modo che non avevo mai visto. Non mi piaceva. Il futuro, da noi, ti arriva addosso e non puoi fare niente, ma lo senti arrivare. Mi tremavano le mani e mi sono vergognata perché le tazze tintinnavano. Lui si è messo a ridere, anche mio padre. Mi sono coperta con il velo e sono scappata via. Da quel giorno è venuto spesso a casa, quando passava col camion. Mi cercava con gli occhi, immobile, come il gatto col topo. La mia famiglia si è spostata in un altro villaggio, a Elaq, è venuto anche lì. Mio padre era contento, Sarvar gli piaceva. Ma quel giorno la mia famiglia non c’era. Ero sola, lavavo le pentole. Lui ha capito, ha sorriso. E’ entrato in casa, da padrone. Non sapevo cosa fare, le gambe di pietra. L’acqua saponata, per terra, scorreva via. Caldo, silenzio, solo le mosche si sentivano. Non sono riuscita neanche a gridare. Senza suoni poteva non esistere. Sono scappata nella stalla quando son tornati i miei. Mia madre mi ha sgridato perché non avevo finito di lavare le pentole. Non ho detto niente. Ancora silenzio. Una paura basta. Quando mio padre mi guardava scappavo via. Ma lo sapevo, ogni mattina, quando mi svegliavo. Il bambino nella pancia non poteva nascondersi ancora per molto. Mia madre ha capito. Ha urlato parole cattive. La vergogna della famiglia. Non si può affrontarla quella. Mio padre non doveva sapere. Avremmo risolto da sole la faccenda. Da sole? Come? Non mi ha risposto. Silenzio, di nuovo.
Mi ha svegliato, a notte fonda, mi ha portato nella stalla. Mi ha tagliato il ventre con un coltello per togliere il bambino. Ha chiesto aiuto a mio fratello. Lui non voleva. Poi gliel’ho chiesto io e allora è venuto con ago e filo e mi ha ricucito la ferita. Ma qualcosa è andato storto, continuavo a perdere sangue, anche quello non poteva nascondersi. Il dolore di pietre nella pancia. Mio padre ha saputo. Mi hanno portato all’ospedale e mi hanno curato. Lì si poteva parlare. Intanto mio padre ha trovato Sarvar. Lo hanno arrestato, volevano arrestare anche mia madre. Mio fratello è andato in prigione al suo posto. Ora sono qui, al sicuro. Sto meglio. Ma non posso starci per sempre. Vorrei tornare a casa ma ho paura che mio padre mi uccida. Vorrei vivere e vorrei tanto andare a scuola.
IL PROGETTO PER BASERA (sostegno mensile)
In questo momento Basera è al sicuro nella casa protetta di Hawca a Kabul. Il personale della Ong sta discutendo e negoziando con il padre, per fargli capire che Basera è una vittima e non la vergogna della famiglia, che ha bisogno di sostegno, di rispetto e di un’istruzione per costruirsi un futuro migliore. Se non riusciranno a convincere la famiglia o se la ragazza non vorrà tornare a casa, sarà affidata a un orfanotrofio dove si prenderanno cura di lei. La sponsorizzazione (tre anni) le permetterà di andare a scuola per prepararsi a una vita migliore e di vivere al sicuro.
4) STORIA DI FATOMA: CUORE
Ho 12 anni e vivo ad Herat. La mia famiglia è povera ma ci vogliamo bene. Mio padre ha un piccolo negozio e mia madre è casalinga. Il problema sono io, o meglio il mio cuore. Pare che abbia un buco. Mi fa stare male e non mi fa crescere come gli altri. Mio padre le ha provate tutte. Mi ha portato da molti medici ma ognuno diceva il contrario dell’altro. Alla fine, con l’aiuto dei miei parenti, è riuscito a portarmi in un buon ospedale. Lì hanno capito di che malattia si trattava, appunto il buco nel cuore. Serve un’operazione ma costa molto. Mio padre mi ha anche registrato alla Croce Rossa. Ma in due anni nessuno si è fatto vivo. Così era sempre più disperato. Ha saputo del centro legale di Hawca e si è presentato a raccontare la mia storia. Certo non era il posto giusto, non è di questo che si occupano. Ma proveranno ad aiutarci lo stesso a trovare i soldi per l’operazione. Mio padre intanto, che ha la testa molto dura, continua a sperare di risparmiare abbastanza per portarmi all’estero a operarmi. Per questo, a volte, mangiamo solo un po’ di pane secco per tutto il giorno. Ma anche con questi sacrifici non credo che ce la possa fare. Così aspettiamo quello che succederà…
PROGETTO PER FATOMA. (sostegno ‘una tantum’)
La malattia di Fatoma richiede un’operazione e cure particolari che è molto difficile trovare in Afghanistan. Dovrebbe andare all’estero, probabilmente in Pakistan. Le serve una somma per affrontare il viaggio e le spese mediche dell’operazione e delle medicine: 3000 euro, una fortuna per la sua famiglia. In questo caso, le sponsorizzazioni raccolte saranno destinate a mettere insieme la cifra necessaria.
5) STORIA DI FAHEMA: MIO PADRE
Ho 25 anni e sono di Kabul. Mio padre. Come fa un padre a non sapere? Cosa pensava il giorno di due anni fa quando ha deciso di farmi sposare quest’uomo? Il destino non c’entra. Come si fa a regalare a una figlia l’inferno? Non posso fargliele queste domande, le faccio a me stessa, da due anni mi rimbombano nella testa. Poteva informarsi, no? In fondo lo sapevano tutti che si drogava e che la prima moglie era morta, uccisa dalle sue botte. Avanti un’altra, io. Forse è la droga che glielo fa fare, che tira fuori il buio profondo della sua anima. Non ha fatto che picchiarmi da quando sono entrata in questa casa. Non ha avuto rispetto nemmeno dei figli che aspettavo. Ho abortito tre volte. Tre bambini persi. Sono stata male, molto, problemi ginecologici. Ma per me non ci sono medicine né medici. Nemmeno da mangiare o da vestirmi. Quel poco che ho, me lo danno i miei fratelli, quello che serve a tenermi in vita. Adesso vivo con loro ma non mi sento protetta. Non possono sostenermi ancora per molto, devo trovare un lavoro. Me lo ripetono tutti i giorni. Ma non è facile nelle mie condizioni di salute. E le cure di cui ho bisogno costano. Ho paura che mio marito venga a riprendermi e ho paura del futuro.
PROGETTO PER FAHEMA. (sostegno mensile)
Fahema ha chiesto aiuto al Centro legale di Hawca. Per lei curarsi è molto urgente. Gli avvocati di Hawca otterranno per lei il divorzio. Poi, quando starà meglio, cercheranno di organizzarle un lavoro nella casa dei fratelli, per non pesare su di loro e vivere con i suoi mezzi. Per non sentirsi sempre a disagio nella loro casa. Nell’immediato, il sostegno pagherà le sue cure mediche e le permetterà di contribuire al proprio mantenimento.

Attentato ad hotel di Kabul: elicotteri NATO uccidono talebani

Elicotteri NATO intervengono uccidendo tre militanti per porre fine allo scontro durato cinque ore con attentatori suicida e uomini armati in un hotel della capitale afghana.

29 Giugno 2011 – da: BBC NEWS

Nell’attentato all’hotel Intercontinental, frequentato da occidentali, sono morti 6 attentatori, due poliziotti e 11 civili, inclusa una persona di origine spagnola.

Secondo un funzionario della sicurezza, per accedere all’hotel, di solito strettamente controllato, i militanti potrebbero aver approfittato dei lavori di ristrutturazione in corso.

Un portavoce talebano afferma che gli autori sono un gruppo di insorti.

Il parere di alcuni funzionari dei ministeri dell’interno e della difesa è che l’accaduto ha tutte le caratteristiche di un attacco tipico della rete Haqqani, gruppo strettamente legato ai Talebani ma che opera in modo indipendente.

Panico

Il Presidente Karzai ha condannato l’attentato, affermando che gli insorti gioiscono nel versare sangue innocente, ma che incidenti simili non rallenteranno il processo di transizione di responsabilità dalla Nato alle forze di sicurezza afghane.

Mentre il sole sorgeva su Kabul, fumo e fiamme provenivano dall’hotel.

I funzionari della sicurezza afghana riportano che l’edificio è stato preso d’assalto da almeno nove militanti, in seguito tutti deceduti.

Tra i morti ci sono anche un giudice provinciale, dei camerieri e alcuni musicisti che suonavano all’hotel.

Inoltre, le persone ferite sono almeno otto, inclusi due membri neozelandesi delle forze speciali Isaf con “moderate” lesioni.

L’attentato è iniziato mentre molti ospiti si trovavano nella sala da pranzo.

Secondo i funzionari afghani, un attentatore suicida si è fatto esplodere davanti all’hotel e un altro al secondo piano.

Il panico è dilagato immediatamente fra gli ospiti, inclusi coloro che stavano partecipando ad una festa di matrimonio.

Nascosto in una stanza dell’hotel

Un funzionario della provincia settentrionale di Takhar ha riferito alla BBC di aver visto correre verso l’hotel uomini armati di granate e mitragliatrici. Ha aggiunto che il suo amico Mawli Hamdullah, un giudice provinciale, è stato ucciso.

La polizia e i militari afghani hanno isolato l’hotel e staccato l’elettricità, mentre le forze di sicurezza utilizzavano apparecchi di illuminazione notturna.

Il corrispondente della BBC a Kabul, Bilal Sarwary, racconta che si potevano udire rumori di sparatorie ed esplosioni a ben 5 km di distanza.

Un militante è stato ucciso dalle forze di sicurezza che cercavano di entrare nell’hotel.

Quando tre attentatori sono saliti sul tetto, gli ufficiali afghani hanno chiesto aiuto alle forze Nato-Isaf.

Il Maggiore Tim James, portavoce dell’Isaf, ha dichiarato che le persone uccise dagli elicotteri Nato sul tetto dell’hotel, sembravano indossare indumenti “da suicidio”.

Il capo della polizia di Kabul Gen Ayub Salangi riporta che uno degli attentatori ha cercato di salvarsi nascondendosi in una stanza dell’hotel. Si è fatto esplodere alle 7.00 circa – ora locale – quando lo scontro sembrava ormai terminato, uccidendo due poliziotti e un ospite spagnolo e ferendo altre tre persone. Aggiunge che lo Spagnolo aveva cercato di ritornare nella sua stanza, incurante delle indicazioni trasmesse dalle forze di sicurezza. In seguito, il ministro degli esteri spagnolo ha confermato che un cittadino spagnolo aveva perso la vita nell’attentato: si trattava un pilota di linee aeree.

Un ufficiale afghano ha visto che gli attentatori erano muniti di granate a mano e granate a razzo.

Obiettivo dell’attentato

Gen Salangi afferma che la sua radiomobile blindata è stata colpita più di 30 volte e i finestrini sono andati in frantumi.

Secondo fonti ufficiali, l’obiettivo dell’attentato potrebbe essere stato un incontro dei governatori delle province in corso presso l’hotel. Inoltre, l’attentato è avvenuto esattamente la notte prima dell’inizio di una conferenza relativa alla transizione della sicurezza.

I corrispondenti affermano che l’Intercontinental, che non fa parte della catena di hotel internazionali che porta lo stesso nome, era uno degli hotel più presidiati e controllati di Kabul, ma i militanti potrebbero aver approfittato di eventuali lacune nella sicurezza causate dai lavori di ristrutturazione in corso presso l’edificio.

Sembra che i ribelli utilizzino ogni mezzo possibile per infiltrarsi nelle aree sotto stretta sorveglianza. In questo caso potrebbero essersi travestiti da operai o da tecnici.

Il dipartimento di stato degli Stati Uniti ha condannato questo attacco affermando che dimostra “il completo disprezzo per la vita umana da parte dei terroristi”.

La città di Kabul – che ha visto molti attentati negli ultimi anni – durante quest’anno non aveva ancora segnalato attacchi rilevanti. Tuttavia, dopo l’uccisione di Osama Bin Laden avvenuta in Pakistan il 2 maggio e con il sorgere dell’ “offensiva talebana di primavera”, la violenza sta ora aumentando nell’intero Paese.

Nel gennaio 2008 i militanti avevano preso d’assalto il Serena, il più lussuoso hotel della capitale, uccidendo otto persone tra cui un Americano, un Norvegese e una donna filippina.

ANALISI

di Jonathan Marcus – Corrispondente diplomatico della BBC

Ancora una volta emergono dubbi sulla reale efficienza delle forze di sicurezza afghane. Il fatto che ad un elicottero della NATO sia stato richiesto di uccidere gli attentatori che si trovavano sul tetto dell’hotel, rafforza la supposizione che la polizia e le forze militari afghane non siano in grado di operare da sole in modo efficace.

Per meglio comprendere la situazione è comunque necessario effettuare un’analisi più dettagliata dell’accaduto.

Tuttavia, al di là dell’immediato impatto psicologico legato all’attentato, si evidenziano alcuni segnali curiosi.

La NATO continua a mantenere una certa pressione militare sulle forze talebane, uccidendo un gran numero di comandanti, nello sforzo di convincere la loro leadership che l’unica soluzione è la negoziazione. Dall’altra parte, i Talebani organizzano attentati simili a questo allo scopo di sottolineare che non si sentono e non sono assolutamente sconfitti e che i loro obiettivi si estendono fino a raggiungere la stessa capitale.

Mentre Stati Uniti dicono di voler ritirare le truppe, la corruzione afgana aumenta.

di Bradley Klapper   da Rawa News
In definitiva, il perdurare della corruzione e delle lotte  tra le élite politiche ed i ribelli può non essere descrittivo del  post-guerra in Afghanistan e non sarà l’eredità di quasi 15 anni di  truppe Usa.
WASHINGTON – Il contadino che si occupa della raccolta delle mele nella periferia di Kabul deve pagare i $ 33 Talebani per poter spedire ogni camion carico di frutta. Il governatore manda uomini armati ad inseguire i lavoratori dei cantieri quando non pagano le tangenti. I quartieri poveri non ricevono mai il grano fornitogli dalle Nazioni Unite, che  da tempo viene venduto al mercato nero.
Questi sono alcuni degli elementi, più o meno importanti, che uniti formano una complessa criminalità organizzata afghana. Nonostante l’auspicato successo del forze militari degli Stati Uniti e le affermazioni del presidente Barack Obama che parla di progressi significativi, l’Afghanistan ricorda sempre più uno stato mafioso che non riesce a servire i propri cittadini ma che può solo peggiorare; così indica un rapporto appena realizzato da parte dell’International Crisis Group,  con sede a Bruxelles.
Le 46 pagine dello studio (riportato da International Crisis Group, con sede a Bruxelles), che uscirà la prossima settimana, è mirato in particolare al cuore dell’Afghanistan: le aree rurali di Ghazni, Wardak, Logar e di altre province appena oltre la periferia di Kabul. La disoccupazione è alta, la presenza del governo è bassa e l’insurrezione opera impunemente. La corruzione e la collaborazione con i Talebani raggiungere i massimi livelli della governance locale.
“Quasi un decennio dopo l’intervento militare degli Stati Uniti poco è stato fatto per affrontare il  perverso conflitto che continua in Afghanistan”, dice il gruppo di ricerca. Piuttosto, la violenza ed i miliardi di dollari spesi in aiuti internazionali hanno solo avvicinato i ricchi funzionari ai ribelli.  “il risultato è che l’economia è sempre più dominata da un’oligarchia criminale di imprenditori uniti politicamente”, conclude il rapporto.
Associated Press, 25 Giugno 2011
L’analisi  fa riflettere su una cultura della corruzione che precede il lungo sforzo militare statunitense, come afferma lo stesso Obama, cercando di evidenziare il fatto che gli americani possono ormai abbandonare il paese. Il diffuso abuso di potere dei Talebani  sicuramente sopravvivrà alla presenza delle truppe. Quest’anno gli americani hanno annunciato che avrebbe ritirato dal combattimento 10.000 soldati e altri 23.000 entro la fine della prossima estate; Obama ha chiarito che la decisione del ritiro delle truppe  militari statunitensi non avrebbe dipeso dai progressi di sicurezza  o dall’abilità delle forze americane ed afghane di mantenere gli obiettivi raggiunti. Obama non ha fatto cenno alla questione della corruzione.
Ma indipendentemente dal numero di truppe che saranno ritirate, e dalla rapidità di questa azione, Obama ha riconosciuto che il ritiro degli Stati Uniti entro il 2015 creerà nuove sfide per il paese. “Non proveremo a rendere l’Afghanistan un luogo perfetto”, ha detto il presidente. Una fine responsabile della guerra è realizzabile, ma ha avvertito che ci saranno “giorni bui.”
Per la popolazione afgana, la situazione nel centro del paese fornisce un valido caso di studio. Lì, la maggioranza dei Pashtun vive accanto agli Hazara ed ai Tagiki. L’arrivo di denaro estero ha creato una concorrenza anche fra i gruppi ribelli come i fedeli combattenti Talebani del Mullah Omar con la rete di Haqqani ed i militanti locali che si contendono una quota delle ricchezze. I cittadini finiscono schiacciati tra i combattenti ed i funzionari di governo, sostiene il rapporto.
Nel distretto di Qarabagh, a sud-ovest di Kabul, i ribelli condividono un’informale alleanza con il comandante locale, il generale Bashi Habibubullah. Nella vicina città di Ghazni e altrove, le miniere ricche di cromite sono state saccheggiate per l’esportazione a favore del governatore provinciale, Usmani Usmani.
Alla fine Usmani è stato rimosso dal suo incarico, ma solo dopo essere diventato un “esempio particolarmente imbarazzante di corruzione”, secondo Candace Rondeaux, analista senior del Gruppo Internazionale di Crisi per l’Afghanistan. Per spostare la cromite – un minerale che va principalmente in Pakistan e poi in Cina per la produzione di acciaio inossidabile – Usmani ha chiesto aiuto ai ribelli, i quali avrebbero coordinato gli attacchi per distrarre le forze di sicurezza lontano da camion in uscita, dice Rondeaux.
La profonda presenza della corruzione non è sfuggita all’attenzione dei funzionari americani. In una nota diplomatica del 2009 rilasciata dal sito Wikileaks, l’ex ambasciatore Francis Ricciardone ha osservato come “ad Ghazni i colloqui dipingono un quadro formato da un’impresa criminale mascherata dalla pubblica amministrazione in Ghazni.
Ad un livello più basso della criminalità troviamo le mele. Le cui imposte non sono certo paragonabili a quelle delle armi e del commercio di droga, ma con esse i ribelli guadagnando una fetta consistente dei ricavi con centinaia di migliaia di esportazioni ogni anno ed i profitti contribuiscono ad alimentare il conflitto. Per i contadini che vivono vicino al livello di sussistenza, l’estorsione può mettere a dura prova la loro sopravvivenza.
In definitiva, il perdurare della corruzione e delle lotte  tra le élite politiche ed i ribelli può non essere descrittivo del  post-guerra in Afghanistan e non sarà l’eredità di quasi 15 anni di  truppe Usa. Ma sicuramente mette a dura prova qualsiasi nozione di ritiro delle truppe americane in maniera limpida e pulita.
Mentre l’attenzione di Washington si è incentrata sul fatto di trovare una trattativa con i Talebani, Rondeaux spiega che la sua ricerca della vita quotidiana in Afghanistan dimostra che sarebbe un errore pensare di risolvere i tutti i problemi del paese grazie ad una soluzione politica.
“Non indirizzerà le reti in espansione della criminalità organizzata in Afghanistan”, ha detto. “Gli Stati Uniti ed i suoi partner possono ritirare le loro forze armate e condividere il potere in base alle competenze; ma ciò non significa che la situazione reggerà o che gli americani possano lasciare questo posto in maniera serena”.

I bambini di AFCECO imparano a suonare

Una delle caratteristiche di AFCECO [Afghan Child Education and Care Organization, N.d.T.] di quest’anno è un dinamico programma di musica. Oltre ai ben noti benefici che un tale programma dà ai bambini a prescindere dalla loro provenienza, (intelligenza più viva, ampliamento della cultura e rafforzamento del carattere), bisogna dare evidenza a quanto questo sia importante relativamente all’obiettivo principale di AFCECO di accrescere uno spirito democratico partendo dal cuore della società afghana. In particolare, una volta che una ragazza vive l’esperienza di suonare il violoncello, o il piano, o il sita su di un palco, in pubblico; una volta che si è innamorata della sua arte e diventa inseparabile dalla forza dell’esprimere se stessa, non sarà più soggetta al rischio di essere resa schiava dalle credenze più radicali, di essere rilegata ad un angolo della cucina, a servire senza essere vista.
Ci sono diverse persone alle quali vanno i ringraziamenti per questo nuovo programma, iniziando dalla nostra amica e sponsor Rose Vines la quale ha procurato i fondi designati alla musica in onore della madre Lorrain. Almeno 60 ragazzi e ragazze di tutte le età che hanno mostrato un forte interesse ed una certa propensione alla musica sono impegnati nella nostra facoltà, sei giorni alla settimana, nelle nostre classi. Canto e una varietà di strumenti musicale della tradizione dell’Asia Centrale vengono insegnati, inclusi l’armonica, il rubab il sitar, il tabla, il tanboor, la dambora, la zerbaghali, il gheychak ed il dhol. La stanza dove si studia musica è stata inoltre fornita di strumenti d’orchestra tipici della tradizione occidentale, incluso un piano mezzacoda della Yamaha, violini, trombe, flauti e clarinetti. Oltre a ciò, abbiamo aquistato due piano digitali della Yamaha. Il New Learning Center ora è pieno di musica. È un grande stimolo sentire i bambini cantare canzoni tradizionali in Pashto accompagnati dall’armonica e dal sitar, o ogni pomeriggio il nostro insegnante di violino incoraggiare gli studenti mentre imparano le scale. Tutto questo ci riempie di gioia e di gratidutine verso la nostra benefattrice Rose, ed onoreremo la memoria di sua madre attraverso la promozione e lo sviluppo della cultura in questa terra ricca e senzatempo chiamata Afghanistan.
Per vedere le foto della classe di musica di Lorraine su flickr clicca sul link: http://www.flickr.com/photos/afceco/sets/72157627050017964/
Vogliamo ringraziare inoltre gli altri benefattori, come l’Istituto Nazionale Afghano della Musica (ANIM). Il suo direttore, nonche fondatore, Ahmad Sarmast è un afghano dedito ad aiutare I bambini sforunati, convinto che l’arte e l’istruzione possano trasformare l’Afghanistan. Molti dei nostri strumenti sono stati donati proprio dall’ANIM per rendere completo il nostro programma di musica presso il Centro. Questa settimana si è conclusa con il primo concerto di tutti i bambini che hanno trovato impiego presso l’ANIM. Tra i vari ospiti, c’erano i rappresentanti della Facoltà di musica e lo stesso Ahmad Sarmast. Il nuovo Recourse Center (un centro educativo creato grazie il contributo dell’Asia Foundation e dell’USAID) vibrava, animato da bambini, lo staff del centro e gli ospiti. I nostri musicisti e cantanti provetti sono saliti sul palco con i loro insegnanti, sicuri di loro stessi come dei veterani  ed allo stesso tempo carichi di gioia per la prima esibizione della loro vita. C’era Nazira al violoncello mentre suonavano “Twinkle Twinkle Little Star”, e Mohsin al clarinetto, alle prese con le note della triste e senza tempo “Ai Saraban”. Gulalai al sitar, Negin al sarod, e Muzhgan al gheychak. Piano, tromba, e corno facevano parte anch’’essi dell’orchestra. In tutto, si sono esibiti 15 bambini. Anche i loro insegnanti hanno dato prova delle loro capacità esibendosi, da Bach a Bassa. Il concerto si è concluso con dodici minuti di raga [il termine Raga o Rāga indica, nella musica classica indiana, particolari strutture musicali che seguono, nell’esecuzione, precise regole relativamente alle frasi melodiche consentite o vietate, e sono basati su un certo numero di scale musicali di base, N.d.T.] dal maestro di Sarod Irfan Muhammad Khan accompagnato dal tabla.
Per vedere le foto del concerto dei bambini di AFCECO su flickr clicca sul link: http://www.flickr.com/photos/afceco/sets/72157626925475173/
I nostri ragazzi stanno sviluppando un senso per l’arte e un’orgogliosa consapevolezza di loro stessi come Afghani, un qualcosa per cui lottare contro la distruzione e la vergogna degli ultimo 30 anni. L’arricchimento apportato dallo studio degli strumenti occidentali amplia la dimensione e abroga i confini di questo risveglio culturale. Ancora più importante, è il fatto che in questo modo i bambini sviluppano nei loro cuori una sete di libertà, di liberà d’espressione, di esibizione e di diffusione dello spirito democratico della musica in tutto l’Afghanistan. Siamo profondamente grati per il regalo che la musica rappresenta e che adesso riempie la vita dei nostri bambini.
Con affetto,
Lo staff di AFCECO