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Autore: Anna Santarello

Malalai Joya compare appena nei titoli delle principali testate pakistane che sostengono il regime talebano, nonostante il suo sia un nome molto noto in Afghanistan.

di Farooq Sulehria

Da quando Malalai Joya ha espresso parole di critica tanto contro l’occupazione americana (sostenuta dal presidente Karzai e dai sanguinari signori della guerra), quanto contro i talebani (la cui violenza non esercita alcuna resistenza), è difficile stabilire se questa giovane donna rappresenti più la nemesi di Karzai piuttosto che di Mullah Omar. Di recente Malalai è stata definita dalla rivista Time, una delle 100 personalità più influenti al mondo.

Il Time ha tuttavia consentito alla giornalista Ayaan Hirsi Ali di riportare la notizia distorcendo il messaggio di Joya. Hirsi Ali, autrice dell’articolo, ha dichiarato: “Spero che un giorno Malalai possa considerare le forze Nato e quelle americane come alleate. Dovrebbe sfruttare la propria notorietà, la sua astuzia e caparbietà per ottenere l’appoggio delle truppe, più che la loro ritirata.”

Feroce e immediata la risposta di Joya: “Il Time ha creato una falsa immagine di me senza nemmeno accennare alla mia lotta contro l’occupazione dell’Afghanistan ad opera degli Stati Uniti e delle forze Nato, il che è vergognoso. Tutti sanno che sostengo i gloriosi movimenti pacifisti di tutto il mondo e che ancora una volta, ho dimostrato di non voler scendere a compromessi con gli Stati Uniti o la Nato che hanno occupato il mio paese, finanziato i nemici più crudeli del mio popolo, uccidendo tuttora i miei compatrioti innocenti in Afghanistan.”

Malalai Joya è stata definita dalla BBC “la donna più famosa in Afghanistan”. Nonostante ciò, viene menzionata appena dalle testate pakistane che sostengono il regime talebano, pur essendo il suo, un nome molto noto in Afghanistan. Joya catturò l’attenzione dei media nel 2003 durante una seduta della Loya Jirga (Grande Assemblea) riunitasi per stilare la carta costituzionale del paese.

A differenza dei fondamentalisti benvestiti e senza barba appoggiati dagli Stati Uniti, Joya non era stata eletta da Karzai bensì dai suoi concittadini, gli abitanti della provincia di Farah, che presiedevano la Loya Jirga. Malalai destò grandissimo scalpore quando, davanti tutta l’Assemblea e i giornalisti presenti (tra i quali, il pakistano Ahmed Rashid), prese la parola e, in un duro e coraggioso discorso di tre minuti, denunciò i crimini dei signori della guerra che presiedevano la Loya Jirga. Sibghatullah Mojadadi, capo dell’Assemblea, la definì “infedele” e “comunista”. Anche altri fondamentalisti presenti le urlarono contro, ma prima che una folla di signori della guerra riuscisse a metterla a tacere, Malalai aveva scosso l’Afghanistan con il suo coraggioso discorso. Nel suo ultimo libro “Caos Asia”, Ahmed Rashid  offre una descrizione dettagliata della Loya Jirga senza però accennare mai al discorso di Joya.

Quei fatidici tre minuti segnarono per sempre anche il destino di Joya. I concittadini della provincia di Farah la volevano come loro rappresentate. Non servono solo armi e denaro per contestare le elezioni nei campi di battaglia elettorali Afghani poiché “In Afghanistan, non importa chi vota, ma piuttosto chi conta i voti”, riferisce Joya a Viewpoint. Appoggiata da migliaia di sostenitori, Malalai decise di candidarsi alla Wolesi Jirga ( la camera bassa del parlamento afghano). La regista danese Eva Mulvad, ha immortalato la coraggiosa campagna elettorale di Joya e la sua successiva vittoria nel film-documentario “Enemies of Happiness” (“I nemici della felicità”, 2006). A soli 25 anni, Malali è diventata la più giovane deputata al parlamento afghano, ma soprattutto, la più coraggiosa. Ha saputo infatti emergere come forte oppositrice all’occupazione statunitense, al governo Karzai dominato da talebani e Mujahedeen. È per questo che ad ogni seduta parlamentare alla quale Malalai ha preso parte, è stata vittima di aggressioni fisiche, verbali e oggetto di pesanti insulti (“prostituta”). “Hanno perfino minacciato di violentarmi in parlamento”, ha dichiarato. Nonostante tutto, Malalai non ha mai smesso di denunciare i signori della guerra – che “devono essere processati”- e nemmeno l’occupazione americana.

Nel 2007, per mettere a tacere la sua voce ribelle, i signori della guerra che siedono in parlamento, l’hanno sospesa dal suo il suo incarico per tre anni. Non è un caso se Malalai è stata definita “la donna più coraggiosa in Afghanistan” e paragonata a Aung Sun Suu Kyi.

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Gli afgani chiedono di rimuovere dalla lista elettorale i candidati accusati di aver “violato i diritti umani”

Gli afgani chiedono di rimuovere dalla lista elettorale i candidati accusati di aver “violato i diritti umani”. Secondo Ahmad Hussain  – residente nella regione di Logar –  molti candidati  sono criminali e assassini.

KABUL, 16 Maggio 2010 – Gli afghani chiedono di eliminare dalla lista dei candidati alle prossime elezioni parlamentari di Settembre, i nomi di coloro accusati di aver “violato i diritti umani”.

Giovedì scorso, la Commissione elettorale indipendente ha pubblicato la prima lista dei 2447 candidati alle elezioni del prossimo 18 settembre; i cittadini hanno una settimana di tempo per presentare eventuali denuncie . Molti ritengono che, consentendo a criminali o a coloro accusati di violazione dei diritti umani, di candidarsi alle parlamentari, si mette inevitabilmente in serio pericolo la legittimità e democrazia delle elezioni stesse.

Secondo Haji Aman Otmanzai – della provincia di Kunduz-  sono almeno ottanta i candidati nella sua provincia accusati di crimini, alcuni dei quali tuttora in possesso di armi illegali. Otmanzai ha chiesto alla Commissione elettorale di assicurarsi che il parlamento passi in mano a democratici, e non ai signori della guerra. Nella provincia centrale di Bamyan, la situazione è molto simile.

Secondo Ahmad Hussain, residente a Bamywan, molti candidati nella sua provincia sarebbero assassini e criminali. “Se questi riusciranno ad accedere al parlamento, quest’ultimo non potrà essere considerato legittimo, bensì, in mano ai potenti.” Secondo la Commissione elettorale indipendente, sono quaranta i candidati nella provincia di Bamyan.

Per Najeebullah, uno dei tanti residenti, più del cinquanta per cento dei questi non possiede le competenze necessarie per svolgere la carica di legislatore.  “Una loro eventuale elezione, significherebbe negare diritti e possibilità a coloro che queste competenze le possiedono veramente.”

 “Sono rimasto scioccato nel vedere, sulla lista dei candidati, i nomi di quei criminali, accusati di aver commesso crimini atroci nei confronti di vittime indifese e innocenti.” Riferisce Muhibur Rahman, residente nella provincia centrale di Logar. Trenta di questi candidati sarebbero analfabeti o criminali. Rahman ha inoltre riferito che Ghulam Yahya Lashkar, fratello dell’attuale sindaco di Logar, si era candidato pur essendo a capo di alcune milizie. Lashkar si sarebbe infatti messo in lista per le elezioni del consiglio provinciale, ma la sua candidatura sarebbe stata poi respinta dalla Commissione elettorale indipendente.

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Documento di presentazione alla Jirga delle vittime

Il TJGC (Gruppo di coordinamento per la giustizia transazionale) è una coalizione di 25 organizzazioni afghane impegnate nella giustizia transazionale.

Nel 2004 l’AIHRC (Afghanistan independent human rights commission) ha condotto un’inchiesta sulla giustizia transizionale, la più importante mai fatta nel paese. La Commissione ha intervistato 4.151 persone provenienti da 32 province; 2000 persone hanno preso parte a 200 gruppi di lavoro. Queste consultazioni, i cui esiti sono stati riportati nel rapporto A call for justice: a report on National consultation on transitional justice in Afghanistan, hanno portato alla luce la vastità del fenomeno delle vittime afghane, di cui riportiamo i dati più significativi:

  1. il 69% degli intervistati hanno dichiarato di considerare se stessi o il loro familiari vittime di gravi violazioni dei diritti umani nel periodo tra il 1979 e il 2002;
  2. nei gruppi di lavoro una persona su quattro ha dichiarato di aver avuto un parente ucciso;
  3. nei gruppi di lavoro una persona su cinque ha dichiarato che lei stessa o un parente sono stati vittime di torture o detenzione;
  4. il 94% degli intervistati ha dichiarato di credere che fare giustizia dei crimini passati è molto importante (75,9%) o importante (18,5%);
  5. alla domanda su quali effetti potrebbe produrre l’istituzione di tribunali nei confronti dei criminali il 76% ha risposto che “aumenterebbe la stabilità e porterebbe maggior sicurezza” e solo il 7,6% che “diminuirebbe la stabilità e minaccerebbe la sicurezza”;
  6. circa la metà degli intervistati ha dichiarato che i criminali di guerra dovrebbero essere processati “subito” e un altro 25% ha detto che dovrebbero essere processati “entro 2 anni”;
  7. gli intervistati si sono divisi in due quando gli è stato chiesto se pensavano che la comunità internazionale avesse sostenuto i criminali di guerra politicamente, militarmente e finanziariamente (41%) o se invece avesse cercato di limitare i loro poteri (40%).

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La jirga delle vittime per la giustizia: senza giustizia non ci sarà alcuna riconciliazione nazionale

Fonte: The Afghanistan Analysts Network

unama victims jirgaKabul, 10 maggio 2010. Oltre 30 anni di conflitti e di violenta repressione hanno causato, in Afghanistan, un milione e mezzo di vittime civili, milioni di sfollati, mutilati, deprivati. Oggi, il governo afghano e la comunità internazionale parlano di riconciliazione, ma che cosa chiede la popolazione? Che tipo di pace immaginano le vittime di gravi violazioni dei diritti umani?Gli afghani hanno cercato risposte a queste domande il 9 maggio, in maniera inusuale, quando oltre 100 vittime e i loro rappresentanti provenienti da ogni regione dell’Afghanistan e da ogni periodo del lungo conflitto si sono riuniti a Kabul per condividere le loro esperienze e articolare una visione comune per una pace giusta.

La jirga delle vittime per la giustizia, tenutasi all’hotel Sitara, è stata organizzata dal TJCG (Gruppo di coordinamento per la giustizia transizionale), una coalizione di 25 associazioni della società civile afghana che lavorano sul tema della giustizia transizionale. La jirga è stata un valido strumento per far sì che la maggioranza delle persone dimenticate dal dibattito sulla riconciliazione – il popolo afghano – avesse modo confrontarsi.

L’incontro, il primo di questo genere in Afghanistan, è stato molto emozionante: le vittime hanno raccontato storie di brutali crimini, di perdite personali e di impunità. “Mi sono sposata molto giovane” ha detto un’anziana signora proveniente dalla provincia di Kunar. “Nel mio villaggio ha avuto luogo un massacro: mio marito, mio zio e tutta la mia gente è stata uccisa”. Il villaggio della donna fu il luogo di un massacro di oltre mille persone perpetrato nell’era comunista.

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Peggio da quando c’è Obama: Le “quote rosa” non hanno migliorato la vita delle donne in Afghanistan

Simone Balocco
14 Maggio 2010

Hanno ragione Valerie Hudson e Patricia Leidl nel loro articolo apparso su Foreign Policy: “betrayed”, tradite, le donne afgane si sentono così da quando Obama è diventato Presidente, e il motivo è semplice. Lo scorso novembre la Leidl era a Lashkar Gah per scrivere una serie di articoli per la Agenzia di Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID), quando scopre che le donne del posto non possono lavorare, visto che non hanno i requisiti basilari per farlo, non sapendo leggere e scrivere e non potendo lasciare le loro case perché i mariti glielo impediscono. Quando la Leidl si prepara a tornare a casa viene circondata da un gruppo di donne che le chiedono se, al suo ritorno in America, dirà a chi di dovere qual è la situazione in cui sono costrette a vivere. Non dimenticatevi di noi, è il senso della richiesta che le viene fatta a ormai parecchi anni distanza dall’inizio della guerra.

La Hudson e la Leidl spiegano che c’è una certa ‘doppiezza’ da parte dei vertici militari americani sulla questione femminile in Afghanistan. Alcuni giovani universitari avevano chiesto al Generale Petraeus quale sarebbe stato il futuro delle donne afghane, e se c’era qualche speranza che potessero partecipare in modo più attivo alla politica nazionale e su scala locale, una volta che le truppe americane lasceranno il Paese. Nella sua risposta Petraeus non ha mai usato la parola “donne”, spiegando che i “moderati” islamici saranno aiutati, oltre che riabilitati, senza però spiegare meglio cose intendeva con la parola  “moderati”. Il governo afghano ha un solo ministro donna, senza poteri particolari. Solo una donna svolge il ruolo di governatore e in generale non ce ne sono ad occupare posti chiave nella società civile.

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Uccise 235 persone tra alunni e altro personale: 222 feriti

Roma, 11 mag. (Apcom)

L’Afghanistan è uno dei paesi più pericolosi per la vita dei bambini in età scolare: tra il 2006 e il 2008 in questo paese ci sono stati 2.450 attacchi a scuole. E’ quanto emerge dal rapporto di Save the Children “Il futuro è adesso”, diffuso oggi a conclusione della Campagna “Riscriviamo il Futuro”, lanciata dall’organizzazione internazionale nel 2006, per garantire istruzione ai bambini in paesi in conflitto o post conflitto. Secondo quanto emerso dal rapporto, 235 fra alunni, insegnanti e altro personale scolastico sono stati uccisi e altri 222 feriti tra il 2006 e il 2008.

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Afghanistan lotta alla corruzione sciolte 172 ONG

(ASCA-AFP) – Kabul, 11 mag – Centossettantadue organizzazioni non governative sono state sciolte in Afghanistan, molte delle quali per ”cattiva amministrazione”. Lo ha annunciato il Ministero dell’Economia di Kabul in un comunicato.

La speciale commissione di controllo, guidata dal ministro Abdul Hadi Arghandiwal, era stata istituita dal presidente Hamid Karzai per verificare l’attivita’ di circa 1.500 organizzazioni di aiuti umanitari operanti nel paese, come parte di un programma di lotta alla corruzione.

Dall’invasione americana del 2001, decine di miliardi di dollari di aiuti sono stati destinati all’Afghanistan, ma gran parte dei fondi sono finiti in tasche private senza lasciare tracce.

Afghanistan: come si viene processati a Kabul

di Giovanni Porzio  – tratto da Panorama
Due edifici contigui ai lati della carreggiata che sfiora le colline a nord-est di Kabul. Costruiti con un finanziamento della cooperazione italiana, i centri di detenzione minorile e femminile sono il fiore all’occhiello del sistema carcerario afghano: campi di pallavolo, asilo, corsi di computer. Niente a che vedere con le celle di altre carceri dove i reclusi bivaccano senza alcuna speranza di riveder le stelle. Dai racconti dei prigionieri emerge una realtà agghiacciante, specchio di una società arcaica che a 9 anni dal crollo del regime del mullah Omar non sembra avere fatto alcun progresso nella sfera dei diritti civili.

Ancora oggi in Afghanistan si può finire in carcere per una delazione, un arresto arbitrario, una fuga per evitare un matrimonio forzato o i maltrattamenti domestici. E a finire dietro le sbarre sono spesso le vittime della violenza. Come Nasrin, una dei 158 minorenni internati, che a 15 anni deve scontarne tre per abbandono del tetto coniugale. Come Nasira, 14 anni, rapita, stuprata e condannata a 5 anni per fornicazione. Le garanzie legali esistono solo sulla carta. Tra le 137 adulte (e 45 neonati) della sezione femminile ci sono nove straniere. Maryam, ugandese di Kampala, condannata a 7 anni perché trovata in possesso di mezzo chilo di eroina, è sieropositiva: non ha mai visto un medico. Hosan Pari, una kamikaze pachistana fermata a Jalalabad con una cintura di esplosivo, ha scontato la sua pena: i mesi passano, ma non sa quando potrà uscire.
«Il sistema giuridico» spiega Rohullah Qarizada, presidente dell’associazione degli avvocati, «è ancora basato sulla sharia, la legge coranica. Il codice penale si applica solo per alcuni reati: traffico di droga, pederastia, aborto, corruzione, contrabbando, incidenti stradali. Per i cosiddetti crimini morali, come la fornicazione o la fuga da casa, e per i reati “hudud” (apostasia, adulterio, omicidio, furto, brigantaggio, ribellione, uso di bevande alcoliche) vige il diritto islamico della scuola hanafita. Esattamente come al tempo dei talebani. Con l’aggravante che oggi i tempi della giustizia si sono allungati e la corruzione ha raggiunto livelli mai visti».

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Comunicato stampa di Vittorio Agnoletto sull’arresto dei tre operatori di Emergency.

«ORA TUTTI S’IMPEGNINO PER L’IMMEDIATA LIBERAZIONE. MA POI FRATTINI E LA RUSSA DOVRANNO DIMETTERSI E SI APRA UN’INCHIESTA SUI NOSTRI SERVIZI SEGRETI. COME POTEVANO NON SAPERE COSA STAVANO PREPARANDO GLI ALLEATI DELL’ITALIA?»

Milano, 12 aprile 2010 – «Nessun altro Paese avrebbe mai accettato che militari di una nazione alleata arrestassero senza preavviso e senza fornire giustificazioni dei propri concittadini. La situazione pare talmente incredibile che viene da domandarsi se veramente qualcuno, a qualche livello, dei nostri Servizi o del governo italiano non fosse stato precedentemente avvisato…

L’arresto dei tre operatori rappresenta anche l’ennesima dimostrazione della mancanza di qualunque peso politico del nostro governo nella vicenda afgana; se veramente la Farnesina e il ministero della Difesa italiano non sapevano nulla (versione poco credibile) allora sono stati umiliati e trattati peggio di un vassallo medievale sia dal governo afgano sia dall’alleato inglese.

Infatti, nonostante l’Italia continui a mandare migliaia di giovani a morire per difendere un governo come quello di Karzai, composto da signori della guerra e da narcotrafficanti, quello stesso governo non avrebbe nemmeno ritenuto di preavvisare l’Italia che stava per arrestare tre connazionali; non solo, nemmeno il governo inglese, alleato nella missione ISAF con quello italiano, avrebbe ritenuto necessario preavvisare Roma che militari britannici avrebbero partecipato (come dimostrato da un video) all’arresto di alcuni cittadini italiani.

In ambedue i casi i ministri La Russa e Frattini dovrebbero dimettersi: in un caso per non aver tutelato, pur potendolo fare, dei cittadini italiani impegnati in un’attività di grande valore umanitario, nell’altro per essere stati trattati loro e l’Italia come degli zerbini da nazioni alleate.

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Le violazioni dei diritti umani aggravano la povertà in Afghanistan

30 marzo 2010
L’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR) afferma l’urgenza di mettere la povertà al centro di ogni decisione che riguardi le politiche di intervento sociale in Afghanistan, a seguito di un recente studio che dimostra come le violazioni dei diritti umani stiano peggiorando la già gravissima povertà del Paese.
“La realtà è che in Afghanistan la povertà uccide più gente di quanta ne muoia per effetto della guerra” afferma Norah Niland, portavoce dell’OHCHR in Afghanistan. “La povertà non è né casuale, né inevitabile; è insieme una causa e una conseguenza di gravissime mancanze nel campo dei diritti umani” aggiunge.

“Queste mancanze comprendono la diffusa impunità e inadeguati investimenti e attenzione verso i diritti umani. Clientelismo politico, corruzione, impunità ed enfasi eccessiva posta su obiettivi a breve termine piuttosto che a programmi di sviluppo a lungo termine stanno rendendo ancora più grave la situazione di estrema povertà che è la condizione della stragrande maggioranza della gente in Afghanistan.”
Secondo lo studio pubblicato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU, si stima che circa 9 milioni di afghani – pari al 36 per cento della popolazione – vivano in assoluta povertà e un ulteriore 37 per cento viva appena al di sopra della soglia di povertà, nonostante l’arrivo nel Paese di circa 35 miliardi di dollari di aiuti nel periodo 2002-2009.

In Afghanistan, il tasso di mortalità materna è altissimo e colloca il paese al secondo posto nella scala mondiale, mentre per tasso di mortalità infantile l’Afghanistan è il terzo Paese al mondo. Solo il 23 per cento della popolazione afghana ha accesso a fonti di acqua potabile e solo il 24 per cento degli afghani con più di 15 anni sa leggere e scrivere, con tassi di alfabetizzazione drammaticamente più bassi tra le donne e le popolazioni nomadi.
Il report dell’ONU fa appello al governo afghano e ai suoi partner internazionali affiché rafforzino le politiche di sviluppo e mettano in campo strategie per fare partire dalla promozione dei diritti umani ogni politica volta alla riduzione della povertà.

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