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Autore: Anna Santarello

In Siria c’è una rivoluzione contagiosa

ilmanifesto.it  Chiara Cruciati, 30 dicembre 2022

ROJAVA. Non solo curdi: dal 2012 il modello del confederalismo democratico ha coinvolto le tante comunità etniche e religiose del nord-est del paese. Arabi, turkmeni, siriaci, circassi, ezidi, armeni: «Siamo un popolo unico»

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Quanti nomi ha Minbic? Gli arabi la chiamano Manbij, i circassi Mumbuj, i siriaci Mabbuh. Sono i curdi a chiamarla Minbic, ma la città è la stessa. Due millenni di storia, dicono; duemila anni che lo Stato islamico tra il gennaio 2014 e l’agosto 2016 era riuscito a occultare dietro la farsa crudele e sanguinaria di un’identità unica: araba e sunnita. Eppure in quella comunità della Siria del nord-est, a meno di quaranta chilometri dal confine con la Turchia, vivono persone diverse.

Diverse etnie e diverse confessioni che nell’agosto di sei anni fa tornarono a colorare – letteralmente – la città liberata dal giogo islamista: l’ingresso delle Forze della Siria democratica (Sdf) segnò la fine dell’occupazione dell’Isis, insieme alle donne che in strada si sfilarono di dosso le lunghe vesti nere che le coprivano da capo a piedi. Sotto quel velo, le singole identità erano state annullate.

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“Hanno fatto irruzione durante un corso di arte, distruggendo tutto”. In Afghanistan i talebani negano l’istruzione alle donne, la testimonianza: “La società non lo accetta”

sdzviohIl Dolomiti, 28 dicembre 2022, di Francesca Cristoforetti   

Dopo aver negato alle donne di frequentare l’università, ora viene vietato loro di lavorare per le organizzazioni non governative. La testimonianza: “Tante mi hanno detto: ‘Non è il momento di piangere, dobbiamo combattere'”. Il giornalista e regista Wahidi: “I docenti universitari hanno dato le dimissioni in sostegno alle proteste”

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«Ci vendicheremo con la rivoluzione». La marcia curda risveglia Parigi

Il manifesto – 27 dicembre 2022, di Chiara Cruciati  

curdimanifestazionedonneA tre giorni dall’attacco, la storia del centro “Ahmet Kaya” e delle tre vittime. L’attentatore William K., in custodia, inizia a parlare. E la Turchia convoca l’ambasciatore francese: «Fate propaganda al Pkk»

«La nostra vendetta sarà la rivoluzione delle donne». Recitava così lo striscione che ieri apriva il lungo corteo della comunità curda in una fredda Parigi di pieno inverno.

Erano a migliaia a tre giorni dall’attentato che ha tolto la vita a tre membri del centro culturale «Ahmet Kaya», nel decimo arrondissement della capitale francese.

HANNO MARCIATO tra le bandiere delle unità curde Ypg e Ypj della Siria del nord-est, quelle viola del movimento delle donne e le foto delle tre vittime, insieme a quelle delle tre donne che il 9 gennaio 2013 furono giustiziate con un colpo alla testa nella stessa zona, la co-fondatrice del Pkk Sakine Cansiz, la membra del Knk Fidan Dogan e la componente del Movimento giovanile curdo Leyla Saylemez.

Anche stavolta a cadere sotto colpi di armi da fuoco sono state persone che alla causa del proprio popolo avevano donato anni di vita: Emine Kara (nome di battaglia Evîn Goyî), membra del consiglio esecutivo del Kck, l’Unione delle Comunità del Kurdistan, ed ex combattente delle Ypj in Rojava; il musicista Sirin Aydın, noto come Mîr Perwer, fuggito dalla Turchia dopo una condanna a 20 anni con l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica; e Abdurrahman Kızıl, attivista di 60 anni, da tanti considerato una delle memorie viventi del centro.

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Sette ong sospendono l’attività in Afghanistan dopo il bando talebano sul lavoro delle donne

Un altro duro colpo alla poca libertà che ancora avevano le donne in Afghanistan

Huffpost, 26 dicembre 2022  

L’ultimo schiaffo talebano ai diritti delle donne, che non possono nemmeno più lavorare nelle ong, ha scatenato un putiferio di reazioni critiche che il regime stenta a soffocare, con manifestazioni andate in scena addirittura nella città simbolo dei fondamentalisti islamici afghani, Kandahar.

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Le donne afghane non potranno più lavorare per le ong in Afghanistan

Il Post, 25 dicembre 2022 1671954744 afghanistan

Era uno dei pochi settori in cui potevano farlo, e ora le ong stanno considerando di lasciare il paese

Sabato il regime dei talebani, che dall’agosto 2021 governa l’Afghanistan, ha annunciato che le donne afghane non potranno più lavorare per le organizzazioni non governative, sia locali che internazionali. Il motivo, secondo una circolare pubblicata dal ministero dell’Economia, è che ci sarebbero state «gravi lamentele» sul fatto che il personale femminile che lavora nelle ong non indossa regolarmente il velo islamico.

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«I Talebani temono le donne che studiano. Li combatteremo»

Il Manifesto – 24 dicembre  2022 – di Giuliana Sgrena 

Protesta UniversitarieAFGHANISTAN. Intervista a Samia Walid dell’associazione femminista Rawa: «Ci reprimono con prigione e tortura, ci vietano scuola e lavoro. Il non riconoscimento internazionale del governo islamista di Kabul è la richiesta della maggioranza degli afghani: lo consideriamo un gruppo terrorista»

Le donne afghane non sono disposte ad accettare l’ultima decisione oscurantista del regime dei taleban, la chiusura delle università.

«L’educazione è un nostro diritto», hanno urlato decine di studentesse riunite ieri davanti all’università di Kabul. «Il gruppo medioevale e misogino dei taleban ha paura dell’educazione delle donne, ma il popolo afghano non è ignorante e si solleverà contro questa banda terrorista e brutale imposta dalla Nato e dagli Usa», sostengono le donne di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan), impegnate da decenni nella difesa dei diritti delle donne afghane.

Una nuova sfida dei taleban anche a quei paesi che condizionavano il riconoscimento dell’emirato alla formazione di un governo «inclusivo» e all’apertura delle scuole. Una possibilità ormai superata dagli eventi, chiediamo a Samia Walid di Rawa.

«I taleban sono un gruppo terrorista che non può dare al popolo afghano un governo accettabile. I governi occidentali parlano solo di governo inclusivo, ma cosa significa? Includere nel governo altri gruppi jihadisti? Si tratterebbe comunque di un governo che non riconosce i diritti delle donne e i diritti umani, quindi non deve essere riconosciuto».

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Talebani e liberalismo

Dawn, 23 dicembre 2022, di Aasim Sajjad Akhtar*  

Sono passati 14 mesi da quando l’Afghanistan è statAaasim_Sajjad_Aktar_copy_copy_copy.jpgo consegnato ai Talebani dalla forza militare più temibile che il mondo abbia mai conosciuto, l’esercito statunitense. Per quasi tutto questo tempo abbiamo sentito dire che il regime di Kabul è nettamente diverso da quello che governava negli anni Novanta, disposto e capace di conformarsi a norme di condotta liberali.

Il governo del Pakistan, ovviamente, ha propagandato le virtù dei Talebani 2.0 più di chiunque altro. Washington non lo ammetterà mai pubblicamente, ma ha acconsentito alla graduale normalizzazione del regime talebano.

Pertanto, le lacrime di coccodrillo versate dai funzionari pakistani e statunitensi in seguito alle recenti notizie secondo cui Kabul sta vietando alle donne l’istruzione universitaria sono ciniche nel migliore dei casi e spregevoli nel peggiore.

Anche qui in Pakistan, le evidenti contraddizioni della politica ufficiale nei confronti dei Talebani vengono messe sempre più a nudo. L’audacia con cui il Tehreek-i-Taliban Pakistan (TTP) ha catturato degli ostaggi a Bannu (https://www.dawn.com/news/1727347) sembra un caso di déjà vu dei primi anni 2000.

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I talebani vietano alle donne afghane l’istruzione universitaria

RAWA NEWS  21 dicembre 2022

Il ministero dell’Istruzione superiore emette un ordine indefinito tre mesi dopo che migliaia di persone hanno sostenuto gli esami di ammissione.

taliban ban univercity for girlsI governanti talebani dell’Afghanistan hanno ordinato un divieto a tempo indeterminato dell’istruzione universitaria per le donne del paese, ha affermato il ministero dell’istruzione superiore in una lettera inviata a tutte le università governative e private.

“Siete tutti informati di attuare il citato ordine di sospensione dell’istruzione delle donne fino a nuovo avviso”, si legge nella lettera firmata dal ministro dell’istruzione superiore, Neda Mohammad Nadeem. Il portavoce del ministero, Ziaullah Hashimi, che ha twittato la lettera, ha confermato l’ordine in un messaggio di testo ad Agence France-Presse.

“Le mie studentesse sono sconvolte e non so come consolarle”, ha detto Meena, 52 anni, docente in Afghanistan che ha usato uno pseudonimo per paura di ritorsioni.

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La resistenza delle studentesse afghane e la nostra promessa di aiutarle sempre

Proprio oggi è arrivata una bruttissima notizia dall’Afghanistan il paese di cui ormai non si parla  quasi più ma esiste. Il ministero dell’Istruzione afghano ha escluso per decreto le donne dalle Università sia pubbliche che private. Quindi dobbiamo continuare a sostenere i progetti  per lo studio delle bambine e delle ragazze  

Corriere della Sera 7, di Marta Serafini, 20 dicembre 2022  ragazze a scuola copy

Nel Paese mediorientale, dove la popolazione femminile rischia di perdere tutto, alcune organizzazioni si stanno muovendo per il diritto all’educazione delle bambine. Noi possiamo sostenerle e onorare così le promesse di 1 anno e mezzo fa

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Donne afghane, se la loro lotta è dimenticata

Ma non dall’Anpi e dalla rete che opera con l’associazione dei partigiani. Sono attiviste, giornaliste, poliziotte, studentesse, arrivate fortunosamente in Italia lo scorso anno dopo il ritiro delle truppe Usa dal Paese. Farsi ascoltare è la loro missione dichiarata

Tea Sisto, Patria Indipendente n.116

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Parwin ha 26 anni, è un’attivista dei diritti delle donne e oppositrice al governo dei talebani. «Sono nata in un Paese – racconta – in cui essere donne è un reato. Il governo talebano è criminale. Ci hanno tolto diritti e libertà. Oggi una bambina di tredici anni, se considerata bella, viene data in sposa a un capo talebano. Se i genitori rifiutano, vengono uccisi. Le donne non possono uscire se non accompagnate da un uomo di famiglia e coperte dalla testa ai piedi. Oggi – sottolinea Parwin – si parla solo della guerra in Ucraina e delle battaglie in Iran, siamo solidali con le proteste ma la tragedia afghana è coperta dal silenzio. Eppure nella nostra terra le donne vengono perseguitate, violentate e uccise. Io stessa ho dovuto cambiare Paese per non essere uccisa. Noi rifugiate siamo preoccupate per le nostre famiglie rimaste in Afghanistan, per le nostre sorelle che non sono riuscite a fuggire come noi. Chiediamo al resto del mondo di essere la loro voce».

Fatima, giornalista di 27 anni. «Lavoravo a Kabul – spiega – ma con il ritorno al potere dei talebani era ormai impossibile pubblicare qualsiasi cosa, scrivere la verità, raccontare l’orrore. Ma i giornalisti da noi sono in pericolo, devono nascondersi. Gli hanno tolto telefono, pc e penne. Ecco cosa sta accadendo oggi. La democrazia è morta, la povertà dilaga. Le donne sono sotto continue minacce. Il mondo – aggiunge – non sa o sa poco, e comunque preferisce non vedere. Ciò che chiediamo con forza è il non riconoscimento da parte di tutti gli Stati del governo talebano».

Kamela, 25 anni, è un’altra attivista fuggita grazie ai corridoi umanitari. «Solo manifestare per i nostri diritti mette a rischio la vita – denuncia –. Le ragazze non possono andare a scuola e nemmeno lavorare. Restano chiuse in casa se non hanno un uomo a cui accompagnarsi. Noi siamo la loro voce disperata. Penso ai miei genitori che sono in pericolo, ma credo pure che dobbiamo far conoscere al mondo ciò che ancora accade nel nostro Paese. Per questo sono qui e mi espongo. Lo devo al mio popolo».

Zarifa è la più adulta del gruppo, ha 43 anni ed è poliziotta, dodici anni di servizio alle spalle. «Ero orgogliosa del mio lavoro – afferma –. Avrei voluto continuare a fare questo mestiere per tutta la vita. Ma oggi le donne non possono più lavorare. Tanto meno i talebani possono tollerare donne poliziotte. Se penso alle mie colleghe rimaste in Afghanistan, mi assale la paura per loro. So che stanno facendo lo sciopero della fame. Il mio Paese non è più un posto sicuro per nessuna donna. Se la situazione cambiasse, vi tornei subito. Ora è impossibile, continuerò qui la mia battaglia, assieme a voi se ci aiuterete».

Nabila, 29 anni, studentessa, ricorda che il 15 agosto del 2021 è stato il giorno più nero per le donne e per l’intera popolazione afghana. «Ci hanno lasciate sole, senza alcuna umanità e solidarietà internazionale. Ci hanno dimenticate in pochi giorni». Stessa disperazione, accompagnata sempre e anche da una forza d’animo senza limiti e da un coraggio da vendere, anche per Hawagul, un’altra studentessa, che di anni ne ha 24.

Sono sei le nostre sorelle afghane ospiti a Lecce in altrettante famiglie dallo scorso mese di luglio. Arrivate in Italia dopo essersi rifugiate in Pakistan attraverso un corridoio umanitario che le ha portate in salvo. Da allora girano nelle scuole del Salento e dell’intera Puglia. E testimoniano. A Brindisi sono state ascoltate da tante donne e tanti uomini, in rispettoso e attento silenzio, nella gremita sala intitolata a Gino Strada di Palazzo Nervegna. Farsi ascoltare è la loro missione dichiarata.

L’incontro è stato organizzato dalla sezione Anpi “Vincenzo Gigante” di Brindisi, da Io donna, dall’Auser e dal Coordinamento donne Spi-Cgil, in collaborazione con la Commissione pari opportunità del Comune di Brindisi, perché è sacrosanto cucire una rete di protezione e di ascolto di queste sorelle che hanno trasformato la vulnerabilità e la marginalità silente a cui  le ha relegate un governo fondamentalista, misogino, violento e assassino, in una forza enorme, in una volontà di reagire e di combattere sia nel loro Paese che fuori dai confini. Portano e continueranno a portare la loro testimonianza, come le ragazze afghane accolte dalla Casa internazionale delle donne di Roma, al pari delle connazionali che hanno trovato rifugio in altre città d’Italia.

«Sono ragazze speciali – dice Anna Caputo, presidente Arci Solidarietà Lecce –. Ho chiesto a una di loro prima di un evento pubblico: non hai paura per la tua famiglia in Afghanistan? Qualcuno deve pure rischiare, ha risposto. Nel Paese hanno subìto violenze continue. Lì molte donne vengono lapidate all’insaputa del resto del mondo. O semplicemente scompaiono. Ma queste sei ragazze sono arrabbiate – continua Caputo – non hanno avuto qui la stessa modalità di gestione istituzionale dell’accoglienza delle donne ucraine. Tant’è che abbiamo dovuto ricorrere alla generosità e all’ospitalità di altrettante famiglie di Lecce. Una solidarietà privata, per così dire. Quella afghana è la tragedia più dimenticata e oscurata del mondo. Lo dicono loro e hanno ragione. È semplicemente la verità».

Le donne afghane lottano contro il regime talebano per la democrazia, la laicità, l’autodeterminazione di tutto il loro popolo, per i diritti delle donne e delle persone Lgbtq, la protezione delle minoranze, le violazioni dei diritti umani, il fondamentalismo islamico, le formazioni terroristiche.

Chiedono il monitoraggio sul rispetto dei diritti umani oggi calpestati. La protesta delle donne nelle strade viene repressa con la violenza, le attiviste vengono arrestate se non uccise. Molte sono costrette ad agire

L’Afghanistan – abbiamo scritto nella presentazione dell’evento a Brindisi – è un Paese distrutto da oltre 40 anni di guerre che ha visto l’avvicendarsi della guerra sovietico-afghana (1979-1989), di quella civile afghana (1992-1996), del regime talebano (1996-2001), della guerra e dell’occupazione delle truppe Usa/Nato (2001-2021) e nell’agosto dello scorso anno, del ritorno dei talebani con l’accordo delle forze occidentali in ritiro. Il popolo afghano è ridotto alla fame, attanagliato dallo stallo dell’economia, dalla disoccupazione, privato dell’assistenza medica, colpito dalla repressione del regime talebano”.

Le organizzazioni promotrici brindisine si sono attivate sin dal settembre 2021 con iniziative di solidarietà e sostegno alla lotta delle donne afghane, a fianco del Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) e delle organizzazioni partner afghane, tra le quali Rawa (storica associazione afghana delle donne) e Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan), con la raccolta fondi destinati al progetto “Vite Preziose” per fornire assistenza alle donne vittime di violenza domestica e sociale in Afghanistan.

Le iniziative proseguono. Ma queste giovani donne, cadute nella trappola dei talebani ancora una volta, vogliono soprattutto essere ascoltate.

E noi, donne italiane, che pure dobbiamo continuare a reagire contro una violenza di genere dai numeri a due cifre (82  le vittime di femminicidio nel 2022, secondo le stime ufficiali) e far sentire ancora più forte la nostra voce impedendo qualsiasi intento di cancellare quel poco di giustizia sociale rimasta, difendendo libertà, autodeterminazione e i diritti conquistati, resteremo accanto alle nostre sorelle afghane. Non saranno sole. E non lo saranno le sorelle iraniane vittime della ferocia di Stato.

Come si è concluso l’incontro di Brindisi con le giovani attiviste afghane? Nel modo più spontaneo, quello di donne che sentono di essere sorelle nella stessa famiglia allargata a tutto il pianeta, quando si combatte per i diritti: omaggi simbolici, sorrisi, abbracci commossi, vicinanza, promesse che saranno mantenute. Perché ci siamo e ci saremo anche in futuro, le une per le altre. Sempre.

Tea Sisto è la presidente dell’Anpi Brindisi