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Autore: Anna Santarello

FERMIAMO IL FASCISMO DI IRAN E TURCHIA

La Bottega del Barbieri, 29 novembre 2022 

L’appello lanciato da UIKI con le prime adeKurdistan Ellekappasioni.

UN APPELLO

La Turchia torna a bombardare i territori del nord e dell’est della Siria, quegli stessi territori liberati dall’Isis grazie allo sforzo e al sacrificio delle popolazioni curde, arabe e yazide che li abitano. Le bombe di Ankara cadono nel disinteresse generale e con il silenzio complice di quasi tutti i media mainstream, oltre che della politica, delle istituzioni italiane ed europee.

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MARYAM RAWI: L’IMPORTANZA DELLA CONSAPEVOLEZZA DEI DIRITTI DELLE DONNE

Durante il suo tour italiano la portavoce  di Rawa ha incontrato studentesse e studenti di varie scuole di seguito l’articolo pubblicato sul portale del Liceo Scientifico Aselli di Cremona

Liceo Scientifico Aselli (Cremona), 30 novembre 2022  Rawa Cremona

Lo scorso sabato 26 novembre si è tenuta nell’Aula magna del Liceo Aselli un’importante iniziativa in occasione della Giornata internazionale contro la Violenza sulle Donne, con il saluto iniziale del Dirigente Scolastico Prof. Alberto Ferrari.

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Quando diritti e libertà non valgono: l’Occidente e il genocidio dei kurdi

Volere la luna, 28 novembre 2022, di Livio Pepino 

Mentre il mondo occidentale si indigna e si commuove (giustamente) per i bombardamenti su Kiev e su tutta l’Ucraina, altri bombardamenti sono avvolti dal silenzio complice delle cancellerie di Europa e Stati Uniti.

È il caso – tra gli altri – di quelli sul Kurdistan e sul suo popolo misconosciuto e vittima, sui territori e nelle carceri, di un vero e proprio genocidio che ha come principale attore protagonista il sultano turco Tayyip Erdoğan , celebrato dall’intero Occidente come l’unico autorevole mediatore capace di avviare una trattativa tra Russia e Ucraina e foraggiato dall’UE con tre miliardi di euro ogni anno per impedire l’ingresso in Europa dei profughi asiatici che fuggono da guerra e violenze.

Cinque giorni dopo l’attentato di Istanbul del 14 novembre, attribuito dalle autorità prima di ogni verifica ai kurdi e al PKK (ma su cui aleggia il sospetto di un’operazione di “strategia della tensione”), la notte tra il 19 e il 20 una pioggia di bombe, sganciate dall’aviazione turca, si è abbattuta su diverse regioni del Kurdistan in Siria e nel Nord Iraq. Ad essere colpite sono state soprattutto le città di Kobane e Derik dove i bombardamenti sono inziati nella notte e proseguiti la mattina successiva. Kobane, la città che ha sconfitto l’ISIS al prezzo di migliaia di vite civili e di combattenti YPG/YPJ e PKK, è da allora nel mirino del regime di Erdoğan e per questo è stata indicata dal Governo turco come capro espiatorio dell’attentato. Come scrive ReteKurdistan in Italia, «indicare le istituzioni del Rojava come responsabili dell’attentato non è altro che un goffo tentativo di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica una nuova invasione del Rojava, in particolare della città di Kobane, la cui occupazione completerebbe il progetto neo ottomano iniziato con le invasioni del 2018 e 2019. Anche la tempistica di questi attacchi non è casuale.

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Avevano studiato alla Cavalcanti 13 anni fa: per 5 giovani afghani la vita riparte da San Giuliano

Il Cittadino, 28 novembre 2022, di Samuel Botti  San Giuliano

Liberi Pensieri e Sos Afghanistan hanno organizzato il loro ritorno perché possano costruirsi un’esistenza libera

«Siamo qui per aiutare questi ragazzi a ricostruirsi una vita libera», le parole di Piera Putzulu, membro dell’associazione Liberi Pensieri e ideatrice dell’iniziativa che è riuscita a salvare 158 profughi afghani dal regime talebano.

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Afghanistan: le donne si uniscono per un cambiamento

Periodico Daily, 28 novembre 2022, di Simona Lazzari  Periodico Daly

Dopa riconquista del potere, i talebani hanno assicurato alla comunità internazionale che i diritti delle donne non sarebbero stati in pericolo, promettendo inizialmente che le donne avrebbero diritto all’istruzione e al lavoro.

 Ma il gruppo in seguito ha giustificato la sua azione contro le donne sulla base della sua interpretazione della legge islamica. Ora, le donne in Afghanistan si uniscono in cerca di un cambiamento.

Le donne in Afghanistan combattono per i diritti

Da quando i talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan le donne stanno affrontando crescenti minacce. Quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno preso il potere hanno cercato di tranquillizzare la comunità internazionale promettendo di difendere i diritti delle donne e la libertà di parola. Tuttavia, hanno subito rotto le promesse, imponendo limiti di movimento alle donne, introducendo codici di abbigliamento per le donne, chiudendo le scuole superiore per le ragazze e chiudendo il Ministero per gli affari femminili. Tutti questi provvedimenti hanno riportato in mente i ricordi del regime repressivo talebano degli anni ’90. Nel paese sono state chiuse anche la più grande rete di rifugi per le donne. Le donne afghane hanno così deciso di unirsi per cercare un cambiamento.

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Afghanistan, fustigazioni e fame: cosa sta succedendo.

Metropolitan – Magazine, 28 novembre 2022 di Giorgia Bonamoneta  

immagineafghanistanDa quando nell’agosto 2021 i talebani hanno assunto il controllo dell’Afghanistan i diritti basilari sono sotto attacco. Nell’ultimo rapporto di Amnesty International sono state denunciate torture e sparizioni, arresti e imprigionamenti. Accanto all’assenza di diritti, le pubbliche fustigazioni e la vendita di minori e in un’inchiesta recente la BBC ha raccontato la catastrofe umanitaria della malnutrizione.

L’attenzione del mondo è oggi concentrata sui Mondiali di calcio in Qatar e il loro lato oscuro, sulle proteste in Iran e la guerra in Ucraina. Nel silenzio la fame e la repressione di diritti stanno facendo sprofondare l’Afghanistan in una crisi umanitaria di cui non si vede il fondo. 

La condizione delle donne sotto il regime talebano

Il 17 agosto 2021 i giornali titolavano con una promessa inaspettata da parte del regime talebano di mantenere i diritti conquistati delle donne nel Paese. L’obiettivo era quello di non creare problemi nel dialogo con la comunità internazionale, sempre però rimanendo all’interno dei propri principi religiosi.

La promessa è stata tristemente e inevitabilmente disattesa. Nel silenzio internazionale, concentrato su altre crisi, i talebani hanno iniziato presto a soffocare i diritti delle donne, a partire dal diritto allo studio e al lavoro. Rispetto al passato il regime talebano non è cambiato e anzi le usanze repressive sono state quasi tutte ripristinate. Alle donne sono negata le attività sportive, l’uso di cosmetici, guardare la televisione o ascoltare musica. Alle donne è inoltre vietato lavorare o andare a scuola, viaggiare da sole e possedere sim telefoniche.

regimetalebanoLe donne, in particolare le studentesse sono scese in piazza per protestare e richiamare l’attenzione su quanto educazione sia un loro diritto. “Il silenzio è un crimine“, gridano. La repressione però è sempre più violenta: almeno quattro donne sono state uccise e molti altri sono i casi di violenza. Mentre per i “crimini minori” è stata reintrodotta la fustigazione pubblica. 

Punizioni pubbliche: donne e omosessuali sotto la frusta

Il 14 novembre il leader talebano Haibatullah Akhundzada ha annunciato l’imposizione di punizioni pubbliche come fustigazioni e lapidazioni in tutto il Paese. Al momento dell’insediamento il regime talebano avevano dichiarato di voler procedere in maniera più moderata, ma così non è stato. Ultimo esempio è avvenuto nella provincia di Logar, dove in uno stadio con pubblico 12 persone sono state condannate alla fustigazione.

Tra queste 3 donne, in seguito rilasciate e 9 uomini incarcerati dopo la punizione. L’accusa era di “adulterio e sesso gay”. “Queste punizioni oltraggiose sono solo un altro passo verso la legalizzazione di pratiche disumane da parte del crudele sistema giudiziario dei talebani”, ha dichiarato Samira Hamidi, attivista di Amnesty International per l’Asia meridionale.

La Shari’a (legge) prevede non solo la fustigazione, ma anche la lapidazione, la mutilazione e la decapitazione. Il vice governatore di Logar l’ha definita l’unica soluzione per i problemi dell’Afghanistan, ma non è ben chiaro come concentrarsi sulla punizione di soggetti marginalizzati possa aiutare l’Afghanistan a superare la profonda crisi umanitaria che sta vivendo.

Afghanistan nel mirino delle sanzioni occidentali: rischio crisi umanitaria

La guerra non risolve i conflitti e vent’anni di occupazione della modernizzazione non bastano a salvare una popolazione. Gli Stati Uniti hanno lasciato in fretta il Paese nell’agosto 2021 e da allora le sanzioni all’Afghanistan hanno fatto crollare l’economia. Persino le Nazioni Unite hanno richiesto all’amministrazione americana di abbandonare le sanzioni, preferendo invece azioni di solidarietà alla popolazione. Oggi il 95% della popolazione afgana non consuma sufficiente cibo e l’impatto maggiore è sulla salute dei bambini.

Nell’ultimo anno la malnutrizione è aumentata del 50% ed esistono poche soluzioni: genitori che vendono gli organi per sfamare la famiglia o pillole somministrate ai bambini per non far sentire loro la morsa della fame. Gli ospedali solidali sono pieni e non riescono a seguire tutte le vite appese a un filo, praticando una vera e propria scelta su chi salvare e chi lasciare. La pratica dei matrimoni forzati infantili è in forte crescita perché appare come l’unica soluzione possibile alla fame.

La BBC ha raggiunto un portavoce del governo provinciale dei talebani a Herat. Secondo Hameedullah Motawakil la situazione è il risultato delle sanzioni internazionali contro l’Afghanistan e il congelamento dei beni afghani. “Il nostro governo sta cercando di identificare quanti ne hanno bisogno”, racconta. Secondo il portavoce le persone mentono sulla loro condizione, ma anche davanti alle prove dei giornalisti ha negato la gravità della crisi. 

L’attenzione è posta sull’apertura di nuovi posti di lavoro, ma il problema non è il lavoro in sé. Infatti chi lavora guadagna circa un dollaro al giorno, ovvero 100 afghani (valuta locale) con i quali si riesce a comprare un pezzo di pane e poco altro. Il problema è voltare le spalle ai diritti, anche quelli basilari alla vita.

CONTRO TUTTE LE FORME DI VIOLENZA DI STATO E LA MENTALITÀ PATRIARCALE: JIN JIYAN AZADÎ!

Rete jin, 25 novembre 2022  

Riportiamo il comunicato emanato da Kongra Star il 23 novembre 2022

In occaRetejiin 25 11 22sione del 25 novembre, per celebrare la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, salutiamo tutte le donne rivoluzionarie che combattono per la libertà nelle loro case, per le strade, nelle prigioni e in ogni fronte di lotta. In particolare vorremmo estendere i nostri saluti alle donne del Kurdistan orientale, del Baluchistan e di tutto l’Iran, che stanno portando avanti la resistenza con lo slogan Jin, Jiyan, Azadi (Donne, Vita, Libertà).

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Vediamo i vostri crimini! Stop alla guerra chimica in Kurdistan – Fermiamo l’invasione del Rojava!

Rete Kurdistan, 25 novembre 2022

defend rojava romaNella notte di Sabato 19 novembre una pioggia di bombe si è abbattuta sul Rojava/Nord-Est Siria per mano dell’aviazione turca. Molte le città colpite contemporaneamente in Rojava tra cui Kobane, Ain Issa, Tel Rifaat, Derik e Derbasiye, ma anche Sulaymaniyya, Qandil e Shengal nel Sud Kurdistan/Nord Iraq. In particolare le città di Kobane e Derik sono state ripetutamente colpite per diverse ore durante la notte e di nuovo nel corso della mattinata.

Kobane, la città che ha sconfitto l’ISIS al prezzo di migliaia di vite civili e di combattenti YPG/YPJ e PKK, è da allora nel mirino del regime di Erdogan e per questo motivo è stata immediatamente indicata dal governo turco come capro espiatorio in seguito al recente attentato avvenuto ad Istanbul. Indicare le istituzioni del Rojava come responsabili dell’attentato non è altro che un goffo tentativo di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica una nuova invasione del Rojava, in particolare della città di Kobane, la cui occupazione completerebbe il progetto neo-ottomano iniziato con le invasioni del 2018 e 2019. Anche la tempistica di questi attacchi non è casuale, il governo AKP-MHP è in calo nei sondaggi che lo vedrebbero sconfitto nelle prossime elezioni, nonostante Erdogan abbia tentato di ritagliarsi una posizione di rilievo attraverso gli accordi economici con l’UE e tentando di acquisire una posizione centrale nel conflitto tra Russia e Ucraina.

In un momento storico in cui il mondo sta seguendo con attenzione le rivolte in Rojhelat e in Iran, al grido di “Jin Jiyan Azadi” – Donna Vita Libertà, il governo turco sta lavorando attivamente per distruggere la rivoluzione delle donne del Rojava, il luogo in cui da dieci anni questo motto è stato applicato e si è tramutato in pratica politica. Di fronte a questa ipocrisia l’opinione pubblica mondiale deve adoperarsi affinché la comunità internazionale metta fine agli attacchi turchi agli uomini e alle donne che lottano per un nuovo modello di pace in Kurdistan e in medio oriente.

Da giorni ormai il Rojava è sottoposto a intensi bombardamenti con aerei da guerra, droni, artiglieria e carri armati, provocando decine di vittime civili, 12 nel solo raid su Derik in cui hanno perso la vita un giornalista e diverse persone colpite da un secondo attacco aereo mentre prestavano soccorso ai feriti. Oltre alle perdite di vite umane, lo stato turco mira a rendere il Nord-Est della Siria invivibile, colpendo infrastrutture vitali. Fino a ora 4 ospedali, una scuola e diversi silos contenenti riserve di grano sono stati distrutti dalle bombe turche.Erdogan stesso ha più volte annunciato di non aver intenzione di cessare gli attacchi finché il Rojava non sarà distrutto, minacciando una nuova invasione che creerebbe una catastrofe umanitaria e lascerebbe le aree libere e democratiche dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est nelle mani di Al Qaeda, ISIS e le altre bande jihadiste affiliate allo stato turco.

Tra i primi obiettivi colpiti dai raid aerei turchi figura la prigione in cui sono detenuti miliziani dell’ISIS a Qamislo, il 23 Novembre anche le forze di sicurezza del campo di Al-Hol sono state bersagliate da tre raid aerei consecutivi che hanno permesso la fuga di diverse famiglie e militanti dell’ISIS. Il campo di Hol ospita circa 60.000 miliziani jihadisti incluse diverse migliaia di foreign fighters provenienti da tutto il mondo. È chiaro che queste azioni mirano a supportare la riorganizzazione dello Stato Islamico. Va ricordato a questo proposito che meno di un anno fa l’ISIS è stato in grado di lanciare nella città di Hasakah la sua più grande operazione dalla disfatta del califfato nel Marzo 2019. Solo le continue operazioni delle SDF contro le cellule sparse in tutta la Siria hanno impedito al gruppo di riorganizzare il proprio esercito, operazioni che dovranno essere sospese per fronteggiare una nuova invasione da parte dello stato turco.

Chiediamo quindi di iniziare immediatamente a mobilitarsi per informare l’opinione pubblica sui crimini di guerra dello stato turco, sui suoi piani di invasione e sull’uso massiccio di armi chimiche già in corso.

Chiediamo di fare pressione sulle istituzioni affinché il nostro paese non sia complice di questa guerra, affinché le armi italiane non vengano usate per distruggere la rivoluzione delle donne e massacrare i popoli che sperimentano il paradigma del Confederalismo Democratico, in Rojava e in ogni altro luogo.

ROMA, Piazza dell’Esquilino,
30 Novembre ore 16.00

#DEFENDROJAVA
#DEFENDKURDISTAN

Donna, vita, libertà: la rivoluzione delle donne è inarrestabile

Rete Jin, Effimera, 22 novembre 2022

jin jiyan azadi

Nella notte tra il 19 e il 20 novembre lo Stato turco ha dato il via a una serie di pesanti bombardamenti che hanno coinvolto l’intera zona del Rojava (Kurdistan occidentale, o nord-est della Siria) e una parte del Başur (Kurdistan del sud o iracheno). Gli attacchi, svoltisi su un fronte totale di 700 km, si sono concentrati su obiettivi civili come scuole, ospedali e silos di grano, e hanno coinvolto numerose città, tra cui Kobane (in particolare il villaggio di Belûniyê a Shahba, popolato da sfollati curdi di Afrin), Derik e il vicino villaggio di Teqil Beqil, l’intera regione di Dahir al-Arab vicino a Zirgan e le aree dei monti Asos e dei monti Qendil.

L’ondata di attacchi è stata giustificata dal Sultano Erdogan come una risposta all’attentato del 13 novembre a Taksim, Istanbul; attentato che, con una orchestrazione da “strategia della tensione”, sembra essere stato ordito proprio dallo stesso regime turco, invece senza prove, infondatamente (oltre che ingiustamente), viene addebitato a PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), YPG (Unità di protezione del popolo) e YPJ (Unità di protezione delle donne). Erdogan ha così inaugurato la sua campagna elettorale in vista del voto che si terrà la prossima primavera. In una Turchia in piena crisi economica, infatti, e con degli exit poll che danno la coalizione AKP-MHP di regime in calo, il Sultano ha deciso di rivangare una tecnica già vista nel 2015, per cui il popolo curdo del vicino Rojava e la resistenza del PKK sulle montagne irachene vengono sfruttati come spauracchio, falsamente accusati di terrorismo e coinvolti in una guerra impari e brutale. In questo modo, Erdogan spera di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica turca verso l’esterno del paese, nel tentativo di guadagnare consenso politico soddisfacendo le mire imperialiste neo-ottomane. Oltretutto, i bombardamenti sulle montagne di Qendil (cuore della resistenza del PKK) servono al regime per coprire i crimini di guerra commessi contro la guerriglia, anche mediante l’uso di armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali (uso di cui è stata resa e diffusa ampia documentazione). Sono state rilasciate testimonianze anche dello scempio compiuto dall’esercito turco contro i suoi stessi soldati, i cui cadaveri sono stati impietosamente bruciati sul campo di battaglia, sempre allo scopo di cancellare le tracce delle armi chimiche illegali.

attacchi turchiaNel momento in cui scriviamo il bilancio è di 30 civili uccisi (tra cui un giornalista), decine di feriti, vari combattenti della coalizione SDF (Syrian Democratic Forces), due guardie uccise mentre proteggevano alcuni silos contenenti grano a Dahir Al-Arab, 15 soldati siriani uccisi e altri tre civili gravemente feriti a Kobane. I numeri aumentano di ora in ora.

L’innalzamento dei toni è iniziato già un mese fa. Lo scorso 4 ottobre la giornalista, accademica e ricercatrice curda, Nagihan Akarsel è stata assassinata davanti alla sua casa nella città di Sulemania, nella regione del Kurdistan iracheno, con colpi di arma da fuoco sparati in pieno giorno. Akarsel faceva parte dell’Accademia di Jineoloji. Si tratta di un centro di ricerca, con varie sedi tra Kurdistan ed Europa, il cui obiettivo è quello di ridefinire la sociologia tenendo conto dei saperi femminili, al fine di produrre un nuovo approccio etico alla scienza e fornire alla società strumenti di cui è stata privata da millenni di oppressione patriarcale.

La responsabilità dell’assassinio è stata apertamente rivendicata dallo Stato turco. Domenica 9 ottobre si è, infatti, svolta una cerimonia di apertura di un ufficio per il rilascio dei visti nella città di Erbil, nel Kurdistan iracheno, cui  ha partecipato l’ambasciatore turco Ali Riza Guney. Alle domande dei giornalisti sul possibile coinvolgimento dello Stato Turco nell’assassinio di Akarsel, su cui da giorni si nutrivano sospetti, Guney ha confermato, affermando quanto segue: “Il nostro obiettivo è di mantenere le nostre relazioni bilaterali con l’Iraq tra stati sovrani liberi da organizzazioni terroristiche. Da qui, la nostra sensibilità e i nostri sforzi nella lotta al terrorismo. Persone affiliate o vicine al PKK sono bersagli al centro della nostra attenzione”.

Nessuna dichiarazione ufficiale è stata invece rilasciata da Mesrur Barzani, presidente della regione del Kurdistan iracheno, a dimostrazione della connivenza del clan Barzani con lo Stato turco.

Quella di Nagihan Akarsel, tra l’altro, è stata solo l’ultima di una lunga serie di esecuzioni mirate, che i servizi segreti turchi attuano abitualmente nei confronti di donne, spesso curde, politicamente attive, in opposizione al regime dell’AKP (partito del presidente/dittatore Recep Tayyip Erdoğan): tanto in Turchia, quanto in altri stati. Basti pensare al triplice assassinio di Sakine Cansız, Fidan Doğan e Leyla Şaylemez, uccise da un sicario a Parigi il 9 gennaio 2013, o a Deniz Poyraz, politica del’HDP, similmente assassinata il 17 giugno 2021 nella sede del partito a Izmir.

L’assassinio di Nagihan Akarsel è avvenuto a due settimane di distanza dall’ormai ben nota vicenda di Jîna* Amini, ventiduenne curda assassinata il 16 settembre scorso in seguito a un pestaggio della polizia morale iraniana, per via del velo indossato dalla donna in modo non conforme alle regole teocratiche.

Le proteste esplose in seguito alla morte di Amini, che vedono a tutt’oggi migliaia di manifestanti affrontare in piazza la durissima repressione del regime di Khamenei, sono state animate sin dall’inizio dallo slogan jin jiyan azadîdonna, vita, libertà. Questo slogan leggendario, che riecheggia oggi da una parte all’altra del mondo, in solidarietà con le rivolte iraniane, nasce in Turchia nel 2006, per iniziativa del movimento delle donne curde. Sembra un’incredibile coincidenza, ma a coniare lo slogan è proprio Akarsel, riprendendo il concetto dagli scritti del leader del movimento curdo Abdullah Ocalan. Jin jiyan azadî raccoglie in sé tutto il senso della rivoluzione delle donne.

In curdo, la parola jiyan (vita) viene da jin (donna). La connessione tra la donna e la vita è profonda e inscindibile, e viene intesa non solo nel senso strettamente biologico di dare alla luce una nuova vita, ma nel senso più ampio: le donne devono avere un ruolo centrale e vitalizzante per l’intera società. È per questo che la questione della libertà, azadî, nell’ideologia del movimento curdo è intrinsecamente legata alla riduzione in schiavitù delle donne, con l’imposizione del sistema patriarcale. Ritroviamo il tema in opere come Sociologia della libertà (Liberare la vita – la rivoluzione delle donne) di Öcalan.

In altre parole, la liberazione dell’intera società passa necessariamente attraverso la liberazione della donna. Questa nuova formulazione, proposta da Abdullah Öcalan negli anni Novanta e adottata dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), rappresenta per il movimento curdo un radicale cambio di paradigma rispetto alla maggior parte dei movimenti di sinistra di stampo comunista, che alla questione della donna hanno sempre anteposto quella dei lavoratori e dei mezzi di produzione, sostenendo che una volta attuata la rivoluzione proletaria altri problemi sociali (incluso quello di genere) si sarebbero risolti di conseguenza. Inutile dire che così non è stato, e l’analisi di Öcalan fornisce una spiegazione chiara al riguardo.

In occasione dell’8 marzo 1998, indirizzandosi alle donne del movimento, Öcalan scrive: “Il ventunesimo secolo sarà il secolo della liberazione delle donne”. Dunque, il senso dello slogan jin jiyan azadî risiede nella considerazione di come la questione del patriarcato sia legata alla struttura stessa del potere e della sua gerarchia, e insiste sul fatto che la liberazione della donna rappresenti un fattore fondamentale per laliberazione dell’intera società, non solo in Kurdistan, ma in tutto il pianeta. Ecco perché donna vita libertà viene intonato in tutto il mondo: perché universalizza il senso della lotta delle donne e della necessità collettiva di una rivoluzione femminista globale.

Sottolineata dunque la centralità della resistenza femminile nel Medio Oriente per il movimento curdo, perché delle donne curde non si parla più su nessun media europeo? Chiaramente a causa dell’alleanza occidentale con il regime turco di Erdogan. Assistiamo dunque a un incredibile paradosso, per cui la NATO, in ottica anti-Russia e anti-Cina, sceglie di sostenere il regime turco nel suo espansionismo neo-ottomano contro il popolo curdo, pur avendo temporaneamente sostenuto militarmente le forze curde contro ISIS, che al contempo è sovvenzionato e armato dallo stesso regime turco. Una posizione, quella occidentale, che pur nella sua assurda ambiguità non stupisce più di tanto. Il movimento curdo è fonte di forza e di ispirazione per movimenti di liberazione in tutto il mondo, e la prospettiva di democrazia radicale che propone è una minaccia per le potenze capitaliste. Non è certo la prima volta che le superpotenze e le loro organizzazioni, come la NATO, agiscono in modo apparentemente contraddittorio su questioni di politica internazionale. Ma la contraddizione è insita nell’ottica opportunista e calcolatrice degli stati nazione. Finché il movimento curdo e i popoli della Siria del nord e dell’est sono stati utili nella lotta a ISIS, gli Stati Uniti hanno offerto loro un’alleanza, solo tattica, e i mass media occidentali si sono prodigati a dedicare titoli di apertura e prime pagine, lodi e addirittura film e documentari. Sconfitto ISIS, per gli Stati Uniti di Trump le donne curde sono diventate merce di scambio con il regime turco, membro NATO, troppo necessario strategicamente per essere contrastato. Lo stesso Mario Draghi, ex presidente del consiglio italiano, ha definito Erdogan “un utile dittatore”; l’Amministrazione Autonoma in Rojava è stata abbandonata al massacro posto in essere dal Sultano e dai suoi mercenari jihadisti (riciclati, tra l’altro, proprio dalle file di ISIS). È l’ennesimo pasticcio occidentale, coronato da questo ultimo, prevedibile, tradimento; un assurdo via libera a questa nuova serie di attacchi concesso dalla “Global Coalition to Defeat ISIS”, guidata dagli Stati Uniti.

Jin, jiyan, azadi: la seconda conferenza delle donne

Vogliamo aggiungere, infine, che lo scorso 5 e 6 novembre a Berlino si è tenuta la seconda Conferenza Internazionale delle Donne, organizzata dal network Women Weaving the Future*. Con oltre 800 partecipanti, che provenivano da 41 paesi diversi, la conferenza ha segnato l’inizio del lavoro di analisi, costruzione e implementazione di confederalismo mondiale delle donne, proposta emersa nella prima conferenza del 2018 come soluzione per unire le lotte delle donne di tutto il mondo.

Berlino-300x150_copy_copy.jpgIn momenti di crisi e di recessione, sono sempre le donne ad essere colpite per prime, in modo trasversale e con decisione; i recenti attacchi all’aborto sono un esempio clamoroso. Il divieto di accesso all’aborto, in particolare,  da sempre viene utilizzato dagli stati per regolare la riproduzione, la libertà delle donne, la loro partecipazione al lavoro, la possibilità di creare un paradigma di vita alternativo a quello standard di casa e famiglia.

In questo senso, la Conferenza è stata un momento chiave di condivisione di esperienze e strumenti di resistenza in tutto il mondo, fondamentale per analizzare i problemi che ci accomunano e trovare soluzioni. La grande forza che è emersa dal riunirsi e riunirci ha riconfermato la necessità di organizzarci internazionalmente e avere spazi di autonomia. L’occhio della donna e il suo intervento sono indispensabili in ogni ambito di lotta; per questo motivo sono stati organizzati, oltre ai panel generali, anche otto workshop su molti temi: migrazione, la liberazione della donna come lotta strategica, salute, economia, ecologia, difesa della cultura e del linguaggio, costruzione di un fronte antifascista ed educazione.

Conferenza di Berlino

Le riflessioni scaturite dalle discussioni sono la prova che unite siamo in grado di costruire sistemi più liberi e di costruire relazioni su basi diverse da quelle della competitività e dell’individualismo; relazioni che fonderanno una nuova società. La libertà deve nascere necessariamente dalla lotta delle donne, dal nostro modo di modellare la vita e di intendere la politica come cura della comunità.

Noi donne non abbiamo un ruolo nella rivoluzione: noi donne siamo la rivoluzione.

NOTE

* Molte testate si riferiscono a Jîna Amini come Mahsa, utilizzando il nome iraniano della donna, legalmente riconosciuto dalle autorità. Come molti altri, però, scegliamo di utilizzare il nome curdoAmini, Jîna. La repressione della popolazione curda in Rojhilat (Kurdistan iraniano) avviene anche attraverso il divieto di dare ai propri figli nomi curdi, motivo per cui anche in questo caso il nome riportato sui documenti e il nome usato realmente da Amini non coincidono.

* https://womenweavingfuture.org/

Immagine di apertura: Conferenza Internazionale delle Donne, organizzata dal network Women Weaving the Future, 5-6 novembre 2022, Berlino

 

Chi cura le donne in Afghanistan?

La segregazione di genere da parte dei talebani si scontra con l’esclusione delle donne dalla professione medica

Claire Parker, The Washington Post, 17 novembre 2022

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Quando lo scorso anno i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan, quasi un terzo delle tirocinanti della classe di Omeida Momand in un ospedale femminile di Kabul, come riferisce lei stessa, è scappato dal paese lasciando il personale ridotto all’osso. Momand ha deciso di restare e portare a termine l’ultimo di undici anni dedicati alla formazione nella cura delle donne afghane. Di giorno esamina le pazienti ginecologiche e tiene sotto osservazione le madri con gravidanze ad alto rischio in una stanza a volte così affollata che le donne giacciono sul pavimento. I suoi turni di notte sono dedicati all’esecuzione di cesarei di emergenza.

La determinazione di Momand a praticare la medicina nel suo paese d’origine si è allineata, ironia della sorte, agli interessi dei talebani. Nella società islamica fortemente conservatrice che i talebani sperano di creare le donne dovrebbero essere accudite da altre donne, secondo i responsabili. Quindi servono più dottoresse.

Si tratta di un raro caso in cui i talebani promuovono con vigore e pubblicamente l’istruzione e l’occupazione delle donne. La formazione di dottoresse e infermiere rientra nell’obiettivo del movimento di dimostrare che può fornire servizi essenziali mentre costruisce una società strutturata sulla segregazione di genere.

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