Il 23 marzo in Afghanistan le ragazze sono tornate a scuola insieme ai loro compagni maschi, ma dopo due ore sono state rimandate a casa. È proibito organizzare anche corsi domestici, in un paese in cui l’analfabetismo femminile è all’87%. Così sono nate, coraggiosamente, delle scuole clandestine che il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane sta sostenendo. Gabriella Gagliardo: «Serve fare sentire a queste ragazze che non sono sole. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare»
Fabio Ruta, Vita, 6 maggio 2022
Il 23 marzo le studentesse afghane avrebbero dovuto riprendere le lezioni, come i coetanei maschi. Ma dopo un paio d’ore dalla ripresa delle lezioni, è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato è stata precipitosamente smentita. Nessuna giovane donna di età superiore ai 12 anni ha ora diritto allo studio in Afghanistan ed è espressamente proibito organizzare corsi domestici: scuole clandestine che invece continuano ad esistere, seppur con grave rischio e purtroppo accessibili a poche ragazze. «Abbiamo visto la disperazione di tante ragazze costrette ad abbandonare le lezioni che si erano illuse di riprendere, e ci è sembrato utile allora chiedere agli studenti italiani di inviare loro messaggi di solidarietà, anche solo per far sentire loro che non sono sole, che qualcuno si accorge di cosa sta succedendo in quel paese. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare, siamo preoccupate della depressione che ci dicono stia devastando una generazione. Non si possono abbandonare milioni di ragazze in questa condizione». È accorato l’appello di Gabriella Gagliardo, presidente del Cisda-Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, una onlus registrata nel 2004 per consentire alla rete di solidarietà attiva dal 1999 di gestire i progetti di supporto alle organizzazioni afghane di donne con cui la rete aveva consolidato un rapporto di scambio continuativo. Il Cisda ha lanciato la campagna “We support girls back to school!”, per esprimere solidarietà e amicizia alle studentesse e alle insegnanti afghane: come organizzazione continua a sostenere i progetti delle scuole segrete dove queste ragazze potranno proseguire gli studi e prepararsi a cambiare il loro paese, mentre ai giovani italiani chiede di inviare una foto o un breve video di supporto.
Il Cisda raccoglie singole attiviste ed esponenti di diverse associazioni impegnate anche su altre tematiche e aree, ma che avevano in comune l’esperienza di un rapporto diretto con donne afghane appartenenti a Rawa (Revolutionary Association Of Women of Afghanistan). Le donne che hanno dato vita al Cisda sentivano l’esigenza di coordinarsi per mantenere attivo lo scambio con quella sorprendente associazione femminista, Rawa, che riusciva ad agire efficacemente persino in condizioni estreme come quelle imposte dal misogino e fondamentalista regime talebano.
Gabriella, quali sono le principali attività che proponete?
Negli anni il Cisda si è impegnato molto nella controinformazione, ad esempio attraverso le nostre delegazioni che almeno una o due volte all’anno si recavano in Afghanistan per raccogliere documentazione sul campo, visitando i progetti e partecipando a incontri con le persone coinvolte. Con la stessa frequenza accoglievamo in Italia le delegate afghane, per portare direttamente la loro voce in incontri politici, culturali e di sensibilizzazione umanitaria presso le città e gli ambienti dove le rispettive associazioni di riferimento erano presenti: quartieri, biblioteche, scuole, movimenti, istituzioni locali e talvolta nazionali, sindacati e partiti. Il sito www.osservatorioafghanistan.org ha svolto e svolge ancora in parte questa funzione, pubblicando articoli tradotti da diverse testate, soprattutto raccogliendo fonti che non trovano spazio nei media più diffusi. Un secondo sito, www.cisda.it, ci ha permesso di aggiornare regolarmente sulle organizzazioni afghane che abbiamo incontrato e che abbiamo scelto di finanziare attraverso il sostegno ai loro progetti umanitari: scuole e corsi clandestini, interventi sanitari di base, orfanotrofi, una casa-rifugio per donne sfuggite a gravi violenze e centri di assistenza legale, piccole attività generatrici di reddito come la produzione dello zafferano, le capre, la sartoria, eccetera.
Il nostro lavoro di raccolta fondi per i progetti è sempre stato strettamente associato a un accompagnamento dei percorsi di consapevolezza e riscatto relativi ai meccanismi di oppressione, a livello psico-sociale e culturale ma anche storico e politico, e all’interrogarci rispetto alle dinamiche internazionali, una ricerca che abbiamo avuto il privilegio di condividere alla pari con le nostre partner afghane. Ci siamo riconosciute reciprocamente sempre più profondamente connesse all’interno di uno stesso sistema globale di oppressione, pur collocandoci in luoghi apparentemente lontani e ben diversi. E abbiamo potuto toccare con mano come la lotta per i diritti universali, spesso a loro negati totalmente, fosse drammaticamente necessaria anche a noi per rendere effettivi quegli stessi diritti che anche nel nostro territorio vediamo così spesso e gravemente preclusi a molte donne, come anche ad altre categorie di persone, ad esempio i migranti. Ci siamo accorte che senza una lotta costante e radicale, tutte le conquiste delle generazioni precedenti sono a rischio di venire spazzate via anche qui da noi, proprio come è accaduto sotto i nostri occhi lo scorso agosto in Afghanistan con i fragili passi avanti realizzati negli ultimi 20 anni rispetto ai diritti delle donne.

Qual è oggi la situazione rispetto al diritto allo studio delle donne afghane?
Negli ultimi 20 anni l’Occidente ha propagandato l’accesso all’istruzione per le ragazze afghane come un proprio successo, un risultato dell’occupazione militare Nato che avrebbe dovuto liberare le donne afghane dal regime oscurantista dei talebani. Purtroppo le cose non stavano così: l’analfabetismo femminile, prima del ritorno dei talebani al potere, era ancora dell’87%, un dato sconcertante specie considerando che l’occupazione Nato è costata complessivamente ben mille miliardi di dollari. La possibilità di studiare ha riguardato solo una esigua minoranza. E questo benché, come abbiamo potuto constatare ininterrottamente in 20 anni, il desiderio di studiare fosse radicatissimo tra le donne, persino nelle condizioni di estrema miseria nei campi di sfollati interni, tanto che l’alfabetizzazione è rimasta sempre la priorità nell’azione di Rawa e delle associazioni afghane con cui abbiamo avuto rapporti.
Adesso però, con il ritorno al potere dei talebani, anche quei minimi spazi di emancipazione attraverso lo studio che si erano aperti almeno nelle principali città, si sono richiusi brutalmente per le donne. Oltre la classe sesta le bambine non sono ammesse a scuola. Il 23 marzo scorso avrebbero dovuto riprendere le lezioni, ma dopo un paio d’ore è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato, probabilmente allo scopo di mostrare una facciata più presentabile alla comunità internazionale per ottenere fondi e riconoscimento diplomatico, è stata precipitosamente smentita.