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Autore: Anna Santarello

La scuola segreta per ragazze a Kabul. Così in Afghanistan si sfidano i talebani

Il CISDA che continua a sostenere i progetti delle scuole segrete dove queste ragazze potranno proseguire gli studi e prepararsi a cambiare il loro paese, invita gli insegnati e gli studenti  a partecipare alla campagna WE SUPPORT GIRLS BACK TO SCHOOL! per  esprimere solidarietà, amicizia e affetto alle studentesse e alle insegnanti afghane.

Tempi, 20 maggio 2022, di Agnese Costa afghanistan donne scuola ansa

Dopo il divieto assoluto di frequenza imposto alle donne dal nuovo regime, c’è chi organizza corsi clandestini. Il paese intanto è sempre più allo sbando.

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Il silenzio e la paura dei giornalisti. Vietate le critiche ai Talebani.

I talebani continuano nella loro politica di repressione e controllo della società civile afghana

Il Manifesto – 20 maggio 2022 – di Giuliano Battiston 

giornalistiAFGHANISTAN. Il poeta e reporter Khaled Qaderi condannato a un anno di carcere da un tribunale militare per un post che contestava l’Emirato.

«Qaderi non era un giornalista. È in carcere per questioni personali, come utente dei social. È stato accusato da altri, non dai Talebani». Il mawlawi Naeem-ul-haq Haqqani nega che il poeta e giornalista di Radio Nowruz Khaled Qaderi, arrestato dall’intelligence dei Talebani il 17 marzo e condannato il 7 maggio da un tribunale militare a un anno di reclusione, sia in prigione per aver criticato l’Emirato.

VESTITO GRIGIO, mani incrociate sul ventre, il mawlawi è a capo del dipartimento per l’Informazione e la cultura della provincia occidentale di Herat. Parla lentamente, enfatizzando le bellezze della città: «Herat è una città storica, d’arte e di poeti, importante non solo per l’Afghanistan, ma per tutto il Medio Oriente. Stiamo lavorando duramente per coinvolgere i cittadini, specie i giovani e gli esperti, nelle nostre attività». Sostiene di avere risorse e capacità per gestire l’immenso patrimonio storico-architettonico dell’area. Invita gli italiani a visitare la città «in tutta sicurezza». L’occupazione è acqua passata: «Le truppe italiane sono state qui, sotto il mandato Nato, sostenendo il governo illegittimo di Kabul. Ora il governo afghano rappresenta veramente il popolo. Con l’Italia siamo pronti a nuove relazioni, negli ambiti della cultura, dell’aiuto umanitario, nella ricostruzione, non nell’ambito militare. Sarei contento di vedere turisti e investitori italiani».

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Per approvare l’allargamento della NATO la Turchia vuole poter “spaccare la testa” ai curdi

L’Indipendente – 18 maggio 2022 – di Salvatore Toscano Erdogan

Nella contrarietà ribadita da Recep Tayyip Erdogan all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO non c’è alcun principio politico legato al mantenimento della pace, ma solo la richiesta di avere le mani libere nel condurre l’altra guerra che sta a cuore al presidente turco: quella contro i curdi in Siria e Iraq.

Lo ha fatto intendere senza misteri: «Non abbiamo chiuso le porte all’adesione all’Alleanza, ma stiamo sollevando il problema della sicurezza in Turchia», riferendosi al popolo curdo e in particolare alle organizzazioni, ritenute terroristiche da Ankara, che lottano per l’autonomia del Kurdistan: il PKK (Partito dei lavoratori curdi) e i suoi bracci armati YPG e YPJ, secondo Erdogan «sostenuti apertamente dai due paesi scandinavi» e presenti in Turchia, Iraq e Siria. D’altronde Erdogan in una dichiarazione rilasciata lo scorso 20 aprile era stato chiaro sulle intenzioni che lo guidano: «Prima o poi spaccheremo la testa al PKK». Un disegno che in verità la Turchia sta portando avanti da tempo, bombardando senza sosta i territori curdi in Siria e Iraq e, secondo alcune denunce, utilizzando anche armi chimiche vietate. La contrarietà all’allargamento della NATO appare quindi una mossa di puro opportunismo, pronta ad essere ritirata quando da parte dei partner atlantici avrà ottenuto l’implicito via libera a decapitare quelle stesse organizzazioni curde che, per conto degli occidentali stessi, hanno guidato la resistenza contro l’Isis in Siria.

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Commissione per i diritti umani e altri quattro organi di governo

TAG43 – 17 maggio 2022 – di Camilla Curcio

afghanistan i talebaniVisto il debito pubblico e la crisi economica, gli studenti di Dio hanno deciso di tagliare alcuni organismi chiave del precedente esecutivo tra cui la commissione per i diritti umani e l’alto consiglio per la riconciliazione nazionale.

Sono cinque i dipartimenti del governo afghano che i talebani hanno deciso di sciogliere perché eccessivamente dispendiosi a fronte di una crisi economica che sta mettendo in ginocchio il Paese. A finire sotto la tagliola, anche la Commissione per i diritti umani, tacciata di essere superflua e sostituibile.

Perché i dipartimenti sono stati sciolti

Come spiegato nel corso della presentazione del primo bilancio annuale (compilato a partire da agosto 2021, data in cui hanno ufficialmente preso il potere), l’Afghanistan si è trovato a fare i conti con un disavanzo preoccupante, pari a circa 44 miliardi di afghani (più o meno 500 milioni di dollari). Situazione che ha spinto i talebani a operare una serie di tagli, eliminando gli organismi che a loro dire non apportavano contributi indispensabili agli equilibri di potere. «Dalle valutazioni è emerso che il ruolo di questi dipartimenti risulta, a oggi, accessorio e marginale», ha dichiarato al Guardian Innamullah Samangani, portavoce del governo, «proprio per questo, abbiamo scelto di non inserirli nel report di bilancio e di disfarli». 

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Afghanistan, le ong: “I corridoi umanitari per l’Italia non sono mai partiti”

DIRE Agenzia di stampa – 18 maggio 2022 

Dire 17 maggioLa responsabile del settore migrazioni di Arci, Valentina Itri: “Pur di far partire le persone abbiamo acconsentito a farci carico dei voli”

ROMA – “Purtroppo ad oggi nessun afghano dei 1.200 che il governo italiano aveva promesso di portare in sicurezza nel nostro Paese con i corridoi umanitari è stato messo in salvo in Italia. La firma del protocollo con le associazioni, tra le quali la nostra, risale al 4 novembre scorso”.

Valentina Itri è responsabile del settore migrazioni di Arci, una delle organizzazioni (tra cui Cei, Sant’Egidio, Federazione chiese evangeliche ‘Fcei’, Tavola Valdese, Inmp, Iom e Unhcr) con cui sei mesi fa la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, in una cerimonia al Viminale, alla presenza di rappresentanti del ministero degli Affari esteri, ha siglato l’accordo per far arrivare nel nostro Paese gli afghani rifugiati in Pakistan e Iran, fuggiti perché esposti al rischio di subire violenze e ritorsioni da parte del governo dei talebani salito al potere nell’agosto precedente, dopo che i contingenti Nato avevano lasciato il paese.

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Afghanistan, Radwa e le altre perseguitate: “Noi bloccate da un cavillo e l’Italia ci ha dimenticato”

L’Afghanistan ormai dimenticato ha lasciato ancora molte persone in un limbo e si chiede al nostro governo di adoperarsi perché almeno per queste donne ci sia una sollecita risposta.

La Repubblica, 16 maggio 2022, di Alessandra Ziniti

Afghanistan, Radwa e le altre perseguitate: "Noi bloccate da un cavillo e l'Italia ci ha dimenticato"

Centinaia di donne selezionate per i corridoi umanitarie sono sepolte vive in rifugi in Iran e Pakistan. Nelle nostre sedi diplomatiche mancano le macchinette per le impronte digitali. E così i voli che dovrebbero portare in Italia 1.200 persone a rischio di morte nel loro Paese non sono mai partiti. Ecco le loro testimonianze.

Roma – Il disperato grido di Radwa arriva dall’ultimo dei rifugi segreti che ha cambiato da quando è fuggita da Kabul con le sue due bambine. “Non ho casa nè sicurezza né soldi, le mie figlie si sono ammalate e non posso portarle dal medico. Abbiamo dormito per due settimane nei parchi, poi di casa in casa. La polizia iraniana cerca afghani con il visto scaduto per deportarli. Se mi prendono e mi rimandano in Afghanistan ci uccideranno. Il corridoio umanitario è la mia unica speranza, sono otto mesi che aspetto il volo. Chiedo al governo italiano di salvarci la vita”.

Radwa, attivista di un movimento femminile, Zawira, ragazza omosessuale, Ghaada, calciatrice, Faiza, magistrata, Safyha e Maha, giornaliste, sono alcune delle centinaia di donne i cui nomi sono da otto mesi sulla lista di persone in pericolo di vita da evacuare con il corridoio umanitario che dovrebbe portare in salvo in Italia 1.200 persone. Aspettano sepolte vive in alcune safe house tra Iran e Pakistan, con visti in scadenza o ormai scaduti, e temono di essere state dimenticate. Non sanno che la loro vita è appesa a un macchinetta, quella per il rilevamento delle impronte digitali, che non è disponibile nelle sedi diplomatiche italiane dei due Paesi e che la burocrazia italiana non riesce a far arrivare.

Riunite in una chat, lanciano attraverso Repubblica il loro appello. Zawira: “Sono una lesbica, ho tenuto nascosto questo segreto per anni perché avevo paura. Potrei anche essere lapidata se non sarò portata in salvo”. Ghaada, la calciatrice: “Il mio visto è scaduto, vivo in una casa di quattro mura senza tetto, i soldi stanno finendo. Sono rattristata che il mondo abbia dimenticato le donne dell’Afghanistan e pensi solo all’Ucraina”. Faiza, la magistrata: “Come pubblico ministero donna, ho processato centinaia di terroristi talebani e sono dovuta fuggire da Kabul. Spero che il governo italiano non ci lasci sole”. Safyha, la giornalista: “Il Pakistan per me è una stanza in cui vivo da nove mesi. Cosa sta bloccando i corridoi umanitari? Per qualsiasi dio, religione e principio in cui l’Italia crede, facciamo appello affinché salvino le nostre vite”.

A tenere il filo della comunicazione con queste donne disperate, gli operatori di Caritas, Arci, Sant’Egidio, Tavola Valdese che il 4 novembre, al Viminale, hanno firmato con la ministra Luciana Lamorgese il protocollo per il corridoio umanitario. “Sono passati sei mesi ed è rimasta un’intenzione. Per di più – dice Valentina Itri dell’Arci – 15 giorni fa ci hanno richiamato al Viminale per la firma di un addendum che prevede che anche i costi dei voli per queste 1.200 persone (che avrebbero dovuto essere a carico del governo) dovremo sostenerli noi perché, dicono, al momento non c’è disponibilità. E abbiamo detto sì, ma non basta: senza queste macchinette per le impronte digitali, le persone, che pure sono tutte selezionate e già portate via dall’Afghanistan, non possono partire”. Le macchinette-fantasma, ma non solo: “Le nostre rappresentanze diplomatiche in Iran e Pakistan e le autorità locali non erano neanche informate della firma del protocollo – denuncia Oliviero Forti di Caritas – Ci siamo persino offerti di comprare noi queste apparecchiature. Basterebbe far partire le persone in deroga e prendere loro le impronte all’arrivo”.

Dalla Farnesina, il funzionario addetto, Stefano Bianchi, conferma: “La deroga è stata consentita ad agosto in piena crisi, ora si devono seguire le procedure di sicurezza. Garantiamo lo sforzo delle nostre sedi e ci stiamo facendo parte attiva con il Viminale per le macchinette per le impronte”. Fonti di governo assicurano che le procedure sono partite. Radwa e le altre aspettano sepolte vive.

Appello per una mobilitazione nazionale il 4 giugno 2022 a Roma contro la guerra e l’invasione turca del Kurdistan

Rete Kurdistan Italia, 15 maggio 2022

curdiIl 17 aprile lo Stato turco ha lanciato una nuova campagna militare volta ad occupare le aree di Şikefta Birîndara, Kurêjaro (Kurazhar) e Çiyayê Reş nella regione dello Zap nel Kurdistan meridionale. In questa campagna transfrontaliera illegale le forze armate turche hanno utilizzato artiglieria pesante, aerei da guerra, droni ed elicotteri e il trasporto aereo di forze di terra in elicottero nella regione come parte di un’offensiva di terra parallela. Anche nel Rojava e nella Siria settentrionale e orientale si sono intensificati gli attacchi aerei turchi contro i curdi.

Parallelamente all’invasione turca nel Kurdistan del Sud (Nord Iraq) e gli attacchi continui della Turchia al Rojava, l’esercito iracheno ha aumentato massicciamente la sua presenza militare nell’area di insediamento degli yazidi e sta attaccando gli yazidi sopravvissuti nel 2014 al genocidio dello Stato Islamico per smantellare la loro amministrazione autonoma e le proprie strutture di autodifesa. Un sistema organizzativo per dare alla gente la possibilità di non dover lasciare la propria patria e di essere in grado di difendersi. Lo stesso esercito iracheno che ha abbandonato gli yazidi al massacro, oggi tenta di imporre un nuovo ordine sugli yazidi senza una soluzione discussa con l’amministrazione localedi Sinjar. Tutto ciò avviene con la complicità del partito di Barzani il KDP ed il governo centrale iracheno di Mustafa al-Kadhimi

Il portavoce del Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) Ömer Çelik ha citato l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che definisce il “diritto all’autodifesa” il che significherebbe che l’integrità nazionale e territoriale della Turchia è minacciata. Viene oscurato all’opinione pubblica mondiale che non ci siano notizie riguardanti attacchi reali o provocazioni militari contro la Turchia.

Attraverso la guerra invece la Turchia sta cercando di imporre il suo predominio politico e militare fino a Mosul e Kirkuk, e punta a raggiungere i confini del Patto Nazionale (“Misak-ı Milli” ratificato nell’ultimo parlamento ottomano), il sogno di un secolo.

Il presidente fascista turco Erdogan ha dato l’ordine per questo attacco poiché presume che l’attenzione della comunità internazionale sia completamente concentrata sulla guerra in Ucraina. Vuole quindi trarre vantaggio dalla situazione attuale e portare a termine l’ennesimo attacco contro il popolo curdo. Questa guerra di occupazione mostra ancora una volta che Erdogan sta cercando di manipolare la comunità internazionale affermando che sta lavorando per raggiungere la pace e la stabilità in Ucraina.

Le operazioni in corso non sono solo una guerra al PKK, ma anche un chiaro attacco ai civili nelle regioni del Kurdistan in Turchia, Iraq e Siria. L’obiettivo principale e la convinzione ideologica di Erdogan è destabilizzare la regione, occupare il Kurdistan e compiere un genocidio contro il popolo curdo. Pertanto è importante riconoscere che il nuovo attacco al Kurdistan meridionale mira a occupare il Kurdistan meridionale nel suo insieme, comprese le regioni ricche di petrolio di Mosul e Kirkuk, costituendo così una chiara violazione di tutte le norme legali, morali e internazionali.

È ancora una volta accettato silenziosamente che la Turchia, uno stato membro della NATO, stia attaccando i curdi e violando i loro diritti umani. Mentre l’invasione russa dell’Ucraina è stata giustamente e rapidamente condannata e sanzionata, l’aggressione della Turchia contro i curdi è stata invece tollerata per decenni dai Paesi occidentali. Non si discute di sanzioni contro l’alleato della Nato, nè i curdi possono sperare in vie di fuga sicure e su di una protezione di base quando fuggono dalle città assediate o dai bombardamenti turchi.

Sostenuta da consegne regolari di armi e di nuova tecnologia da diversi paesi europei e della Nato, la Turchia sta facendo in Kurdistan ciò che la Russia fa in Ucraina: combattere continuamente un’intera popolazione e attraverso diversi confini nazionali. Queste due situazioni vengono invece definite “l’invasione russa dell’Ucraina” e la “presenza turca in Siria”. Le stesse pratiche di aggressione costituiscono una guerra in un caso e un’operazione militare in un altro. Gli ucraini sono considerati vittime della guerra, ma nei casi di attacchi ai curdi si parla solo di terroristi e di postazioni del PKK e non delle popolazioni civili.

Con le recenti celebrazioni del Newroz del 21 marzo oltre 10 milioni di curdi nel Kurdistan settentrionale e in Turchia hanno inviato un chiaro messaggio a Erdogan che non si sarebbero piegati alla sua brutalità o alla sua politica di annientamento. Milioni di curdi hanno riproposto alla Turchia un percorso verso la pace e riaffermato che la libertà del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan è un elemento centrale per la soluzione della questione curda, per la pace e la democrazia per tutti i popoli del Medio Oriente. Nonostante tutto questo dopo le celebrazioni del Newroz, le torture e gli omicidi di prigionieri politici curdi sono aumentati, così come gli attacchi alle sedi del Partito democratico dei Popoli (HDP) e gli arresti di attivisti politici, sindacali e di esponenti della società civile.

La rottura dell’isolamento e la libertà del leader del popolo curdo Abdullah Ocalan, l’ispiratore del modello del Confederalismo democratico, sono una condizione più che mai necessaria per la pace e la soluzione del conflitto. Nonostante egli sia deprivato dei suoi più basilari diritti e libertà fondamentali, ha ribadito più volte di essere in grado di trovare una soluzione politica alla questione curda e al conflitto per un futuro di pace per tutti i popoli del Medio Oriente.

Dobbiamo rompere il silenzio sull’invasione turca del Kurdistan meridionale e agire!

  • Chiediamo a tutti i governi e alle organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, la NATO, l’UE, il Consiglio d’Europa e la Lega araba, di intraprendere un’azione urgente contro questa violazione del diritto internazionale, di condannare inequivocabilmente questo crimine di aggressione e di chiedere che la Turchia ritiri le sue truppe dal Kurdistan meridionale
  • Chiediamo ai partiti politici, alle organizzazioni per i diritti umani, alle organizzazioni per la pace, ai sindacalisti e agli attivisti di opporsi a questa aggressione della Turchia.

Manifestazione nazionale a Roma con concentramento in Piazza la Repubblica alle ore 16:00

Per adesioni:

info.uikionlus@gmail.com

info@retekurdistan.it

Ufficio d’informazione del Kurdistan

Comitato ‘’il tempo è arrivato; Libertà per Ocalan’’

Rete Kurdistan Italia

Comunità curda in Italia

Afghanistan. I funzionari provinciali talebani discutono su come applicare il decreto sull’hijab

Alberto Galvi, notiziegeopolitiche.net, 14 maggio 2022

donna velo schienaIn Afghanistan, in una recente riunione di funzionari provinciali del ministero talebano per la Promozione delle virtù, si è discusso su come applicare il decreto sull’hijab. In Afghanistan quasi tutte le donne adulte indossano una qualche forma di hijab; in città molte si coprono solo i capelli, mentre il burqa avvolgente, tradizionale, permette alle donne di vedere solo attraverso una piccola grata. L’alternativa sarebbe il niqab, che copre il viso ma non gli occhi.
Nel nuovo decreto i talebani impongono a tutte le donne adulte di coprirsi tutto il corpo e il viso, con un’eccezione solo per gli occhi e le mani. Il decreto è il primo per questo regime in cui viene assegnata una pena per la violazione del codice di abbigliamento delle donne se escono scoperte.

I funzionari affermano che imporre l’osservanza non comporterà alcuna violenza contro le donne, bensì sanzioni, tra cui fino a tre giorni di reclusione per un membro maschio della sua famiglia. Se la donna infatti non rispetta la legge sull’abbigliamento, verranno perseguiti i parenti e i datori di lavoro, e se il suo parente lavora per il governo dovrà essere licenziato.
I talebani affermano che far rispettare l’hijab è un loro obbligo islamico, ma va detto che le regole sull’abbigliamento di genere sono ispirate dalle tradizioni rurali afghane. Negli ultimi venti anni le donne hanno ottenuto alcuni diritti tra cui istruzione, lavoro e vita pubblica, ma hanno ancora prevalso gli atteggiamenti profondamente conservatori e patriarcali. Le regole sull’abbigliamento da indossare non hanno basi nell’Islam, ma è piuttosto un codice di abbigliamento talebano progettato per reprimere le donne. La maggior parte dei leader talebani viene educata in seminari religiosi nelle zone rurali dell’Afghanistan e del Pakistan.
Nonostante il loro ritorno al potere lo scorso agosto, nessun paese ha finora riconosciuto il regime talebano, in gran parte a causa della negazione dei diritti fondamentali delle donne e del monopolio del potere politico da parte dei religiosi.
Il nuovo decreto è l’ultimo di una serie di leggi che limitano le libertà delle donne imposte da quando la scorsa estate i talebani hanno preso il potere in Afghanistan. Dopo la presa del potere avevano promesso una versione più soft del duro governo islamista al potere dal 1996 al 2001, anche se molte restrizioni erano già state imposte. La notizia del decreto è stata accolta con diffusa condanna e indignazione da donne e attiviste afghane.
Finora i paesi occidentali hanno imposto severe sanzioni finanziarie ai talebani, apparentemente per costringere il regime a rispettare i diritti delle donne e a formare un governo inclusivo, ma finora senza buoni risultati.

Secondo Emirato, tempo di burqa

Enrico Campofreda, 7 maggio 2022

donne burqa

Torna il burqa, non volontario ma obbligatorio dice il portavoce della guida talebana Haibatullah Akhundzada e la sterzata al fondamentalismo formale e sostanziale diventa completa. Da mesi la condizione femminile subiva restrizioni: l’accompagnamento maschile obbligatorio per via, la limitazione chilometrica agli spostamenti entro un raggio di 45 miglia erano stati segnali in aperto contrasto con le rassicurazioni estive dei vertici dell’Emirato propensi a un nuovo corso rispetto al loro precedente governo. Bugie. La verifica c’è stata alla riapertura delle scuole dopo la pausa invernale. Il ministero dell’Istruzione accampava pretesti: non sono giunte le divise, le studentesse non possono entrare in classe senza uniforme. Ora forse non rientreranno neppure con la stuola blu che le copre dalla testa ai piedi, perché il machismo talebano vuole impedirne libertà di vestiario, di movimento, di apprendimento. La donna torna in casa, prigioniera della famiglia patriarcale orientata secondo pastunwali e Shari’a. Il decreto diffuso stamane d’indossare il burqa per donne e giovani le rimette in condizione subordinata come accadeva a metà anni Novanta. E perché la nuova regola abbia immediata attuazione i maschi di casa diventano i primi controllori della misura misogena. Dovranno rispondere in prima persona con fermo e arresto se mogli, figlie, madri, parenti saranno sorprese da controlli del ministero della Virtù e Prevenzione del Vizio prive del niqāb locale, che copre anche il volto. E’ l’orientamento più reazionario del gruppo dei taliban afghani a spingere per la reintroduzione di tale misura, rispetto ai turbanti mostratosi finora più tolleranti. Naturalmente può esserci un gioco delle parti, dunque anche i Mujahid e Baradar qualora le promesse passate fossero state vere, a compattarsi sull’ordine oscurantista del mullah diventato Guida Suprema. Che torna pesantemente a limitare gli sguardi e gli orizzonte femminili da Kabul alle periferie.

Le ragazze afghane, clandestine a scuola

Il 23 marzo in Afghanistan le ragazze sono tornate a scuola insieme ai loro compagni maschi, ma dopo due ore sono state rimandate a casa. È proibito organizzare anche corsi domestici, in un paese in cui l’analfabetismo femminile è all’87%. Così sono nate, coraggiosamente, delle scuole clandestine che il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane sta sostenendo. Gabriella Gagliardo: «Serve fare sentire a queste ragazze che non sono sole. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare»

Fabio Ruta, Vita, 6 maggio 2022

Il 23 marzo le studentesse afghane avrebbero dovuto riprendere le lezioni, come i coetanei maschi. Ma dopo un paio d’ore dalla ripresa delle lezioni, è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato è stata precipitosamente smentita. Nessuna giovane donna di età superiore ai 12 anni ha ora diritto allo studio in Afghanistan ed è espressamente proibito organizzare corsi domestici: scuole clandestine che invece continuano ad esistere, seppur con grave rischio e purtroppo accessibili a poche ragazze. «Abbiamo visto la disperazione di tante ragazze costrette ad abbandonare le lezioni che si erano illuse di riprendere, e ci è sembrato utile allora chiedere agli studenti italiani di inviare loro messaggi di solidarietà, anche solo per far sentire loro che non sono sole, che qualcuno si accorge di cosa sta succedendo in quel paese. Vorremmo incoraggiarle a continuare a lottare e a sperare, siamo preoccupate della depressione che ci dicono stia devastando una generazione. Non si possono abbandonare milioni di ragazze in questa condizione». È accorato l’appello di Gabriella Gagliardo, presidente del Cisda-Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, una onlus registrata nel 2004 per consentire alla rete di solidarietà attiva dal 1999 di gestire i progetti di supporto alle organizzazioni afghane di donne con cui la rete aveva consolidato un rapporto di scambio continuativo. Il Cisda ha lanciato la campagna “We support girls back to school!”, per esprimere solidarietà e amicizia alle studentesse e alle insegnanti afghane: come organizzazione continua a sostenere i progetti delle scuole segrete dove queste ragazze potranno proseguire gli studi e prepararsi a cambiare il loro paese, mentre ai giovani italiani chiede di inviare una foto o un breve video di supporto.

Il Cisda raccoglie singole attiviste ed esponenti di diverse associazioni impegnate anche su altre tematiche e aree, ma che avevano in comune l’esperienza di un rapporto diretto con donne afghane appartenenti a Rawa (Revolutionary Association Of Women of Afghanistan). Le donne che hanno dato vita al Cisda sentivano l’esigenza di coordinarsi per mantenere attivo lo scambio con quella sorprendente associazione femminista, Rawa, che riusciva ad agire efficacemente persino in condizioni estreme come quelle imposte dal misogino e fondamentalista regime talebano.

Gabriella, quali sono le principali attività che proponete?
Negli anni il Cisda si è impegnato molto nella controinformazione, ad esempio attraverso le nostre delegazioni che almeno una o due volte all’anno si recavano in Afghanistan per raccogliere documentazione sul campo, visitando i progetti e partecipando a incontri con le persone coinvolte. Con la stessa frequenza accoglievamo in Italia le delegate afghane, per portare direttamente la loro voce in incontri politici, culturali e di sensibilizzazione umanitaria presso le città e gli ambienti dove le rispettive associazioni di riferimento erano presenti: quartieri, biblioteche, scuole, movimenti, istituzioni locali e talvolta nazionali, sindacati e partiti. Il sito www.osservatorioafghanistan.org ha svolto e svolge ancora in parte questa funzione, pubblicando articoli tradotti da diverse testate, soprattutto raccogliendo fonti che non trovano spazio nei media più diffusi. Un secondo sito, www.cisda.it, ci ha permesso di aggiornare regolarmente sulle organizzazioni afghane che abbiamo incontrato e che abbiamo scelto di finanziare attraverso il sostegno ai loro progetti umanitari: scuole e corsi clandestini, interventi sanitari di base, orfanotrofi, una casa-rifugio per donne sfuggite a gravi violenze e centri di assistenza legale, piccole attività generatrici di reddito come la produzione dello zafferano, le capre, la sartoria, eccetera.

Il nostro lavoro di raccolta fondi per i progetti è sempre stato strettamente associato a un accompagnamento dei percorsi di consapevolezza e riscatto relativi ai meccanismi di oppressione, a livello psico-sociale e culturale ma anche storico e politico, e all’interrogarci rispetto alle dinamiche internazionali, una ricerca che abbiamo avuto il privilegio di condividere alla pari con le nostre partner afghane. Ci siamo riconosciute reciprocamente sempre più profondamente connesse all’interno di uno stesso sistema globale di oppressione, pur collocandoci in luoghi apparentemente lontani e ben diversi. E abbiamo potuto toccare con mano come la lotta per i diritti universali, spesso a loro negati totalmente, fosse drammaticamente necessaria anche a noi per rendere effettivi quegli stessi diritti che anche nel nostro territorio vediamo così spesso e gravemente preclusi a molte donne, come anche ad altre categorie di persone, ad esempio i migranti. Ci siamo accorte che senza una lotta costante e radicale, tutte le conquiste delle generazioni precedenti sono a rischio di venire spazzate via anche qui da noi, proprio come è accaduto sotto i nostri occhi lo scorso agosto in Afghanistan con i fragili passi avanti realizzati negli ultimi 20 anni rispetto ai diritti delle donne.

donna afghana burqa

Qual è oggi la situazione rispetto al diritto allo studio delle donne afghane?
Negli ultimi 20 anni l’Occidente ha propagandato l’accesso all’istruzione per le ragazze afghane come un proprio successo, un risultato dell’occupazione militare Nato che avrebbe dovuto liberare le donne afghane dal regime oscurantista dei talebani. Purtroppo le cose non stavano così: l’analfabetismo femminile, prima del ritorno dei talebani al potere, era ancora dell’87%, un dato sconcertante specie considerando che l’occupazione Nato è costata complessivamente ben mille miliardi di dollari. La possibilità di studiare ha riguardato solo una esigua minoranza. E questo benché, come abbiamo potuto constatare ininterrottamente in 20 anni, il desiderio di studiare fosse radicatissimo tra le donne, persino nelle condizioni di estrema miseria nei campi di sfollati interni, tanto che l’alfabetizzazione è rimasta sempre la priorità nell’azione di Rawa e delle associazioni afghane con cui abbiamo avuto rapporti.

Adesso però, con il ritorno al potere dei talebani, anche quei minimi spazi di emancipazione attraverso lo studio che si erano aperti almeno nelle principali città, si sono richiusi brutalmente per le donne. Oltre la classe sesta le bambine non sono ammesse a scuola. Il 23 marzo scorso avrebbero dovuto riprendere le lezioni, ma dopo un paio d’ore è arrivato l’ordine di rimandare tutte le studentesse a casa. L’apertura che i talebani avevano annunciato, probabilmente allo scopo di mostrare una facciata più presentabile alla comunità internazionale per ottenere fondi e riconoscimento diplomatico, è stata precipitosamente smentita.

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