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Autore: Anna Santarello

Le femministe afghane: «Alzeremo ancora più forte la nostra voce»

Traduzione integrale dell’ultimo comunicato di Rawa, l’associazione delle donne ribelli afghane, all’indomani del ritorno dei talebani. «Il disumano impero militare degli Stati Uniti non è soltanto il nemico del popolo afghano, ma la più grande minaccia per la pace mondiale»

 Pasionaria Redazione – 23 agosto 2021

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Dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan e il violento ritorno al potere dei talebani, nei media e nei social italiani non si fa che parlare di donne afghane con uno sguardo paternalista e colonialista.

C’è chi le descrive come vittime incapaci di difendersi, chi è convinto che con l’occupazione militare statunitense si considerassero libere, chi inveisce con islamofobia contro la religione che loro stesse professano.

Insomma, come al solito in Occidente parliamo, dall’alto di un piedistallo che ci siamo costruiti da soli, di contesti e situazioni che non conosciamo, ergendoci a giudici della cultura e della storia altrui, senza considerare che queste tragedie in quelle e altre terre colonizzate, sono le conseguenze della violenza della nostra cultura e della nostra storia.

Ciò che dovremmo fare, da alleate e alleatx, è invece ascoltare la voce delle donne afghane senza proiettare su di loro rivendicazioni e narrazioni che non gli appartengono.

Per questo abbiamo chiesto alla associazione femminista afghana RAWA (Rebel Afghanistan Women Association) di poter tradurre un loro comunicato del 20 agosto 2021, diffuso sul sito della Afghan Women’s Mission (Missione delle donne afghane) che collabora con loro dal 2000.

Rawa risponde alla presa di potere talebana

«Afghan Women’s Mission ha contattato Rawa per chiedere quali siano i loro bisogni durante questa emergenza. In questo breve botta e risposta con la co-direttrice di Afghan Women’s Mission, Sonali Kolhakyar, RAWA spiega come si stia evolvendo la situazione sulla base di ciò che possono osservare. Clicca qui per fare una donazione a Rawa.

Sonali Kolhaktar: Per anni Rawa ha criticato l’occupazione statunitense e ora che è finita, i Talebani sono tornati. Il presidente Biden avrebbe potuto ritirare le forze statunitensi in modo da lasciare l’Afghanistan in una situazione più sicura di adesso? Avremmo potuto fare di più per assicurarci che i Talebani non fossero in grado di riprendere il potere così velocemente?

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Fine della dottrina dei «bombardamenti umanitari»

Nel 2001 con la filosofa femminista americana Iris Marion Young fummo tra i pochi ad opporci alla guerra in Afghanistan. Restammo isolati anche nella sinistra radicale Usa

Daniele Archibugi, il Manifesto, 25 agosto 2021

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È appropriato confrontare la caduta di Saigon nel 1975 con quella di Kabul, perché entrambi gli eventi segnano una pietra miliare nelle relazioni internazionali.

Chi si rammenta il momento in cui l’ultimo soldato americano ha lasciato Saigon non prova certo oggi gli stessi sentimenti: dopo lunghe guerre coloniali e imperialiste, i Vietcong emergevano come un gruppo capace di prendere in mano il paese e di avviare la ricostruzione.

Nessuno oggi nutre la stessa fiducia nei confronti dei Talebani e se molti erano felici di celebrare la liberazione del Vietnam, non c’è stato nessuno che ha pronunciato le parole «liberazione dell’Afghanistan».

La precipitosa fuga dell’esercito più potente del mondo e la dissoluzione dell’armata nazionale che avevano per un ventennio formato, finanziato e armato, segnano tuttavia un nuovo cambiamento irreversibile nelle relazioni internazionali: il progetto di nation-building nei Paesi in via di sviluppo che i Bush, i Clinton, i Blair, Macron e compagnia cantante hanno propinato è definitivamente defunto per manifesta incapacità dell’Occidente di portarlo a termine.

Somalia 1992, Iraq 1991, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011: un disastro dopo l’altro. Tutti questi Paesi, spesso in preda a sanguinose guerre civili combattute con le armi messe a disposizione degli stati del Nord (occidentali), si ritrovano oggi in una condizione uguale oppure addirittura peggiore a quella esistente quando gli Stati uniti e gli alleati a rimorchio hanno deciso di bombardarli.

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«Stati uniti e Nato hanno regalato la vittoria ai talebani»

Hambastaghi Solidarity Party of Afghanistan (Partito Afghano della Solidarietà) che è sostenuto dal Cisda da parecchio tempo, non da ora afferma quello un loro rappresentante dichiara nell’intervista rilasciata a Giuliana Sgrena per Il Manifesto. 

Il Manifesto – 25 agosto 2021 – di Giuliana Sgrena  Manifesto 25 agosto 21

Hambastagi è l’unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan. Conta molte donne tra iscritti e dirigenti, compresa la portavoce del partito Selay Ghaffar, conosciuta a livello internazionale e naturalmente anche in Italia. La situazione rende difficile i collegamenti con le persone più a rischio. Abbiamo contattato un dirigente di Hambastagi, che infatti preferisce rimanere anonimo, per sapere come stanno vivendo in questa situazione. «Stiamo sopravvivendo, ma contrariamente a quanto si pensa, non siamo scioccati o sorpresi, tutto era già stato orchestrato prima. Non abbiamo perso la nostra speranza e continueremo la nostra lotta», ci dice.

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Storia delle donne afghane che hanno deciso di restare in mezzo a sciacalli e lupi

Globalist  – 24 agosto 2021, di Cristiana Cella  globalist 24 agosto 21

Nel paese l’85% delle donne è analfabeta. Le scuole sono prese di mira, uccidono ragazzine che inseguivano un sogno. La libertà può costare la vita. Ma loro hanno scelto di resistere

Un grande corpo morto, un cadavere. Svuotato di vita, sospeso, senza futuro. Questa, dice Fatima, nascosta chissà dove, è adesso Kabul. Calma, nel profondo silenzio dell’orrore. 

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«Stati uniti e Nato hanno regalato la vittoria ai talebani»

Parla un dirigente di Hambastagi, l’unico partito democratico e laico del Paese: «Un esito già scritto, non siamo sorpresi

Giuliana Sgrena, Il Manifesto, 25 agosto 2021

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Hambastagi è l’unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan. Conta molte donne tra iscritti e dirigenti, compresa la portavoce del partito Selay Ghaffar, conosciuta a livello internazionale e naturalmente anche in Italia. La situazione rende difficile i collegamenti con le persone più a rischio. Abbiamo contattato un dirigente di Hambastagi, che infatti preferisce rimanere anonimo, per sapere come stanno vivendo in questa situazione. «Stiamo sopravvivendo, ma contrariamente a quanto si pensa, non siamo scioccati o sorpresi, tutto era già stato orchestrato prima. Non abbiamo perso la nostra speranza e continueremo la nostra lotta», ci dice.

Stiamo seguendo con preoccupazione quello che sta succedendo in Afghanistan…

Sebbene, i taliban rivendichino spudoratamente la loro vittoria, facendo riferimento al credo religioso, è chiaro che la cosiddetta vittoria è stata loro regalata. L’imperialismo Usa insieme al suo partner criminale, la Nato, ha consegnato il futuro del nostro popolo martoriato nelle mani dei taliban, già loro servitori in passato. Lo scenario che prevedeva che i fondamentalisti dovessero continuare a governare in Afghanistan, dopo la partenza degli Usa, era già scritto perché vogliono mantenere il nostro popolo nell’ignoranza e avere nuove opportunità di occupare il paese in futuro.

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La scuola di musica afghana tace, il suo futuro è incerto sotto i talebani

Chiuse le porte dell’Afghanistan National Institute of Music di Kabul. I giovani studenti, insegnanti e docenti della scuola di musica restano a casa, hanno motivo di temere

Elisabetta Blair, Npr, 21 agosto 2021

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Chiuse le porte dell’Afghanistan National Institute of Music di Kabul. I giovani studenti, insegnanti e docenti della scuola di musica restano a casa, hanno motivo di temere. Secondo il fondatore e direttore Ahmad Sarmast, “persone armate sono entrate nelle proprietà della scuola” di recente. Dice che hanno cercato di rubare le auto che la scuola usa per il trasporto e hanno distrutto strumenti musicali. Sotto i talebani negli anni ’90, la musica era severamente vietata. Suonare, vendere o persino ascoltare musica a casa potrebbe metterti nei guai.

Ora il futuro di ANIM è incerto. Con il disordine causato dall’acquisizione della città da parte dei talebani, “La situazione è molto imprevedibile”, afferma Sarmast. “Oggi le cose stanno cambiando molto velocemente a Kabul”.

Sarmast, che ha parlato con la NPR dall’Australia, dove sta visitando la famiglia, è in costante contatto con la facoltà della scuola. Dice che alcuni studenti non hanno portato a casa i loro strumenti, “per il timore che se i talebani perquisissero porta a porta, se gli strumenti venissero trovati in casa, potrebbero causare loro qualche problema”. Quando ha denunciato la recente intrusione, dice che un poliziotto della zona “ha accusato i nostri addetti alla sicurezza di non aver aperto i cancelli della scuola”.

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Negin Khpalwak, prima direttrice d’orchestra dell’Afghanistan, è riuscita a lasciare il Paese. «Ma i talebani spegneranno la musica»

Nata nel 1997, era diventata la prima bacchetta afghana sfidando le minacce di morte degli zii

Viviana Mazza, Corriere della Sera, 24 agosto 2021

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«Ci aspettiamo che i talebani spengano la musica. Non hanno annunciato nulla ufficialmente, ma hanno già cancellato tutti i programmi di intrattenimento dalle tv e dalle radio. L’unica musica rimasta è la sigla dei notiziari». Ahmad Sarmast, il direttore dell’Istituto nazionale di musica dell’Afghanistan, parla al telefono da Melbourne, in Australia, dove si era recato per motivi medici all’inizio dell’estate: spiega che non si aspettava una resa così rapida di Kabul ai talebani. Quando i talebani presero il potere nel 1996 gli strumenti musicali vennero dati alle fiamme. Ma anche dopo la loro cacciata nel 2001 c’era tanta gente che continuava a considerare la musica una cosa immorale.

L’Istituto fondato da Sarmast nel 2010, con i suoi 400 insegnanti, studenti e studentesse, divenne famoso in tutto il mondo grazie all’orchestra femminile Zohra, che suonò anche di fronte a duemila leader mondiali al forum economico di Davos, in Svizzera. Con i loro sitar, rubab, pianoforte, violini, oboe le musiciste alternavano canzoni afghane come Arghavan, che prende il nome dai fiori rosa intenso dell’albero di Giuda, a brani occidentali come la Nona Sinfonia di Beethoven. Con i vestiti dai ricami colorati e i capelli coperti da un velo nero, verde e rosso, i colori della patria, quelle ragazze erano l’esempio di un dialogo possibile tra culture. Tre giorni fa Negin Khpalwak, che grazie a Zohra era diventata la prima direttrice d’orchestra dell’Afghanistan, è stata evacuata da Kabul.

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A Kabul vent’anni fa le donne resistevano già: sosteniamole

“Non sono popolazioni incivili ma con un loro percorso di autodeterminazione che avevano avviato già prima dell’occupazione, quello che noi possiamo fare è supportarle, oggi come allora”

Laura Giorgi – Corriere Romagna, 23 agosto 2021

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Era il marzo 2002, quasi vent’anni fa. L’occupazione americana in Afghanistan era cominciata da poco, dopo l’11 settembre. Una delegazione di donne di ong italiane partì alla volta di quel lembo di mondo per capire cosa succedeva, là, ad altre donne. L’aveva organizzato il Cisda, Coordinamento italiano sostegno donne afghane onlus, ne faceva parte anche l’imolese Tiziana Dal Pra, fondatrice 25 anni fa dell’associazione Trama di Terre, femminista storica. Con lei c’erano, fra le altre, la psichiatra Assunta Signorelli, Cristina Cattafesta, tra le fondatrici del Cisda stesso, Simona Lanzoni oggi vicepresidente di Pangea, attiviste e amiche di una vita.

Ricordare quel viaggio ha senso più che mai oggi che quel tragico film in qualche modo purtroppo si ripete. Come andò?

«Atterrammo a Islamabad in Pakistan e raggiungemmo Peshawar, a circa 150 chilometri dal confine con l’Afghanistan. Lì c’era un campo profughi con tantissime donne e bambini afghani nel quale erano impegnate le donne dell’associazione Rawa. Avevamo come obiettivo conoscere le attiviste afghane e vedere i luoghi dove operavano, portare appoggio capire quali erano i progetti che avremmo potuto supportare dall’Italia. Luoghi per lo più clandestini, in particolare le scuole di alfabetizzazione per le bambine camuffate da scuole di cucito. Anche se lì eravamo in Pakistan, i talebani avevano spie ovunque».

Come vi muovevate?

«Su un furgoncino con i vetri oscurati, un gruppo di donne occidentali avrebbe dato parecchio nell’occhio, e chi ci portava erano uomini armati coi kalashnikov. Ci si muoveva solo così. La prima cosa che ci dissero di mettere era un velo ampio che ci copriva la testa, anche se non ci piaceva era per la nostra sicurezza e per quella di chi era con noi. In un mercato vicino al campo profughi andammo a comprare delle stoffe, con cui nelle ore seguenti le donne del campo ci avrebbero cucito pantaloni e lunghe casacche da portare nei giorni seguenti. In quel mercato vedemmo le prime donne con il burqa, una in particolare chiedeva l’elemosina e le guardie pachistane cominciarono a picchiarla, io e Assunta intervenimmo d’istinto. Rischiammo grosso e solo le donne della ong riuscirono a sistemare la situazione. Capimmo subito che bisognava mantenere i nervi saldi e non farsi notare».

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Pontecorvo: “La Nato impegnata nelle evacuazioni, i taleban non controllano la situazione”

La Stampa – 24 agosto 2021 – Francesco Olivo

L’ambasciatore è il rappresentante civile della Nato e coordina i rimpatri: l’Isis è una minaccia concreta

talebaniA gestire il cuore di questa crisi drammatica c’è un italiano. Stefano Pontecorvo, già ambasciatore in Pakistan, è il Senior Civilian Representative della Nato, ovvero l’uomo che coordina le operazioni nell’aeroporto di Kabul. Mentre sullo sfondo si sentono spari e la calca continua a premere, Pontecorvo racconta al telefono queste ore drammatiche, con una serie di pericoli ancora da affrontare: le evacuazioni degli afghani, il ritiro delle truppe dei Paesi Nato e le ultime operazioni di salvataggio prima che, fra pochi giorni anche l’ultimo soldato occidentale avrà lasciato questo Paese disastrato.

Ambasciatore, cosa vede attorno a lei?

«Dentro all’aeroporto c’è una calma relativa, il problema è il sovraffollamento: ci sono oltre diecimila afghani che aspettano di essere evacuati, poi seimila militari americani e altri tremila di altre nazioni. Il tutto in una base che ha i servizi per 5 mila persone».

Fuori cosa succede?

«C’è una folla che si va assottigliando, ma restano 10-12 mila persone ai cancelli, senza titolo per viaggiare, che rendono difficile l’ingresso di coloro che hanno i documenti per partire. La situazione è tesa: c’è stata poco fa una sparatoria, in un punto esterno al perimetro, sentiamo spesso dei colpi di arma da fuoco, uno dei metodi che usano i taleban per controllare la folla, ma sono spari in aria. Ci sono 35 gradi e le persone sono ferme da vari giorni lì fuori senza dormire, in condizioni igieniche precarie. Stiamo chiedendo ai taleban di stare attenti a non provocare una scintilla».

Con i taleban che tipo di contatti avete?

«Sul piano operativo abbiamo dei contatti attraverso gli americani ed altri, per facilitare la gestione dell’ordine pubblico e facilitare il transito in città di convogli di afghani e cittadini di Paesi Nato».

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Le donne afghane, una speranza tradita. I ritratti fotografici di Carla Dazzi

Nel mirino della repressione ci sono in particolare le donne e le attiviste. L’Ong “Insieme si può” ha attivato una raccolta fondi per far fronte all’emergenza umanitaria

Giulia Ronchi – Artribune – 22 agosto 2021

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi 4

Diverse sono le onlus e le associazioni non profit che si sono mobilitate nell’ultima settimana a seguito della caduta dell’Afghanistan sotto le mani dei Talebani, con appelli e raccolte fondi. Si cerca di tenere i contatti con chi è rimasto là e che ora è costretto a nascondersi, attraverso messaggi scambiati su WhatsApp che ogni giorno si fanno più carichi di angoscia e paura di essere catturati. Mentre proseguono i rastrellamenti casa per casa da parte degli estremisti, tra le priorità c’è quella di mettere in sicurezza tutti coloro che hanno collaborato con organizzazioni straniere per finalità non conformi al regime. Si teme soprattutto per l’incolumità delle donne, le quali nello scorso ventennio sono state a capo di progetti di micro credito, contribuendo al benessere della comunità e alla ripresa economica del Paese. Allo stesso tempo, però, le donne afghane sono anche quelle maggiormente colpite dalle restrizioni dell’estremismo talebano e dall’applicazione della legge coranica, rischiando di vedere vent’anni di progressi, in materia di diritti civili e libertà personali, svanire nel nulla.

 

LE DONNE AFGHANE

Su questo tema è intervenuta Carla Dazzi, fotoreporter e membro del CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane e di Insieme si può – Onlus; organizzazioni che sostengono da sempre le attiviste RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan) e le altre organizzazioni locali di donne che, rimaste al fronte, non hanno smesso di impegnarsi, rischiando la propria vita per un Afghanistan in cui i diritti e la dignità di ciascuno siano rispettati e tutelati. Dal 2001 l’impegno della fotografa in Medio Oriente si è focalizzato in progetti di sostegno alle povertà dei territori locali, educazione allo sviluppo, percorsi formativi nelle scuole, eventi e campagne di sensibilizzazione. La fotografia è stata per lei uno strumento di documentazione di luoghi, persone e condizioni sociali, una cassa di risonanza che riesce ad arrivare ben più lontano delle parole. Raggiunta da Artribune, ha riportato la sua testimonianza raccontando di un paese che stava cambiando volto già anni prima della presa di Kabul. Di un popolo devastato dai conflitti, ma che non si era arreso di fronte alla prospettiva di una lenta ricostruzione; di una pace fasulla concordata a tavolino dagli Americani e di un Paese usato e tradito dall’Occidente. Le fotografie di Carla Dazzi (realizzate tra il 2002 e il 2013) sono state esposte lo scorso luglio nella mostra Afghanistan…per dove presso la Biblioteca San Giovanni di Pesaro, nell’ambito di un gemellaggio tra la città marchigiana e Kabul – che ha coinvolto l’Orfanotrofio Femminile, l’Orchestra femminile Olimpia, Fondazione Wanda Di Ferdinando e il Museo Nazionale Rossini – nel segno della musica e della cultura. Nella gallery ve ne riproponiamo alcune.

 

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi

Le donne afghane negli scatti di Carla Dazzi. Courtesy Carla Dazzi

“PROGETTO ZAFFERANO”

Abbiamo messo in piedi il ‘Progetto zafferano’, destinato a 12 donne, dando loro la possibilità di coltivare e commerciare questo prodotto: fornire una fonte di guadagno a una donna significa elevarla al pari del marito e produrre un investimento”, racconta Carla Dazzi a proposito della condizione femminile in Afghanistan. “Le donne che abbiamo aiutato, infatti, hanno reinvestito le somme guadagnate per far studiare i bambini. Loro stesse ci hanno chiesto un progetto di alfabetizzazione per diffondere l’educazione tra le loro famiglie. Avevamo anche un progetto incentrato sulle capre, l’unico animale che può sopravvivere alle condizioni climatiche e del territorio dell’Afghanistan. Un’iniziativa che all’epoca aveva fatto sorridere chi ne sentiva parlare. In realtà, dare una capra a una donna che non ha niente avvalora il suo stato, poiché diventa cibo per i figli e merce di scambio. Sono progetti che sembrano piccoli, ma hanno percorsi e sono continuativi, arricchiscono la popolazione”. In questi giorni di dolore, la stessa fotografa afferma di non riconoscere più come attuali quei volti da lei raffigurati anni addietro, in cui vigeva ancora un clima di fiducia e accoglienza. “Le immagini mostrano la grande speranza dei primi tempi; sono cosciente del fatto che quella speranza non c’è più. Ora sarà solo disperazione, ma mai rassegnazione e sottomissione. Per me è importante far passare il messaggio che le donne afghane non si arrendono. Noi tutti, con tutti i mezzi a nostra disposizione, dobbiamo far sentire alle persone che sono là che non sono sole”. Per sostenere il progetto di Insieme si può, accedere a questo link oppure inviare una donazione ai seguenti indirizzi:

Tramite bonifico, con causale “Erogazione liberale – Emergenza Afghanistan”:

  • Conto Corrente Postale: 13737325
  • Conto Corrente Bancario: UNICREDIT BANCA IT 16 K 02008 11910 000017613555
  • Conto Corrente Bancario: CORTINABANCA IT 23 A 08511 61240 00000 0023078

Oppure tramite carta di credito o Paypal direttamente online, causale “Erogazione liberale – Emergenza Afghanistan”