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Autore: CisdaETS

Sahra Mani. Il sacrificio delle donne afghane nel silenzio del mondo

altraeconomia.it 12 dicembre 2024

 

Con il film “Bread & Roses”, prodotto da Jennifer Lawrence e la Nobel per la Pace Malala Yousafzai, la regista racconta la resistenza delle attiviste dopo la presa di Kabul dei Talebani nell’agosto 2021. Tre anni e mezzo dopo la situazione è disastrosa. Le immagini, girate in prima persona dalle protagoniste, raccontano il coraggio e la sofferenza di vivere sotto il regime. “Un apartheid di genere”, denuncia Mani. Un caotico mercato di Kabul, lo strombazzare delle auto che schivano le bancarelle, una donna con un vestito colorato che cammina tra le strade della capitale dell’Afghanistan recitando una poesia. “Mia madre crede che i sogni rivelino il futuro: per vanificare un incubo bisogna raccontarlo alla pioggia. Dopo la festa di fidanzamento ho sognato la Moschea blu, la gente che pregava e faceva vita normale. All’improvviso cadde un fulmine: i panettieri portavano il pane nelle bare e cominciavano a piovere sassi. Quando mi svegliai condivisi il mio sogno con la pioggia”.

Improvvisamente i colori si spengono e arriva il buio lasciando spazio alla marcia dei Talebani, la loro riconquista di metà agosto 2021. La struggente scena che apre il film “Bread & Roses” (disponibile da fine novembre su AppleTv), racchiude l’incubo che da quel giorno vivono nel Paese migliaia di donne e del prezzo che sono disposte a pagare per far sentire la loro voce.

Quella voce che la regista di origini afghane Sahra Mani ha deciso di far conoscere al mondo, per denunciare l’orrore del regime. Non trattiene le lacrime spiegando i molteplici significati del titolo. “Il pane perché le famiglie sono costrette a vendere i loro figli per acquistarlo -spiega- la rosa perché per me rappresenta la dignità. Quella perduta da queste persone nell’assoluto silenzio del mondo”. Che quelle potentissime immagini riprese in prima persona dalle protagoniste del film che rischiano quotidianamente la loro vita vogliono rompere.

Mani, le sue sono lacrime di rabbia?
SM Crollo al pensiero che queste storie siano dimenticate e ignorate dal mondo. Conosco tante donne che sono morte, altre che sono sparite e di cui non si sa più nulla, altre che hanno venduto loro figlio per sopravvivere. Sono storie vere.

Nel 2019 usciva nelle sale “A thousands girls like me” con cui raccontava l’inefficacia del sistema giudiziario afghano nel tutelare le donne. Si sarebbe mai immaginata che le cose potessero peggiorare così tanto nel giro di quattro anni?
SM No, non avrei mai pensato che i Talebani sarebbero tornati. Credevo che un giorno, forse, si sarebbe raggiunto un accordo e avremmo dovuto rinunciare a parte dei nostri diritti. Oggi siamo in guerra. Bombardano le città, le scuole femminili, vengono uccise le donne incinta, i neonati, chi semplicemente partecipa alle celebrazioni di un matrimonio. Quello che succede è di una gravità inaudita.

Com’è nato questo film?
SM
Con la caduta di Kabul ho deciso che dovevo fare qualcosa sapendo che le donne sarebbero state coloro che avrebbero pagato il prezzo più alto. E così è stato. Hanno perso il lavoro ma allo stesso tempo per molte famiglie erano l’unica forma di sostentamento. La povertà e la necessità di scendere in piazza per rivendicare il diritto di esistere sono diventate sfide quotidiane. In quel periodo ho cominciato a lavorare con alcune Ong per sostenere le loro battaglie e ho iniziato ad entrare in contatto con un numero sempre più alto di donne che, attraverso i video, mi raccontavano la difficoltà del loro essere attiviste in un sistema di oppressione. Mano a mano, ricevendone sempre di più, ho capito che hanno cominciato a fidarsi di me come film-maker e allo stesso tempo mi chiedevano implicitamente di fare qualcosa. L’interesse di Jennifer Lawrence è stata la svolta. Anche se proporre “Bread & Roses” non è stato facile.

Perché?
SM Da ormai otto anni stavo lavorando su un altro film e avevo presentato il progetto al Festival di Venezia per una coproduzione. Raccontava l’unica scuola di musica esistente in Afghanistan a Kabul: avevo tanto materiale ed era quasi tutto pronto. Proporre “Bread & Roses” era una scelta estremamente difficile: non ero sicura di reggere emotivamente e soprattutto significava non poter tornare più nel mio Paese a pubblicazione avvenuta. Mi sono resa conto che, però, era l’unica scelta possibile. Perché poteva essere il modo più concreto per aiutare le lotte delle attiviste e farle conoscere al mondo.

La qualità delle riprese e delle immagini è altissima, nonostante siano scene di vita quotidiana spesso riprese di nascosto.
SM Riuscirci è stato molto complicato. Dopo aver costruito una squadra sul campo con dei cameramen professionisti, un uomo e una donna, e poi piano piano abbiamo insegnato alle protagoniste a filmare la loro vita. Io mi sono trasferita per un anno e mezzo al confine con l’Afghanistan e da lì ho coordinato l’équipe che era sparsa un po’ in tutto il mondo, dal Pakistan alla Svezia, dalla Francia fino agli Stati Uniti. Ma l’elemento logistico era tutto sommato il più semplice se paragonato alla fatica emotiva. Avevo a che fare tutti i giorni con storie di perdita, resilienza, speranza, sofferenza ma soprattutto esistenze in bilico. A volte le attiviste sparivano per giorni, mesi, settimane e noi perdevamo traccia di loro.

Zahra Mohammadi fin da subito organizza la resistenza, Sharifa, ex dipendente del governo, è costretta a nascondersi in casa mentre Taranom è costretta a fuggire in Pakistan. Che cosa accomuna le tre protagoniste?
SM
Tutte sono giovani e talentuose, con idee moderne. Rappresentano coloro che potevano costruire il futuro del Paese ma vengono costrette a stare nelle loro case, che da tre anni e mezzo sono diventate prigioni. All’inizio i Talebani hanno tolto l’accesso all’educazione, poi il lavoro, poi l’impossibilità di uscire senza accompagnatore. Ma anche pregare, piuttosto che cantare da dietro una porta per richiamare l’attenzione di chi è fuori. Il regime vuole fare il deserto per poter radicalizzare il più alto numero possibile di giovani e una madre acculturata è l’ostacolo più grande che si possa avere. E non è un caso che oltre a colpire gli ospedali in cui le donne partoriscono limitano anche l’accesso alle facoltà di ostetricia e infermieristica che è cruciale per il tema della maternità. Da tre anni e mezzo abbiamo avuto solidarietà dal mondo ma ora serve di più. A partire dal codificare il “gender apartheid” come crimine contro l’umanità: quello sta succedendo in Afghanistan.

Invece i Talebani sono stati invitati a Doha a sedersi al tavolo con i membri delle Nazioni Unite. Che cosa ne pensa?
SM
Non concepisco neanche come sia possibile che un terrorista possa prendere un volo e sedersi al tavolo delle trattative. Chi sta decidendo di lasciare a un gruppo terroristico un pezzo del mondo? Qual è la motivazione politica che sta dietro a tutti questi giochi sporchi? E le donne, le donne dell’Afghanistan stanno pagando un prezzo altissimo. Al giorno d’oggi, sono presenti in casa ma senza alcuna attività sociale, politica ed economica, senza alcun diritto umano di base. Sono passati tre anni e mezzo e penso che sia sufficiente.

Grazie alla storia di Taranom, per sei mesi confinata in Pakistan in un centro per rifugiati che somiglia di più a una prigione, si conosce anche il tragico limbo di chi è in attesa di un visto.
SM
Tante delle persone che hanno collaborato con me sono ferme in Iran e in Pakistan. Aspettano una chiamata che non arriva mai. Molti Paesi hanno fermato le evacuazioni nonostante in tantissimi continuino a rischiare la vita, soprattutto chi vive ancora in Afghanistan ed è particolarmente esposto, come attivisti, artisti e registi che sono considerati dei criminali dal regime. Il mondo è giustamente impegnato su tante altre orribili “questioni” ma questo non rende la situazione in Afghanistan meno grave. Eppure dovrebbe interessare a tutti.

Perché?
SM
Lasciare il Paese in mano ai terroristi significa decidere sul futuro di tutti. Oggi il mio Paese paga il prezzo più alto, non possiamo escludere che domani sia il mondo intero a farlo per non aver fatto nulla.

Le reazioni alla morte di Khalil Haqqani: una vittima nel “gioco dei troni” tra l’Emiro e il Califfo

Mentre i Talebani impongono ai media la definizione di “martire” ad Haqqani ucciso in un attentato suicida, molti gioiscono per la fine di questo ufficiale talebano terrorista che ha provocato migliaia di morti innocenti

Amin Kawa, 8AM Media, 14 dicembre 2024

Khalil Ur-Rahman Haqqani, ministro talebano per i rifugiati e il rimpatrio e membro di spicco della Rete Haqqani, è stato ucciso in un attacco suicida nell’edificio del ministero a Kabul. Era l’unico ministro talebano armato e partecipava a tutte le riunioni ufficiali e non ufficiali con una pistola alla mano. Alcuni alti funzionari del precedente governo hanno definito la sua morte come “martirio”, ma un gran numero di cittadini ha criticato questa definizione accogliendo con favore la morte di Haqqani, accusato di aver guidato i battaglioni suicidi della Rete per oltre 20 anni, e affermando che ha portato un po’ di conforto alle famiglie delle vittime. Tuttavia il Ministero dell’Informazione e della Cultura talebano ha chiesto ai media nazionali di usare il termine “martirio” invece di “morte” nei loro resoconti, spingendo media a modificare le notizie pubblicate.

Alcuni cittadini hanno collegato l’uccisione di Haqqani alle divisioni interne ai Talebani, ritenendola parte della lotta per il potere tra Hibatullah Akhundzada e Sirajuddin Haqqani.

Negli ultimi due decenni la Rete Haqqani è stata responsabile di numerosi attacchi suicidi a Kabul e in altre province che hanno causato centinaia di vittime, tra cui donne e bambini. Da quando ha conquistato l’Afghanistan, la rete ha spesso glorificato i suoi battaglioni suicidi e ha fornito terreni e risorse governative alle loro famiglie. Mercoledì 11 dicembre 2024 lo zio di Sirajuddin Haqqani, membro anziano noto come il “Califfo degli attentatori suicidi”, è stato ucciso in un attacco suicida nella sede del ministero, mentre stava partecipando a una sessione formale, armato come sempre nelle riunioni ufficiali per la sua diffidenza verso le guardie del corpo.

Alcune ore dopo l’attacco, i Talebani hanno diffuso sui social media un’immagine del kamikaze, affermando che durante la sessione l’attentatore aveva fatto esplodere la sua carica esplosiva.

in un attacco “brutale” dell’ISIS…

Reazioni alla morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

L’uccisione di questo alto funzionario talebano ha scatenato le reazioni di diversi attivisti politici e di alti funzionari dei precedenti governi afghani. Alcuni hanno accolto con favore la sua morte, attribuendo alla Rete Haqqani la responsabilità dei numerosi attacchi suicidi che hanno causato migliaia di vittime in Afghanistan, ritenendo la morte di Haqqani una giusta punizione.

L’ex presidente afghano Hamid Karzai, invece, ne ha condannato l’uccisione definendolo un “martire” membro di un’importante famiglia jihadista afghana e sottolineando il suo ruolo nella lotta contro l’ex Unione Sovietica.

Allo stesso modo, anche esponenti politici come l’ex presidente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale Abdullah Abdullah, il leader jihadista Hamed Gilani, l’ex ministro delle Finanze Omar Zakhilwal, l’ex membro del Parlamento Jafar Mahdavi e molti altri hanno descritto la morte di Haqqani come “martirio” e condannato l’incidente.

D’altra parte, Zahir Aghbar, ambasciatore dell’Afghanistan in Tagikistan, ha cancellato un messaggio che aveva pubblicato per condannare l’uccisione di Khalil Ur-Rahman Haqqani. Nel suo messaggio originale, Aghbar aveva definito l’attacco un “atto terroristico”. Dopo aver cancellato il post, ha scritto: “I Talebani stanno raccogliendo ciò che hanno seminato”.

Nel frattempo, Ishaq Dar, ministro degli Esteri del Pakistan, ha espresso il suo shock per l’uccisione del ministro per i Rifugiati e il rimpatrio dei Talebani. Ha dichiarato che il Pakistan condanna inequivocabilmente il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

Contemporaneamente, alcuni utenti dei social media hanno attribuito la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani a divergenze interne ai Talebani, suggerendo che la Rete Haqqani non fosse d’accordo con le direttive emanate da Hibatullah Akhundzada, la Guida suprema dei Talebani, prevedendo che altre figure talebane potrebbero essere uccise in dispute interne, viste le lotte di potere in atto all’interno dei Talebani, in particolare per il controllo della Rete Haqqani, che dispone di ingenti risorse finanziarie e di stretti legami con gruppi terroristici internazionali.

Ali Sajad Mawlaee, un giornalista, ha scritto: “Il gioco dei troni: Emiro 1, Califfo 0”.

Mohammad Haleem Fidai, ex governatore della provincia di Logar, ha scritto su X (ex Twitter): “Sembra che questa azione sia stata istruita direttamente dal Mullah Hibatullah o, almeno, che sia stata eseguita con la sua consultazione e il suo accordo”. Con questo atto, Hibatullah cerca di inviare un chiaro messaggio: non solo ha il potere di neutralizzare, ma anche di eliminare fisicamente la Rete Haqqani a livello politico”.

Accoglienza ed espressione di soddisfazione per la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

Alcuni sui social media hanno ricordato le vittime degli attacchi suicidi compiuti dalla Rete Haqqani e hanno espresso soddisfazione per la sua morte. Condividendo le immagini delle vittime degli attacchi suicidi di cui la Rete Haqqani ha rivendicato la responsabilità, hanno dichiarato di provare sollievo per la morte di questo ufficiale talebano.

Shahid Farhosh, ex giornalista, ha condiviso un biglietto di Zubair Hatami, cameraman televisivo rimasto vittima di un attacco suicida, e ha scritto di lui: “Dopo nove anni, oggi sono molto felice. Sapete perché? Perché proprio in questo giorno, il giorno in cui hanno versato il nostro sangue e ti hanno portato via da noi, ho ricevuto la notizia della morte di uno dei tuoi assassini più sanguinari”… Kalimullah Hamsukhan, un attivista politico, ha scritto: “Inshallah, il dolore raggiungerà le vostre case, una per una e voi ne siete stati la causa. Migliaia di cittadini innocenti della nostra patria sono stati vittime della vostra brama di paradiso, di vergini e di giovani ragazzi. Capite come ci si sente ora? L’attentatore era un kamikaze e lo chiamate martire eroico?”.

Hasamuddin Anwari, un altro utente di Facebook, ha scritto: “Zio Khalil è andato in paradiso; che tali partenze portino benedizioni. Ha tolto la vita a migliaia di persone e ne ha rese milioni di altre senzatetto. Ha rovinato la vita di quattro donne (la sua quarta moglie era una ragazza di 21 anni). Ha insegnato la vergognosa cultura degli attentati suicidi ai poveri e ignoranti bambini dell’Est. Ora è caduto nella trappola di questa maledetta cultura e se n’è andato per sempre”.

Ma chi era Khalil Ur-Rahman Haqqani?

Nato nel 1966 nella provincia di Paktia, nell’Afghanistan orientale, Khalil Ur-Rahman Haqqani è stato un importante membro della Rete Haqqani. Era lo zio di Sirajuddin Haqqani, ministro degli Interni dei Talebani nonché membro di spicco della Rete Haqqani. Dopo la caduta del primo regime talebano, Haqqani fu arrestato in un’operazione congiunta condotta da Stati Uniti e Pakistan. Fu rilasciato dopo quattro anni in cambio della liberazione di 350 soldati pakistani nella regione del Waziristan meridionale, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Dopo la conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, è stato nominato ministro per i rifugiati e il rimpatrio dei Talebani, carica che ha ricoperto fino alla sua morte.

Gli Stati Uniti avevano fissato una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque lo avesse catturato durante la loro presenza in Afghanistan, inserendo la Rete Haqqani nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere. Secondo quanto riportato dal sito federale “Ricompense per la giustizia”, Khalil Ur-Rahman Haqqani forniva “supporto logistico ai membri dei Talebani nella provincia di Logar, in Afghanistan, dal 2010”. Nel febbraio 2011, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti lo ha designato come “terrorista globale specialmente designato” e gli ha imposto sanzioni, dichiarando “reato” qualsiasi rapporto finanziario con lui.

In precedenza, Mohammad Dawood Muzammil, governatore talebano di Balkh e comandante del gruppo, è stato ucciso in un attacco suicida a Balkh, per il quale l’ISIS ha rivendicato la responsabilità. Al momento della stesura di questo rapporto, nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’attacco a Khalil Ur-Rahman Haqqani.

Numerosi e partecipati gli incontri della militante di RAWA in Italia

Si è concluso pochi giorni fa il lungo giro in Italia (con una puntata in Svizzera) di conferenze di Shakiba, militante di RAWA

CISDA, 2 dicembre 2024

Una visita che aspettavamo con impazienza quella di Shakiba, anche se per queste compagne ottenere un visto Shengen è sempre più complicato: l’ambasciata italiana più vicina è a Islamabad, in Pakistan; il visto pakistano ha un costo elevato e il viaggio per raggiungere il Pakistan, per una donna, è molto rischioso.

Ma per il CISDA, che lavora a fianco di queste compagne dal 1999, potere incontrare (e anche abbracciare) una testimone diretta della situazione e della resistenza in Afghanistan, dove i talebani stanno cancellando ogni diritto umano per le donne, è imprescindibile. E per queste compagne coraggiose e determinate avere la possibilità di “toccare con mano” la solidarietà che viene loro testimoniata nei numerosi incontri organizzati in varie città è fonte di vita e di speranza.

Due passi avanti e 30 indietro

“Ogni volta che facciamo due passi avanti nella conquista dei nostri diritti veniamo sbattute indietro di 30 passi” ci dice Shakiba al nostro primo incontro. “In Afghanistan resistere comporta il rischio di essere arrestate, torturate e anche uccise; ma non vogliamo abbandonare la nostra gente al suo destino, è nostro dovere restare per continuare a dare una speranza.”

La situazione è sempre più tragica e insostenibile per la popolazione afghana, in particolare per le donne:

  • le donne non possono lavorare, uscire di casa da sole, studiare oltre la sesta classe, mostrare il loro volto in pubblico o far sentire la loro voce; subiscono una delle forme più estreme di apartheid di genere. Molte delle donne che sono scese in piazza per protestare sono state arrestate, incarcerate, torturate e minacciate;
  • il disastro economico è intollerabile: non c’è lavoro e oltre il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. È normale che, date le condizioni di povertà, i maschi siano incentivati ad arruolarsi in qualche milizia per avere uno stipendio e riuscire così a sfamare la famiglia;
  • per avere un futuro moltissimi giovani cercano di scappare dal paese e percorrono le pericolosissime vie migratorie: Iran, Turchia e poi mar Mediterraneo, in mano a scafisti e trafficanti di esseri umani senza scrupoli;
  • nel paese sono state aperte 17.000 madrase, scuole coraniche, che in buona parte hanno sostituito le scuole statali e in cui i giovani studenti vengono indottrinati al fondamentalismo.

Nel frattempo, i talebani hanno ricevuto, solo dagli USA, 40 milioni di dollari ogni settimana e stanno svendendo tutte le ricchezze del paese (minerali rari, pietre preziose ecc.) per mantenere il loro potere.

Gli USA e i loro alleati occidentali in tutti questi anni hanno contribuito alla crescita, grazie a milioni di dollari e di armi, di gruppi di fondamentalisti di ogni tipo. Il risultato è che oggi in Afghanistan, oltre ai talebani, sono presenti ISIS, signori della guerra di diverse etnie, al Qaeda… che opprimono la popolazione afghana (le donne in particolare) da circa 40 anni.

Gli intensi incontri di Shakiba

Dimenticate dai media, dimenticate dai governi, dimenticate dalle organizzazioni internazionali, le donne afghane hanno sempre meno possibilità di far sentire la propria voce, per questo la serie di incontri organizzati da CISDA per la militante di RAWA è doppiamente importante.

Un giro di incontri molto ricco e partecipato: a Bologna RAWA ha ricevuto il Premio internazionale Daniele Po, promosso dalle associazioni Le case degli angeli di Daniele e Strade. Oltre alla cerimonia di premiazione, svoltasi nella Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio di Bologna, Shakiba ha presenziato a circa 15 incontri pubblici che hanno coinvolto organizzazioni della società civile, ragazzi delle scuole con i loro insegnanti, attivisti e attiviste. Tra questi, molto significativo è stato l’incontro online con le commissioni pari opportunità della città metropolitana di Bologna, di Cento e di Pieve di Cento.

Belluno è stata accolta dall’associazione Insieme si può, che da anni, insieme a CISDA, sostiene attivamente i progetti di RAWA e organizza eventi e iniziative nel Nord-Est.

Piacenza le Donne in Nero, da sempre sostenitrici della resistenza delle donne afghane, hanno organizzato un partecipatissimo dibattito pubblico con cena di solidarietà.

Roma Shakiba ha partecipato, al festival Sabir, all’incontro internazionale Voci di lotta e di resistenza dell’Iran e dell’Afghanistan organizzato da ARCI, e ha incontrato le donne del comitato italiano di Jineoloji (un collettivo di donne che si organizza e lavora con il movimento delle donne curde), le donne dell’ANPI provinciale e un gruppo di parlamentari che l’hanno ricevuta alla Camera dei Deputati. Sempre a Roma Donne di Classe e Sinistra anticapitalista hanno organizzato un evento molto partecipato con cena di sottoscrizione.

Piadena è stato organizzato un dibattito pubblico nell’ambito del Festival dei diritti umani di Emmaus e un incontro con 80 ragazzi di 4 classi di terza media.

Va sottolineato che in tutti gli incontri con gli studenti e le studentesse delle scuole e delle università Shakiba ha dimostrato una straordinaria empatia e capacità di dialogo, suscitando grande curiosità e partecipazione.

La Casa delle donne di Torino ha organizzato un dibattito con raccolta fondi di solidarietà.

Lugano Shakiba ha incontrato la professoressa Jolanta Drzewiecka e il professor Villeneuve Jean-Patrick, dell’Institute of Communication and Public Policy (Università della Svizzera italiana), con i quali ha parlato parlare della situazione afghana e delle attività di RAWA a cui è seguito un partecipatissimo incontro con gli studenti dell’università e un’intervista con dei giornalisti del “Corriere del Ticino”.

Infine ha incontrato online la Rete di Coalizione euro-afghana per la Democrazia e la Laicità, per raccontare la difficile situazione delle donne resistenti in Afghanistan e discutere delle possibili azioni di supporto politico che il CISDA e le altre associazioni italiane possono dare loro.

Zerocalcare: “Vi raccontiamo cosa succede ora in Siria e perché la rivoluzione del Rojava è in pericolo”


Zerocalcare, ospite degli studi di Fanpage.it, rivolge quattro domande a Eddi Marcucci e Tiziano Saccucci per capire costa sta accadendo in Siria e il futuro della rivoluzione del Rojava.
Valerio Renzi, Fanpage, 11 dicembre 2024

Gli eventi in Siria, dopo anni che la guerra civile sembrava congelata, sono precipitati in modo molto veloce. Il 30 novembre Aleppo, che durante i primi anni del conflitto era stata oggetto di un drammatico assedio, è caduta nelle mani delle forze filoturche e jihadiste senza che il regime di Bashar al Assad riuscisse a opporre resistenza. Da lì alla conquista di Damasco è passata una settimana, con la fuga precipitosa di Assad a Mosca, dove ha ottenuto asilo.

Negli studi di Fanpage.it Zerocalcare, nell’inedito ruolo dell’host, ci ha aiutato a districarci nella ressa di eventi che abbiamo di fronte, per capire costa accadendo e quale futuro potrebbe esserci per la Siria e per la rivoluzione guidata dai curdi nel Nord-Est del Paese. Zerocalcare ha viaggiato più volte nel Nord-Est della Siria, raccontando nei suoi libri e nelle storie a fumetti la lotta per una Siria democratica e contro l’Isis.

“Più di una volta in questi giorni mi è stato chiesto di spiegare o raccontare quello che stava succedendo in Siria. Questo perché ci sono stato per raccontare quello che accadeva in Rojava, quella rivoluzione che metteva al centro un progetto di emancipazione della donna e di convivenza pacifica tra i vari popoli che compongono il mosaico siriano, un progetto che va sotto il nome di Confederalismo democratico”, spiega il fumettista.

“Ma visto che non sono un esperto, ho scelto di ascoltare le voci di chi ha un legame molto stretto con quelle terre e con il progetto della rivoluzione, e che è stato lì per lunghi periodi di tempo. Per questo ne parliamo con Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, editor di Turning Point ed ex combattente delle YPJ, le unità di protezione delle donne; e con Tiziano Saccucci, dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia”.

Siria: la situazione prima del crollo del regime di Assad

La situazione sullo scacchiere siriano prima dell’offensiva su Damasco, era circa quella che vedete nella mappa disegnata da Zerocalcare. L’area rossa era sotto il controllo del regime degli Assad, grazie il sostegno attivo della Russia, delle milizie che fanno riferimento all’Iran, e di Hezbollah. Le aree di colore verde che vedete a Nord invece, sotto l’influenza della Turchia, avevano dato riparo diverse delle forze sconfitte nella guerra civile, in particolare molti miliziani dell’Isis e soprattuto quelli di Jabhat Fateh al-Sham, che oggi si fanno chiamare Hay’at Tahrir al-Sham (Hts). Altre milizie, composte anche da combattenti provenienti da diverse parti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, sono state organizzate direttamente dalla Turchia soprattutto in funzione anti curda nell’Esercito Nazionale Siriano (Sna). Il Nord Est invece è controllato dalle Forze Democratiche Siriane, espressione dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est.

Le differenze tra HTS e SNA e il ruolo della Turchia

“Perché proprio ora?”, è la domanda che pone Zerocalcare ai propri interlocutori. E la risposta arriva da Eddi Marcucci: “Per anni, nonostante Assad si rifiutasse di arrivare a qualsiasi compromesso, la situazione è rimasta in stallo, perché aveva il supporto di forze esterne. Quando queste sono state impegnate su altri fronti, la Russia in Ucraina, l’Iran e soprattutto Hezbollah nel conflitto con Israele, le forze sostenute dalla Turchia hanno attaccato l’Esercito Arabo Siriano e il regime è crollato senza più chi lo teneva in piedi”.

Marcucci sottolinea poi le differenze tra Hay’at Tahrir al-Sham e l’Esercito Nazionale Siriano, ripercorrendone brevemente la storia. “Hts e Nsa hanno convissuto negli stessi territori, ma hanno obiettivi e storie diverse. L’Nsa è nato dalle ceneri dell’Esercito Siriano Libero, una coalizione che all’inizio della guerra civile attrae tutti quelli che partecipano all’insurrezione popolare. Questa forza viene poi egemonizzata da alcuni gruppi fondamentalisti che vengono organizzati, armati e supportati logisticamente dalla Turchia che, è bene ricordarlo, è il secondo esercito Nato. Oggi l’Nsa mette insieme bande di mercenari, ex miliziani dell’Isis e reduci. Sono gli stessi contro cui abbiamo già combattuto nel Nord-Est della Siria negli scorsi anni, e che oggi sono lo strumento della Turchia in Siria”. Hts invece, che oggi si trova a Damasco e sta gestendo la transizione di potere, pur avendo goduto dell’appoggio turco, ha “un’agenda autonoma”. “Nasce dalla galassia jihadista di Al Qaeda. Abu Muhammad al-Jawlani, il leader di Hay’at Tahrir al-Sham è il fondatore di Jabhat al Nusra, la branca siriana di Al Qaeda, dal quale si distacca nel 2016. Oggi si presenta con un volto più moderato, ma quello che sappiamo per certo è che il “califfo” dell’Isis Al Baghdadi, si nascondeva nei territori che controllavano loro”, prosegue Marcucci.

Una differenza quella tra Nsa e Hts che si vede anche dagli obiettivi militari che hanno intrapreso, spiega Tiziano Saccoccio. “Mentre Hay’at Tahrir al-Sham dopo la presa di Aleppo si è diretta immediatamente verso Damasco, l’Sna ha dichiarato un’altra operazione e si è diretta verso i territori dell’Amministrazione autonoma attaccando l’Sdf e in particolare puntando sulla città Manbij, già liberata con un costo altissimo dall’Isis. L’offensiva dell’Esercito Nazionale Siriano è sostenuta dai droni e dai bombardamenti della Turchia”.

La rivoluzione democratica nel Nord-Est della Siria è in pericolo?

Se al momento Hay’at Tahrir al-Sham e Abu Muhammad al-Jawlani mostrano un volto “moderato”, nonostante le violenze in corso, il futuro della Siria è ancora molto incerto. Come è incerta è la situazione per il Rojava e il confederalismo democratica, e la sicurezza delle minoranze come quella curda ed ezida.

Eddi Marcucci spiega che parlare di “curdi” in riferimento all’Amministrazione autonoma del Nord-Est è oggi riduttivo. “Si tratta di un’entità che controlla un terzo della Siria, dove convivono curdi, ezidi, circassi, ceceni, turcomanni, assiri, ceceni, ma dove la maggior parte della popolazione è araba e arabofona, stiamo parlando di tutto il popolo siriano. – spiega – Oggi nessuno è al sicuro in Siria, non solo nel Nord-Est, e la guerra sono quasi quindici anni che va avanti con mezzo milione di morti, milioni di profughi interni e chi è andato via dal Paese e non è mai riuscito a tornare”. E per i futuro? Spiega Saccoccio: “Le possibilità sono due, un processo di riconciliazione nazionale con la caduta del regime di Assad, o una nuova escalation. Già a oggi ci sono 200.000 nuovi sfollati, molti dei quali già erano fuggiti da Isis o dall’invasione turca”.

L’Isis è stato sconfitto ma non è morto

Quando Zerocalcare è stato in Siria la prima volta, è nato il libro a fumetti “Kobane Calling”, che raccontava la lotta contro Isis. “Oggi in Occidente ci sembra che l’Isis sia stato sconfitto – spiega – ma le cose anche in questo caso sono più complicate di così”. Eddi Marcucci, che alla guerra contro Isis ha partecipato in prima persona, lo sa meglio di molti altri: “Lo Stato Islamico ha subito una sconfitta militare e territoriale, ma l’ideologia che muoveva il progetto del Califfato è ancora viva, e sopratutto esiste una rete capillare di cellule e militanti che ancora è in piedi, e contro cui l’Sdf non ha mai smesso di combattere”. In più c’è un’altra questione, di cui si è discusso troppo poco qui da noi: “L’amministrazione autonoma si è ritrovata con decine di migliaia di prigionieri da gestire da sola. Parliamo non solo di miliziani, ma anche delle loro famiglie. Una realtà sottovalutata in questi anni, nonostante le richieste di aiuto per un la costituzione di un tribunale internazionale e la gestione dei campi dove si trovano”. E proprio Isis sta approfittando della situazione per riprendere l’iniziativa e tentare di rialzare la testa in diverse zone della Siria.

continua su: https://www.fanpage.it/esteri/zerocalcare-vi-raccontiamo-cosa-succede-ora-in-siria-e-perche-la-rivoluzione-del-rojava-e-in-pericolo/
https://www.fanpage.it/

Lettera di Kongra-Star a Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siriakongra Star


Kongra-Star, 11 dicembre 2024

La Siria si trova in una fase critica e i recenti sviluppi richiedono una risposta internazionale efficace per evitare il caos e raggiungere una transizione politica completa e sostenibile. In questo contesto, sottolineiamo la necessità di lavorare in conformità con la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che costituisce il quadro giuridico delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione politica che ponga fine alle sofferenze del popolo siriano e rispetti i diritti di tutti i suoi componenti. Riteniamo che un elemento essenziale per costruire una Siria democratica e stabile sia garantire la partecipazione delle donne siriane in tutte le fasi di un processo politico basato sulla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulle donne, la pace e la sicurezza.

La Siria oggi affronta una serie di sfide serie, a partire dall’escalation militare in corso, in particolare con i ripetuti attacchi da parte della Turchia sulla Siria settentrionale, come possiamo osservare a Manbij. Questi attacchi non solo minano la sicurezza, ma provocano anche sfollamento di migliaia di persone e rafforzano l’attività delle cellule dormienti dell’ISIS, che rappresentano una minaccia a livello locale, regionale e internazionale.

Le persone che vivono in condizioni drammatiche nei campi profughi a nord di Aleppo (Shehba) dal 2018 a seguito dell’occupazione turca di Afrin, sono state sfollate con la forza per la seconda volta. Questi sfollati, soprattutto donne e bambini, vivono in condizioni umanitarie catastrofiche, poiché ancora non sono arrivati aiuti internazionali e l’Amministrazione Autonoma Democratica nord-est della Siria deve affrontare questa sfida da sola. Gli sforzi profusi dall’Amministrazione Autonoma e da iniziative comunitarie per far fronte all’aggravarsi della crisi non sono sufficienti e si rende indispensabile un rapido intervento internazionale.

Questa crisi è particolarmente dura per le donne e i bambini, che subiscono maggiormente il peso degli attacchi e della violenza. In quanto organismo internazionale preposto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali avete la responsabilità di adottare misure decisive e immediate per contenere la situazione ed evitare un ulteriore deterioramento.

Vi chiediamo pertanto di:

  1. Esercitare pressioni immediate sulla Turchia per fermare gli attacchi e l’escalation.

Chiediamo alle Nazioni Unite di agire urgentemente per esercitare pressioni sulla Turchia e sui gruppi armati che sostiene affinché cessino i ripetuti attacchi militari nella Siria settentrionale, per garantire la protezione della popolazione civile e preservare la sicurezza regionale. Questi attacchi non solo minacciano la stabilità della Siria, ma contribuiscono anche all’aggravarsi della crisi umanitaria e allo sfollamento di migliaia di civili. Chiediamo anche l’apertura di corridoi umanitari sicuri a Shehba che permettano agli aiuti umanitari di raggiungere le persone colpite e fornire protezione ai civili intrappolati nelle aree colpite.

  1. Mantenere la sicurezza regionale e impedire il ritorno dei gruppi terroristici.

Chiediamo un’azione internazionale decisiva per prevenire la ricomparsa di gruppi terroristici come l’ISIS nelle aree di escalation. Questi gruppi stanno usando l’attuale caos per espandere le loro operazioni e rappresentano una grave minaccia alla sicurezza regionale e internazionale.

  1. Avviare la soluzione politica in conformità con la risoluzione 2254.

Garantire l’accelerazione dei negoziati politici sotto la supervisione delle Nazioni Unite e fornire meccanismi chiari per gestire la transizione in modo equo e sostenibile. Concentrarsi sulla protezione dell’unità e della sovranità della Siria e garantire i diritti di tutte le componenti etniche, religiose e culturali del paese, nonché i diritti delle donne.

  1. Garantire l’inclusione delle donne nella nuova costituzione siriana in linea con la risoluzione 1325.

Garantire la partecipazione delle donne a tutte le fasi dei negoziati e della transizione politica per assicurare il loro ruolo attivo nella costruzione della pace e della giustizia sociale. Rafforzare le misure per proteggere le donne dalla violenza e dallo sfruttamento e sostenere le donne nei ruoli di leadership nella fase successiva.

  1. Affrontare il problema degli sfollati forzati e proteggere gli sfollati.

Fornire un sostegno urgente agli sfollati di Afrin e di altre aree e garantire il loro ritorno sicuro alle loro zone di origine. Fornire protezione internazionale per porre fine alle violazioni e garantire la sicurezza nel nord della Siria.

  1. Aumentare gli aiuti umanitari.

Fornire assistenza umanitaria urgente alle aree che ospitano persone sfollate, in particolare nel nord-est della Siria, per alleviare la pressione sulle infrastrutture e soddisfare i bisogni di base. Sviluppare un piano delle Nazioni Unite per fornire assistenza a lungo termine che contribuisca alla ricostruzione e alla stabilizzazione.

Il popolo siriano ha sofferto per anni sotto il flagello della guerra e del conflitto, e la pace e la stabilità possono essere raggiunte solo attraverso una soluzione politica giusta e democratica che metta l’interesse del popolo al di sopra di tutto e garantisca che tutte le componenti, soprattutto le donne, siano coinvolte nella definizione del futuro del paese.

Cordiali saluti

Kongra Star

9 dicembre 2024

Scarica la lettera in inglese

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

L’attacco degli jihadisti filo-turchi contro Aleppo e Hama, che ha disfatto le forze di Assad, minaccia direttamente i Curdi sia dei quartieri di Aleppo che dei vicini villaggi del Rojava, fino al distretto ezida di Shengal

Carla Gagliardini, Dinamo Press, 6 dicembre 2024

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.

Afghanistan deferito alla Corte Penale Internazionale

La Corte penale internazionale (CPI) ha ricevuto un deferimento formale da sei Stati parte (Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico) che sollecitano l’avvio di indagini sui crimini contro donne e ragazze in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, ha annunciato giovedì il procuratore della CPI Karim AA Khan KC

Siyar Sirat,  AMU Tv, 29 novembre 2024

Nel loro deferimento, le nazioni hanno espresso profonda preoccupazione per il deterioramento delle condizioni dei diritti umani in Afghanistan, in particolare per quanto riguarda donne e ragazze, e hanno chiesto che questi presunti crimini fossero esaminati nell’ambito dell’indagine in corso della CPI sulla situazione nel paese.

“Ciò riflette l’impegno più ampio del mio ufficio nel perseguire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di genere, incluso il crimine contro l’umanità della persecuzione per motivi di genere”, ha affermato Khan in una dichiarazione.

L’indagine della CPI sull’Afghanistan è stata autorizzata per la prima volta a marzo 2020, dopo anni di esame preliminare sui presunti crimini commessi nella regione dal 1° maggio 2003. L’indagine si è ampliata per includere accuse di discriminazione sistematica e persecuzione di donne e ragazze, crimini legati al conflitto armato e reati commessi sul territorio di altri stati membri della CPI.

L’indagine ha subito dei ritardi a seguito delle sfide del precedente governo afghano, ma è stata ripresa nell’ottobre 2022. Khan ha sottolineato che da allora l’ufficio del procuratore ha compiuto “progressi molto considerevoli” nelle indagini sui crimini di genere e ha espresso fiducia che risultati tangibili saranno annunciati presto.

Sebbene i dettagli specifici dell’indagine rimangano riservati, Khan ha elogiato il deferimento come un’importante dimostrazione di determinazione internazionale nell’affrontare le atrocità in Afghanistan. Ha inoltre sottolineato la necessità di cooperazione e risorse da parte degli stati membri della CPI per garantire la responsabilità.

“Plaudo al coraggio e alla determinazione di tutti coloro che ci hanno sostenuto e continuano a collaborare con noi nella conduzione di questa indagine”, ha affermato Khan.

L’attenzione della CPI sulla persecuzione di genere è in linea con la sua più ampia missione di affrontare i crimini ai sensi dello Statuto di Roma, che consente agli Stati membri di deferire casi in cui sembrano essere stati commessi crimini di competenza della CPI, si legge nella dichiarazione.

La dichiarazione è stata rilasciata in vista della riunione dell’Assemblea degli Stati parte della CPI della prossima settimana, durante la quale gli Stati membri dovrebbero discutere delle indagini in corso e delle risorse necessarie per gli sforzi di accertamento delle responsabilità.

La desolante realtà degli afghani che tornano in patria: la condizione delle donne non li interessa

Arrivano dall’estero per la prima volta dal ritorno dei talebani al potere. Il Washington Post ha raccolto testimonianze: sono colpiti dalla sicurezza o dai nuovi centri commerciali, c’è disinteresse per i diritti negati. Luca Lo Presti (Pangea) a Huffpost: “Fuori da Kabul non si incontra mai una donna per strada, ma ai maschi non importa. I talebani vogliono accreditarsi all’estero, mostrando il volto di un governo libertario, che consente di vivere meglio di prima”

Silvia Renda, HUFFPOST, 29 novembre 2024

Per le strade di Kabul non si trova una carta per terra. I muri anti-esplosione sono stati smantellati, rivelando la presenza di alberi di melograno, ora maturi. Le bancarelle dei mercati offrono una ricca scelta di prodotti ortofrutticoli. Nuovi centri commerciali ospitano negozi di moda dal gusto occidentale. È un volto diverso, inatteso ed entusiasmante della città, per chi l’aveva conosciuta prima del ritorno dei talebani. Sono afghani di nascita con passaporto oggi straniero, che in numero crescente stanno ritornando in visita nel paese e raccontano sorpresi il cambiamento della città. Quello che non notano, o che ad alcuni non interessa notare, è che le strade sono tenute così pulite sfruttando il lavoro dei carcerati o contando sulla paura di un popolo timoroso di punizioni severe. Che se percepiscono maggiore sicurezza, è sicuramente anche perché il pericolo prima era in gran parte costituito dagli attacchi dei talebani stessi, oggi al potere. Che le bancarelle saranno anche piene di prodotti, ma povere di acquirenti, perché non possono permettersi quel cibo. Che nei centri commerciali vedere una donna passeggiare è veramente raro.

Il Washington Post ha raccolto le testimonianze di afghani con passaporti e visti stranieri rientrati nel paese per fare visita ai parenti, per la prima volta da quando nell’agosto 2021 i talebani sono tornati al potere. Nei loro racconti non c’è preoccupazione per le terribili restrizioni imposte alle donne, alle quali nel paese non è più concesso alcun diritto. Si meravigliano piuttosto del senso di sicurezza percepito per le strade, della possibilità di fare acquisti al nuovo duty-free dell’aeroporto o nei centri commerciali oggi ricchi di prodotti. Anche se la maggior parte dei residenti fatica a guadagnarsi da vivere, chiunque se lo possa permettere può scegliere tra una serie di ristoranti alla moda, molti così vuoti che ogni ospite ha un cameriere personale. Sono visitatori che spesso trascorrono così tanto tempo a casa dei parenti da non notare, o disinteressati a notare, la quasi totale assenza delle donne per le strade. Alcuni parenti in visita, scrive il Washington Post, vengono ingannati da quella che sembra un’applicazione poco severa delle regole, ignorando la strategia dei talebani: far rispettare le norme solo a intermittenza e confidare nella paura per ottenerne il rispetto.

“A Kabul si respira un’aria di sicurezza maggiore rispetto all’agosto 2021 semplicemente perché la guerra che era combattuta dai talebani non c’è più”, commenta ad HuffPost Luca Lo Presti, presidente di Pangea, associazione che si occupa dei diritti delle donne afghane, “L’economia della città sta ripartendo e questo ha fatto nascere centri commerciali con beni di lusso, strade più ordinate. C’è una percezione di ordine, pace e sicurezza sicuramente superiore rispetto a quella che si percepiva durante la presenza dei militari occidentali”. Allo stesso tempo, spiega Lo Presti, si è creata una forbice sociale ampissima: in questa economia, chi aveva i soldi si ritrova a essere ricchissimo, e chi non ne aveva si ritrova poverissimo: “La microeconomia non esiste più, non esistono le fasce medie della società. Gli impiegati statali hanno stipendi bassissimi che permettono a malapena di sopravvivere”.
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Comunicato di Rete Jin Milano sulla situazione in Siria

MOBILITIAMOCI in sostegno alle combattenti kurde e AL POPOLO CURDO e contro ogni fondamentalismo, compreso quello economico imperiale dell’Occidente

Rete Jin Milano, 5 dicembre 2024

Ci risiamo. Il giorno dopo che Israele ha piegato gli hezbollah libanesi si riaccende la questione siriana. Ricordate? Era l’agosto del 2014 quando l’Isis aveva attaccato Shengal, muovendosi poi dentro il Rojava, cercando di distruggere e umiliare l’esperimento del Confederalismo democratico invadendo il Nord-Est della Siria e attaccando la resistenza kurda e, soprattutto, le combattenti kurde: mutilate, violentate e vendute, una volta catturate, come schiave. Il prezzo pagato fu alto ma, allora, i terroristi dell’Isis furono sconfitti e le combattenti curde acclamate dalla stampa internazionale per averci salvato dall’orrore jihadista.

Il 2 dicembre 2024 dall’enclave jihadista di Idlib sono usciti, armati sino ai denti, i tagliagola che, in questi tempi di alleanze variabili, hanno conquistato la dignità di “ribelli”, e non perché abbiamo cambiato programma ma perché adesso chi li sostiene è palesemente la Turchia, con il beneplacito di USA e Israele. Hanno attaccato la città martire di Aleppo, preso TalRifaat e Hama. Dai media arrivano notizie di rapimenti di combattenti delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), caricate sui camion brutalmente e portate chissà dove, colpevoli di essere soggettività oppresse che hanno osato invece autodeterminarsi con la lotta.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che non ha mai smesso di vessare la zona autonoma dei kurdi, adesso, sconfitti gli hezbollah in Libano – ormai impossibilitati a dare sostegno alla Siria – prova a liquidare i kurdi per interposta persona dando il via libera ai gruppi jihadisti. Gli obiettivi che Erdogan vorrebbe raggiungere sono ambiziosi: impadronirsi di altri pezzi della Siria del Nord; tenere, quantomeno, sotto controllo i kurdi e, perché no, liberarsi dei milioni di profughi siriani spingendoli verso le terre del Rojava.

Tutto ciò con piena soddisfazione di Benjamin Netanyahu che ha bisogno di smantellare la Siria per attaccare l’Iran, il colpo grosso da offrire in dono a Trump, una volta insediatosi come presidente, che chiuderà i suoi occhi e quelli del resto dei cosiddetti Paesi democratici sulla strage dei palestinesi.

Ci verrà detto, per addomesticare il nostro disgusto, che tutto ciò viene fatto per costruire la pace. Ma nessuna pace si costruisce sulle case distrutte, i corpi straziati e la prepotenza del più forte. Solo un progetto che prevede la costruzione di una società laica, democratica ed ugualitaria, dove cooperano tra loro etnie, confessioni, cultura e identità diverse, che rispetti la terra e che metta al centro del cambiamento la rivoluzione delle donne può portare pace in quell’area i cui confini sono stati tracciati, quasi ottant’anni fa, dall’Occidente colonialista solo per fomentare l’instabilità dell’area, sfruttarla e controllarla.

 

Diciamo BASTA MOBILITIAMOCI in sostegno alle combattenti kurde E AL POPOLO CURDO e contro ogni fondamentalismo, compreso quello economico imperiale dell’Occidente.

MOBILITIAMOCI per i territori autonomi del Nord-Est della Siria, affinchè delle valorose combattenti non debbano sacrificarsi a causa della nostra indifferenza.

Rete Jin Milano, 05 dicembre 2024

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.