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Autore: CisdaETS

Kurdistan, una svolta di pace?

Pressenza, 2 marzo 2025, di Renato Franzitta

Il PKK ha dichiarato un cessate il fuoco effettivo immediato accettando la dichiarazione storica di Abdullah Öcalan. Di ieri, primo marzo, sono le dichiarazioni ufficiali del Comitato Esecutivo del PKK in merito all’appello del leader Apo Abdullah Öcalan.

La dirigenza del PKK dichiara che l’“Appello per la pace e una società democratica, fatto il 27 febbraio è un Manifesto dell’epoca che illumina il cammino di tutte le forze della libertà e della democrazia. […] In quanto PKK, condividiamo il contenuto dell’appello così com’è e affermiamo che rispetteremo e metteremo in pratica i requisiti dell’appello da parte nostra. Tuttavia, vorremmo sottolineare che per avere successo, anche la politica democratica e le basi giuridiche [in Turchia, nda] devono essere adeguate. […]

È chiaro che con questo Appello è iniziato un nuovo processo storico nel Kurdistan e nel Medio Oriente. Ciò avrà un impatto importante anche sullo sviluppo della vita libera e della governance democratica in tutto il mondo. Su questa base, la responsabilità ricade su tutti noi; tutti devono assumersi i propri oneri e assolvere ai propri doveri e al proprio ruolo.

La consapevolezza data dal leader Apo e la grande esperienza creata dal PKK danno al nostro popolo la forza di portare avanti la lotta per il bene, la verità, la bellezza e la libertà con una politica democratica. […] In questo contesto, dichiariamo un cessate il fuoco effettivo da oggi, per spianare la strada all’attuazione dell’appello del leader Apo per la pace e una società democratica.”

La dichiarazione del PKK è precisa in modo lapidario: “Per il successo del congresso, il leader Apo deve condurlo personalmente, […] è necessario creare un ambiente di sicurezza adeguato e il leader Apo deve guidare e gestire personalmente il congresso [del PKK, nda] affinché vada a buon fine.
L’esperienza creata dal PKK fornisce al nostro popolo il potere di portare a termine la lotta
[…] Nessuna delle nostre forze intraprenderà un’azione armata a meno che non venga attaccata. Inoltre, solo la leadership pratica del leader Apo può rendere pratiche questioni come il disarmo. […]

I fatti concreti mostrano chiaramente che, affinché l’Appello per la pace e una società democratica possa essere attuato con successo, affinché la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente si basi sulla soluzione democratica del problema curdo e affinché si sviluppi un movimento democratico globale, il leader Abdullah Öcalan deve poter vivere e lavorare in piena libertà fisica e poter stabilire relazioni senza ostacoli con chiunque desideri, compresi i suoi amici. Ci auguriamo che le istituzioni statali competenti rispettino tali requisiti […]. L’appello del Leader Apo non è certamente una fine, ma piuttosto un nuovo inizio. […]

È di importanza storica affrontare il contenuto dell’appello con grande responsabilità e serietà e attuarlo con successo in ogni campo. […] l’Appello per la pace e una società democratica sta avviando un nuovo processo di lotta per tutti gli oppressi, in particolare, donne e giovani. […] Sviluppiamo la nostra organizzazione democratica e la nostra lotta per la libertà in ogni campo con grande coraggio e dedizione, nel Kurdistan, nel Medio Oriente e in tutto il mondo.

[…] Stiamo costruendo la Rivoluzione per la libertà delle donne sulla base della Jineologia e organizzando la vita morale e politica della comunità sulla linea della civiltà democratica. […] Lunga vita all’eroico leader del nostro popolo, il PKK!”

La dichiarazione ufficiale del Comitato esecutivo del PKK viene fatta a soli due giorni della diffusione dell’appello storico per la risoluzione del conflitto turco-curdo e la democratizzazione della Turchia fatto nel corso della visita di una delegazione del partito DEM il 27 febbraio 2025, al leader curdo Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999 nell’isola carceraria di Imral nel mar di Marmara, dove sta scontando l’ergastolo.

L’appello di Öcalan solleva la speranza di porre fine a più di quarant’anni di conflitto fra il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e l’esercito della Turchia, sollevando però diversi interrogativi sul futuro della politica curda in tutta la regione mediorientale. Certamente l’invito a deporre le armi e a sciogliere il PKK ha lasciato molti interdetti. Come lascia da pensare il credito elargito a Devlet Bahçeli presidente del MHP (Partito del Movimento Nazionalista) e fondatore dell’organizzazione di estrema destra Lupi Grigi, e allo stesso Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan.

Non è la prima volta che Abdullah Öcalan tende la mano per intavolare colloqui di pace col governo turco. Già il 28 settembre 2006 Öcalan chiedeva al PKK di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia. La dichiarazione affermava che “Il PKK non dovrebbe utilizzare le armi tranne che se attaccato con l’intento di annichilimento” e che “è molto importante costruire un’unione democratica tra i Turchi e i Curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta”.

Ricordo benissimo mentre ero, nel marzo 2015, nel Kurdistan turco, dopo la vittoriosa battaglia di Kobane contro i tagliagole dell’ISIS, che i dirigenti dell’HDP e i militanti che facevano riferimento al PKK aspettavano con ansia la notizia della liberazione del loro leader, data per imminente, convinti che l’amministrazione Erdoğan fosse in procinto di attuare la pacificazione con il movimento di resistenza curdo e la conseguente liberazione delle migliaia di detenuti politici rinchiusi nelle carceri turche da tanti anni.

Come ben sappiamo le aspettative dei curdi non furono esaudite, anzi cominciò una pesante campagna militare che portò la guerra dentro città e villaggi del Kurdistan, l’arresto di centinaia e centinaia di militanti, la deposizione di tutti i sindaci curdi e lo scioglimento dei municipi. Fu persino arrestato, nel novembre 2016, il Presidente dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli) Selahattin Demirtaş, deputato al Parlamento di Ankara, e successivamente condannato a 42 anni di carcere per aver sostenuto le manifestazioni in sostegno della resistenza di Kobane contro i tagliagole dell’ISIS, represse violentemente da esercito e polizia nel 2014.

L’appello di Öcalan a deporre le armi e a sciogliere il PKK è riferito essenzialmente alla componente turca del movimento curdo. Nell’appello non c’è alcun riferimento all’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, diretta dal Consiglio Democratico Siriano, dove è in corso l’esperimento rivoluzionario di una società basata sul Confederalismo Democratico, né alle propaggini del PKK operanti in Iraq e Iran.

Da Kobane fanno sapere, “le dichiarazioni di Öcalan: niente che ci riguardi in Siria”. Il Rojava rivoluzionario è sotto attacco dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA), formazione creata e finanziata da Ankara, composta da jihadisti provenienti dall’ISIS e da al-Nustra (al-Qaeda in Siria), dai primi giorni del dicembre 2024.

L’intenzione del presidente turco Erdogan di dare un colpo mortale al Rojava e cancellare l’esperimento rivoluzionario è stata palese. A frenare i piani del despota turco sono state le milizie YPG, YPJ e SDF, sostenute da una grandiosa mobilitazione popolare, che hanno attualmente fermato i tagliagole dello SNA alla diga di Tishrin sull’Eufrate e respinto l’attacco dalla citta martire di Kobane.

Negli ultimi giorni sembra che Ankara abbia ammorbidito la sua posizione, poiché diverse nazioni arabe hanno respinto la crescente influenza della Turchia in Siria, dove dall’8 dicembre a Damasco, dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, governa una propaggine di al-Qaeda.

Foza Yusuf, un funzionario chiave nell’amministrazione guidata dai curdi, ha sottolineato che l’appello di Öcalan non allude alla Siria. “La sua dichiarazione rivela ancora una volta la sua brillantezza strategica. Sapevamo che non ci avrebbe reso parte di alcun patto. I nostri accordi, i nostri affari devono essere fatti con Damasco, non con la Turchia”.

Il partito turco filo-curdo DEM ha prontamente diffuso l’appello mostrando Öcalan, su schermi giganti, affiancato da deputati del DEM che lo avevano incontrato sulla sua isola-prigione. Migliaia di persone si sono radunate davanti ai maxi schermi installati nelle piazze di Istanbul e nelle principali città del Kurdistan turco per guardare la conferenza stampa. Il giornalista locale Selim Kurt ad Al-Monitor da Diyarbakir ha riferito che mentre ascoltavano le parole del leader curdo le persone si sono chieste perché Öcalan avesse rinunciato a così tanto senza ottenere nulla in cambio.

Sentimenti simili sono riecheggiati a Istanbul, spingendo il parlamentare DEM Sırrı Sureyya Onder a notare che il leader del PKK aveva anche affermato che erano necessarie “politiche democratiche e un quadro giuridico” da parte di Ankara, affinché i suoi seguaci disarmassero e si sciogliessero. Ancora non è chiaro cosa abbia offerto il governo in cambio dell’appello di Öcalan. Molto probabilmente si profila l’amnistia per i combattenti del PKK e la liberazione degli altri leader curdi come Demirtaş. Al-Monitor riferisce che è probabile che il governo regionale del Kurdistan (KRG) in Iraq abbia offerto asilo ai quadri superiori del PKK.

Ovviamente il primo passo per iniziare il processo di pace passa dal cessate il fuoco reciproco fra Esercito turco e PKK.
La liberazione di Öcalan è la condizione chiave per portare a buon fine il processo di pacificazione in Turchia, rafforzando contemporaneamente le conquiste rivoluzionarie del Confederalismo Democratico.
Tante ombre rimangono ma un barlume di luce sembra apparire all’orizzonte.

 

Nelle carceri talebane, donne torturate e abusate

La difficile situazione delle donne nelle prigioni talebane: confessioni costrette da spogliarelli e abusi
Amin Kawa, 8 AM Media, 2 marzo 2025

In questa indagine cinque manifestanti donne arrestate e imprigionate dai talebani condividono i loro resoconti di torture fisiche e psicologiche avvenute nei centri di detenzione talebani a Kabul. Tra i metodi di tortura descritti: appenderle per i piedi, mettere sacchetti di plastica sulla testa e sul viso, legare le mani dietro la schiena, tenerle in stanze umide, frustarle con cinture, mettere la canna di un kalashnikov vicino alle orecchie e minacciarle di morte. Inoltre, le donne hanno sopportato insulti volgari, abusi verbali, l’essere chiamate prostitute, accuse di essere serve e spie americane e minacce di danni ai loro familiari. Tutte queste donne soffrono attualmente di gravi problemi di salute mentale e fisica, tra cui dolori articolari.

Due delle ex detenute hanno confermato di essere state costrette a confessare nude o seminude per assicurarsi che non avrebbero più protestato contro le politiche dei talebani. È stato loro negato l’accesso all’assistenza legale, al contatto con la famiglia, alla comunicazione con altre prigioniere o guardie e alle cure mediche per le esigenze legate al ciclo mestruale.

Le indagini di “Hasht-e Subh Daily” indicano che tutte le donne arrestate dai talebani sono state sottoposte a torture fisiche e psicologiche nei centri di detenzione e nelle prigioni. La gravità della tortura era proporzionale alla popolarità e al riconoscimento delle detenute nella società, in particolare sui social media. Alcune manifestanti hanno subito torture più gravi, altre relativamente meno. Le interviste con cinque prigioniere hanno rivelato che tutte avevano subito torture e confessioni forzate ed erano state minacciate di morte, lapidazione, esecuzione tramite plotone di esecuzione e rappresaglie contro le loro famiglie.

Il trattamento variava da una detenuta all’altra, alcune trattenute per brevi periodi e altre per diversi mesi. I talebani costrinsero tutte le donne rilasciate a fornire confessioni, preparate prima degli interrogatori e con la costrizione di recitarle di fronte alle telecamere con quelle precise parole. Se rifiutavano venivano sottoposte ad abusi fisici e verbali, tra cui percosse con cinture, schiaffi e insulti degradanti.

Racconti terribili

Humaira (pseudonimo), una delle donne che protestavano, ha confermato in un’intervista con Hasht-e Subh Daily di essere stata torturata dai talebani, descrivendo la detenzione come brutale e disumana. Ha raccontato che ogni volta che veniva portata per l’interrogatorio, veniva prima appesa per i piedi, le mani legate dietro la schiena, e poi frustata prima di essere tenuta in stanze umide. Gli interrogatori comprendevano umiliazioni, insulti e confessioni forzate.

Humaira ha dichiarato che le era consentito usare il bagno solo tre volte al giorno e le era proibito parlare con le guardie. Non aveva contatti con la sua famiglia e le erano state negate le medicine nonostante la sua malattia. Era stata anche privata dell’assistenza legale e le venivano estorte confessioni forzate a giorni alterni. I talebani la costringevano a rilasciare dichiarazioni su azioni che non aveva mai commesso. Sebbene fosse presente in prigione  personale femminile talebano, tutti gli atti di tortura venivano eseguiti da combattenti maschi, che la picchiavano e la insultavano.

Quando parlava delle confessioni forzate, la voce di Humaira tremava e scoppiò a piangere. Spiegò che, a causa delle norme culturali dell’Afghanistan e per proteggere la sua famiglia da traumi psicologici, aveva nascosto loro l’entità della sua sofferenza. “La mia famiglia non sa delle mie confessioni forzate perché l’ambiente culturale dell’Afghanistan è molto duro. Se venissero a sapere cosa mi è successo, i miei famigliari cadrebbero in depressione e subirebbero un duro colpo emotivo. I talebani ci hanno spogliate completamente, hanno filmato le confessioni e hanno minacciato di pubblicare i video se avessimo parlato degli interrogatori. Hanno usato questo metodo con tutte le prigioniere, facendoci ripetere  davanti alla telecamera confessioni preparate, mentre tre uomini armati stavano lì vicino, minacciandoci. Immagina una donna nuda o seminuda davanti a una telecamera: cosa potrebbe esserci di peggio?”

Humaira ha aggiunto che le confessioni estortele erano del tutto inventate. “I talebani mi hanno costretta a dire che avevo ricevuto denaro dall’America per protestare contro le loro politiche. Mi hanno minacciata di confessare che avevo ricevuto denaro da Richard Bennett, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, per protestare contro l’hijab. Volevano che dicessi che intendevo reclutare ragazze per attività immorali e addestrarle come ballerine da inviare in Occidente per essere sfruttate. Queste false confessioni sono state estorte a tutte, spesso mentre erano nude o seminude”.

Nelle celle di isolamento non c’era nessuno che offrisse anche solo un briciolo di compassione. “I talebani hanno avuto accesso al mio telefono e ai miei account sui social media, interrogandomi sugli indirizzi di altre manifestanti donne e mostrandomi le loro foto, chiedendomi di scrivere i loro nomi”, ha affermato Humaira, che non riusciva a sopportare la tortura e sveniva entro dieci minuti quando veniva appesa per i piedi, dopodiché veniva trasferita in stanze umide e picchiata.

Humaira ha raccontato le storie di altri prigionieri, dicendo che facevano sembrare meno grave la sua sofferenza. “I talebani hanno offerto a una giovane donna la libertà se avesse sposato un membro dei talebani. Ho visto un’altra donna imprigionata con i suoi figli, senza visitatori. I bambini erano depressi, i loro corpi senza vita, indeboliti dallo shock della loro situazione. Erano stati arrestati con accuse che non capivano nemmeno. Ogni giorno diventavano più deboli, subendo un enorme trauma psicologico”.

Dice di essere sotto shock e di provare un grave disagio mentale ed emotivo. Secondo lei, nessuno aiuta nessuno nella situazione attuale. Aggiunge: “Purtroppo, le mie condizioni non sono buone. Non posso parlare con i dottori al telefono. Vorrei che ci fosse un dottore che potesse ascoltare tutte le mie parole e avesse un rimedio per la sofferenza e la tortura che ho sopportato. Finora, nessuno mi ha aiutato e sto lottando con un dolore e un’incertezza immensi”.

Condizioni detentive disumane

Anche Parnian (pseudonimo), un’altra donna che ha protestato e che ha sperimentato l’amara e dolorosa realtà delle prigioni talebane, conferma che le donne nei centri di detenzione talebani sono sottoposte a torture, umiliazioni e insulti. Afferma che sebbene le sue ferite fisiche siano guarite, non dimenticherà mai gli insulti e le parolacce che ha sentito dai talebani. Racconta che i talebani l’hanno arrestata in modo orribile e che durante i suoi giorni in isolamento le è stato permesso di usare il bagno solo una volta al giorno, costretta a sopportare due cicli mestruali in isolamento senza servizi igienici o prodotti per l’igiene. L’umidità della cella, la mancanza di pulizia e la malattia hanno fatto sì che tutto il suo corpo emanasse un cattivo odore. Dice: “Ho pregato molte volte senza abluzioni, chiedendo a Dio di attribuire il peccato ai talebani. Lì puzzavo, e sento che quell’odore è ancora nel mio corpo”.

Parnian conferma che anche a lei i combattenti talebani le hanno legato le mani dietro la schiena e le hanno messo un sacco nero sulla testa durante l’arresto. Dice che è stata portata all’interrogatorio almeno tre giorni dopo essere stata messa in isolamento, e aggiunge: “C’era un tavolo a forma di croce. La sedia dietro era molto bassa, mettevano le mani sul tavolo e le ammanettavano. Ma non era un vero interrogatorio: ti facevano sedere, ti insultavano, ti picchiavano, ti chiamavano prostituta, ti accusavano di andare dagli americani di notte, ti dicevano che sette o otto uomini ti sarebbero stati addosso e usavano parole volgari. Poi recitavano testi religiosi, si soffiavano addosso come per proteggersi dai presunti peccati e dicevano che Dio li aveva salvati dal nostro male. Se dicevo qualcosa, mi prendevano a pugni e schiaffi”.

“Durante l’interrogatorio, un talebano aveva una cintura in mano, che usava spesso, colpendo con la parte metallica, che poteva farti svenire se colpiva l’osso. Non facevano domande, ti prendevano con la scusa dell’interrogatorio e ti torturavano. Dicevano di ripetere tutto quello che ci suggerivano. Quando ho detto che non l’avrei fatto e che non avrei mentito, mi hanno schiaffeggiato così forte che mi sono bruciati gli occhi. Hanno detto: “Hai dato il tuo corpo agli occidentali e ora non ci parli?” Quando ho sistemato il mio velo, hanno detto: “Hai camminato a piedi nudi per le strade, resta qui allo stesso modo e parla”. Alla fine, ho dovuto fare una confessione forzata e ripetere tutto quello che dicevano per sfuggire al loro tormento”.

Questa ex prigioniera talebana afferma che le torture psicologiche e fisiche dei talebani sono indimenticabili. Sottolinea che il pestaggio di una donna da parte di uomini, gli insulti e le umiliazioni che lei e altri hanno sopportato non saranno mai dimenticati e un giorno i talebani saranno ritenuti responsabili di tutte queste atrocità. Dice di aver assistito ad altri incidenti scioccanti in prigione. Aggiunge: “Un giorno volevo andare in bagno e una donna era malata. La donna era sdraiata nell’angolo della stanza, soffriva per le doglie e nessuno si preoccupava di lei. Ha sopportato il suo dolore e ha partorito da sola nelle sporche condizioni carcerarie. E’ stato orribile. C’erano donne in prigione i cui figli non avevano mai visto il mondo esterno. Il motivo per cui la maggior parte delle donne venivano imprigionate era sconosciuto, molte venivano arrestate solo per la loro etnia”.

Parnian racconta che nei primi tempi i talebani le bruciarono una mano e in seguito, poiché la bruciatura raggiunse l’osso, non la appesero più per i piedi, ma la sottoposero ad altre torture, tra cui pugni, calci e percosse con cinture. Aggiunge: “Quando mi dicevano di dire qualcosa e mi rifiutavo, mi coprivano il viso con sacchetti di plastica finché non ero costretta a parlare. Mi picchiavano con le cinture. Una volta, la cintura mi colpì l’occhio e ho ancora la cicatrice. L’acqua del riscaldamento si infiltrava nella stanza, bagnando tutto. Mi diedero una vecchia, sporca e sottile coperta e i suoi effetti rimangono: ho ancora dolore alle gambe e alla schiena. Ho visto ragazze trascinate per i piedi e ho sentito le loro urla mentre imploravano il religioso di fermarsi, dicendo che le stavano tagliando le gambe. Ho persino sentito le urla di uomini a cui erano appese pietre ai testicoli”.

Parnian aggiunge: “Un giorno, quando mi hanno portato all’interrogatorio, mi hanno chiesto chi mi sosteneva. Uno di loro si è messo dietro di me con una baionetta innestata su un Kalashnikov e ha detto che se non avessi confessato, mi avrebbe tagliato la carne con il coltello e mi avrebbe staccato la pelle dalla mano”.

Le cicatrici psicologiche non si possono dimenticare

Mehrafarin (pseudonimo), un’altra ragazza che protesta e che ha subito la detenzione da parte dei talebani, dice di aver protestato per il diritto delle donne all’istruzione e alla fine ha dovuto sopportare varie forme di umiliazione, insulti e torture da parte dei talebani, così come lo sguardo discriminatorio della società. Aggiunge che le ferite fisiche guariscono nel tempo, ma le cicatrici psicologiche che ha sopportato non saranno mai guarite o dimenticate. Con voce strozzata dice: “Quando una ragazza viene detenuta in Afghanistan, la sua vita sociale non torna mai alla normalità. Nessuno può sopportare questa amarezza. Le persone fanno commenti estremamente duri e ingiusti e ricorrono a insulti e umiliazioni”.

Aggiunge: “I talebani non mi hanno permesso di incontrare la mia famiglia in prigione. Ci picchiavano e ci insultavano, ci chiedevano perché non eravamo sposate. Dicevamo che eravamo minorenni e che dovevamo studiare, ma ci chiamavano infedeli e ci picchiavano con pugni, calci e calci dei fucili. Mia sorella, a causa dei colpi alla testa, ha sviluppato disturbi neurologici e forti mal di testa. Sono anche malata e sotto shock. I talebani non consideravano le donne in prigione come esseri umani ”.

Sandokht (pseudonimo), una delle donne che protestavano, dice: “Quando i talebani ci hanno arrestate, avevo paura di essere aggredite sessualmente. Tutte le ragazze erano spaventate e le nostre mani e i nostri piedi tremavano. Quando sono arrivate le dipendenti talebane, ci hanno spaventate e minacciate ancora di più. Ci dicevano che ci avrebbero lapidate, che avrebbero sparso del sale sulla neve e sul cemento e poi ci avrebbero lasciate all’aria fredda a camminarci sopra. Ci chiedevano se capivamo contro chi ci stavamo schierando. Dicevano che ora che eravamo lì, avremmo dovuto piangere così tanto che i nostri volti si sarebbero spellati dalle lacrime”.

Aggiunge: “Avevo paura delle minacce delle dipendenti talebane. Avevo un bambino piccolo che piangeva e diceva che dovevamo andare a casa perché faceva freddo e non c’era acqua. Anche l’acqua del water era tagliata e gocciolava. Non importa quanto mio figlio chiedesse acqua, non riuscivo a trovare acqua pulita per lui. Gli ho dato un po’ di acqua del water in una brocca e il giorno dopo non riusciva a sollevare la testa, ammalato gravemente. Non c’erano né dottori né medicine. I talebani hanno chiesto soldi alla mia famiglia per il mio rilascio, ma loro hanno detto che non avevano più una figlia. Mi hanno rinnegata per liberarsi dei talebani”.

Mehrasa (pseudonimo), un’altra donna che protesta, dice che i talebani le hanno legato le mani dietro la schiena durante il suo arresto. La prima notte in prigione le hanno versato acqua fredda sulla testa, l’hanno portata per interrogarla e le hanno chiesto perché stesse protestando contro il regime dei talebani. “Mi hanno puntato una pistola all’orecchio e hanno detto che mi avrebbero uccisa, giustiziata. Mi hanno chiesto perché stessi protestando. Mi hanno picchiata e sono stata così spaventata che sono svenuta”.

I talebani hanno negato alla sua famiglia di averla portata dentro e poi hanno detto: “Siete disonorevoli e senza dignità perché non sapete che vostra moglie e vostra figlia stanno servendo degli stranieri”. Secondo lei, il peggior tipo di tortura è quando i talebani detengono una donna senza alcun crimine, senza accesso a un avvocato difensore e senza un giusto processo.

Questa ex prigioniera talebana afferma che tutto è possibile nelle prigioni talebane. Le donne arrestate dai talebani immaginano di tutto, dalla lapidazione allo stupro. Aggiunge anche che le donne i cui arresti sono pubblicizzati dai media vengono risparmiate dalla morte e dalla lapidazione, ma vengono comunque torturate.

Nel frattempo, negli ultimi tre anni, i talebani hanno arbitrariamente arrestato diverse donne con varie accuse. Oltre a tenere tribunali extragiudiziali e a fustigare pubblicamente le donne, i talebani hanno imprigionato centinaia di donne e ragazze in un processo ingiusto, accusandole di collaborare con fronti anti-talebani, di avere relazioni extraconiugali o di parlare al telefono con uomini che considerano non-mahram (uomini non imparentati).

Già precedentemente Hasht-e Subh Daily, in diverse indagini, aveva scoperto che alcune donne nelle prigioni e nei centri di detenzione dei talebani erano state sottoposte ad aggressioni sessuali sia individuali che di gruppo da parte di membri talebani e che durante gli interrogatori i talebani avevano ordinato alle detenute di spogliarsi e gravemente torturate quelle che si rifiutavano, al punto che i loro organi genitali venivano picchiati.

I talebani mandano le figlie in scuole “occidentali”


L’attore e filantropo scozzese David Hayman ha affermato che i talebani stanno mandando le loro figlie in una scuola in Afghanistan finanziata dalla sua organizzazione benefica, Spirit Aid

Kabul Now, 26 febbraio 2025

In un’intervista al quotidiano scozzese The Herald, Hayman ha affermato che attualmente la scuola accoglie circa 80 studenti, sia maschi che femmine.

“Ho ancora la mia piccola scuola in Afghanistan, che ospita 80 alunni, ragazzi e ragazze. I talebani mandano le loro figlie a scuola”, ha detto.

Hayman ha condannato le azioni dei talebani, definendoli “bastardi doppi” per aver negato l’istruzione alla maggior parte delle ragazze afghane, mentre vi iscrivevano le proprie figlie.

Non ha rivelato l’ubicazione della scuola in Afghanistan.

L’attore, che ha fondato Spirit Aid nel 2001, ha dichiarato che spera di mettere in scena un’opera teatrale che metta in luce la difficile situazione delle donne afghane.

“Le donne sono ormai delle non cittadine, non possono più ridere o cantare nelle loro case, dove l’istruzione è limitata alla scuola primaria e non possono accettare un lavoro”, ha affermato.

Secondo il sito web dell’organizzazione benefica, Spirit Aid è attiva in Afghanistan dal 2002 e fornisce aiuti umanitari, tra cui servizi medici, alle comunità isolate.

Dopo il loro ritorno al potere nel 2021 i talebani hanno vietato l’istruzione alle ragazze oltre la sesta elementare e hanno escluso le donne dalle università e dalla maggior parte dei lavori. Nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite, delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale, compresi i paesi islamici, i talebani non hanno ancora invertito le loro politiche.

Tuttavia, diversi resoconti indicano che alcuni membri senior dei talebani stanno silenziosamente assicurando l’istruzione alle proprie figlie. Un‘indagine del 2022 dell’Afghanistan Analysts Network (AAN) ha scoperto che membri di alto rango dei talebani stanno mandando le proprie figlie in scuole e università all’estero.

AAN ha citato un funzionario talebano in Qatar che ha ammesso di aver iscritto le sue figlie nelle scuole locali: “Dato che tutti nel quartiere andavano a scuola, le nostre figlie hanno preteso di andarci anche loro”.

Il rapporto ha anche scoperto che la figlia di un attuale ministro talebano sta studiando medicina presso un’università in Qatar.

“I membri dei talebani e le loro famiglie che vivono qui [in Qatar] hanno forti richieste per un’istruzione moderna, e nessuno si oppone né per i ragazzi né per le ragazze, di qualsiasi età”, ha detto ad AAN un ex funzionario talebano di stanza in Qatar.

Trump azzera Usaid, fondi all’estero ridotti del 92%

ANSA, Redazione, 27 febbraio 2025

Donald Trump azzera il 92% dei finanziamenti destinati all’estero di Usaid, l’agenzia per lo sviluppo finita nel mirino del presidente e del first buddy Elon Musk fin dalle prime ore alla Casa Bianca.

I tagli a circa 10.000 progetti consentiranno di risparmiare 60 miliardi di dollari, contribuendo così in modo sostanziale all’obiettivo di riduzione delle spese pubbliche del Dipartimento per l’Efficienza del governo.

La sforbiciata agli aiuti esteri arriva al termine di una revisione dei contratti di Usaid e rappresenta una ritirata degli Stati Uniti dall’assistenza oltreoceano, considerata per decenni nell’interesse americano in quanto in grado di portare stabilità e creare alleanze. Il quasi azzeramento degli aiuti si inserisce nella volontà del presidente di smantellare l’Usaid, come dimostrato anche dai licenziamenti di massa del suo personale. Agli ex dipendenti sono stati concessi solo 15 minuti per raccogliere i loro averi dalle scrivanie e lasciare l’edificio. Davanti alla sede decine di manifestanti hanno espresso la loro solidarietà ai lavoratori licenziati, ringraziandoli di quanto fatto per anni.

“Stiamo eliminando notevoli sprechi causati da decenni di deriva istituzionale”, ha spiegato l’amministrazione Trump in una comunicazione interna, assicurando di essere al lavoro per un utilizzo “saggio dei soldi dei contribuenti”, così che vadano realmente a “promuovere gli interessi americani”. Musk e il presidente da settimane lamentano gli sprechi e gli abusi commessi dall’Usaid senza fornire però prove al riguardo. La loro azione è mossa da un unico obiettivo: quello di realizzare risparmi per almeno 1.000 miliardi da usare per risanare i conti pubblici.

La picconata di Trump e Musk si è abbattuta su circa 5.800 iniziative di Usaid e 4.100 del Dipartimento di stato, lasciando intatti solo 500 progetti dell’agenzia di sviluppo e 2.700 del ministero guidato da Marco Rubio. L’annuncio della Casa Bianca sui tagli è arrivato mentre è in corso una dura battaglia legale, che ha visto il coinvolgimento anche della Corte Suprema.

I saggi hanno infatti sospeso fino a venerdì alle 12 la decisione di un tribunale che obbligava l’amministrazione Trump a sbloccare entro la mezzanotte di mercoledì circa due miliardi di dollari di assistenza all’estero congelati dal governo. La partita resta così ancora aperta ma pochi ritengono che il presidente la perderà: la Corte Suprema a maggioranza repubblicana – è l’idea – gli regalerà un’altra vittoria dopo quella dell’immunità presidenziale, forte della quale sta conducendo la sua azione senza fermarsi di fronte a nulla.

La dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri è una ricetta per il caos e la distruzione permanenti

Questo saggio di opinione analizza la dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri: “Senza la jihad finanziata dall’estero degli anni ’80 e i miliardi versati dopo il 2001 il regime oppressivo, anti-istruzione, anti-donne e anti-libertà dei talebani non sarebbe emerso all’interno della società afghana. L’attuale crisi è il risultato diretto della dipendenza dai finanziamenti esteri, una malattia che ha plasmato la traiettoria dell’Afghanistan negli ultimi decenni”.

Younus Negah, Zan Times, 26 febbraio 2025

Nel 2021, gli Stati Uniti hanno ritirato le loro forze dall’Afghanistan, ma hanno lasciato dietro di sé un vasto arsenale di attrezzature militari e non hanno interrotto il flusso di dollari verso il Paese. Le ultime dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump lasciano intendere che gli stanziamenti di bilancio per l’Afghanistan e i trasferimenti finanziari di aiuti esteri ai Talebani potrebbero continuare sotto la sua amministrazione.

Inizialmente, l’ordine di Trump di sospendere tutti gli aiuti esteri tramite l’USAID, l’agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti, ha fatto pensare che una cruciale ancora di salvezza finanziaria dei Talebani potesse essere tagliata. Di certo, gli aiuti umanitari e allo sviluppo destinati alla popolazione afghana sono stati sospesi. All’inizio, il mercato valutario afghano ha subito qualche turbolenza.

Tuttavia, ben presto è apparso chiaro che forze al di fuori dell’autorità di Trump stavano impedendo l’interruzione di tutte le transazioni in dollari con i Talebani. Trump ora dice che dare soldi ai Talebani potrebbe non essere un problema: “Voglio esaminare la questione, ma se stiamo per dare loro dei soldi, va bene”, ma vuole che “restituiscano il nostro equipaggiamento militare”. Alcuni oppositori dei Talebani hanno espresso la volontà di aiutare a recuperare le armi americane, anche se John Sopko, ex Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), ha dichiarato alla Conferenza sulla Sicurezza di Herat a Madrid che le armi americane rimaste in Afghanistan “non valgono la pena di essere recuperate”.

L’ufficio SIGAR, che ha monitorato i flussi di aiuti statunitensi in Afghanistan dal 2008 e che sarà sciolto dopo la pubblicazione del suo rapporto finale nel gennaio 2026, rimane una fonte relativamente credibile per indagare sulle specifiche dell’assistenza diretta degli Stati Uniti all’Afghanistan. Ogni tre mesi, l’agenzia pubblica un rapporto completo sugli aiuti statunitensi. L’ultimo rapporto, pubblicato il 30 gennaio, è stato diffuso a pochi giorni di distanza dall’annuncio della sospensione di tre mesi degli aiuti esteri da parte dell’amministrazione Trump. Secondo questo rapporto, dal ritorno dei Talebani al potere, gli Stati Uniti hanno stanziato 3,71 miliardi di dollari in aiuti all’Afghanistan. Di questo importo, il 64% è stato convogliato attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale e il Fondo fiduciario per la resilienza dell’Afghanistan (ARTF), mentre i restanti 1,2 miliardi di dollari rimangono disponibili per un’eventuale erogazione.

Cosa si aspettano gli Stati Uniti da questo investimento?

L’importo totale dei fondi spesi pubblicamente e promessi dagli Stati Uniti per l’Afghanistan dal mese di agosto 2021 è significativamente superiore ai 3,7 miliardi di dollari menzionati in precedenza. Nel suo rapporto, il SIGAR include altri tre importi, portando il totale a oltre 21,4 miliardi di dollari. Questi includono:

– 8,7 miliardi di dollari per il “sostegno agli sfollati afghani che si reinsediano negli Stati Uniti attraverso il programma Operation Allies Welcome (OAW)”
– 5,5 miliardi di dollari per il “Programma governativo successivo all’OAW”, che prevede il trasferimento e il reinsediamento degli afghani negli Stati Uniti.
– 3,5 miliardi di dollari “in beni della banca centrale afghana precedentemente congelati negli Stati Uniti e destinati al Fondo per il popolo afghano (Afghan Fund), con sede in Svizzera”.

I 3,7 miliardi di dollari erogati in Afghanistan dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) attraverso organizzazioni internazionali e ONG per sostenere i settori della sanità, dell’agricoltura e dell’istruzione fanno effettivamente parte del sostegno statunitense all’amministrazione talebana. Secondo il SIGAR, questi fondi sono stati assegnati con i seguenti obiettivi:

– evitare il collasso dell’economia afghana sotto il governo talebano

– impedire che l’Afghanistan diventi un rifugio sicuro per i terroristi

– garantire il rilascio degli ostaggi americani detenuti nei campi di prigionia talebani

– prevenire la persecuzione degli ex dipendenti del governo afghano

– proteggere la libertà dei media e i diritti delle donne.

Tuttavia, secondo il rapporto del SIGAR, nessuno degli altri obiettivi è stato raggiunto, a parte il primo (stabilizzazione economica).

Il SIGAR afferma inoltre che diversi altri Paesi e istituzioni internazionali, tra cui la Germania, il Regno Unito, la Banca asiatica di sviluppo, l’Unione europea, la Banca mondiale, il Canada, l’Australia, la Svezia e altri, hanno contribuito agli aiuti multilaterali negli ultimi tre anni. Collettivamente, questi Paesi e gli Stati Uniti hanno immesso 8,3 miliardi di dollari nell’economia afghana.

Tale importo supera le entrate interne dei Talebani. Secondo l’Autorità nazionale di statistica e informazione dell’Afghanistan:

12021-22: Le entrate interne sono state di 160,3 miliardi di afghani.
2022-23: Entrate interne pari a 198,7 miliardi di afghani
2023-24: Entrate interne pari a 210 miliardi di afghani

Nel settembre 2023, la Banca Mondiale ha riferito che le entrate dell’Afghanistan per il 2024-25 dovrebbero superare i guadagni dell’anno precedente. Se consideriamo una media di 200 miliardi di afghani di entrate interne annue in tre anni, ciò equivale a circa 2,7 miliardi di dollari all’anno al tasso di cambio attuale.

Ciò significa che le entrate interne dei Talebani negli ultimi tre anni sono, nella migliore delle ipotesi, pari solo agli aiuti esteri ufficiali e dichiarati che l’Afghanistan ha ricevuto.

Queste cifre evidenziano la forte dipendenza dell’Emirato talebano dagli aiuti esteri. Oltre agli importi dichiarati ufficialmente, nell’economia afghana sotto il governo talebano continuano a fluire ingenti fondi non dichiarati e segreti. Si possono identificare almeno tre principali fonti finanziarie non ufficiali:

1 – Donazioni religiose e assistenza di intelligence: una parte significativa dei finanziamenti non ufficiali probabilmente proviene da donazioni religiose e da aiuti segreti di intelligence, convogliati verso diverse fazioni talebane, gruppi jihadisti come al-Qaeda e ISIS e altri attori militanti provenienti dalla regione e dal resto del mondo.
2 – Rimesse degli espatriati afghani: anche i fondi inviati dai lavoratori e dai residenti afghani all’estero alle loro famiglie o per progetti di sviluppo locale e di beneficenza contribuiscono in modo significativo.
3 – Entrate derivanti dalla droga: nonostante il calo della produzione di oppio, l’economia legata al traffico di droga continua a generare entrate.

Questo ambiente finanziario consente al leader supremo dei Talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada, di mantenere le sue forze di repressione a Kandahar, che contano decine di migliaia di uomini. Permette inoltre a ministri, comandanti e funzionari talebani di creare orfanotrofi e madrase come centri di reclutamento per bambini e adolescenti, assicurando così un continuo rifornimento di combattenti. Se il mondo finanzia i servizi di base ed essenziali, i Talebani possono dedicarsi liberamente alle lotte di potere interne e alla soppressione delle forze di opposizione.

Una ricetta per l’instabilità e l’inevitabile caduta dell’Emirato talebano

La fragilità delle finanze pone anche le basi per un eventuale crollo dell’Emirato talebano. La dipendenza dei Talebani dall’assistenza straniera a breve termine e dai finanziamenti dell’intelligence, che potrebbero esaurirsi in qualsiasi momento, più il denaro illecito della droga sostenuto dall’oppressione e dalla discriminazione, è una ricetta per il caos e la distruzione.

Attualmente, la fonte di finanziamento non statale più affidabile per mantenere operativo il sistema talebano sono gli Stati Uniti. Tuttavia, questi aiuti non sono destinati a durare all’infinito. Sebbene Trump abbia indicato che il denaro degli aiuti stranieri continuerà ad affluire ai Talebani, i rapporti SIGAR mostrano un calo dell’assistenza ufficiale degli Stati Uniti:

2022: 1,2 miliardi di dollari
2023: 1,4 miliardi di dollari
2024: 798,8 milioni di dollari
2025: 255,3 milioni di dollari.
Gli aiuti statunitensi all’Afghanistan si stanno rapidamente riducendo, il che rafforza l’idea che la dipendenza dei Talebani dai finanziamenti esteri sia difficilmente sostenibile.

L’impatto della riduzione degli aiuti sui gruppi non talebani

La sospensione di tre mesi degli aiuti esteri decisa da Trump ha colpito sia le popolazioni talebane che quelle non talebane, ma il peso immediato ricade maggiormente sui gruppi non talebani: i programmi educativi sono stati chiusi per le donne e le ragazze, che sono state private della scolarizzazione; innumerevoli famiglie di migranti si trovano in un limbo, senza protezione né risorse; i media anti-talebani stanno lottando con gravi carenze di fondi. Nel frattempo, i talebani continuano a ricevere gli stipendi, le madrase e gli orfanotrofi da loro gestiti sono aperti e operativi e il sostegno finanziario ai talebani pakistani e ad altri alleati estremisti continua a fluire.

Per tutte le fazioni politiche afghane, dovrebbe essere ormai chiaro che gli aiuti stranieri non sono la salvezza del Paese, ma hanno finito per diventare un importante ostacolo alla formazione di un governo nazionale e di un’economia autosufficiente. Se da un lato gli aiuti sono necessari per costruire scuole e cliniche e sfamare gli affamati, dall’altro arricchiscono alcuni individui e hanno contribuito ad alimentare guerra, distruzione, instabilità e dipendenza.

La dipendenza dell’Afghanistan dai finanziamenti stranieri, sia militari che per lo sviluppo, ha una lunga storia, ma l’ondata più dannosa è iniziata dopo il colpo di Stato dell’aprile 1978. Come una dipendenza da oppio, si è diffusa in tutti i gruppi sociali e politici, indebolendo le basi culturali, politiche ed economiche del Paese.

Senza la jihad finanziata dall’estero negli anni ’80 e i miliardi versati dopo il 2001, il regime oppressivo, anti-istruzione, anti-donna e anti-libertà dei Talebani non sarebbe emerso dall’interno della società afghana. La crisi attuale è il risultato diretto della dipendenza dai finanziamenti esteri, una malattia che ha segnato il destino dell’Afghanistan negli ultimi decenni.

Anche se la riduzione degli aiuti esteri causerà sofferenze a breve termine, nel lungo periodo è necessaria per l’Afghanistan, perché gli permetterà di costruire un governo nazionale e di liberarsi dai progetti di intelligence stranieri che hanno dettato il suo destino per troppo tempo.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

Ocalan: Appello per la Pace e una Società Democratica

Woman Jin Solidarity,  27 febbraio 2025
Oggi Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo incarcerato da oltre 25 anni sull’isola di Imrali, dopo anni di silenzio forzato ha rilasciato la seguente dichiarazione

Appello per la Pace e una Società Democratica

Il PKK è nato nel XX secolo—il secolo più violento della storia—nel contesto creato da due guerre mondiali, la Guerra Fredda, la repressione delle libertà e, soprattutto, la negazione dell’identità curda.
Dal punto di vista teorico, programmatico, strategico e tattico, è stato profondamente influenzato dalla realtà del sistema socialista reale del secolo scorso. Tuttavia, il crollo del socialismo reale negli anni ’90, dovuto a ragioni interne, insieme alla dissoluzione delle politiche di negazione dell’identità nel paese e ai progressi nella libertà di espressione, hanno portato il PKK a uno stato di perdita di significato e ripetizione eccessiva. Di conseguenza, come movimenti simili, ha esaurito il proprio ciclo di vita, rendendo necessaria la sua dissoluzione.
Nel corso di una storia lunga oltre 1.000 anni, turchi e curdi hanno mantenuto un’alleanza—prevalentemente basata su una cooperazione volontaria—per preservare la loro convivenza e resistere alle potenze egemoniche.

Gli ultimi 200 anni di modernità capitalista hanno cercato di smantellare questa alleanza. Le forze coinvolte, in linea con i propri interessi di classe, hanno principalmente servito questo obiettivo. Questo processo si è accelerato con le interpretazioni assimilazioniste della Repubblica. Oggi, il nostro dovere fondamentale è riorganizzare questa fragile relazione storica in uno spirito di fratellanza, senza ignorare le fedi.

L’emergere e l’ampio sostegno al PKK—la più lunga e vasta insurrezione e movimento armato nella storia della Repubblica—sono derivati dalla chiusura dei canali politici democratici.
Il risultato inevitabile di una traiettoria ultranazionalista—come richieste di uno Stato-nazione separato, federalismo, autonomia amministrativa o soluzioni culturaliste—non riesce a fornire una risposta alla sociologia storica e sociale.
Il rispetto delle identità, il diritto alla libera espressione e la possibilità di organizzarsi democraticamente—permettendo a ogni segmento della società di plasmare le proprie strutture socio-economiche e politiche—possono realizzarsi solo attraverso l’esistenza di una società e di uno spazio politico democratici.

Il secondo secolo della Repubblica (Turca) potrà ottenere una continuità duratura e fraterna solo se sarà coronato dalla democrazia. Non esiste un’alternativa alla democrazia per costruire e attuare un sistema. Non può esserci un’altra via. La riconciliazione democratica è il metodo fondamentale.

Anche il linguaggio di questa era di pace e società democratica deve essere sviluppato in conformità con la realtà.
Alla luce dell’attuale clima, plasmato dall’appello del signor Devlet Bahçeli, dalla volontà espressa dal signor Presidente e dagli approcci positivi di altri partiti politici nei confronti di tale appello, faccio un appello al disarmo e ne assumo la responsabilità storica.

Così come ogni organizzazione e partito contemporaneo, la cui esistenza non sia stata interrotta con la forza, farebbe volontariamente, convocate il vostro congresso e prendete la decisione di integrarsi con lo Stato e la società: tutti i gruppi devono deporre le armi e il PKK deve sciogliersi.

Rivolgo i miei saluti a tutti i segmenti della società che credono nella convivenza e ascoltano il mio appello.
Abdullah Öcalan

Resistenze femminili a Kabul (o Teheran)

Cristina Giudici, il Post, 25 febbraio 2025

«Credo di avere intuito cosa sia il coraggio solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere l’apartheid di genere»

Alla fine degli anni Ottanta vivevo a Managua. Per incontrare i gruppi armati controrivoluzionari dei Contras, andai in un territorio minato in una foresta del Nicaragua. Ero convinta di fare la cosa giusta per stare dalla parte dei sandinisti (che hanno fatto una bruttissima fine, ma questa è un’altra storia). Fu un atto di coraggio? Non so, ma ci voleva parecchia incoscienza per trovarsi in quel luogo. Feci molte altre esperienze simili, soprattutto all’inizio del mio lavoro da giornalista.

Sono andata da sola nella foresta amazzonica peruviana, certa di incontrare un leader leggendario dei guerriglieri Tupac Amaru sulla base di una vaga promessa ottenuta da un loro dirigente che si era trasferito in Germania dopo essere rimasto cieco per aver maneggiato ordigni esplosivi rudimentali. Ci rimasi diversi giorni da sola, camminando giorno e notte, senza una rete di sostegno su cui contare. Alla fine il gran capo non si fece vedere. Incontrai solo agguerriti soldati dell’esercito che mi scacciarono dalla zona del conflitto. Anche quella fu una scelta rischiosa che non avrebbe certo reso il mondo migliore.

Racconto questi episodi, magari un po’ deformati dalla memoria, perché non è stato sfidando la ragionevolezza per inseguire il mio spirito di avventura e il desiderio di un giornalismo “in presa diretta” che ho capito cosa sia il coraggio. Credo di averlo intuito solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere pacificamente regimi che impongono l’apartheid di genere. Ma non è possibile cogliere appieno la forza di una donna disposta a immolarsi anche solo per ottenere il diritto di vedere una partita di calcio dal vivo.

La forza delle donne

Sahar Khodayari aka Blue Girl si è data fuoco il 2 settembre 2019 per non sottostare al processo che la vedeva imputata per essere entrata in abiti maschili in uno stadio, interdetto alle donne dal 1981, due anni dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Grazie al suo gesto, il 25 agosto del 2022 cinquecento donne hanno potuto assistere a una partita di calcio del campionato nazionale nello stadio Azadi di Teheran e cantare in coro dagli spalti Girl Blue di Stevie Wonder: «Bambina, sei triste. Anche se tutto quello che hai è visibile a te, nel tuo cuore resta una parte che è blu come il cielo».

Samia Hamasi, invece, si è ribellata per giocare. L’ho incontrata in un centro di accoglienza milanese dove era arrivata nell’agosto del 2021 in fuga dall’Afghanistan riconquistato dai talebani e vergognosamente abbandonato dalla missione internazionale guidata dalla NATO (dopo aver spacciato dosi massicce di tesi infondate su come la democrazia potesse essere esportata con le armi). Indossava i jeans e una t-shirt della sua squadra.

La sua passione per il calcio – mi ha raccontato in inglese stentato – era nata guardando Holly e Benji, un cartone animato giapponese, poi era diventata calciatrice e allenatrice della squadra femminile afghana under 17. Il suo racconto si è improvvisamente interrotto quando un altro profugo afghano si è avvicinato. Davanti alla sua espressione corrucciata, ho smesso di farle le domande e ci siamo lasciate con la promessa di risentirci al telefono e rivederci presto. Invece è scomparsa. «Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi. Ti chiamo presto, ciao Sam», mi ha scritto prima di inabissarsi di nuovo.

Semplicemente ineluttabile

È stata lei a dettare i tempi dei nostri contatti, che ho accettato perché sentivo la necessità di conoscere i dettagli della sua storia e di come era riuscita a scappare, mentre gli studenti coranici le puntavano contro il fucile. Sapevo che Samia vagava fra l’Italia, dove ogni tanto tornava per vedere sua madre, e la Germania, dove sperava di ottenere l’asilo e l’opportunità di scendere in campo di nuovo. Ci siamo ritrovate un anno dopo il nostro primo incontro. Era riuscita a ricominciare a giocare con il VfL Bienrode, una squadra di Braunschweig, in Bassa Sassonia. Mi ha mostrato i suoi disegni: si era autoritratta coperta da un burqa ma abbracciata a un pallone, davanti allo sguardo di un talebano con una frusta. «L’ho fatto per ricordarmi come sarebbe andata a finire se non fossi scappata», mi ha detto. Le ho chiesto dove avesse trovato il coraggio, ha alzato le spalle, con un’espressione scanzonata come se fosse stato semplicemente ineluttabile.

Ho fatto la stessa domanda ad Atefa Ghafoory, giornalista afghana di Herat, che mi aveva raccontato di quando i talebani avevano devastato la sua casa, picchiato il padre e ammazzato lo zio. Prima di riuscire a oltrepassare i confini e arrivare in Europa, aveva dovuto attraversare il paese con il figlio in braccio e i genitori anziani, cambiando cinquanta rifugi in tre mesi. Era angosciata all’idea di non poter salvare altre donne, alcune delle quali resistono e costruiscono scuole clandestine, rimaste in un paese dove ora alle donne si impedisce perfino di avere una finestra. Anche Atefa Ghafoory mi ha risposto con un sorriso: «Vuol dire fare ciò che è necessario, ma è comunque troppo poco».

Vorrei tanto sapere dove abbia trovato la forza anche Khalida Popal, che nel 2007 ha fondato la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, ed è stata così abile e intelligente da diventare responsabile finanziaria della federazione afghana di calcio e sfidare gli uomini che preferivano restare senza stipendio piuttosto che prendere l’assegno mensile dalle sue mani. Recentemente ho letto la sua autobiografia, My Beautiful Sisters, non ancora tradotta in Italia. Khalida racconta di aver iniziato a palleggiare in un campo profughi in Pakistan nel 1996, quando aveva solo nove anni, dopo la fuga della famiglia durante il primo emirato dei talebani, e di aver continuato anche una volta rientrata a Kabul, protetta dalle alte mura del cortile della scuola e dalla complicità della madre, insegnante di educazione fisica.

All’inizio di ogni capitolo Khalida Popal, che a scuola veniva soprannominata la «calciatrice matta», riassume la sua filosofia sportiva con un paragrafo che si conclude sempre con la stessa frase: «Apri gli occhi».

“Apri gli occhi”

«La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Apri gli occhi».

Dopo essere stata minacciata, aggredita e intrappolata in un conflitto di potere fra il presidente del comitato olimpionico e quello della federazione di calcio, che la teneva sorvegliata in ufficio con una videocamera, nel 2011 Khalida è riuscita a scappare in India con un passaporto falso. Oggi vive in Danimarca, dove ha creato Girl Power, un’organizzazione che usa lo sport come strumento di attivismo politico con lo scopo di connettere, unire e aumentare il potere delle ragazze in tutto il mondo. È stata lei, nell’agosto del 2021, a far evacuare in Australia, in Portogallo e a Londra le calciatrici delle nazionali senior e giovanili dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari.

Ho chiesto cos’è il coraggio a molte donne afghane e iraniane che hanno scelto di essere libere di scegliere. Ognuna di loro mi ha dato una risposta diversa. «Quando sono andata a vivere da sola, lasciavo una piccola luce accesa ogni sera per sentirmi al sicuro. Con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà quella luce non mi avrebbe aiutato a superare le mie ansie e l’ho spenta», mi ha detto Sadaf Baghbani, un’attrice iraniana di 29 anni arrivata in Italia per curare le ferite provocate da circa 150 pallini di piombo che le avevano sparato addosso i pasdaran nel settembre del 2022, durante la rivolta scoppiata dopo l’omicidio di Jina Mahsa Amini. «Il coraggio è la paura di non farcela a vivere senza libertà», mi ha detto poi. Quindi si diventa coraggiosi perché si ha paura e si deve imparare a camminare nel buio?

Cristina Giudici
Scrive per Il Foglio, Grazia, Linkiesta. Da diversi anni si occupa di immigrazione e fondamentalismo. Nel 2018 ha fondato la testata online NuoveRadici.world e dal 2022 collabora con la Fondazione Gariwo. Ha scritto diversi libri: con L’Italia di Allah ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli. Nel 2024 ha vinto il Nuovo Premio Guido Vergani. A marzo uscirà il suo nuovo libro, scritto con Fabio Poletti: Vita e Libertà contro il fondamentalismo (Campo Libero, collana della Fondazione Gariwo, Mimesis).

 

L’apartheid di genere non merita il boicottaggio sportivo?

Oliver Marrone, The Teleghaph, 25 febbraio 2025

L’aparthied di genere non viene considerato altrettanto grave dell’apartheid di razza: il boicottaggio sportivo che è stato deciso a suo tempo contro il razzismo in Sudafrica non viene adottato contro la segregazione delle donne in Afghanistan. E il cricket maschile continua la sua corsa facendo finta di niente

“Quello che sta accadendo in Afghanistan”, ha dichiarato Richard Thompson, presidente dell’England and Wales Cricket Board, ‘è a dir poco un apartheid di genere’.

Una parola agghiacciante: apartheid. E storicamente è stata una chiamata alle armi: i 21 anni di esilio del Sudafrica dal cricket internazionale hanno costituito probabilmente il boicottaggio più efficace nella storia dello sport. Se la segregazione razziale sistematica di una nazione ha rappresentato una linea rossa non negoziabile, la schiavitù medievale delle donne di un’altra nazione ha prodotto solo vuota retorica. Infatti, dopo l’indignazione per l’oscena misoginia dei Talebani e la riprovazione per il divieto imposto alle donne dai fanatici al potere di cantare o persino di leggere ad alta voce, l’Inghilterra disputerà una partita del Champions Trophy contro l’Afghanistan a Lahore come se si trattasse di uno spettacolo secondario. Non potrebbe esserci disonore più grande.

Non mi fa piacere dirlo, ma questa partita si sta svolgendo esclusivamente a causa della codardia degli uomini. Negli organi di governo del cricket, a prevalenza maschile, gli uomini non hanno la minima idea dell’orrore di cui sono vittime le donne afghane e sono naturalmente portati a considerarlo un ostacolo allo svolgimento di un torneo maschile. Anche quando tutti e tre gli avversari dell’Afghanistan nella fase a gironi – Inghilterra, Australia e Sudafrica – hanno condannato inequivocabilmente i Talebani, non hanno ancora il coraggio di rifiutarsi di giocare. Anche quando l’Afghanistan viola palesemente lo statuto dell’International Cricket Council non schierando una squadra femminile, l’unica risposta degli uomini al comando è quella di mettersi le mani sulle orecchie e sperare che le proteste si plachino.

Una coraggiosa resistenza

Ma questa è una questione in cui la protesta non verrà soffocata. Mentre alle donne afghane viene proibito qualsiasi tipo di espressione pubblica, c’è chi altrove parla coraggiosamente per loro. Oggi, alle 16:00, davanti ai cancelli del Lord’s, molti si riuniranno per protestare contro la BCE, rea di aver permesso lo svolgimento della partita a Lahore. Uno di loro è Arzo Parsi, nato a Kabul, che, dopo aver lasciato il suo Paese quando i Talebani presero il potere nel 1997, si è dato come missione quella di sottolineare la complicità del cricket nell’imbiancare quel regime infernale. Un’altra è Jean Hatchet, l’attivista femminista che ha fatto pressione sulla BCE affinché cambiasse idea, ricevendo solo il messaggio che, nonostante la situazione “straziante”, non sarebbe stata contemplata alcuna azione unilaterale.

Anche questi manifestanti si espongono a notevoli rischi personali. Di recente, quando ha sventolato un cartello con la scritta “Let Us Exist” fuori dal Parlamento, Parsi ha dovuto affrontare un uomo che brandiva una bandiera afghana e le gridava insulti sessisti in faccia. Hatchet spiega di aver subito minacce violente che l’hanno spinta a chiedere alla polizia di garantire la sicurezza dell’evento di oggi. Uno degli oratori previsti per la protesta era Natiq Malikzada, giornalista e critico di spicco dei Talebani. La settimana scorsa è stato accoltellato nella sua casa di Londra, riportando ferite al petto, alla spalla e alla mano.

“È piuttosto spaventoso, ma per noi si tratta di dimostrare alle donne afghane che non vengono ignorate e che il cricket non è più importante delle loro vite”, afferma Hatchet. “La BCE non sembra pensarla così. Anche quando le atrocità dei Talebani contro le donne sono così numerose da far pensare: “Cosa altro possono sopportare?”. Quindi, questa è la nostra occasione per dire: “Sì, possiamo vederti. E possiamo scegliere di non giocare con voi a questo maledetto cricket”. La situazione è cruenta. Le donne vengono lapidate e picchiate, gli abusi domestici sono diffusi. Il sangue è sui muri delle loro case. Ma a questi uomini non importa. Continueranno a giocare a cricket”.

I soldi guidano le decisioni

C’è poi il fatto che il Champions Trophy sarebbe stato un momento logico per un boicottaggio. Si tratta di un evento che non viene disputato da otto anni, che coinvolge solo otto squadre e ha un prestigio relativamente scarso nel calendario sovraffollato del cricket. Quale migliore piattaforma, quindi, per i Paesi che non nutrono rispetto per i Talebani, per dare seguito ai loro presunti principi con un’azione che sarebbe stata ascoltata in tutto il mondo? Purtroppo, però, è proprio qui che scatta l’ipocrisia. L’anno scorso, Richard Gould, amministratore delegato della BCE, ha annunciato che non sarebbero state programmate serie bilaterali tra Inghilterra e Afghanistan finché alle donne afghane non fosse stato permesso di praticare sport. Ma nove mesi dopo, un Champions Trophy li mette faccia a faccia e tutte le convinzioni morali volano fuori dalla finestra.

Lo stesso vale per l’Australia. Dal ripristino del dominio talebano nel 2021, si sono rifiutati di giocare contro l’Afghanistan tre volte, rinunciando a un Test, a tre partite Internazionali di un giorno e a una serie T20 che avrebbe dovuto svolgersi negli Emirati Arabi Uniti l’anno scorso. Se l’idea di scendere in campo è stata inconcepibile in tutte queste occasioni, perché non dovrebbe essere così anche per la Coppa del Mondo o il Champions Trophy?

Il denaro è la sgradevole risposta. Il Champions Trophy può avere un cachet discutibile, ma l’incentivo finanziario è innegabile: ogni squadra incassa 110.000 sterline semplicemente per essersi presentata e i vincitori finali possono guadagnare 1,77 milioni di sterline. Quindi, pur riconoscendo che la BCE ha donato 100.000 sterline al Global Refugee Fund per aiutare le giocatrici di cricket afghane in esilio, per lo più in Australia, quanto è credibile la sua affermazione di essere “affranta” dalla condizione delle donne sottoposte alla violenza dei talebani? “È evidente che non lo sono”, afferma Hatchet. “I loro cuori sono stati messi in vendita. Sia la BCE che l’ICC avrebbero potuto fare ciò che andava fatto per le donne. E hanno scelto, indipendentemente ma tutti e due, di non farlo”.

Un’ulteriore, ineludibile dimensione di questo dibattito è rappresentata dall’India. È l’India a detenere il dominio quasi totale sul cricket a livello globale, come dimostra l’accordo per i diritti mediatici per sette anni di eventi ICC del valore sbalorditivo di 2,4 miliardi di sterline, circa 115 volte l’equivalente accordo britannico con Sky Sports. Ed è l’India che ha esplicitamente cercato di riparare le relazioni con l’Afghanistan, con il segretario agli Esteri, Vikram Misri, che si è spinto fino a incontrare la controparte talebana a Dubai il mese scorso. In questo contesto, è inconcepibile che l’India approvi qualsiasi richiesta di estromettere l’Afghanistan da un torneo sportivo. Al contrario, è più probabile che il partito di governo indiano Bharatiya Janata, guidato da Narendra Modi, consideri le obiezioni sollevate dall’Inghilterra e dall’Australia come un’opportunità per affermare la propria posizione.

L’Inghilterra è troppo arrendevole

In Inghilterra, perlomeno, c’era una manifesta volontà politica di fare la cosa giusta. Solo sei settimane fa, oltre 160 parlamentari hanno firmato una lettera in cui si chiedeva alla BCE di boicottare la partita in Afghanistan in segno di protesta per la “spaventosa oppressione delle donne e delle ragazze e la rimozione dei loro diritti che continua senza sosta” da parte dei Talebani. Il messaggio diceva che l’organo di governo nazionale non poteva restare inattivo mentre si stava svolgendo una “insidiosa distopia”. Eppure, è proprio quello che si è verificato. Dopo aver scritto la lettera, la laburista Tonia Antoniazzi ha mantenuto, a suo merito, la linea di fermezza. Tuttavia, con il passare del tempo, il sostegno iniziale si è affievolito e molti politici hanno deciso che questa è una causa troppo spinosa da portare avanti. Ad oggi, David Lammy, ministro degli Esteri, non ha rilasciato dichiarazioni.

I giocatori di cricket inglesi si trovano a giocare contro una squadra che utilizza l’immagine di un regime tra i più riprovevoli del pianeta. Dimenticate l’idea che la squadra afghana, allenata dall’ex battitore numero 3 inglese Jonathan Trott, esista in qualche modo come entità distinta dai Talebani. Lo scorso agosto, diversi giocatori di alto livello, tra cui Rashid Khan, sono stati fotografati mentre prendevano il tè con Anas Haqqani, un alto funzionario talebano. Mentre in principio la loro ascesa dalle devastazioni della guerra poteva essere incorniciata come una storia emozionante, la realtà è cambiata. Ora hanno uno scopo più sinistro, fornendo una foglia di fico di legittimità a spietati persecutori di donne.

Si percepisce che l’Inghilterra questa volta è a disagio nell’essere associata all’Afghanistan. Alla vigilia della partita, hanno deciso di non affrontare il tema. L’unico commento degno di nota è stato quello di Joe Root, che ha dichiarato: “È chiaro che ci sono cose laggiù che sono difficili da sentire e da leggere, ma il cricket è una fonte di gioia per tante persone”. E per le donne? Quando nel 2021 l’Afghanistan ha raggiunto le semifinali della Coppa del Mondo T20 ci sono stati festeggiamenti di giubilo in ogni grande città. Tuttavia, tutti i partecipanti a queste feste erano uomini. Le donne, come in ogni altra sfera della loro vita sotto il regime talebano, erano state completamente cancellate.

L’Inghilterra non dovrebbe avere alcuna parte in tutto questo. Non stiamo parlando di qualche fugace preoccupazione internazionale, ma della distruzione totale delle libertà di 14 milioni di donne a cui è vietato cucinare vicino alla propria finestra o ricevere un’istruzione superiore alla scuola primaria. Nello sport esiste il fenomeno dell’imperativo morale. È stato applicato al Sudafrica, ma è stato ignorato per l’Afghanistan, come se i dirigenti del cricket avessero deciso che le donne non sono abbastanza importanti da meritare un boicottaggio. E ora, allo Stadio Gheddafi di Lahore, si è giunti al macabro epilogo: un giorno di vergogna senza precedenti.

I Talebani respingono la Corte Penale Internazionale

Anirudh Sharma, Jurist News, 22 febbraio 2025

I talebani rifiutano la giurisdizione della CPI e dichiarano nulla l’adesione allo Statuto di Roma del 2003

Giovedì i Talebani hanno annunciato che l’Afghanistan non riconoscerà più la giurisdizione della Corte penale internazionale (CPI), in quanto, a loro dire, l’adesione del Paese allo Statuto di Roma del 2003 sarebbe da considerarsi legalmente nulla, dopo che il mese scorso il procuratore della CPI, Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto per il leader supremo dei Talebani, Hibatullah Akhundzada, e per il Presidente della Corte suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani.

I Talebani hanno accusato la Corte penale internazionale di parzialità politica e di non aver ritenuto gli occupanti stranieri responsabili delle atrocità commesse durante la campagna militare condotta dagli Stati Uniti in Afghanistan dal 2001 al 2021. Il gruppo ha inoltre sottolineato che le principali potenze globali, tra cui gli Stati Uniti, non sono firmatarie dello Statuto di Roma, affermando che è “ingiustificato che una nazione come l’Afghanistan, che ha storicamente sopportato l’occupazione straniera e la sottomissione coloniale, sia vincolata dalla sua giurisdizione”.

L’Afghanistan ha firmato lo Statuto di Roma nel 2003 sotto un governo sostenuto dall’Occidente, consentendo così alla CPI di perseguire i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che si verificano nel territorio afghano. Tuttavia, i talebani, che hanno estromesso il governo precedente e preso il potere nell’agosto 2021, hanno dichiarato che tale decisione è ora priva di qualsiasi sostegno legale. ” In quanto entità che sostiene i valori religiosi e nazionali del popolo afghano nel quadro della Sharia islamica, l’Emirato islamico dell’Afghanistan non riconosce alcun obbligo nei confronti dello Statuto di Roma o dell’istituzione denominata “Corte penale internazionale” “, hanno affermato i talebani.

“In numerosi Paesi, tra cui l’Afghanistan, milioni di civili innocenti, soprattutto donne e bambini, hanno subito oppressioni e atti di violenza. Tuttavia, questo ‘tribunale’ ha clamorosamente fallito nell’affrontare queste gravi ingiustizie”, ha dichiarato il vice portavoce dei Talebani, Hamdullah Fitrat.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha citato l’azione penale contro le donne, le ragazze e le persone LGBTQ+ afghane come elemento centrale dei mandati di arresto emessi nei confronti dei principali esponenti talebani. La persecuzione basata sul genere viola l’articolo 7 (1) (h) dello Statuto di Roma ed è considerata un crimine contro l’umanità. Secondo quanto riportato dall’UNESCO nell’agosto 2022, almeno 1,4 milioni di ragazze afghane non hanno ricevuto l’istruzione secondaria sotto il governo talebano.

L’amministrazione talebana respinge queste affermazioni, sostenendo che il suo governo è in linea con gli insegnamenti radicati nei comandi divini. “Ogni decreto che emette è basato sulla consultazione con gli studiosi e deriva dal Corano e dagli Hadith [detti del profeta dell’Islam] e rappresenta i comandi di Allah”, ha dichiarato il portavoce del governo.

Sebbene il governo talebano abbia ritirato la sua adesione allo Statuto di Roma, la CPI mantiene la giurisdizione sui crimini commessi prima del ritiro, secondo quanto stabilito dall’articolo 127 dello Statuto di Roma.

 

Turchia. Liberare Ocalan per costruire la pace

Carla Gagliardini, volerelaluna, 25 febbraio 2025

La persecuzione dello Stato turco verso i leader politici curdi del DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli) continua in Turchia, come i bombardamenti turchi in Rojava, regione siriana governata dalla DAANES (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est), a guida curda, che hanno già fatto molte vittime tra i civili.

La via dei colloqui tra Ankara e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che si è aperta a dicembre per porre fine al conflitto che va avanti da cinquant’anni sembra però ancora aperta. Rimane tuttavia il quesito sul perché Erdogan invece di alleggerire la tensione la alimenti. Vuole forse indebolire il più possibile Ocalan per dover cedere molto poco sul tavolo delle trattative, che riguardano anche il Rojava, a maggior ragione oggi in una Siria dove la Turchia sta giocando una partita da protagonista?

Un tentativo per raggiungere un accordo era già stato fatto nel 2013 ma era poi naufragato nel 2015, nel pieno dell’attacco sferrato dall’ISIS in Siria contro le comunità del Rojava, in maggioranza curde. Ankara aveva favorito l’ingresso dei foreign fighters che andavano a ingrossare le fila degli jihadisti, suscitando la reazione dei curdi in Turchia che avevano dato origine a manifestazioni di protesta contro il governo, il quale aveva reagito con arresti di massa, imprigionando soprattutto le leadership curde e mettendo così una pietra sul processo di pace.

Ankara riprova a piegare quei curdi che in Turchia hanno scelto la via del confederalismo democratico, forma di governo basata su una democrazia radicale che si ispira alle idee di Ocalan, e che amministrano secondo questo modello le città e le province conquistate attraverso il voto nelle urne. Ma non sono solo i curdi a finire nel tritatutto. L’intera opposizione a Erdogan sta pagando un caro prezzo. Il 21 gennaio scorso sono stati arrestati due sindaci del distretto di Istanbul del CHP (Partito Popolare Repubblicano) con l’accusa di avere legami con organizzazioni terroristiche, oltre al rappresentante dei giovani del partito, rilasciato poco dopo. LReuters ha scritto che «le autorità turche hanno intensificato le indagini e le detenzioni di esponenti dell’opposizione: solo lunedì si sono verificate tre azioni di questo tipo, sollevando preoccupazioni circa una crescente repressione del dissenso contro il Governo (https://www.reuters.com/world/middle-east/turkeys-opposition-faces-barrage-arrests-investigations-2025-01-21/). Martedì 11 febbraio la testata giornalistica ANF News ha dato la notizia che il co-sindaco di Van e membro del DEM, Abdullah Zeydan, è stato nuovamente processato dall’Alta Corte Penale di Diyarbakır con l’accusa di aver “aiutato un’organizzazione illegale”, reato per il quale aveva già scontato in passato una pena detentiva (https://anfenglishmobile.com/news/van-co-mayor-zeydan-sentenced-to-3-years-and-9-months-in-prison-77886). L’Avvocato di Zeydan, Mehmet Emin Aktar, ha puntato il dito contro la Corte accusandola di non aver garantito il giusto processo al suo assistito e di aver impedito alla difesa di svolgere il proprio lavoro. Alla fine dell’udienza il Co-sindaco è stato condannato a 3 anni e 9 mesi di detenzione. Zeydan non si è presentato in udienza e, dopo che la notizia ha iniziato a circolare, la popolazione di Van è ancora una volta scesa in strada in sua difesa, così come aveva già fatto dopo le elezioni di marzo dell’anno scorso, quando dopo la vittoria il governo aveva provato a rimuovere il neo eletto Co-sindaco, dovendo poi desistere. Ma Zeydan era ancora finito sotto il mirino della Corte Suprema della Turchia che il 4 dicembre gli aveva notificato la revisione della decisione dell’Alta Corte Penale di Diyarbakir la quale gli aveva restituito i diritti elettorali per potersi candidare alle elezioni dmarzo 2024 (https://volerelaluna.it/mondo/2025/01/08/erdogan-e-i-curdi-tra-caute-aperture-e-repressione-permanente/). Zeydan è già stato rimosso dal suo incarico e sostituito con il governatore del Distretto, Ozan Balci. La veglia davanti al Palazzo municipale di Van continua e lo scontro con il Governo si fa più intenso. Si sono sollevati infatti anche i giovani in altri distretti, erigendo barricate e rispondendo agli attacchi della polizia turca con lanci di molotov e pietre. I partiti di sinistra sono scesi domenica 16 febbraio in piazza per dichiarare la propria solidarietà al co-sindaco Zeydan e per denunciare la repressione crescente nel Paese nei confronti dell’opposizione.

Precedentemente, mercoledì 12 febbraio, sempre ANF News aveva fatto sapere che otto persone erano state arrestate con la doppia accusa di “partecipare ad attività organizzative illegali all’interno dei confini di Ankara” e di portare avanti la propaganda via social media a favore di un’organizzazione illegale (https://anfenglishmobile.com/kurdistan/resistance-in-van-continues-77899). Tra queste si trova anche la parlamentare del DEM Pakize Sinemillioğlu.

In Turchia la persecuzione politica degli oppositori è una costante e le patrie galere strabordano di politici, intellettuali, artisti, professionisti e militanti di organizzazioni che hanno reagito al dispotismo del potere che governa il Paese. Persino le istituzioni europee hanno più volte lanciato l’allarme chiedendo alla Turchia di porre fine agli arresti arbitrari e alla violazione dei diritti fondamentali e dei detenuti.

L’avvio del processo di pace chiesto dal partito di ultradestra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) e appoggiato dall’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdogan sembra molto tortuoso perché è instancabile la repressione che Ankara continua a esercitare sul DEM e nel Rojava. Il Governo turco ha però la possibilità di dimostrare che la sua intenzione di portare a buon fine le trattative è reale e non un tranello. Lo può fare con la liberazione di Ocalan, aprendo le porte della cella dove da più di venticinque anni è rinchiuso, permettendogli così di portare avanti i negoziati da uomo e politico libero. Certo è che un Abdullah Ocalan libero con il suo carisma e la sua capacità di guidare il suo popolo non può che intimorire Ankara.