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Autore: CisdaETS

L’Afghanistan è il peggior paese al mondo per nascere donna

Intervista a Graziella Mascheroni, presidente del Cisda, associazione che lotta contro l’apartheid di genere nel paese dei talebani

Silvia Cegalin, Micro Mega,  14 gennaio 2024

In Afghanistan le donne possono solo respirare. Segregate tra le mura domestiche o coperte con i loro burqa quando si espongono alla minima luce del sole, le donne afghane non devono essere visibili, neanche attraverso una finestra o una fessura di un cortile. Private della parola e del canto, non possono far udire il suono della loro voce in pubblico, nemmeno quando pregano.

La volontà dei talebani è seppellire le donne, imprigionarle dentro case che si stanno trasformando sempre più in prigioni, renderle invisibili alla società, al mondo. In Afghanistan, da quando sono ritornati al potere (agosto 2021), le donne sono state progressivamente cancellate dagli spazi pubblici, private dei loro diritti fondamentali e poste in una condizione di violenta oppressione, tant’è che in Afghanistan non si parla più di discriminazione di genere, bensì di apartheid di genere.

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L’intervista integrale si trova su MicroMega il 14 gennaio 2025 a firma di Silvia Cegalin

Percorsi per il ritorno dell’Afghanistan sulla scena mondiale

WE, Ufficio Stampa, 28 dicembre 2024

Uno studio pubblicato da un think tank globale esamina quella che viene definita la “nuova normalità” dell’impegno diplomatico con i talebani.

Il rapporto pubblicato dall’International Institute for Strategic Studies (IISS) intitolato “Verso la reintegrazione dell’Afghanistan nella comunità internazionale” afferma che l’approccio di “non riconoscimento” della comunità internazionale è stato minato dalla nuova normalità del maggiore impegno diplomatico e che si sta verificando una “normalizzazione strisciante” poiché le nazioni vicine, in particolare quelle dell’Asia centrale, sono chiamate a mantenere legami essenziali con l’Afghanistan.

Dal cambio di regime alla trasformazione

Il rapporto afferma che dal ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021 nessuna nazione ha formalmente riconosciuto il governo,  attendendo progressi in termini di inclusività, antiterrorismo e diritti delle donne. Tuttavia, con l’aumento dell’impegno degli altri paesi, è emersa una “nuova normalità”, con una maggiore presenza diplomatica a Kabul e funzionari talebani all’estero. L’attenzione occidentale si è spostata dal cambio di regime alla trasformazione, affidandosi ad attori regionali e a una diplomazia discreta per spingere i talebani verso la reintegrazione internazionale.

“Nuova normalità”

Secondo il rapporto, l’assenza di un riconoscimento diplomatico formale del regime contrasta con il precedente periodo di potere dei Talebani (1996-2001), quando era formalmente riconosciuto da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Tuttavia, la nuova normalità di un ampliamento dell’impegno diplomatico ha avuto l’effetto di erodere l’approccio di “non riconoscimento” della comunità internazionale mentre si sta realizzando una “normalizzazione strisciante” poiché i paesi vicini, in particolare in Asia centrale, hanno bisogno di mantenere relazioni di base con l’Afghanistan.

“Normalizzazione strisciante”

A luglio 2024, 11 paesi avevano ambasciatori a Kabul, tra cui Cina, Iran, Giappone, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Uzbekistan, mentre diversi paesi della regione, tra cui India, Kirghizistan, Pakistan e Tagikistan, avevano chargés d’affaires (CDA). Iran, Pakistan, Tagikistan e Turchia avevano anche una presenza consolare in altre grandi città in Afghanistan; solo Iran e Pakistan avevano una presenza consolare a Kandahar. Secondo il rapporto, l’India ha riaperto la sua ambasciata a Kabul a giugno 2022, guidata da un CDA.

Secondo il rapporto dell’IISS, gli Stati Uniti e il Regno Unito si impegnano con l’Afghanistan tramite missioni a Doha, in Qatar, mentre altri, come il Belgio e lo Sri Lanka, lo fanno tramite le loro ambasciate a Islamabad, in Pakistan. I vantaggi di avere una presenza diplomatica in Afghanistan sono molteplici, tra cui un impegno costante con la leadership talebana a Kabul, anche se l’accesso al leader supremo a Kandahar è estremamente limitato, e la possibilità di supervisionare gli aiuti umanitari e le relazioni commerciali. Lo svantaggio è che ristabilire una presenza diplomatica permanente a Kabul conferirebbe legittimità ai talebani e significherebbe un effettivo riconoscimento diplomatico del regime.

La strada da seguire

Il rapporto dell’IISS conclude affermando: “Alla luce della nuova normalità dell’impegno diplomatico con i talebani, concentrarsi sulla diplomazia silenziosa attraverso la convocazione di dialoghi privati ​​e riservati di tipo Track 1.5 sembra essere il modo più efficace per avviare il processo.

Il rapporto aggiunge che, per avere successo, questo approccio richiederebbe un contatto informale con i leader talebani con sede sia a Kandahar che a Kabul per garantire la partecipazione di funzionari talebani e rappresentanti influenti. In tali dialoghi, il giusto mix di afghani non talebani di varie origini etniche, tra cui pashtun, tagiki, hazara e uzbeki, così come di donne dovrà essere elaborato con sensibilità. Gli influenti ​​think tank internazionali indipendenti  potrebbero essere le entità più credibili per facilitare tali dialoghi ristretti, privati ​​e strettamente riservati, suggerisce il rapporto.

Quelle radici patriarcali e fondamentaliste

«Femminicidi d’onore. Dal “processo Saman” ai diritti negati delle donne migranti», a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti per Futura Editrice

Giuliana Sgrena, Il Manifesto, 16 gennaio 2025

Il femminicidio di Saman Abbas, la ragazza pachistana uccisa dai familiari, ha colpito l’opinione pubblica italiana e ha aperto gli occhi sulla realtà di giovani donne – nate in Italia o arrivate da piccole – la cui libertà è repressa con violenza inaudita da parte dei maschi della famiglia. Nonostante le denunce Saman era stata abbandonata alla sua malasorte, vittima di un rapporto padre-figlia esiziale, basato sul «possesso-dominio», come viene definito da Teresa Manente e Rossella Benedetti, le avvocate di parte civile nel processo per l’omicidio e l’occultamento di cadavere di Saman. Il caso della giovane pachistana è sviscerato nei diversi aspetti in Femminicidi d’onore, dal «processo Saman» ai diritti negati delle donne migranti a cura di Ilaria Boiano e Isabella Peretti (Futura Editrice, pp. 164, euro 15).

SICCOME SAMAN si ribellava alle angherie cui era sottoposta – segregata in casa, divieto di studiare e promessa in sposa a un cugino più vecchio – veniva definita la «pazza» dalla madre. Proprio della madre, Nazia, condannata all’ergastolo insieme al padre Shabbar, colpisce la complicità, dovuta forse al fatto che anche lei era vittima di una segregazione totale, che non le aveva permesso di alzare lo sguardo sul mondo che la circondava. Quindi, «non vi è dubbio alcuno che con l’uccisione della figlia, Nazia uccida anche una parte di sé», secondo Giovanna Fava, anche lei avvocata nel processo.

Ma quante Saman ci sono? Quante le vittime di femminicidio d’onore? Abbiamo sentito parlare di Hina Saleem la prima ragazza pachistana vittima di femminicidio in Italia, di Sana Cheema, altre sono morte nell’indifferenza, come Begun Shahnaz, lapidata, Kaur Balwinder, uccisa e buttata nel fiume.

È Tiziana Dal Pra, fondatrice dell’associazione Trama di Terre, a ricordarcele. Tutte vittime del controllo della sessualità da parte della famiglia ma anche della comunità di appartenenza, all’interno della quale un ruolo importante è spesso giocato dai fondamentalismi religiosi. Ma, come giustamente sostiene Tiziana Dal Pra, quando si trattano questi temi non dobbiamo autocensurarci per paura di essere accusate di islamofobia.

I diritti delle donne sono universali e non si può rinunciare a difenderli per una sorta di relativismo culturale che, questo sì, le condanna a essere sottomesse. Le forze reazionarie che sostengono che le altre «culture» sono barbare e violente lo fanno per difendere l’Occidente, come sostiene Isabella Peretti, e, in Europa, per difendere l’identità cristiana. Tuttavia, non si può negare il ruolo dei fondamentalismi religiosi, tutti, nell’oppressione della donna, anche nell’imposizione di un velo ideologico.

LA RIVOLUZIONE delle donne iraniane contro la teocrazia – che ha fatto del ciador l’identità della donna musulmana – è partita proprio dalla lotta contro l’obbligo del velo. Naturalmente il controllo delle «Saman», non si esercita solo con il velo, però basta guardare le foto di Saman velata o con la fascia rossa tra i capelli per vedere due donne completamente diverse. Quale è stata uccisa? Sicuramente la seconda. Le donne afghane sono quelle che, soprattutto con il ritorno dei taleban al potere – complici gli Usa negli accordi di Doha – soffrono le peggiori condizioni costrette a vivere in un sistema di inflessibile apartheid di genere. Private anche della possibilità di parlare, «la voce è la nudità della donna», non solo nell’islam.
Per eliminare giustificazioni culturali o religiose, le afghane con l’appoggio del Cisda e di una rete europea, hanno avviato una campagna per il riconoscimento del crimine di apartheid di genere intollerabile anche per il diritto internazionale.

Nel libro si richiama la responsabilità di chi dovrebbe proteggere le donne in pericolo. Innanzitutto, rendendole visibili, dando loro la parola – come nel Tribunale delle donne migranti – per individuare i problemi e i bisogni. Dalle testimonianze risulta un sistema legale e istituzionale inadeguato a riconoscere e affrontare le violenze – sfruttamento, tratta, prostituzione, matrimoni combinati, pregiudizi – che subiscono le donne migranti lasciate in una condizione di estrema vulnerabilità per il mancato riconoscimento dei loro diritti.

Le ONG che impiegano donne afghane saranno chiuse

Le Nazioni Unite hanno affermato che lo spazio per le donne in Afghanistan si è ridotto drasticamente negli ultimi due anni

The Associated Press, Rawa, 4 gennaio 2024

I talebani affermano che chiuderanno tutti i gruppi non governativi nazionali e stranieri in Afghanistan che impiegano donne, si tratta dell’ultima repressione dei diritti delle donne da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021.

L’annuncio arriva due anni dopo che avevano chiesto alle ONG di sospendere l’impiego di donne afghane, presumibilmente perché non indossavano correttamente il velo islamico.

In una lettera pubblicata domenica sera, il Ministero dell’Economia ha avvertito che il mancato rispetto dell’ultima ordinanza avrebbe comportato per le ONG la perdita della licenza per operare in Afghanistan.

Le NU chiedono l’annullamento delle restrizioni

Le Nazioni Unite hanno affermato che negli ultimi due anni lo spazio riservato alle donne in Afghanistan si è ridotto drasticamente e hanno ribadito il loro appello ai talebani affinché annullino le restrizioni.

“Questo ha un impatto reale su come possiamo fornire assistenza umanitaria salvavita a tutte le persone in Afghanistan”, ha affermato la portavoce associata delle Nazioni Unite Florencia Soto Nino-Martinez. “E ovviamente siamo molto preoccupati dal fatto che stiamo parlando di un paese in cui metà della popolazione è privata dei propri diritti e vive in povertà, e molti di loro, non solo le donne, stanno affrontando una crisi umanitaria”.

Il Ministero dell’Economia ha affermato di essere responsabile della registrazione, del coordinamento, della guida e della supervisione di tutte le attività svolte dalle organizzazioni nazionali e straniere.

Secondo la lettera, il governo ha nuovamente ordinato la sospensione di tutti i lavori femminili nelle istituzioni non controllate dai talebani.

“In caso di mancata collaborazione, tutte le attività di tale istituzione saranno annullate e verrà annullata anche la licenza di attività di tale istituzione, concessa dal ministero.”

È l’ultimo tentativo dei talebani di controllare o intervenire nelle attività delle ONG.

All’inizio di questo mese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appreso che a un numero crescente di operatrici umanitarie afghane è stato impedito di svolgere il proprio lavoro, nonostante gli aiuti umanitari restino essenziali.

Secondo Tom Fletcher, alto funzionario delle Nazioni Unite, è aumentata anche la percentuale di organizzazioni umanitarie che segnalano che il loro personale, femminile o maschile, è stato fermato dalla polizia morale dei talebani.

I talebani negano di impedire alle agenzie umanitarie di svolgere il loro lavoro o di interferire con le loro attività.

Hanno già escluso le donne da molti lavori e dalla maggior parte degli spazi pubblici, escludendole anche dall’istruzione oltre la sesta elementare.

Da un divieto all’altro

In un altro decreto, il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha ordinato che gli edifici non debbano avere finestre che diano su luoghi in cui una donna potrebbe sedersi o stare in piedi.

Secondo un decreto composto da quattro clausole pubblicato su X sabato sera, l’ordinanza si applica sia ai nuovi edifici che a quelli esistenti.

Anche le Nazioni Unite hanno chiesto l’abolizione di questa restrizione, ha affermato Soto Nino-Martinez.

Il decreto affermava che le finestre non dovevano affacciarsi o guardare in aree come cortili o cucine. Quando una finestra guarda in uno spazio del genere, la persona responsabile di quella proprietà deve trovare un modo per oscurare questa vista per “rimuovere il danno”, installando un muro, una recinzione o una zanzariera.

I comuni e le altre autorità devono supervisionare la costruzione di nuovi edifici per evitare di installare finestre che si affacciano su proprietà residenziali o al di sopra di esse, aggiunge il decreto.

Un portavoce del Ministero dello sviluppo urbano e dell’edilizia abitativa non ha voluto commentare le istruzioni di Akhundzada.

 

 

I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere delle donne

Per esempio quelle che danno su cucine o cortili: è l’ennesima misura adottata in Afghanistan per rendere la loro vita ancora più difficile e isolata

Il Post, 30 dicembre 2024

Sabato 28 dicembre il regime dei talebani che governa in Afghanistan dal 2021 ha emanato un decreto che vieta di costruire, nei nuovi edifici, finestre che si affaccino su stanze e ambienti altrui dove potrebbero esserci delle donne. «Vedere le donne che lavorano in cucina, nei cortili o nei pozzi mentre raccolgono l’acqua, potrebbe indurre ad atti impuri», si legge nel decreto.

È soltanto l’ultima di una serie di regole imposte negli ultimi anni per limitare la vita sociale, l’indipendenza e l’autonomia delle donne, che secondo l’interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice praticata dai talebani godono di molti meno diritti rispetto agli uomini.

Il decreto è stato emesso dal leader del regime afghano, Hibatullah Akhundzada, ed è stato annunciato su X dal suo portavoce Zabihullah Mujahid. Dal testo del decreto emerge una visione profondamente stereotipata e discriminatoria delle donne, che secondo i talebani appartengono agli ambienti della casa tradizionalmente associati alla cura e all’accudimento della famiglia: la cucina, appunto, e altri luoghi dove si può reperire e preparare del cibo per la famiglia.

L’indicazione del decreto non si limita agli edifici di nuova costruzione, ma anche a quelli già esistenti. Se una stanza ha già una finestra che si affaccia su una cucina o un cortile il proprietario dell’edificio è obbligato a trovare un modo per «evitare danni», per esempio installando un muro o qualcosa che schermi la vista. La norma renderà la vita delle donne ancora più separata da quella degli uomini, in una condizione ormai permanente di subalternità.

I talebani stanno applicando norme simili a quelle che emanarono durante il loro primo regime, dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne furono negati moltissimi diritti. Quando ripresero il potere, nel 2021, cercarono di presentarsi come un gruppo moderato e aperto, che avrebbe trattato le donne in maniera diversa rispetto agli anni precedenti.

Già nei mesi successivi tuttavia divenne chiaro che non sarebbe stato così. Tra le altre cose, negli ultimi tre anni i talebani hanno chiuso le scuole secondarie femminili (l’equivalente di medie e superiori italiane), hanno proibito alle donne di accedere all’università, e hanno vietato l’accesso a parrucchieri e saloni di bellezza.

Lo scorso agosto hanno approvato la prima legge emanata dal ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, creato per promuovere il rispetto di un’interpretazione estremamente rigida della dottrina islamica. La legge, divisa in 35 articoli, stabilisce per esempio che le donne non possano cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è qualcosa di intimo e deve rimanere privata. La legge vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di avere incontri di qualsiasi tipo con uomini che non siano loro parenti.

Due giorni dopo l’emanazione del decreto sulle finestre, inoltre, il regime ha annunciato che chiuderà le associazioni e le ong afghane e straniere che impiegano delle donne. Già nel 2022 i talebani avevano emanato un divieto simile, che però di fatto non era stato applicato.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

Una petizione e una raccolta firme del Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane chiede al nostro governo e all’Onu di riconoscere un nuovo crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. Intanto è il Parlamento su iniziativa di Laura Boldrini ad accogliere la proposta. Mentre Kabul lancia un ultimatum alle Ong contro l’impiego di personale femminile. Per abbattere le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

ANPI, Redazione, 7 gennaio 2025

Se ne parla da anni, con un nulla di fatto. Ma le donne sono determinate quando si tratta di affermare la loro dignità e la richiesta di rispetto e parità. Perché se la strada del riscatto di genere è lunga e tortuosa, la storia delle battaglie dei movimenti femminili lo è altrettanto, e ha temprato lotta dopo lotta.

Cos’è l’apartheid di genere

L’iniziativa è internazionale, volta a sensibilizzare e ottenere “il riconoscimento legale di qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, stabilisce, mantiene o perpetua il dominio di un genere sull’altro attraverso la segregazione, l’oppressione o la discriminazione”. Questo il significato di “apartheid di genere” elaborato da giuriste del Cisda, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane.

Una nuova fattispecie di reato, dunque, diverso da quello di discriminazione razziale come definito nello Statuto di Roma che, entrato in vigore nel 2002, ha istituito la Corte penale internazionale. Un delitto non ancora previsto dai trattati globali, permettendo così impunità giuridica a chi, realtà statuali o gruppi organizzati, viola i diritti umani con angherie sessuali, stupro, negazione dei diritti riproduttivi, sia delle donne sia della comunità Lgbtqi+.

Come sottolinea la campagna lanciata dal Cisda esiste una stretta relazione tra l’apartheid di genere e tutti i fondamentalismi. Perché il tema non riguarda unicamente alcune rigide interpretazioni dei precetti islamici o le posizioni estreme dei movimenti cristiani antiabortisti, e nemmeno solo la religione. Abita dovunque, precisa l’associazione, prevalga con la forza e la violenza l’idea che tra sfera pubblica – fedeltà a un credo o a una visione politica – e vita civile non ci possa essere distinzione.

La campagna del Cisda, a cui tra le altre associazioni ha subito aderito l’Anpi con il Coordinamento Donne, è stata lanciata, o meglio rilanciata lo scorso 10 dicembre, Giornata mondiale per i diritti umani, in vista del Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in elaborazione alle Nazioni Unite. Le negoziazioni vere e proprie saranno avviate nel 2028 e 2029, quindi per l’iter necessario a stabilire accordi internazionali il tempo stringe.

L’etimologia della parola apartheid deriva dalla lingua afrikaans dei coloni bianchi nell’Africa meridionale, ma il termine è ormai utilizzato a livello globale per indicare una forma di dominio sistematico di una categoria, sia etnica sia di genere sull’altra. Proprio come in Afghanistan, dove alle donne è vietato perfino parlare in pubblico.

Si tratta anche di assumersi una responsabilità storica e politica: Paesi e potenze mondiali dove la laicità è un valore condiviso, pur di garantire “la loro egemonia coloniale hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti, generando decenni di guerre con migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate”. Così con i talebani e così dopo il crollo del regime di Assad in Siria, arrivando al paradosso di sentir definire “ribelli” i paramilitari dell’impronunciabile Al Qaeda, ora dipinta in Occidente come democratica e liberatrice.

Il dibattito a Montecitorio

Pochi giorni fa, l’Italia grazie a una mozione presentata da Laura Boldrini in Commissione Esteri a Montecitorio (presieduta da Giulio Tremonti, che con la “cultura non mangia, ricordate”?), ha accolto all’unanimità la proposta di introdurre nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu il reato di “segregazione di genere”.

In un’oretta di dibattito, dove la Lega avrebbe voluto che “genere” si riferisse “esclusivamente ai due sessi, maschile e femminile, escludendo la tutela della comunità Lgbtqi+, e altri rappresentanti della maggioranza di governo (per esempio Forza Italia) si siano opposti ad adottare il termine “apartheid”, nonostante in sede di Parlamento europeo lo scorso settembre avessero votato favorevolmente, il risultato è stato tuttavia raggiunto. Frutto di mediazione lessicale, il vocabolo “segregazione” proposto dal Pd ha messo tutti d’accordo.

Ben disposto anche il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli (arrivato agli onori delle cronache una manciata di giorni fa per aver affermato che “Il tratto distintivo più profondo del fascismo era uno spirito straordinario di libertà”). Conclusione: nonostante la riformulazione non corrisponda esattamente agli obiettivi prefissati “L’Italia sosterrà l’introduzione del reato di ‘segregazione di genere’ nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu”.

Resta essenziale quindi, politicamente ed eticamente, sostenere la campagna del Cisda. Perché bisogna salvare vite umane in Afghanistan, Iran, Arabia Saudita, Yemen, dovunque l’essere donna è in sé fonte di “persecuzione di Stato”.

CLICCA QUI PER FIRMARE

Per sottoscrivere la petizione “STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE” si può cliccare direttamente al link https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere. Sulla pagina online del Cisda inoltre è disponibile utile materiale informativo https://www.cisda.it/wp-content/uploads/2024/12/Press-Kit.zip

L’associazione chiede inoltre al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania, Paesi Bassi, e appoggiata da altri 22 Stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale (dove devono rispondere gli Stati) per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW, il primo e finora il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne), di cui l’Afghanistan è firmatario.

Cisda inoltre chiede che Palazzo Chigi supporti l’attività di Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico di sottoporre alla Corte Penale Internazionale (che si occupa dei crimini commessi da persone in carne e ossa) per ulteriori indagini le continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

La capacità di lotta delle donne è straordinaria

Le donne di tutto il mondo possiedono una straordinaria capacità di fare tesoro delle lotte di altre donne, indipendentemente dai confini nazionali. Questa solidarietà femminile trascende le divisioni politiche, culturali e geografiche, creando una rete globale di supporto e resistenza.

La storia propone esempi. Già nell’antica Grecia, donne come Saffo e Aspasia hanno cercato di sfidare le norme patriarcali della loro epoca. Durante la Rivoluzione Francese, le femmes parigine marciarono su Versailles per chiedere pane e giustizia, un atto di coraggio che ispirò future generazioni di attiviste. Allo stesso modo, le suffragette britanniche all’inizio del XX secolo lottarono instancabilmente per il diritto di voto, influenzando movimenti simili in tutto il mondo.

Durante la Resistenza italiana le donne hanno svolto un ruolo fondamentale, non solo nella lotta contro l’occupazione nazifascista ma anche nella costruzione di una rete di solidarietà che ha superato i confini nazionali. Come corriere, infermiere e combattenti, le donne italiane hanno mostrato una straordinaria determinazione. La loro lotta non si è limitata al contesto locale; ha infatti ispirato e ricevuto sostegno da donne in tutto il mondo, creando un legame di solidarietà internazionale.

In tempi più recenti, abbiamo assistito a un incremento della solidarietà femminile internazionale.

Il movimento delle donne curde ha svolto un ruolo cruciale nella difesa e liberazione dall’Isis della regione autonoma del Rojava in Siria. Il loro motto “Jin, Jiyan, Azadî” (Donna, Vita, Libertà) è migrato in Iran dopo l’uccisione da parte della polizia morale iraniana di Masha Amini per sfidare le restrizioni imposte dal regime, con il movimento “Donna, Vita, Libertà”. Un grido che ha visto milioni di donne, da Teheran a New York, unirsi per chiedere cambiamenti significativi.

L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala, dal 19 dicembre scorso detenuta nel carcere di Evin, periferia della capitale, fa riflettere. Non sono state formulate precise accuse formali, solo uno scarno comunicato dell’agenzia statale Irna: “La cittadina italiana è arrivata in Iran il 13 dicembre con un visto giornalistico ed è stata arrestata il 19 per aver violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran”. Seppur si sospetta che la vicenda possa essere una rappresaglia per l’arresto in Italia di un ingegnere iraniano, il caso evidenzia le difficoltà e le sfide che le donne giornaliste affrontano in Paesi dove i diritti umani sono costantemente violati.

Le donne afghane, sotto il regime talebano, trovano nella comunità internazionale una voce che amplifica le loro richieste di diritti fondamentali. E Kabul continua con il pugno di ferro. In una lettera pubblicata qualche giorno fa su X (il social di Musk) il ministero dell’Economia del Paese ha minacciato la chiusura di tutte le ONG che impiegano donne afghane, minacciando di sospendere le attività e revocare le licenze alle organizzazioni umanitarie che lavorano nel Paese nei progetti di sviluppo e di aiuto.

Le guerre sono le più acerrime nemiche dei diritti delle donne. Le donne di Gaza stanno affrontando da quindici mesi una realtà devastante, segnata da sofferenze inimmaginabili. L’aggressione targata Netanyau ha causato nella Striscia la morte di oltre 41.600 persone e ne ha ferite 96.000, la maggior parte donne e bambini. La mancanza di accesso a servizi essenziali come ospedali, acqua e cibo aggrava ulteriormente la situazione. Molte donne incinte e in fase di allattamento affrontano sfide critiche per accedere alle cure prenatali e postnatali.

Un altro esempio di lotte comuni dei nostri tempi è quello delle donne migranti, che spesso affrontano discriminazioni e violenze. In risposta, organizzazioni femminili in diversi Paesi hanno creato reti di supporto per offrire assistenza e protezione, dimostrando che la forza della solidarietà può superare le barriere più ostili.

La capacità di fare patrimonio delle battaglie di altre donne è una delle più grandi risorse del movimento femminista. È un richiamo potente alla giustizia e all’uguaglianza, unito dalla convinzione che i diritti delle donne non possono essere limitati da confini nazionali. La lotta di una donna in un angolo del mondo è la lotta di tutte le donne, ovunque esse siano.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane.

La lotta contro l’apartheid di genere è una battaglia cruciale per i diritti umani non solo delle donne, nel XXI secolo è di tutte e tutti.

 

CISDA – Stop Fondamentalismi. Stop Apartheid di genere

Giovanna Cardarelli, ANPI Oggi e Domani, dicembre 2024

Dopo quasi tre mesi è terminato il lungo periodo in Italia di Shakiba, militante di Rawa (Associazione Rivoluzionaria Donne Afghane), sostenuta da Cisda dal lontano 1999

La sua presenza in molteplici iniziative sul territorio, con ampia partecipazione ovunque, è stata molto preziosa per poter ascoltare dalla sua voce come vivono le donne in questo momento in Afghanistan ma soprattutto come le attiviste di Rawa, che sono rimaste nel paese, hanno deciso di continuare la lotta politica e di resistenza al regime talebano misogino e fondamentalista.

Sentire dalla sua voce cosa significa lottare e resistere, anche dalla clandestinità, in quel paese è stato molto importante; manifestare è molto pericoloso ma le donne non si fermano, per tutte loro può voler dire essere arrestate, torturate e a volte anche uccise come già successo.

Le costrizioni che i talebani hanno imposto alle donne sono molteplici; non possono studiare, non possono lavorare, non possono uscire sole ma devono essere accompagnate da un uomo, non possono far sentire la loro voce, le donne indigenti arrestate per aver mendicato in base alle nuove e draconiane leggi dei talebani hanno parlato di stupri e percosse “brutali” subite durante la detenzione; insomma qualsiasi cosa è loro preclusa, vivono in un regime di apartheid dimenticate un po’ da tutti ma non da chi vuole fare affari con i talebani a scapito dei diritti umani e riconoscendo così di fatto quel regime

Il paese vive una forte crisi umanitaria, non c’è lavoro, non ci sono soldi, si vive in uno stato di miseria, le inondazioni di quest’autunno hanno aggravato la situazione di interi villaggi che, governate da talebani, non hanno ricevuto aiuti.

Noi continuiamo a sostenerle sia politicamente che con progetti che loro stesse hanno avviato; attraverso raccolte fondi e progetti riusciamo ad inviare danaro per le loro attività, dalle scuole segrete per ragazze e donne, a piccoli shelter ecc. Aggiornamenti su tutto questo su www.cisda.it

Ora che Shakiba è tornata in Afghanistan spetta a noi di Cisda continuare ad essere la loro voce e tenere alta l’attenzione sulle condizione di apartheid che stanno vivendo le donne in quel paese

Cosa abbiamo fatto in questo ultimo periodo
Con la rete di associazioni con la quale collaboriamo in Italia e in Europa, abbiamo lanciato una campagna “STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE” che vuole spingere il nostro Governo – in quanto membro delle Nazioni Unite e di Istituzioni Internazionali – a prendere posizione contro il governo di fatto dei Talebani e a sostenere la proposta di codificazione del reato di Gender Apartheid nei Trattati Internazionali.

Come prima azione della Campagna abbiamo avviato una PETIZIONE in occasione della giornata mondiale per i diritti umani: potete firmarla direttamente sul sito Cisda, sia individualmente che come Associazione, Enti, Partiti ecc. aiutandoci a sostenerla e a diffonderla.

Il CISDA, in collaborazione con alcune giuriste, ha inoltre redatto e inviato una “proposta di codificazione del reato di “apartheid di genere” come contributo della società civile ai lavori in corso della Sesta Commissione giuridica dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per un recepimento nella Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità in fase di discussione da parte dell’ONU.

Il divieto dei talebani di studiare medicina scatena le proteste delle donne in tutte le province

Il nuovo divieto imposto dai talebani pone fine all’istruzione medica per le donne, sollevando allarme sul futuro dell’assistenza sanitaria per le donne afghane

Afghan Witness, CIR, 20 dicembre 2024

Il 2 dicembre 2024, giornalisti e agenzie di stampa afghane hanno riferito che il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada aveva emanato un nuovo decreto che proibiva alle donne di iscriversi e frequentare studi negli istituti medici. Secondo i media afghani , la decisione è stata annunciata dal ministro della Salute pubblica dei talebani in un incontro con i responsabili degli istituti sanitari di Kabul. Questa nuova misura proibirà alle donne di studiare ostetricia, protesi dentarie, infermieristica, scienze di laboratorio, tra le altre materie.

Cronologia delle restrizioni all’istruzione delle donne e delle ragazze
La decisione segue una serie di restrizioni all’istruzione di donne e ragazze. A marzo 2022, le autorità di fatto hanno vietato alle ragazze di studiare oltre la sesta elementare (circa 11 anni). A dicembre 2022, la decisione è stata estesa a un divieto nazionale per le donne di iscriversi e studiare nelle università. A dicembre 2023, le autorità talebane hanno chiuso vari istituti privati, nonostante la mancanza di una decisione ufficiale in merito. A febbraio 2024, i talebani hanno proclamato che alle laureate sarebbe stato consentito di presentare domanda per studiare in istituti medici pubblici in 11 province . Tuttavia, tale risoluzione è stata annullata nell’annuncio più recente.
Secondo fonti di AW a Kabul, l’unica forma di istruzione laica rimasta disponibile per le ragazze oltre la sesta elementare nella capitale sono i corsi di lingua inglese offerti da centri privati ​​a un costo elevato. Questo è probabilmente il caso di altre aree urbane, lasciando donne e ragazze provenienti da famiglie più povere o da aree rurali senza accesso a nessuna forma di istruzione laica.

Reazioni delle organizzazioni internazionali
In seguito alla decisione, Médecins Sans Frontières (MSF, Medici Senza Frontiere) ha rilasciato una dichiarazione sul proprio sito web. L’organizzazione, che gestisce progetti in sette province in cui più della metà dei suoi dipendenti sono donne, ha affermato che “non c’è un numero sufficiente di operatrici sanitarie nel paese” e che “le nuove limitazioni limiteranno ulteriormente l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità e porranno seri pericoli alla sua disponibilità in futuro”.
Il 9 dicembre 2024, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha rilasciato un comunicato stampa in cui si riferiva alla nuova misura come a un “divieto draconiano”. L’OHCHR ha sottolineato che, poiché attualmente solo le donne sono autorizzate a fornire assistenza medica a ragazze e donne in Afghanistan, la nuova misura “porterà a inutili sofferenze, malattie e forse morti di donne e bambini afghani, ora e nelle generazioni future, il che potrebbe equivalere a femminicidio”.
Le proteste delle donne in risposta all’annuncio
La decisione di vietare alle donne di proseguire gli studi nel settore sanitario è stata accolta con proteste in tutto il Paese. A Badakhshan Kabul , Kapisa e Takhar , decine di studentesse si sono radunate dentro e fuori i loro istituti scolastici per protestare.
A Herat, le donne si sono radunate fuori dal complesso del governatore talebano, tenendo cartelli con la scritta “L’istruzione è un nostro diritto”, “La scienza è un nostro diritto” e “Cerca la conoscenza dalla culla alla tomba” (un detto popolare in dari). Il gruppo di donne che protestavano è stato sfidato da presunti membri talebani di Herat che sono stati visti parlare con il gruppo, tuttavia, AW non è stato in grado di tradurre ciò che è stato detto tra loro. Secondo Afghanistan International, che ha condiviso il video, “i combattenti talebani hanno cercato di interrompere la protesta delle donne”.
La maggior parte delle donne ha scelto di protestare al chiuso, la maggior parte in luoghi non divulgati e con il volto coperto. AW ha identificato cinque gruppi organizzati guidati da donne che protestavano al chiuso. Tutti i gruppi sono stati creati tra il 2021 e il 2023 e sono stati attivi da allora, come si vede nella Tabella 1 di seguito.

 Reazione dei gruppi di opposizione armata
Oltre ai gruppi di donne, anche un gruppo di resistenza armata avrebbe agito per rappresaglia contro le nuove restrizioni. Il 3 dicembre 2024, l’Afghan Freedom Front (AFF) ha condiviso un video che mostrava presumibilmente un attacco contro veicoli talebani. Secondo la dichiarazione dell’AFF, l’esplosione aveva come obiettivo un convoglio talebano diretto all’ospedale Khair Khana da 102 posti letto a Kabul per allontanare con la forza le tirocinanti infermiere e ostetriche dai locali.
Non è la prima volta che AW registra che l’AFF rivendica un attacco a sostegno delle donne: nel gennaio 2024, durante gli arresti in corso di donne e ragazze da parte di membri talebani con l’accusa di abbigliamento inadeguato, l’AFF ha preso di mira anche un convoglio di veicoli talebani nel quartiere Khair Khana di Kabul.

Osservazioni
L’amministrazione de facto dei talebani ha gradualmente imposto restrizioni sempre più severe all’accesso all’istruzione per donne e ragazze da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021. Fino a poco tempo fa, alle donne era ancora consentito formarsi per diventare operatrici di supporto sanitario. Tuttavia, la decisione più recente del dicembre 2024 impedisce di fatto alle donne di iscriversi e studiare negli istituti sanitari in tutto il paese.
Con il nuovo divieto in vigore, le ragazze oltre la sesta elementare non hanno accesso all’istruzione laica nel paese, ad eccezione dei corsi di inglese offerti da istituti privati, probabilmente disponibili solo nelle grandi città. Per la maggior parte delle donne e delle ragazze afghane, gli istituti religiosi rappresentano ora l’unica opzione per l’istruzione.

 

GRUPPI CHE HANNO PROTESTATO – PRIMA E ULTIMA LORO PROTESTA

Women’s Movement Toward FreedomMarzo 2023Dicembre 2024
Network for Women’s Political Participation in Afghanistan Settembre 2021Dicembre 2024
Association of Resilient Women of AfghanistanDicembre 2022Dicembre 2024
Purple Saturdays MovementDicembre 2022 Dicembre 2024
Spontaneous Movement of Afghanistan’s Women ProtestersSettembre 2021Dicembre 2024

Delegazione Dem incontra in carcere Öcalan: «Più che mai vicini alla pace»

Il Manifesto, 31 dicembre 2024, di Tiziano Saccucci

Turchia. Il politico curdo apre al dialogo con Erdogan. È la prima visita di due deputati al leader del Pkk dal collasso dei negoziati del 2015

Il 28 dicembre una delegazione del Partito democratico dei popoli (Dem), composta dai parlamentari Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, ha incontrato Abdullah Öcalan, leader storico del movimento curdo, nell’isola-prigione di Imrali. Si tratta del primo incontro completo con Öcalan a nove anni dal collasso dei negoziati del 2015 tra stato turco e Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), preceduto da una visita familiare tenuta a ottobre con il nipote Omer Öcalan, anche lui deputato Dem. I due deputati ricoprivano un ruolo fondamentale già negli ultimi negoziati.

Dopo l’incontro la delegazione ha rilasciato una dichiarazione cauta. Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan hanno confermato che per il momento non sarebbero stati forniti ulteriori dettagli a causa della delicatezza della situazione: «Non saremo in grado di fornire informazioni alla stampa finché il processo non avrà raggiunto una certa maturità», ha affermato Önder. «Questo non significa nascondere nulla; è un requisito di rispetto per gli incontri che terremo».

«Ho sempre sperato nella pace, ma ora credo che siamo più vicini che mai a raggiungerla», ha dichiarato Pervin Buldan al giornale turco Serbestiyet.

Nel breve messaggio in sette punti riportato dalla delegazione, Öcalan si dice pronto a dare il suo contributo per una soluzione politica al conflitto, chiedendo a tutte le parti di «prendere l’iniziativa senza far prevalere i propri interessi» e affermando che la Grande assemblea nazionale turca è uno dei luoghi principali in cui questo processo dovrebbe svolgersi. Come osservato dal giornalista e analista politico curdo Amed Dicle su MedyaNews, Öcalan indica il parlamento come «uno dei luoghi», ritenendo presumibilmente che un eventuale nuovo processo di soluzione non può essere limitato al quadro parlamentare e affermando l’importanza degli attori sociali e politici che non ne fanno parte.

In un passaggio altrettanto interessante, il leader del Pkk indica il presidente turco Erdoğan e il leder del partito nazionalista Mhp Bahçeli come soggetti di riferimento di questo nuovo processo. Sempre secondo Dicle, Öcalan intende in questo modo affermare la necessità di una partecipazione del movimento curdo e dello stato turco come parti uguali.
Il leader curdo ha messo in evidenza anche il contesto regionale, in particolare i conflitti a Gaza e in Siria, come fattori che rendono urgente la necessità di un processo di pace in Turchia. «Rafforzare ancora una volta la fratellanza turco-curda non è solo una responsabilità storica, ma anche una questione di grande urgenza e importanza cruciale per tutti i popoli», afferma Öcalan. «Tutti i nostri sforzi eleveranno il paese a un livello adeguato e serviranno anche da preziosa guida per una trasformazione democratica».

L’incontro ha suscitato reazioni contrastanti nello scenario politico turco. «Uno dei nostri criteri più importanti è prendere in considerazione la sensibilità delle famiglie dei martiri e dei nostri veterani», ha dichiarato il presidente del Chp Özgür Özel. «Stiamo seguendo gli sviluppi, ma le informazioni di cui disponiamo non sono ancora sufficienti per formulare un commento approfondito».

Le ramificazioni di un possibile nuovo processo di pace oltrepassano i confini turchi: come il cessate il fuoco del 2015 permise al movimento curdo, Pkk incluso, di concentrare le sue forze nella lotta contro l’Isis, un nuovo processo di pace rimuoverebbe l’ostacolo più grande dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria del Nord-Est (Daanes) nella partecipazione alla costruzione della nuova Siria dopo Assad, ovvero la posizione del governo turco sulla Daanes, considerata un ramo del Pkk.

Abu Mohammad al-Jolani, alla guida di Hts e leader siriano de facto, seppur chiudendo ancora una volta le porte alla possibilità di una Siria federale, che al momento non rientra tra le richieste della Daanes, in un’intervista ad al Arabiya ha affermato che ci sarebbero colloqui in corso per integrare le Forze siriane democratiche (SDF) nelle nuove forze armate siriane. Queste affermazioni contraddicono la posizione già espressa giorni fa dal ministro degli esteri turco Fidan, secondo cui alla Daanes non sarebbe stato permesso di partecipare ad alcun processo politico siriano.

I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere delle donne

Il Post, 30 dicembre 2024

Per esempio quelle che danno su cucine o cortili: è l’ennesima misura adottata in Afghanistan per rendere la loro vita ancora più difficile e isolata

Sabato 28 dicembre il regime dei talebani che governa in Afghanistan dal 2021 ha emanato un decreto che vieta di costruire, nei nuovi edifici, finestre che si affaccino su stanze e ambienti altrui dove potrebbero esserci delle donne. «Vedere le donne che lavorano in cucina, nei cortili o nei pozzi mentre raccolgono l’acqua, potrebbe indurre ad atti impuri», si legge nel decreto.

È soltanto l’ultima di una serie di regole imposte negli ultimi anni per limitare la vita sociale, l’indipendenza e l’autonomia delle donne, che secondo l’interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice praticata dai talebani godono di molti meno diritti rispetto agli uomini.

Il decreto è stato emesso dal leader del regime afghano, Hibatullah Akhundzada, ed è stato annunciato su X dal suo portavoce Zabihullah Mujahid. Dal testo del decreto emerge una visione profondamente stereotipata e discriminatoria delle donne, che secondo i talebani appartengono agli ambienti della casa tradizionalmente associati alla cura e all’accudimento della famiglia: la cucina, appunto, e altri luoghi dove si può reperire e preparare del cibo per la famiglia.

L’indicazione del decreto non si limita agli edifici di nuova costruzione, ma anche a quelli già esistenti. Se una stanza ha già una finestra che si affaccia su una cucina o un cortile il proprietario dell’edificio è obbligato a trovare un modo per «evitare danni», per esempio installando un muro o qualcosa che schermi la vista. La norma renderà la vita delle donne ancora più separata da quella degli uomini, in una condizione ormai permanente di subalternità.

I talebani stanno applicando norme simili a quelle che emanarono durante il loro primo regime, dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne furono negati moltissimi diritti. Quando ripresero il potere, nel 2021, cercarono di presentarsi come un gruppo moderato e aperto, che avrebbe trattato le donne in maniera diversa rispetto agli anni precedenti.

Già nei mesi successivi tuttavia divenne chiaro che non sarebbe stato così. Tra le altre cose, negli ultimi tre anni i talebani hanno chiuso le scuole secondarie femminili (l’equivalente di medie e superiori italiane), hanno proibito alle donne di accedere all’università, e hanno vietato l’accesso a parrucchieri e saloni di bellezza.

Lo scorso agosto hanno approvato la prima legge emanata dal ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, creato per promuovere il rispetto di un’interpretazione estremamente rigida della dottrina islamica. La legge, divisa in 35 articoli, stabilisce per esempio che le donne non possano cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è qualcosa di intimo e deve rimanere privata. La legge vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di avere incontri di qualsiasi tipo con uomini che non siano loro parenti.

Due giorni dopo l’emanazione del decreto sulle finestre, inoltre, il regime ha annunciato che chiuderà le associazioni e le ong afghane e straniere che impiegano delle donne. Già nel 2022 i talebani avevano emanato un divieto simile, che però di fatto non era stato applicato.