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Autore: CisdaETS

Multe e carcere ai barbieri afghani

Crescono le minacce e le restrizioni ai barbieri nella provincia di Herat: i talebani avvisano che commineranno multe e carcere

8AM Media, 30 settembre  2024

Dopo che i talebani hanno imposto severe restrizioni ai cittadini, i loro militanti hanno picchiato molti residenti di Herat per essersi rasati la barba o tagliati i capelli in pubblico. I barbieri maschi sono tra coloro che sono stati ripetutamente arrestati e imprigionati in container dal Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio per aver rasato o rifinito la barba dei loro clienti. Alcuni barbieri riferiscono che, oltre agli insulti e alle umiliazioni, la polizia morale dei talebani li ha avvertiti che chiunque disobbedisca ai loro ordini verrà multato di 10.000 afghani e imprigionato.

Diversi barbieri di Herat affermano che il Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio dei talebani ha emesso degli avvertimenti dopo aver distribuito avvisi e aver monitorato regolarmente il loro lavoro. È stato detto loro che se tagliano i capelli in stile “occidentale” o se sistemano la barba, saranno multati e imprigionati.

I barbieri di Herat riferiscono che questa direttiva è stata emessa verbalmente nei giorni scorsi dalla Polizia morale dei talebani durante le loro ispezioni. Secondo i barbieri, gli esecutori talebani li hanno avvertiti di non toccare la barba dei loro clienti e di tagliare i capelli solo in modo “semplice”.

Homayoun, un barbiere di Herat con anni di esperienza, afferma che le restrizioni dei talebani hanno danneggiato gravemente la sua attività, lasciandolo esausto. Aggiunge di essere stato ripetutamente insultato e umiliato dagli esecutori dei talebani e che questa situazione in peggioramento sta diventando sempre più insopportabile.

Lui dice: “I talebani hanno reso la vita molto difficile a tutti. Questa non è la via di Dio. Hanno messo un avviso nel nostro negozio e vengono ogni settimana a controllare se tagliamo i capelli alla moda o tocchiamo la barba di qualcuno”.

Frustrato, Homayoun aggiunge: “Queste restrizioni hanno causato una perdita significativa di clienti. La polizia morale dei talebani è arrivata e ha insistito affinché tagliassimo i capelli solo in modo semplice. Sottolineano che se i capelli sono acconciati o delineati, saremo multati e imprigionati. Mi hanno schiaffeggiato di fronte ai clienti tre volte e mi hanno umiliato”.

Shafiq, un altro barbiere di Herat, afferma che gli esecutori dei talebani lo hanno avvertito che se disobbedisce ai loro ordini, verrà multato e imprigionato. Aggiunge che le ispezioni quotidiane dei talebani hanno causato un forte calo dei suoi clienti.

“Qualche giorno fa, diversi esecutori sono venuti a controllare il mio lavoro”, ricorda Shafiq. “Avevo semplicemente tagliato i capelli a un cliente, ma mi hanno detto con rabbia che ora che gli infedeli [il precedente governo e gli stranieri] se ne sono andati, sto ancora seguendo le loro abitudini. Mi hanno avvisato, dicendo che tutti i barbieri sono stati informati: se tagli i capelli in stile occidentale o rifinisci la barba, sarai multato di 10.000 afghani e incarcerato per sei mesi”.

Shafiq esprime preoccupazione per l’aumento delle restrizioni alla sua attività, notando che, secondo il quotidiano Hasht-e Subh, quasi 10 barbieri di Herat sono stati picchiati dai Talebani negli ultimi quattro mesi.

Da quando hanno implementato la loro “Legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio”, i talebani hanno inasprito le restrizioni sui cittadini, privando gli uomini del diritto di decidere come prendersi cura di barba e capelli. La legge considera la cura di capelli in stile occidentale simile all’infedeltà e impone agli uomini di farsi crescere la barba non più corta di un pugno.

Il leader supremo dei talebani ha ratificato la “Legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio” del gruppo in una prefazione, quattro capitoli e 35 articoli. Questa legge si applica a tutti gli individui in Afghanistan, compresi gli stranieri, senza eccezioni.

Migranti afghani in Iran intrappolati in un ciclo di paura e sopravvivenza

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 30 settembre 2024

Gli afghani fuggiti in Iran per mettersi in salvo dopo la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani nel 2021 affermano di subire  molestie e xenofobia crescenti da quando l’Iran si è impegnato a procedere con le deportazioni di massa dei migranti irregolari.

Il capo della polizia iraniana Ahmad-Reza Radan ha dichiarato in un’intervista questo mese che “quasi due milioni di stranieri illegali saranno deportati dall’Iran” nei prossimi sei mesi. Una campagna del genere porterebbe a una media di oltre 80.000 deportazioni a settimana.

 

Bahara. Molestie sul lavoro e razzismo

La migrante afghana Bahara*, 26 anni, vive nella capitale iraniana Teheran da tre anni da quando ha lasciato l’Afghanistan. Teme che la repressione dei migranti vulnerabili stia causando un aumento dello sfruttamento da parte dei datori di lavoro iraniani.

Il suo capo, proprietario di una sartoria di Teheran, le suggerì di “diventare la sua ragazza e godersi la vita in Iran”. Dopo aver rifiutato la sua proposta, fu costretta a cambiare posto di lavoro e il suo stipendio fu ridotto da 9 milioni di toman (213 dollari USA) al mese a 7 milioni (166 dollari USA). Per motivi di sicurezza, non ha rivelato il nome del negozio.

Bahara ha affermato che le molestie si sono estese oltre il posto di lavoro.

“Un giorno, ero seduta in un minibus quando una donna iraniana di mezza età mi ha chiesto di cederle il posto. Mentre stavo per protestare, un altro passeggero maschio ha detto: “Una afghana osa obiettare?

Bahara ha affermato che, secondo la sua esperienza, avrebbe potuto essere arrestata o deportata se avesse protestato contro tale trattamento, quindi non ha avuto “altra scelta che rimanere in silenzio”.

Prima che i talebani prendessero il controllo dell’Afghanistan nell’agosto 2021, Bahara lavorava nel teatro e nel cinema nella capitale Kabul. La maggior parte dei suoi colleghi è riuscita a ottenere visti per la Francia dopo la caduta di Kabul, ma lei ha perso la possibilità di scappare perché non aveva il passaporto.

“Tutti i miei sforzi per lasciare l’Afghanistan e unirmi ai miei colleghi sono stati vani. Sono persino andata all’aeroporto, ma non mi è stato permesso di entrare perché non avevo il passaporto”, ha detto.

Bahara ha tentato più volte di lasciare l’Afghanistan attraverso vie sicure e legali, ma alla fine si è rassegnata a indossare il burqa e introdursi clandestinamente in Iran.

Ora lotta per vivere, nella paura costante.

“Per me, come migrante afghano, Teheran non è molto diversa da Kabul governata dai talebani. Forse a Kabul mi sarebbe già successo qualcosa, a Teheran il processo è più graduale”, ha detto Bahara.

 

Fatima. Sfruttamento, fame e umiliazioni

Fatima*, 31 anni, a Teheran con la madre e il fratello, sta vivendo sfide simili sul posto di lavoro, dove la sua situazione viene sfruttata per costringerla a lavorare molte ore per una paga misera.

Tre quarti del suo stipendio mensile di 10 milioni di toman (237 dollari) vengono utilizzati per pagare l’affitto, lasciando a lei e alla sua famiglia solo 3 milioni per le spese di sostentamento.

“L’esistenza dei migranti vede anche giorni di fame”, ha affermato.

“Un giorno ero così debole per la fame che ho chiesto a una ragazza iraniana di comprarmi del pane. Oggi, sette mesi dopo, l’umiliazione di quel giorno è ancora viva.”

Il posto di lavoro e l’ambiente esterno alla casa sono sempre pieni di discriminazioni e insulti, ha detto Fatima.

“Ogni giorno mi trovo ad affrontare incontri spiacevoli con le persone e rimango semplicemente in silenzio.”

Fatima era un’impiegata governativa prima del ritorno dei talebani e ha lasciato l’Afghanistan dopo la sua caduta. Preferisce non rivelare il suo precedente posto di lavoro.

Fatima ha affermato che suo fratello è così paralizzato dalla paura di essere deportato e da altre molestie che ormai non esce quasi più di casa.

“L’ultima volta che mio fratello è tornato a casa, sanguinava dalla testa e dal viso. Gli iraniani lo avevano picchiato così forte che gli sono serviti 17 o 18 punti di sutura”, ha detto Fatima.

Suo fratello è stato aggredito a luglio, in concomitanza con le proteste nel distretto 15 di Teheran, dove i residenti avevano scandito “Morte agli afghani” in risposta alle accuse secondo cui un giovane afghano aveva ucciso un iraniano.

 

Aumentano gli immigrati e le tensioni

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, l’Iran ha assistito a un notevole afflusso di migranti afghani.

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR ha stimato che circa 4,5 milioni di cittadini afghani vivano attualmente in Iran. Tuttavia, le agenzie di stampa iraniane hanno lanciato il numero fino a 6 milioni o 8 milioni.

La loro presenza importante a Teheran ha intensificato le tensioni interne, spingendo molti cittadini iraniani a chiederne l’espulsione.

A maggio, il Ministero degli Interni iraniano ha riferito che negli ultimi 12 mesi sono stati deportati in Afghanistan 1,3 milioni di migranti clandestini.

Secondo quanto riportato di recente dalla BBC Persian, ogni giorno vengono deportati dall’Iran almeno 3.000 migranti, compresi quelli con residenza legale.

Sia Bahara che Fatima temono di tornare in Afghanistan, ma si sentono spinte al limite della loro sopravvivenza in Iran.

Bahara ha detto che non sarebbe stata al sicuro a Kabul, ma ha anche detto: “Sono tre anni che sopravvivo, vivendo la mia vita come una creatura senza scopo [a Teheran]”.

Fatima si sente sopraffatta dal modo in cui viene trattata a Teheran.

Ho subito così tanti insulti e umiliazioni che preferirei tornare in Afghanistan e farmi uccidere”.

*Nota: i nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

Le sfide della scuola online per le ragazze afghane

Le ragazze afghane che studiano online hanno ora un’altra preoccupazione: i loro diplomi sono validi?

Farhiya è una diciannovenne di Kabul. Era al 9° anno in una scuola pubblica quando lei e centinaia di migliaia di altre ragazze furono costrette a rimanere a casa dopo che i talebani avevano ripreso il potere. “La presa del potere da parte dei talebani, la chiusura delle scuole e questo cambiamento improvviso che mi ha tolto molte opportunità mi hanno causato una grave depressione”, racconta allo Zan Times. “Ma a marzo 2023, i miei amici mi hanno informato di una scuola online chiamata Gawharshad Begum e mi sono subito iscritta”.

Poiché i talebani avevano continuato a promuovere le ragazze nelle scuole pubbliche a classi superiori senza che frequentassero le lezioni nelle scuole pubbliche nel 2021 e nel 2022, Farhiya è andata all’undicesimo anno quando ha ripreso gli studi. Trascorre tre o quattro ore al giorno frequentando le lezioni sul suo smartphone e computer tramite Google Meet e prevede di diplomarsi al dodicesimo anno a gennaio 2025. Farhiya vede l’istruzione online come la sua unica opportunità, nonostante l’incertezza sulla validità dei suoi certificati per le studentesse.

La scuola online ha le sue sfide. “Il costo di Internet è uno dei miei più grandi problemi”, afferma Farhiya. “Uso il Wi-Fi, ma a volte è lento e l’audio si interrompe e si interrompe. Oppure non riesco a partecipare alle lezioni a causa delle interruzioni di corrente”. Trova anche stancanti le ore passate seduta davanti a un computer o a fissare lo schermo di un telefono. Al contrario, l’istruzione di persona consentiva un contatto diretto con gli insegnanti, il che l’aiutava nell’apprendimento, nota.

Il padre di Farhiya, Younos, 50 anni, sostiene la sua famiglia di nove membri con il suo lavoro, impiegato presso un’azienda privata. Nonostante le pressioni finanziarie sulla loro famiglia, stanzia circa 2.000 afghani al mese per Internet di Farhiya. Younos è contento che sua figlia possa continuare la sua istruzione, affermando: “Riduciamo il cibo e le necessità quotidiane, quindi paghiamo Internet e le permettiamo di frequentare le sue lezioni”.

Il 14 agosto 2024, durante un programma in diretta su Ariana News TV in Afghanistan, un conduttore ha chiesto a Mawlawi Abdul Kabir, vice primo ministro dei talebani, informazioni sulla scolarizzazione delle ragazze, che termina con la sesta elementare. Dopo aver riso, ha detto che i talebani non sono contrari all’istruzione delle ragazze nel quadro della legge islamica e che le ragazze possono studiare nelle scuole religiose. “Alle ragazze è consentito studiare dalla prima alla sesta elementare, ma per ora, le classi superiori, comprese le scuole medie e superiori e le università, sono chiuse”, ha aggiunto. “L’Emirato islamico non ha approvato una legge che stabilisca che le scuole rimarranno chiuse in modo permanente”.

 

Un percorso alternativo: studiare online

L’impatto di tre anni di chiusura è grave. Gli ultimi rapporti dell’UNESCO mostrano che i talebani hanno privato 1,4 milioni di ragazze in Afghanistan di opportunità educative. Per trovare un percorso alternativo per l’istruzione delle ragazze, alcuni attivisti dell’istruzione in Afghanistan hanno creato scuole online. Il numero di ragazze in grado di iscriversi a queste scuole è sconosciuto, ma a causa del costo di Internet, è probabile che si tratti di una piccola quota di ragazze che dovrebbero essere in classe.

Zohal è una studentessa di 8° grado in una scuola online chiamata Azadi. La quindicenne vive con la sua famiglia povera nella provincia di Balkh e vuole ottenere una borsa di studio per studiare psicologia dopo la laurea. Prima che i talebani prendessero il potere, il padre di Zohal era un medico che lavorava per una ONG internazionale. Ora è disoccupato e la madre di Zohal deve mantenere la loro famiglia di sette membri. “Viviamo in una vecchia casa di fango ereditata da mio nonno. Non possiamo nemmeno permetterci di dipingere la casa. Le nostre condizioni economiche sono pessime”, spiega Zohal. “Mia madre copre le mie spese di Internet con il suo lavoro di cucito. I miei genitori dicono sempre che faranno tutto il necessario per finanziare la mia istruzione, anche se non abbiamo niente da mangiare”.

Come Farhiya, Zohal si preoccupa di come continuare la sua istruzione dopo essersi diplomata al 12° anno: “Nonostante continui i miei studi online, la mia preoccupazione più grande è che ci verranno rilasciati certificati riconosciuti solo dalla scuola online stessa, ma che non saranno accettati né all’interno né all’esterno del paese. Se ciò accadesse, non sarei in grado di ottenere una borsa di studio o un lavoro e non mi permetterebbero nemmeno di sostenere l’esame di ammissione all’università in Afghanistan”.

Per questo rapporto, Zan Times ha intervistato 10 studenti che frequentano scuole online nelle province di Kabul, Nangarhar, Balkh, Herat e Ghazni. Otto hanno espresso preoccupazioni sulla validità dei loro certificati di laurea dalle scuole online, mentre i restanti due hanno affermato che sfuggire alla depressione ed essere costretti a casa era più importante che avere un certificato, almeno per ora. Nove studenti si sono lamentati dell’elevato costo di Internet richiesto per frequentare lezioni online, mentre hanno anche notato che altre sfide includono scarse velocità di Internet, interruzioni di corrente e una mancanza di comunicazione diretta con gli insegnanti.

Gli amministratori e gli insegnanti delle scuole online spiegano che continuano a istruire gli studenti, spesso senza il supporto finanziario o morale di organizzazioni internazionali o governi stranieri. Nella provincia di Balkh, Kamela, 22 anni, lavora in una scuola elementare pubblica e insegna in una scuola online nel suo tempo libero. Era al quarto anno di scienze alla Balkh University quando i talebani chiusero le università alle donne. Ha trascorso nove mesi imparando come diventare un’educatrice a distanza da un’organizzazione chiamata Intertek e ora insegna inglese, tedesco, turco e calligrafia agli studenti della scuola online Azadi. Non viene pagata per il suo lavoro: “Faccio volontariato in questa scuola e pago Internet e le spese con il mio stipendio di insegnante di scuola elementare. Siamo in difficoltà finanziarie, ma voglio sostenere le ragazze di questo paese insegnando loro il più possibile”.

Kamela spera che un giorno tutte le ragazze afghane potranno continuare la loro istruzione senza restrizioni, così da poter contribuire alla ricostruzione del loro Paese.

Selma è coinvolta nell’apprendimento online da due anni. “Nel 2022, ho capito che i talebani non hanno intenzione di riaprire le scuole secondarie e superiori per le ragazze, quindi ho deciso di fondare una scuola online”, afferma. Quella scuola è Gawharshad Begum. “Gli insegnanti lavorano volontariamente e gli studenti continuano la loro istruzione gratuitamente”. Dopo essere stata aperta per un anno, la scuola ha iscritto 550 studentesse, che vengono istruite in orari diversi durante il giorno da 50 donne che hanno un diploma di scuola superiore e una laurea triennale.

Studenti e insegnanti trovano la scuola di Selma tramite i social media. “Dopo aver esaminato i precedenti risultati accademici degli studenti, li inseriamo nei gradi appropriati”, spiega Selma. “Il curriculum segue il sistema del Ministero dell’Istruzione dell’era della Repubblica e tutte le materie scolastiche fanno parte del programma. Abbiamo tre o quattro ore di lezione al giorno, ma si tengono in orari diversi perché i nostri insegnanti sono impegnati con le loro attività quotidiane e offrono il loro tempo libero per questo”. Quelle lezioni e quegli esami online sono gestiti tramite piattaforme come Google Meet e Zoom, mentre gli studenti possono fare domande e inviare i compiti tramite gruppi WhatsApp e Telegram.

 

Sarà possibile laurearsi?

Sebbene Gawharshad Begum sia operativa da un anno, non ha ancora laureato studenti. Gli amministratori e gli insegnanti delle scuole online ammettono di non essere sicuri che qualcuno riconoscerà i loro diplomi. Come per molti problemi in Afghanistan, le preoccupazioni immediate (l’insegnamento alle ragazze) superano quelle a lungo termine.

Selma riconosce le preoccupazioni degli studenti sulla validità dei loro certificati di laurea: “Anch’io sono preoccupata perché i certificati sono riconosciuti solo dalla nostra scuola e non dal Ministero dell’Istruzione. Questi certificati potrebbero non essere validi per l’ammissione a università straniere o online”. A causa di sfide come i costi di Internet, le connessioni lente e le frequenti interruzioni di corrente, gli insegnanti registrano le lezioni e le condividono in gruppi, consentendo agli studenti di recuperare. “Capisco le difficoltà finanziarie degli studenti”, aggiunge Selma. “Anche io riesco a malapena a permettermi le spese di Internet, che pago con il mio stipendio da insegnante. La maggior parte degli studenti affronta gli stessi problemi perché non abbiamo alcun supporto finanziario”.

Farhiya teme che il suo certificato di laurea online non la aiuti a realizzare il suo sogno di studiare medicina: “Spero che quando mi laureerò, mi rilasceranno un certificato valido e utile. Questo certificato dovrebbe essere riconosciuto sia in Afghanistan che a livello internazionale, in modo che gli studenti possano usarlo per costruire un futuro più luminoso”. Farhiya nota che non pensava a questo problema quando si è iscritta per la prima volta alla scuola online: voleva solo evitare di essere costretta a casa. Ora, è diventata un’altra preoccupazione.

Sana Atef è lo pseudonimo di una giornalista freelance in Afghanistan. I nomi in questo articolo sono stati cambiati per motivi di sicurezza.

I Talebani impongono nuove restrizioni ai media

Anche la libertà di informazione è sempre più sotto attacco nell’Afghanistan dei talebani

Ghulam Sirat e Masood Saifullah, Rawa News, 27 settembre 2024

Secondo l’Afghanistan Journalists Center (AFJC), un’organizzazione indipendente che sostiene i media e la libertà di stampa in Afghanistan, i talebani hanno recentemente imposto ulteriori restrizioni alle organizzazioni mediatiche in Afghanistan, proibendo di criticare le loro leggi e politiche e vietando la trasmissione di programmi politici in diretta.

L’AFJC ha affermato che, durante una riunione del 21 settembre, i talebani hanno dato istruzioni ai responsabili dei media che gli argomenti dei programmi politici devono essere prima approvati dai membri talebani.

I talebani hanno emanato nuove linee guida, intimando alle organizzazioni mediatiche di invitare solo ospiti approvati dal gruppo.

I talebani hanno fornito una lista di 68 esperti che approvano per apparire in programmi politici. Secondo le nuove linee guida, i funzionari talebani devono essere informati in anticipo se un ospite al di fuori della lista approvata dai talebani deve apparire in uno spettacolo.

“La linea guida rappresenta un nuovo tentativo di indebolire ed emarginare ulteriormente i media indipendenti”, ha affermato l’AFCJ in una nota, invitando i talebani ad astenersi dal sopprimere i media liberi.

 

L’erosione delle libertà civili in Afghanistan dopo la presa del potere da parte dei talebani

I talebani hanno continuato a imporre restrizioni alle organizzazioni mediatiche da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021, tra cui il divieto alle donne di mostrare il proprio volto in onda e di trasmettere musica.

In alcune province, anche le voci femminili sono bandite dai programmi di call-in. Il gruppo imprigiona inoltre regolarmente giornalisti e professionisti dei media che, secondo i talebani, agiscono contro “gli interessi nazionali e islamici in Afghanistan”.

I talebani hanno avvertito che se una qualsiasi delle nuove direttive verrà violata da un’organizzazione mediatica, il gruppo tratterà il conduttore del programma, il produttore, il direttore e gli ospiti “secondo le regole”.

Da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, il gruppo ha emanato 21 direttive volte a limitare le attività dei media, alcune delle quali possono essere considerate piuttosto bizzarre.

Una di queste direttive delle linee guida “vizio e virtù” dei talebani include il divieto di mostrare creature viventi in TV. Il gruppo non ha fornito dettagli su cosa significhi il divieto.

 

“Morte della libertà di parola” in Afghanistan

I giornalisti che lavorano in Afghanistan sono riluttanti a parlare perché temono di essere perseguiti dai talebani. Tuttavia, altri che sono riusciti a fuggire dal paese hanno criticato le nuove direttive.

“Questa direttiva è la morte della libertà di parola perché limita la libertà di stampa”, ha detto a DW Nawid Ahmad Barakzai, un giornalista afghano attualmente residente in Pakistan.

“I media in Afghanistan non possono più operare secondo i principi giornalistici”, ha affermato Barakzai, che ha lavorato in Afghanistan sotto il regime dei talebani prima di fuggire dal Paese.

Ha aggiunto che ai media in Afghanistan non è consentito riferire di “corruzione, immoralità, illegalità o violenza perpetrate dai talebani in passato”.

Un professionista dei media ha raccontato a DW che i talebani spesso impartiscono tali direttive durante incontri faccia a faccia con i responsabili dei media, che erano stati convocati presso il Ministero della cultura e dell’informazione dei talebani e informati delle nuove regole.

“I giornalisti devono ottenere l’approvazione dei talebani per cercare l’opinione pubblica sugli eventi”, ha detto Barakzai. Ha avvertito che se le nuove direttive fossero state implementate, i talebani avrebbero potuto usare i media afghani per la loro propaganda.

“I media afghani potrebbero diventare portavoce dei talebani”, ha affermato.

Da quando sono saliti al potere, la più grande pretesa dei talebani è stata quella di ripristinare la sicurezza in Afghanistan. Pertanto, il gruppo controlla rigorosamente quali notizie provengono dall’Afghanistan.

 

Censura ovunque in Afghanistan

Un giornalista che lavora in Afghanistan, che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonimo, ha dichiarato a DW che i talebani non consentono a nessun giornalista di fare reportage sulle scene del crimine, sulle esplosioni, sui furti o su altri incidenti.

Ha spiegato che le forze di intelligence dei talebani forniscono dettagli ai media “in qualunque modo ciò possa risultare loro utile”.

Il giornalista ha aggiunto che quando un organo di stampa vuole intervistare funzionari talebani, le domande devono essere condivise in anticipo con il dipartimento competente. Solo dopo che le domande sono state preparate in un modo che vada bene ai funzionari talebani, l’intervista può essere condotta.

Il giornalista ha affermato che, se dopo la registrazione e la messa in onda di un’intervista si verifica una reazione pubblica, i talebani chiedono conto all’organo di informazione.

“Una volta ho intervistato un membro dei talebani e, dopo la messa in onda, più di 50 membri dei talebani mi hanno chiamato chiedendomi perché non avessi rimosso la parte in cui il religioso sorrideva”, ha detto

 

Germania: rimpatrio forzato per afghani che hanno già scontato condanne con pene brevi

Angela DI Pietro 24 settembre 2024

Il 30 agosto un gruppo di 28 cittadini afghani è stato espulso dalla Germania e rimpatriato in Afghanistan. La stampa non ha riportato notizie di manifestazioni di protesta contro tale misura e i giornali sono quasi unanimi nella loro approvazione dell’azione del ministero dell’interno tedesco in collaborazione con la maggior parte dei Länder (11), affermando come siano stati espulsi criminali pericolosi già condannati e che avevano già scontata tutta o parte della pena; alcuni sono stati prelavati direttamente dal carcere.

In molti giornali vengono riportati i crimini di cui si erano macchiati (stupri, violenze a sfondo sessuale, assalti armati con coltello, mentre su un solo giornale si legge che alcuni avevano condanne per spaccio di droga). In realtà la maggior parte era stata condannata a pene relativamente brevi (2-5 anni), mentre dai titoli dei maggiori quotidiani si ha l’impressione che si trattasse di veri e propri pericoli pubblici. In particolare, viene dato risalto all’espulsione di un uomo che alcuni anni fa aveva partecipato a uno stupro di gruppo su una quattordicenne; in realtà però costui aveva già scontato la sua pena (aveva avuto soltanto 2 anni di reclusione).

Clima pesante per gli immigrati in una Germania che vira verso l’estrema destra

L’azione, che ha avuto luogo solo due giorni prima delle elezioni politiche nei Länder della Sassonia e della Turingia, sarebbe stata in realtà in preparazione da circa due mesi. La Germania si è avvalsa dell’appoggio del Qatar: l’aereo partito da Lipsia era del Qatar, e a bordo non c’erano forze di sicurezza tedesche ma qatariote. In questo modo la Germania può affermare di non aver trattato direttamente con i talebani e di non aver avuto nessun rapporto diretto con loro.

Il rimpatrio si inserisce in un clima nazionale nel quale l’immigrazione ed i problemi ad essa collegati sono diventati temi attuali e scottanti. In particolare, negli ultimi mesi l’opinione pubblica è stata scossa da due episodi di violenza di cui sono stati protagonisti dei rifugiati.   Alla fine di maggio a Mannheim durante una manifestazione anti-islam un afghano incensurato ha attaccato con un coltello alcune persone, uccidendo un poliziotto; bersaglio dell’attentato era un noto attivista di destra, che si preparava a fare un discorso. In quell’occasione il Cancelliere Scholz aveva parlato dell’intenzione di deportare gli autori di gravi crimini, anche se provenienti da paesi come Afghanistan e Siria.

Il 23 agosto a Solingen durante i festeggiamenti per il 650° anniversario della nascita della città un cittadino siriano armato di coltello ha ucciso tre persone e ne ha ferite altre otto “per vendicare i mussulmani in Palestina e ovunque”. Grandi polemiche ha suscitato il fatto che già nel 2023 l’attentatore avrebbe dovuto essere espulso e rimandato in Bulgaria in base agli accordi del Trattato di Dublino 3, ma che per motivi burocratici l’espulsione non aveva poi avuto luogo.

A seguito degli attentati, e soprattutto di quello del 23 agosto, è aumentata da più parti la pressione sul governo perché metta in atto politiche per limitare l’immigrazione e garantire la sicurezza del paese. Negli ultimi giorni, sempre sull’onda delle reazioni per l’attentato a Solingen, il governo tedesco ha approvato un pacchetto di misure per limitare il diritto d’asilo e da lunedì 16 settembre verranno ripristinati – per sei mesi – i controlli alle frontiere tedesche (scavalcando Schengen).

La Germania intende anche continuare la politica dei rimpatri forzati. In base a voci che la Ministra Federale dell’Interno Nancy Faeser non ha né confermato né smentito, la sua attuale visita in Uzbekistan assieme al Cancelliere Scholz avrebbe anche come obiettivo quello di rendere possibil rimpatri nel confinante Afghanistan evitando rapporti diretti con i talebani.

Nel frattempo, i partiti di opposizione utilizzano il tema dell’immigrazione per profilarsi e attaccare la politica del governo. Alle ultime elezioni europee il partito di estrema destra AfD, che fa dell’opposizione all’immigrazione uno dei temi centrali della propria politica, ha raggiunto il secondo posto in Germania con il 15,9% dei voti. Il crescente consenso per questo partito è stato rispecchiato anche dai risultati delle elezioni politiche del 1° settembre in Turingia ed in Sassonia, due soli giorni dopo il rimpatrio dei cittadini afghani: l’AfD è risultato il primo partito in Turingia e il secondo in Sassonia (per una manciata di voti), mentre ottimi risultati ha avuto anche il nuovo partito populista fortemente anti-immigrazione denominato Alleanza Sahra Wagenknecht.

Il fallimento dello stato di diritto

Mentre dal panorama politico non si sentono voci contrarie alle espulsioni, critiche decise sono arrivate dalle organizzazioni per i diritti umani.

La segretaria di Amnesty International Germania ha criticato l’espulsione verso un Paese che pratica la tortura e non rispetta i diritti umani, affermando che con le deportazioni in Afghanistan la Germania rischia di diventare complice dei talebani. Pro-Asyl, che teme che questi rimpatri passano essere un primo passo verso la normalizzazione dei rapporti con i talebani, ha parlato di “fallimento dello stato di diritto” e ha ricordato che in Afghanistan nel solo mese di giugno più di 60 persone sono state frustate con l’accusa di omosessualità. L’organizzazione umanitaria Medico International ha parlato di un governo che in un clima di populismo di destra va a caccia di voti “sulla pelle dei perseguitati”, ed ha ammonito che non si sa a cosa andranno incontro i deportati dopo il rientro in Afghanistan.

Che peccato, Meryl Streep!

cisda.it 26 settembre 2024

Il discorso di Meryl Streep all’ONU, che ha confrontato le donne afghane con un gatto o a uno scoiattolo, evidenziando come questi abbiano più libertà e considerazione di una donna oggi a Kabul, sicuramente è stato più efficace di mille dettagliate spiegazioni delle leggi talebane contro le donne che le organizzazioni per i diritti delle donne si prodigano di fare ovunque e appena possibile nel tentativo di spiegare alla comunità civile internazionale quanto sia terribilmente insopportabile la segregazione cui i talebani sottopongono le donne e le ragazze afghane. Uno splendido esempio di capacità di comunicazione, un modo semplice ma efficace di diffondere informazione, che colpisce l’immaginario e la sensibilità della gente semplice – e forse anche degli assuefatti addetti ai lavori.

Una capacità di sintesi e incisività che spesso manca a noi attiviste che lavoriamo a stretto contatto con le donne afghane, sopraffatte come siamo dal desiderio di raccontare con più dettagli possibili le torture, fisiche e psicologiche, cui le donne sono quotidianamente costrette a far fronte, cercando di riversare più storie possibili nei pochi stretti spazi di comunicazione che ci vengono concessi dalla grande informazione e dalla politica ufficiale, nel tentativo di dare voce alle dimenticate donne afghane per risarcirle di tutte le loro privazioni.

Discorso sapientemente costruito, quello di Meryl Streep, probabilmente preparato da abili esperti della comunicazione… ma privo del contatto reale con la popolazione e le donne afghane, un discorso scritto e pronunciato lontano dalla realtà e dalla storia politica dell’Afghanistan.

Perché se Meryl Streep e i suoi pr avessero una maggiore conoscenza di cosa pensano e cosa chiedono le donne che, rimaste in Afghanistan o costrette a fuggire via dal Paese, comunque combattono ogni giorno una battaglia di resistenza contro i fondamentalisti e i politici corrotti – battaglia che era già in atto durante la precedente repubblica – saprebbero che le leader citate nel discorso come paladine della libertà e dei diritti delle donne afghane e rappresentanti delle loro battaglie, sono invece considerate traditrici dei loro interessi.

E non erano sentite rappresentative neanche quando stavano in Afghanistan, proprio perché essendo leader nel governo repubblicano, retto da personaggi ex signori della guerra, corrotti e incapaci, godevano dei benefici, personali e famigliari, che derivavano dalle loro posizioni di potere. Per questo sono state contestate nel corso della loro carica politica da gruppi di cittadini e di attivisti che le hanno accusate di corruzione  o collusione con partiti fondamentalisti.

Nemmeno la loro disponibilità a partecipare ai colloqui di Doha del 2020 finalizzati a riportare al potere i talebani viene considerato un merito: non solo sono state semplicemente usate come bandiera di democrazia e uguaglianza senza che avessero nessun peso politico reale, erano semplice tappezzeria. Ma anche recentemente, in occasione della 3° Conferenza di Doha, sono state contestate perché favorevoli a un accordo con i talebani, un accordo che, con un riconoscimento ufficiale o di fatto, le riporti al potere in un impossibile governo inclusivo.

Perciò, che peccato, Meryl Streep… Non ti sei resa conto che, mentre ti spendevi in quello splendido esclusivo palco che è l’Onu con l’intenzione meritevole e sicuramente sentita di dare slancio alla difesa dei diritti delle donne afghane così ignominiosamente calpestati, stavi in realtà appoggiando la politica dei potenti stati che, mettendo in secondo piano i principi democratici e i diritti delle donne, preferiscono rassegnarsi al regime talebano fondamentalista, accettandolo come realtà di fatto, pur di normalizzare al più presto la politica e l’economia internazionale, e intanto si lavano la coscienza di fronte al mondo invitando alle loro parate internazionali donne importanti e famose che possano intercettare la sensibilità e l’attenzione dell’opinione pubblica mentre la politica vera opera altrove.

CISDA

I curdi e l’Occidente indifferente

ilmanifesto.itFrancesco Strazzari 19 settembre 2024

RIFUGIATI La questione curda è molto di più vicina e molto più grande di un “problema di separatismo della Turchia”, immagine a cui è spesso ridotta. La lotta dei curdi contro l’Isis ha molto da insegnare.

Quando i capi di stato stringono mani i curdi soffrono. Ed è all’ombra di minacce e uccisioni che prendono corpo le storie delle persone che arrivano alle nostre coste, come quella di Maysoon Majidi. Ma anche delle vite interrotte a Cutro, nel buio calato sul naufragio fantasma del 17 giugno.

Giorni di agonia, nessuna risposta alle richieste di soccorso, circa settanta vittime fra cui diversi bambini. Salme occultate ai media per risparmiare al governo un nuovo imbarazzo.
Per capire il flusso di rifugiati curdi che tentano disperatamente di approdare sulle coste della Calabria occorre unire i puntini e risalire all’origine del viaggio, ovvero alla forte pressione che Iran e Turchia esercitano sulle deboli istituzioni irachene, muovendosi con disinvoltura in una regione di cui controllano, a monte, le acque. Una pressione che si appoggia su compiacenti clientele politiche locali, con gli iraniani forti a Suleymania e i turchi che dettano legge a Erbil.

In primavera Erdogan si è recato a Baghdad a firmare accordi su infrastrutture e sicurezza, formalizzando la presenza militare di Ankara nel nord dell’Iraq. Il partner locale è il Partito Democratico del Kurdistan (Kdp) di Nechirvan Barzani, che ha le mani sul reddito petrolifero e ha aperto le porte agli alleati di Erdogan: mercenari islamisti, formazioni turcomanne e le forze reazionarie di Huda-Par, un tempo legate agli Hizbullah turchi. Il clan Barzani ha di fatto lasciato mano libera ai bombardamenti sulle formazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), che è stato bandito. Oltre a fare terra bruciata di vegetazione, la Turchia continua a bersagliare Makhmour, il campo che raccoglie rifugiati curdo-turchi fuggiti negli anni 90: giorni fa un drone ha colpito tre attiviste delle Madri della Pace durante una visita di funzionari Onu.

Davanti all’invasione dell’ISIS e alla fuga dei peshmerga nel 2014 i guerriglieri del PKK furono gli unici a schierarsi sul monte Sinjar a protezione degli Yezidi. Genocidio per genocidio, quando si parla di curdi nel nord iracheno la memoria corre alla guerra di sterminio di migliaia di donne e bambini con i gas ordinata da Saddam Hussein a fine anni Ottanta: un evento-spartiacque che negli anni a seguire giustificò la presenza americana e la costruzione dell’autonomia della regione. Il Kdp si è incaricato di tenere isolato il progetto di autogoverno dei curdi siriani (Rojava), che dopo i tradimenti di Trump e di Putin è oggi sostanzialmente confinato al Nord-Est del paese.

Sul versante iraniano e filo-iraniano, il presidente Pezeshkian ha fatto visita al suo omologo iracheno Abdul Latif Rashid, membro della Unione Patriotica del Kurdistan (Puk), nonché stoicamente rivale e complice del Kdp nel saccheggio delle risorse del paese.

Due anni fa, con il dilagare in Iran delle protese del movimento Jin Jiyan Azadi (Donna Vita Libertà) che seguì l’arresto e l’uccisione di Jina (Masha) Amini, l’Iran bombardò i campi iracheni dei fuoriusciti curdo-iraniani provenienti dal Rojhilat (la regione curda iraniana). Nel 2023 Iraq e Iran firmarono accordi che prevedevano che il confine dovesse essere liberato dell’attivismo attivismo politico curdo. Da allora i campi lungo il confine vengono chiusi e i rifugiati trasferiti nelle città del Kurdistan iracheno, dalle quali continuano ad arrivare notizie di azioni ostili iraniane.
Giorni fa due membri del Partito Democratico del Kurdistan Iranian (Kdpi), Behzad Khosravi and Shaho Ahmadzade, sarebbero stati consegnati all’Iran dalle autorità di Sulaymaniyah.

Oggi sulla stampa iraniana filtra la notizia secondo cui sarebbero in corso negoziati con le Nazioni unite per trasferire questi attivisti in un paese terzo. Uno schema che in qualche modo ricorda l’operazione attraverso la quale nel 2013, dopo che le autorità irachene avevano lasciato briglia sciolta alle milizie filo-iraniane, vennero trasferiti in un villaggio dell’Albania i Mujahiddin del Popolo (Mek) iraniani.

A seguito degli accordi fra Teheran e Bagdad, una serie di militanti curdo-iraniani sarebbero in attesa della decisione di Barzani circa l’estradizione in Iran, dove rischiano l’esecuzione. Destino simile, in barba alle Convenzioni di Ginevra, viene affrontato da quattro attivisti curdo-iraniani legati al movimento Donne Vita Libertà che la Turchia si appresta a consegnare in Iran. Giova ricordare come persino la Francia, dove i militanti curdi sono stati colpiti da spregiudicate azioni degli apparati di sicurezza turchi, abbia recentemente deportato attivisti curdi verso la Turchia.

Il 26 dicembre 1997 una nave battente bandiera turca, la Ararat, scaricò nelle acque di Badolato, Calabria, centinaia di rifugiati, molti dei quali curdi iracheni. I curdi li vedevi incamminarsi lungo la ferrovia, saltare sui treni per tentare la sorte verso il nord Europa. Altri si fermavano in Calabria.

Oggi la rotta mediterranea è diventata molto più pericolosa. La questione curda è molto di più vicina e molto più grande di un “problema di separatismo della Turchia”, immagine a cui è spesso ridotta. La lotta dei curdi contro l’Isis ha molto da insegnare. Sfregiata di tradimenti, manipolazioni e persecuzione, la storia dei curdi riflette anche nei momenti più bui i valori che le democrazie sbandierano come il proprio dna. Il silenzio e l’indifferenza sui loro naufragi e sulle nostre incarcerazioni è il riflesso della nostra viltà.

APPELLO PER LA LIBERTÀ DI MAYSOON MAJIDI

APPELLO PER LA LIBERTÀ DI MAYSOON MAJIDI e di tutte le persone private della loro libertà mentre erano in fuga per trovarla

Sono 9 mesi che l’attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi è detenuta con l’accusa di scafismo nelle carceri calabresi; a Castrovillari fino al 5 luglio, poi viene trasferita nel
carcere di Reggio Calabria.
In vista dell’udienza che si terrà il 18/9 a Crotone, rilanciamo questo appello alla mobilitazione e all’unione a tutte quelle realtà e a quelle singole persone che hanno a cuore la libertà propria e altrui.

Quello di Maysoon infatti non è un caso isolato, anzi è un caso emblematico della situazione attuale.

Oltre a Marjam Jamali, donna iraniana anch’essa detenuta – da fine ottobre 2023 – per scafismo che a fine giugno ha ottenuto i domiciliari in attesa di processo, centinaia di persone ogni anno vengono tratte in arresto con questa accusa e sono dunque in migliaia ad essere detenute ingiustamente dall’introduzione di questo reato (vedi art.12 del testo unico sull’immigrazione detto TUI o anche Legge Bossi-Fini).

Inoltre, da marzo 2023 il Decreto Cutro ha inasprito le pene per queste persone presunte scafiste, addossando loro la responsabilità della morte e della sofferenza delle persone passeggere.

Ad oggi, il governo ha grande interesse ad identificare in ogni barcone che arriva in Italia uno “scafista”, vero o presunto che sia, per poter sbandierare l’efficacia delle sue politiche contro l’immigrazione illegale. Poco importa se queste persone sono donne con figli minorenni a seguito come Marjam, artiste ed attiviste per i diritti delle donne come Maysoon o adolescenti impauriti a cui qualcuno ha messo in mano un timone. Ciò che
importa al potere è fare propaganda e pubblicare statistiche sul numero di persone arrestate per scafismo.

Con questo appello vogliamo quindi allargare e rinsaldare la rete di solidarietà creatasi intorno a Maysoon, fuggita per sottrarsi alla repressione del regime nel suo paese e finita nelle grinfie della repressione in Italia. La battaglia per la sua liberazione corrisponde a quella per la libertà di Marjam e di tutte le altre persone presunte scafiste in carcere in questo paese sempre più securitario, in cui le carceri sono già stracolme anche senza l’aggiunta di queste persone arrestate sulla base di un reato fittizio.

È importante infatti ribadire, oltre l’estraneità ai fatti loro contestati e dunque l’innocenza di Maysoon e Marjam, che siamo contro la colpevolizzazione delle persone che i barconi li hanno guidati davvero in quanto, nonostante i confini chiusi, rimane la necessità di lasciare il paese. Per le persone prive di disponibilità economiche, a volte diventa necessario offrirsi per la guida delle barche, in vista di una possibile via di salvezza. Queste persone in fuga, oppresse quando non perseguitate, per i Governi europei diventano “gli scafisti” e assunti come capro espiatorio pubblico.

Vogliamo la demolizione integrale del sistema-frontiera, della sua mentalità e delle sue modalità e, per questo, facciamo appello a una lotta per la libertà che sia generalizzata e concreta, fuori da pratiche mirate a individuare una persona realmente colpevole o ad
approfittare di un palco per mostrare la propria bandiera, mentre chi migra resta in galera, nei cpr, negli hotspot e negli altri centri di detenzione e tortura, in attesa di processo o di espulsione.

Rilanciamo la mobilitazione per l’abolizione del decreto Cutro e del reato di scafismo nel TUI, per la liberazione di Marjam e Maysoon e per la possibilità di accogliere degnamente in Italia chi arriva perché costretta dallo stato di necessità.

Sposando la causa di queste persone per la loro libertà e anche per la nostra, vi invitiamo a prendere parte al presidio presso il tribunale di Crotone, il 18 settembre dalle ore 11, dove si terrà l’udienza di Maysoon.

Comitato free Maysoon

Per info e adesioni scrivere a freemaysoonmajidi@tutamail.com

Mediterranea Saving Humans

Cidis Impresa Sociale

Liberaccoglienza ETS

Comitato Beni Comuni Acri

Federazione prov. Le Rifondazione Comunista Cosenza

Clinica legale migrazioni e asilo – Università di Roma tre

Associazione Yairaiha Ets

ARCI RED Cosenza

CSOA Angelina Cartella

Anarchici Calabresi

Mem. Med. Memoria Mediterranea

UDI Aps – Reggio Calabria

Free heval Talip

Comitato free Marjan Jamali

La Kasbah

Palermo solidale con il popolo curdo

Comitato di base No Muos

Assemblea No Guerra

Laboratorio Andrea Ballarò

Circolo Arci La Boje – Rovigo

Rete Kurdistan Polesine

Roberta Ferruti

Collettivo Addunati – Lamezia Terme

Elisabetta Della Corte

Carovane migranti

SpArrow

Jineolojî Calabria

Cesare Romagnino

Giordano Sivini, ordinario di sociologia politica in pensione

Domenico Gattuso, docente universitario

Non una di meno – Lamezia Terme

Delfina Donnici, educatrice

Catanesi solidali con il popolo curdo

Una città in comune – coalizione Diritti in comune – Consiglio
comunale di Pisa

Giuseppe Reitano

LasciateCIEntrare

Potere al popolo!

Unione Donne Italiane e Kurde

[Il CISDA ha inviato l’adesione all’Appello]

PAKISTAN. Rimpatri e abusi per i migranti afgani in fuga dai talebani

Pagine Esteri, 19 settembre 2024, di Claudio Avella

Pagine Esteri, 19 settembre 2024. Il 29 agosto il governo pakistano, attraverso il Ministro dell’Interno Moshin Raza Naqvi, ha dichiarato che presto verrà annunciata e pianificata una nuova ondata di rimpatri di migranti afgani. La dichiarazione è avvenuta durante un incontro con una delegazione delle Nazioni Unite con il rappresentante speciale per l’Afganistan Indrika Ratwatte.

Non è ancora seguito un annuncio ufficiale come avvenuto nel 2023, ma ormai da diversi mesi, almeno da marzo, il governo dichiara di voler iniziare una seconda fase di rimpatri. Durante la prima fase, lo scorso inverno, almeno 450.000 persone, in quattro mesi, hanno lasciato il Pakistan, dopo che il governo annunciò la deportazione di coloro che fossero privi di documenti.

Si stima che oggi siano più di 4 milioni gli afgani che vivono in Pakistan. Di questi solo 2,9 milioni sono in possesso di un documento valido: la Prova di Registrazione (POR), rilasciata dal governo e frutto di un accordo tra Pakistan e UNHCR del 2006, o la Carta per i cittadini afgani (ACC), frutto di un accordo con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM). Il Pakistan non ha mai firmato la Convenzione sui Rifugiati delle Nazioni Unite del 1951 e non ha, quindi, un sistema di asilo, per cui circa 500.000 persone sono rifugiati in transito, registrati presso l’UNHCR e in attesa di asilo presso un altro paese.

Dopo la caduta di Kabul nel 2021, circa 500.000 persone sono arrivate in maniera regolare, con un visto di ingresso o registrandosi all’arrivo, ma probabilmente ce ne sono almeno altre 300.000 irregolari.

Lo scorso anno l’operazione del governo aveva destato le attenzioni e gli allarmi di Amnesty International: arresti e detenzioni arbitrarie, separazione di famiglie, inclusi minori, donne e anziani. In almeno 7 dei 49 centri di detenzione o “centri di transito” AI denunciò la sospensione dei diritti legali delle persone detenute, come il diritto a un avvocato o a comunicare con le famiglie. A questo va aggiunto che questi rimpatri sono avvenuti in inverno, quando le condizioni in un paese privo di adeguate infrastrutture come l’Afganistan sono insostenibili. Amnesty denuncia anche che il rimpatrio di donne nell’Afghanistan dei Talebani le espone alla violazione dei diritti umani, quali quello all’educazione, al lavoro e alla libertà di movimento.

Anche le condizioni economiche dell’Afghanistan sono un motivo di fuga dal paese. Spiega a Pagine Esteri Liaqat Banori, avvocato per i rifugiati in Pakistan: “dopo l’annuncio del governo di voler rimpatriare le persone non regolari, quando sono iniziati gli arresti e le detenzioni molti sono tornati volontariamente, per evitare umiliazioni, ma una volta oltrepassata la frontiera hanno trovato condizioni non dignitose: mancanza di infrastrutture e mancanza di opportunità di lavoro. Non c’è certezza di quanti siano tornati volontariamente e quanti siano stati deportati.”

Spiega ancora Banori: “le molestie nei confronti dei rifugiati sono un fenomeno comune in Pakistan e tutti i rifugiati se ne lamentano. Molti rifugiati provvisti di POR o documenti regolari vengono arrestati o detenuti e molti sono stati erroneamente deportati. Non sappiamo questi quanti siano, pochi probabilmente, ma spiegano il livello di violazione di diritti umani nei confronti dei rifugiati in Pakistan.”

Anche chi oggi ha dei documenti validi non si sente al sicuro: la POR, infatti, continua ad essere una Spada di Damocle per i rifugiati, in quanto deve essere rinnovata di continuo dal governo. A luglio di quest’anno il governo ne ha rinnovato la validità per un altro anno.

D’altra parte, il piano del governo è chiaro, spiega Liaqat Banoori: una volta rimpatriati coloro che sono privi di documenti, in una successiva fase saranno rimpatriati coloro in possesso dell’ACC, infine coloro che sono in possesso della POR.

Shameen e Mukhtar (nomi di fantasia per proteggere il loro anonimato), raggiunti nella città vecchia di Peshawar, raccontano: “non possiamo dire apertamente alla gente che siamo afgani, soprattutto alle autorità, anche se siamo registrati regolarmente, perché abbiamo paura di essere deportati”.  Entrambi hanno lavorato, prima della caduta di Kabul, per organizzazioni statunitensi come carpentieri o trasportatori. Shameen è in attesa da tre anni di ottenere lo stato di rifugiato per il Canada. Dopo aver passato due anni a Karachi, si è trasferito a Peshawar per evitare il rischio di essere deportato insieme alla famiglia.

Le attese infinite per chi si trova nella condizione di rifugiato in transito sono estremamente comuni: Spasil Zazai, racconta a PagineEsteri una storia simile a quella raccontata da diverse altre persone intervistate in questi giorni. Spasil vive a Peshawar con tre delle sue quattro figlie; la quarta è fuggita in Polonia dopo aver ricevuto minacce di morte a causa della sua attività di attivista e poliziotta prima dell’arrivo dei Talebani al potere. Spasil ha divorziato dal marito, un uomo violento che oggi vive nell’Afganistan dei Talebani, ed è diventata un’attivista per i diritti delle donne. Dopo tre anni, la sua famiglia è ancora in attesa di ottenere asilo.

Anche la ricerca di un lavoro o di una casa dove vivere è estremamente difficile: molti datori di lavoro non vogliono assumere persone che potrebbero essere rimpatriate da un momento all’altro e i proprietari di case preferiscono evitare potenziali problemi con le autorità, affittando le proprie case a persone che potrebbero diventare irregolari.

Alcune fonti ritengono che le politiche del Pakistan di deportazione in massa dei rifugiati siano una leva strategica per fare pressione sul governo afgano, ogniqualvolta i gruppi talebani pakistani, appartenenti al Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP), incrementano la propria attività terroristica.

A farne le spese sono i rifugiati, la cui vita sembra un percorso a ostacoli senza mai fine. Pagine Esteri

Come l’Afghanistan è diventato il paradiso delle organizzazioni terroristiche

IARI Istituto Analisi Relazioni Internazionali, 19 settembre 2024 di Emiliano Di Loreto

A tre anni dal ritiro delle truppe NATO in Afghanistan, il Paese sembra essere diventato un importante punto di appoggio per al-Qaeda, il Tehrik-i-Talibani-Pakistani e lo Stato Islamico del Khorasan.

Sono passati ormai tre anni dal ritiro delle forze NATO in Afghanistan e dalla successiva presa di Kabul da parte del gruppo dei talebani. Dopo più di venti anni di guerra, la Coalizione a guida statunitense non ha potuto fare altro che riconoscere il fallimento della propria missione progettata per istituire una democrazia di tipo liberal-occidentale in un paese frammentato da divisioni etniche, tribali e tra clan.

Dopo un’iniziale fase di caos, caratterizzata da tentativi di migrazioni di massa ed epurazioni di componenti del vecchio apparato governativo, il gruppo dei talebani è riuscito ad insediare un nuovo governo sotto il nome di “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, non riconosciuto dalla comunità internazionale, e basato sulla Sharia, la legge islamica. Nonostante le promesse iniziali sottoscritte negli Accordi di Doha stipulati con Washington, i talebani non hanno stabilito nessun tipo di governo democratico, violandone così i termini.

In aggiunta, nelle condizioni per il ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan veniva menzionato l’impegno da parte dei talebani affinche il Paese non fungesse da base per eventuali formazioni terroristiche ostili agli Stati Uniti ed ai loro alleati. Nonostante ciò, ad oggi il paese costituirebbe un rifugio sicuro per almeno due organizzazioni di militanti.

La prima risulterebbe essere la ben nota al-Qaeda, la quale sembrerebbe godere di una posizione di favore all’interno dell’apparato governativo grazie ai propri legami con Sirajuddin Haqqani, attuale Ministro dell’Interno e figlio di Jalaluddin Haqqani (deceduto nel 2018), fondatore della cosiddetta “Rete Haqqani”. La Rete Haqqani, nata negli anni 70’ come movimento di insorti per destituire l’allora governo filo-sovietico e successivamente per combattere le truppe sovietiche, è un gruppo indipendente affiliato ai talebani, ed è noto per aver effettuato numerosi attacchi di alto profilo contro le forze della Coalizione in Afghanistan. La presenza stabile di al-Qaeda nel Paese sembrerebbe confermata dall’assassinio del proprio leader, al-Zawahiri,  avvenuto in un’abitazione nel pieno centro di Kabul nel 2022 ad opera di un drone statunitense. Stando ad alcune  fonti USA, al momento dell’uccisione al-Zawahiri si trovava in una casa di un alto esponente della Rete Haqqani.

Secondo un rapporto pubblicato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 13 febbraio 2023, al-Qaeda avrebbe individuato come successore Saif al-Adel, già ricercato dalle autorità statunitensi in relazione agli attentati alle ambasciate USA in Tanzania e Kenya del 1998. L’assenza di un annuncio ufficiale da parte di al-Qaeda circa il passaggio di leadership, lascerebbe pensare ad una tattica volta a mantenere un profilo basso da parte del gruppo circa la propria presenza in Afghanistan. Tuttavia, l’8 giugno 2024, lo stesso Adel ha rilasciato un comunicato, tramite l’agenzia di comunicazione del gruppo as-Sahab, in cui invitava tutti i militanti di al-Qaeda sparsi per il mondo a recarsi in Afghanistan per ricevere addestramento militare al fine di colpire Israele e i suoi partner occidentali.

La seconda organizzazione sembrerebbe essere il Tehrik-i-Talibani-pakistani (TTP). Il TTP è un’organizzazione ombrello, nata in Pakistan nel 2007 nella regione di South Waziristan, che racchiude sotto di sé diversi nuclei di militanti riunitisi con l’obiettivo di rovesciare il governo pakistano ed instaurare la sharia nel paese. Sin dall’inizio dell’operazione “Enduring freedom”, nel 2001, i gruppi hanno costantemente fornito supporto con armi e uomini ai talebani nelle loro operazioni di guerriglia contro le truppe USA e alleati.

Dal ritiro di quest’ultime, diversi nuclei del TTP sembrerebbero essersi spostati in territorio afghano in prossimità della linea di confine con il Pakistan, da dove condurrebbero attacchi coordinati contro le forze di sicurezza di Islamabad. Le stesse autorità pakistane, a fronte del crescente numero di attacchi, hanno più volte accusato i talebani di connivenza con il gruppo, conducendo altresì diversi raid aerei su presunte postazioni del TTP in Afghanistan. Le tensioni tra i due governi si sono negli ultimi tempi ulteriormente inasprite a causa del piano di rimpatrio dei migranti afghani irregolari iniziato da Islamabad nel marzo 2024, il quale ha causato un esodo con conseguente crisi umanitaria verso Kabul di oltre mezzo milione di persone.

L’ascesa dello Stato Islamico del Khorasan

Inoltre, seppur non supportato dai talebani e trovandosi, al contrario, in aperta lotta contro di loro, lo Stato Islamico ha recentemente incrementato le attività in Asia Centrale tramite la propria branca locale (Islamic State Khorasan Province o ISKP). ISKP risulta ufficialmente attivo nel Paese dal 2015, anno in cui rivendicò il suo primo attacco contro un posto di polizia nell’Afghanistan orientale (3 morti), e si ritiene essere attualmente guidato da Shahab al-Muhajir, un presunto ex comandante della rete Haqqani con una significativa esperienza militare alle spalle. Dal ritiro delle forze della Coalizione, il gruppo è riuscito ad ampliare in maniera significativa la propria rete e ad attirare numerosi nuovi militanti dai paesi circostanti come il Tajikistan, complice la mancanza di un apparato di sicurezza e di intelligence solido in grado di contrastarlo. Si è inoltre registrato negli ultimi mesi un incremento degli attacchi portati avanti dai cosiddetti lupi solitari in tutto il mondo, molto spesso affiliati o ispirati a ISKP.

Forecast

Nel breve-medio periodo, nonostante gli accordi di Doha e le pressioni della comunità internazionale, il paese continuerà probabilmente a costituire un terreno favorevole per le organizzazioni terroristiche.

In particolare, visti gli stretti rapporti con i talebani e la Rete Haqqani, risulta probabile un ulteriore incremento delle attività addestrative e di propaganda da parte di al-Qaeda. Un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di Gennaio 2024 riporta come il gruppo abbia recentemente aperto nuovi campi di addestramento e madrase (scuole coraniche) presumibilmente a tale scopo. Inoltre, considerando l’intensificarsi delle operazioni militari israeliane nei territori palestinesi e nel sud del Libano, l’appello recentemente lanciato dal presunto leader Al-Adel è suscettibile di attirare nuovi militanti da tutto il mondo. Sebbene, quindi, negli anni la minaccia rappresentata in occidente da parte di al-Qaeda si sia notevolmente ridimensionata, nuovi attacchi perpetrati da lupi solitari ispirati a tali ideologie o da cellule del gruppo non possono essere esclusi.

Per quanto riguarda il TTP, il gruppo continuerà probabilmente ad approfittare del supporto offerto dalla leadership talebana per perpetrare attacchi in Pakistan con l’obiettivo di rovesciare il governo ed instaurare un proprio emirato. Per tale motivo e per ragioni ideologiche, risulta al momento improbabile che il gruppo decida di spostare il focus delle proprie operazioni all’infuori del Pakistan.D’altro canto, visto il recente incremento nel numero di attacchi, lo Stato Islamico continuerà a rappresentare una minaccia globale. Il gruppo ha dimostrato, nonostante le sconfitte territoriali subite in Iraq e in Siria degli ultimi anni, di essere ancora in grado di ricostruire le proprie reti di militanti e di poter condurre attacchi di alto profilo, come dimostrato dai recenti attentati in Russia, Oman e Iran. L’instabilità e la mancanza di apparati securitari solidi in Afghanistan contribuiranno probabilmente ad accrescere l’influenza del gruppo nella regione e la propria capacità di ispirare potenziali nuovi lupi solitari in giro per il mondo