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Autore: CisdaETS

Lettera aperta alla Commissione Europea per fermare aggressione turca nel nord e nell’est della Siria

Pressenza, 12 febbraio 2025

Riceviamo e pubblichiamo la dichiarazione con lettera aperta dell’European Water Movement (EWM – Movimento Europeo dell’Acqua) alla Commissione Europea, in cui denuncia il colpevole silenzio di questa istituzione riguardo all’aggressione turca alle popolazioni del Nord e dell’Est della Siria e, in particolare, riguardo al bombardamento turco della diga di Tishrin.

Lettera aperta dell’European Water Movement ad Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, a Jessika Roswall, Commissario europeo per l’ambiente, la resilienza idrica e un’economia circolare e competitiva, e a Dubravka Šuica, Commissario Europeo per il Mediterraneo

L‘European Water Movement (EWM) e i suoi membri, assieme all’European Ecology Movement for Kurdistan (Tev-Eko), chiedono con urgenza alla Commissione Europea di porre fine al suo colpevole silenzio a fronte del dramma umanitario ed ecologico attualmente in corso nel Nord e nell’Est della Siria prodotto dall’aggressione militare turca diretta contro la popolazione civile a prevalenza curda e contro la diga di Tişrin sul fiume Eufrate.

La Turchia usa da anni l’acqua come arma contro i curdi turchi, siriani ed iracheni

Oltre ad usare l’acqua come arma contro i curdi e i loro alleati in Siria, la Turchia sta anche conducendo una guerra con l’acqua, non dichiarata ufficialmente, in bacini transfrontalieri (Eufrate, Tigri), per imporre la propria egemonia politica sui paesi coinvolti della Siria e dell‘Iraq.

Gli ambientalisti Tev-Eko, molti dei quali sono membri della diaspora curda in Europa, hanno documentato queste pratiche di lunga data da parte della Turchia (vedi la dichiarazione di Tev-Eko).

Nel corso dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (UE), il governo turco ha sostenuto di aver adattato la propria politica sull’acqua a quella della UE. La politica UE sull’acqua include una gestione concordata dei bacini idrici, una solidarietà tra i territori a monte e a valle, una equa distribuzione dell’acqua fra i suoi diversi utilizzi, la protezione degli ambienti acquatici, ecc. Ma la Turchia non adotta affatto questa politica sull’acqua, piuttosto fa il contrario. L’EWM è pertanto sorpreso dal fatto che la Commissione Europea non abbia mai fatto alcun commento nei confronti della Turchia, neanche dopo il bombardamento della diga di Tişrin. La diga di Tişrin assicura l‘acqua per la fornitura di acqua potabile, per l’irrigazione agricola e per la produzione elettrica, tutti fattori essenziali per la vita di centinaia di migliaia di persone. Come spiega Tev-Eko, la sua distruzione causerebbe incalcolabili conseguenze sociali ed ambientali, minacciando le vite delle future generazioni e degli ecosistemi in una vasta area a valle.

La politica migratoria della UE è contraria ai diritti umani e inefficace nello sradicare il terrorismo islamico in Europa

Fin dal 2016 l’Unione Europea ha finanziato la Turchia affinché impedisse ai siriani in fuga dal regime di Hafez Al Assad di trovare rifugio in Europa. In cambio la UE ha chiuso gli occhi sui crimini di guerra contro i curdi nel Kurdistan Turco, dove nel 2016 diverse città, tra cui Cizre, Sirnak e Nusaybin, sono state distrutte e mezzo milione di persone sono state sfollate e dove, a partire dal passaggio sotto il controllo turco nel 2018, sono state perpetrate le atrocità da parte delle milizie islamiste del Syrian National Army (SNA) sulla popolazione, impossibilitata a fuggire dalla regione di Afrin, a prevalenza di popolazione curda. Come si è visto, ciò non ha impedito gli attacchi islamisti in Europa.

La stessa situazione, anche peggiore, può verificarsi di nuovo con l’attacco dell’esercito turco con I propri alleati della SNA contro la regione dell’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria. La conquista da parte dell’esercito turco e dei propri alleati della SNA di questa regione governata da un regime democratico porterà alla morte di migliaia di civili, alla cacciata di centinaia di migliaia di persone e alla liberazione dei prigionieri di Daesh (Stato Islamico), molti dei quali in possesso di passaporto europeo.

La Commissione Europea deve agire in conformità ai valori dell’Unione Europea

La Commissione Europea, la cui Presidente ha di recente riaffermato solennemente i valori sostenuti dall’Unione Europea, ha il dovere di metterli in pratica in qualunque momento. Attualmente questi valori europei sono apertamente violati dalla Turchia nel Nord e nell’Est della Siria, e, in un futuro non troppo lontano, ciò porterà drammatiche conseguenze anche negli Stati Membri della UE. Chiediamo pertanto con urgenza alla Commissione Europea di fare tutto quanto in suo potere per fermare l’aggressione militare turca in Siria.

Il SIGAR, l’organismo di controllo USA, lancia l’allarme sull’Afghanistan

Hammad Sarfraz,  The Express Tribune, 3 febbraio 2025

Gli aiuti esteri hanno fatto poco per frenare l’oppressione dei talebani o fermare la spirale discendente del paese

 

Dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti, miliardi di dollari in aiuti esteri sono stati riversati in Afghanistan, ma i talebani continuano a essere riluttanti a migliorare la governance, a combattere il terrorismo o a porre fine all’oppressione delle donne, ha avvertito un organismo di controllo statunitense.

Il paese dilaniato dalla guerra è invece sprofondato in una crisi ancora più profonda sotto il dominio dei talebani, secondo l’ultimo rapporto trimestrale dell’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR). La situazione, ha affermato l’ente di controllo, rimane disperata, con il gruppo militante che rafforza la sua presa sul potere ignorando le crescenti preoccupazioni per un’economia in difficoltà, diffuse violazioni dei diritti e la crescente minaccia del terrorismo.

Nel suo rapporto al Congresso, l’ispettore generale ha osservato che oltre 3,71 miliardi di dollari di aiuti statunitensi sono confluiti in Afghanistan dal 2021, con oltre il 64% dei fondi instradati attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) e l’Afghanistan Resilience Trust Fund gestito dalla Banca mondiale. Tuttavia, l’organismo di controllo ha avvertito che gli aiuti hanno fatto poco per mitigare le politiche repressive dei talebani o impedire il continuo declino del paese, sollevando nuove domande sull’efficacia del sostegno internazionale.

Le donne, che secondo l’ONU sono state cancellate dalla vita pubblica afghana sotto l’ultima iterazione del governo talebano, continuano ad affrontare gravi restrizioni, ha messo in guardia il rapporto SIGAR. L’istruzione secondaria per le ragazze rimane vietata e alle donne è proibito lavorare nella maggior parte dei settori, tra cui ONG e assistenza sanitaria. Il rapporto sottolinea anche la crescente difficoltà nella distribuzione degli aiuti umanitari, poiché le barriere imposte dai talebani impediscono che l’assistenza essenziale raggiunga coloro che ne hanno più bisogno.

Gli analisti notano che le politiche dei talebani presentano sorprendenti somiglianze con il loro primo governo degli anni ’90, nonostante anni di impegno internazionale e miliardi di aiuti volti a incoraggiare la moderazione. “I talebani afghani hanno gradualmente imposto restrizioni che ricordano il loro precedente regime”, ha affermato Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center, un think tank con sede a Washington. Ha aggiunto che né gli sforzi diplomatici né gli aiuti umanitari hanno temperato l’approccio intransigente del gruppo.

Preoccupazioni crescenti

Il rapporto dell’ispettore generale speciale documenta ulteriormente che nel 2022 gli Stati Uniti hanno trasferito 3,5 miliardi di dollari in asset congelati della banca centrale afghana a un fondo con sede in Svizzera, che ora vale quasi 4 miliardi di dollari. Tuttavia, i talebani, ancora non riconosciuti a livello internazionale e sotto sanzioni, non hanno accesso a questi fondi. L’ente di controllo statunitense per la ricostruzione afghana nota che il congelamento ha reso fragile il sistema bancario del paese e ne ha aggravato il collasso economico.

L’ultimo rapporto di supervisione porta alla luce anche un aumento del 40% negli attacchi ISIS-K nel 2024, mentre il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) e i suoi affiliati hanno effettuato più di 640 attacchi, un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. Un assalto di dicembre da parte dei militanti del TTP ha ucciso 16 ufficiali della sicurezza nel Waziristan meridionale, spingendo Islamabad ai primi attacchi aerei transfrontalieri contro le forze talebane. Gli attacchi nella provincia di Paktika in Afghanistan hanno ucciso diversi comandanti del TTP e distrutto una struttura di addestramento.

Le valutazioni dell’intelligence suggeriscono che le aree controllate dai talebani fungono da centri operativi per gli estremisti, sollevando timori che l’Afghanistan stia di nuovo diventando un santuario per le organizzazioni terroristiche. Gli scontri di confine tra Pakistan e forze talebane sono aumentati e, in risposta, Islamabad ha deportato centinaia di migliaia di rifugiati afghani. Mentre aumentano le tensioni regionali, i rapporti indicano che i talebani continuano a fornire un passaggio sicuro per i combattenti del TTP, aggiungendosi alle crescenti preoccupazioni sul ruolo del paese nel panorama della sicurezza dell’Asia meridionale.

Ashok Swain, professore di pace e conflitto all’Università di Uppsala, ha sottolineato i legami di lunga data dei talebani con il terrorismo, osservando che queste connessioni rimangono parte integrante dell’identità del gruppo. “Storicamente, la loro identità è profondamente intrecciata con gli atti di terrorismo e la soppressione del dissenso attraverso la violenza”, ha spiegato.

Swain ha aggiunto che c’è scetticismo sulla volontà dei talebani di abbandonare queste tattiche, soprattutto alla luce delle loro recenti azioni. La fiducia, ha detto l’accademico svedese, è subordinata a cambiamenti osservabili nel comportamento per un periodo prolungato, combinati con misure concrete verso l’inclusività, la responsabilità e l’aderenza alle norme internazionali. Senza tali riforme, ha ammonito Swain, i talebani sembrano essere tornati a tattiche che supportano il terrorismo e aggravano i conflitti regionali.

Punto di svolta

La decisione del presidente Donald Trump di congelare gli aiuti esteri degli Stati Uniti per 90 giorni ha aggravato i problemi dell’Afghanistan, con le agenzie di soccorso che hanno avvertito che potrebbe spingere milioni di persone ancora più in profondità nella crisi. Mentre la sospensione è pensata per rivalutare la spesa, rischia di paralizzare gli sforzi di aiuto in Afghanistan, dove l’economia è già in caduta libera. L’ONU ha avvertito che un congelamento prolungato potrebbe innescare una carestia di massa e il crollo dei servizi di base. Secondo l’ultima valutazione del SIGAR, circa 16,8 milioni di afghani hanno bisogno di assistenza urgente. Tuttavia, le restrizioni imposte dai talebani continuano a bloccare la distribuzione degli aiuti, peggiorando la carenza di cibo e mettendo a dura prova l’assistenza sanitaria. Gli ospedali, ha avvertito il rapporto, stanno esaurendo le scorte, la malnutrizione infantile è in aumento e la diminuzione dell’accesso all’acqua pulita sta alimentando la diffusione delle malattie.

“Il congelamento degli aiuti statunitensi acuirà le divisioni all’interno dei talebani, peggiorerà la crisi umanitaria e accrescerà la minaccia di attacchi da parte di gruppi terroristici attivi”, ha ammonito Hassan Akbar, Pakistan Fellow presso il Wilson Center.

Nel complesso, il rapporto trimestrale del SIGAR dipinge un quadro desolante del futuro dell’Afghanistan sotto i talebani. Nel suo documento di 133 pagine, l’ente di controllo statunitense evidenzia la priorità del regime al controllo sulla governance, con scarsa attenzione alla ricostruzione del paese o al miglioramento delle condizioni di vita della sua gente. “I talebani non hanno mostrato alcuna capacità, o volontà, di governare in modo efficace”, afferma il rapporto, aggiungendo che la situazione rimane di repressione, fame e incertezza.

Herat: i dipendenti delle NU devono farsi crescere la barba

Afghanistan International, 18 dicembre 2024

Mentre l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nel suo Report di novembre 2024 – di cui una sintesi nell’articolo – segnala i notevoli impedimenti e le restrizioni che i funzionari talebani pongono alle operazioni umanitarie dell’Onu, fonti interne a questo ente hanno comunicato ad AMU TV che il Dipartimento vizi e virtù di Herat ha ordinato ai dipendenti maschi delle Nazioni Unite di astenersi dal presentarsi al lavoro senza barba, pena la reclusione

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha segnalato che nel mese di novembre di quest’anno sono state registrate 164 interruzioni degli aiuti in Afghanistan, con un aumento del 56% rispetto al mese precedente.

L’OCHA ha aggiunto che il 99% di questi interventi è stato attuato da funzionari talebani.

Mercoledì (18 dicembre) l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (OCHA) ha pubblicato un nuovo rapporto sugli ostacoli all’accesso umanitario in Afghanistan a novembre.

Il rapporto afferma che le restrizioni di accesso hanno portato alla sospensione temporanea di 72 progetti umanitari e alla chiusura definitiva di due progetti, mentre anche un centro umanitario è stato temporaneamente chiuso durante questo periodo.

L’OCHA ha aggiunto che questi incidenti si sono verificati principalmente nelle regioni meridionali, centrali e occidentali. Le statistiche mostrano che questi casi sono aumentati del 56% rispetto al mese precedente e dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Secondo il rapporto, durante questo periodo sono stati registrati casi di interruzione di interventi pianificati, richieste di un elenco di dipendenti e di informazioni sensibili, interferenze nel processo di reclutamento, restrizioni alla copertura delle dipendenti e impedimento alle donne di accedere ai servizi.

Il rapporto mostra inoltre che la violenza contro il personale, le proprietà e le strutture umanitarie è aumentata del 37%, con sei membri dello staff arrestati, due casi di violenza fisica e quattro casi di minacce segnalati il ​​mese scorso.

L’ONU ha aggiunto che queste restrizioni sono state di ostacolo alla fornitura di aiuti umanitari.

Già in precedenza erano circolate segnalazioni di interferenze dei talebani negli affari degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. A questo proposito, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) aveva annunciato che i talebani avevano arrestato 113 dipendenti dell’organizzazione nella prima metà del 2023.

Cosa significa per l’Afghanistan la sospensione degli aiuti Usa?

Massud Saifullah, DW, 5 febbraio 2025

L’Afghanistan governato dai talebani non ha le risorse per fornire alla sua popolazione servizi pubblici di base. Gli esperti avvertono che un taglio permanente degli aiuti degli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze devastanti per il popolo afghano

Le misure prese dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per sospendere gli aiuti allo sviluppo esteri degli Stati Uniti e ridurre al contempo le operazioni dell’USAID rischiano di avere un impatto significativo sull’Afghanistan, che dipende dall’aiuto esterno per i servizi essenziali.

Nonostante il ritiro delle truppe e di altri funzionari dall’Afghanistan nell’agosto 2021, gli Stati Uniti sono rimasti il ​​principale donatore del Paese.

Secondo un rapporto dell’ufficio dell’Ispettorato generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan, o SIGAR, Washington ha “stanziato o altrimenti reso disponibili più di 21 miliardi di dollari [20,2 miliardi di euro] in assistenza all’Afghanistan e ai rifugiati afghani” da quando i talebani hanno preso il controllo totale del paese.

Gli Stati Uniti sostengono che i fondi per gli aiuti sono destinati al popolo afghano, con misure di salvaguardia volte a impedire ai talebani di accedervi.

I talebani affrontano il “caos”

Tuttavia, i talebani hanno beneficiato indirettamente del flusso di dollari USA, che ha contribuito a stabilizzare la valuta afghana e ad attenuare il rischio di una rapida inflazione. La sospensione degli aiuti USA minaccia di sconvolgere questo fragile equilibrio.

“Il blocco degli aiuti esteri degli Stati Uniti, compresi i finanziamenti dell’USAID, ha causato il caos tra i talebani”, ha detto a DW Ghaus Janbaz, un ex diplomatico afghano.

Molti esperti sostengono che gli aiuti esteri all’Afghanistan, tra cui le centinaia di milioni di dollari forniti ogni anno dagli Stati Uniti, abbiano inavvertitamente aiutato i talebani a mantenere il controllo sul paese.

Con l’afflusso di fondi in calo, ritengono che i talebani potrebbero soccombere alle richieste internazionali o scontrarsi con una più forte opposizione all’interno del Paese.

“Negli ultimi tre anni, i talebani non sono riusciti a creare un’economia autosufficiente, il che li ha resi fortemente dipendenti da tali aiuti”, ha aggiunto Janbaz.

Il popolo afghano pagherà il prezzo, affermano gli attivisti

Da quando hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, i talebani hanno sistematicamente negato alle donne i diritti fondamentali , tra cui l’istruzione e il lavoro fuori casa.

Sotto il dominio dei talebani, alle donne afghane è proibito mostrare il proprio volto in pubblico. La questione dei diritti delle donne è rimasta un ostacolo importante per qualsiasi paese che stabilisca relazioni ufficiali con i talebani.

Di conseguenza, nessun paese al mondo ha riconosciuto formalmente i Talebani come governo legittimo dell’Afghanistan.

I talebani non sono riusciti a creare un governo inclusivo né a introdurre un processo che consenta ai cittadini afghani di partecipare alla vita pubblica.

Mentre si moltiplicano le richieste di aumentare la pressione sui talebani, alcuni mettono in guardia dal fatto che tagliare gli aiuti vitali non farà che aumentare le sofferenze del popolo afghano.

“Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, 26 milioni di persone in Afghanistan dipendono dagli aiuti esteri per sopravvivere”, ha affermato Wazhma Frogh, un’attivista per i diritti delle donne afghane che vive all’estero e collabora con le organizzazioni umanitarie ancora attive in Afghanistan.

“Se le organizzazioni umanitarie perdessero l’accesso ai fondi, non sarebbero in grado di fornire nemmeno l’assistenza più elementare”, ha detto a DW.

“I talebani non hanno alcun programma per il supporto o lo sviluppo del popolo afghano. L’unica assistenza proviene dall’ONU, dalle agenzie internazionali e dalle organizzazioni umanitarie afghane”, ha aggiunto, avvertendo che la decisione di Trump di tagliare gli aiuti peggiorerà significativamente le condizioni per i comuni afghani.

Nessun piano di Trump per l’Afghanistan?

La riduzione degli aiuti all’Afghanistan è il risultato dei drastici ordini esecutivi del presidente Trump, che non erano specificamente mirati all’Afghanistan ma agli aiuti allo sviluppo nel loro complesso.

Al momento l’Afghanistan sembra essere ai margini dell’agenda di politica estera di Trump, mentre l’attenzione si concentra sui conflitti in Medio Oriente e in Ucraina.

Il 4 febbraio, durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, un giornalista afghano ha chiesto a Trump quali fossero i suoi piani per l’Afghanistan.

Lui rispose che non riusciva a capire “il suo splendido accento”, lasciando poco chiaro se non fosse riuscito davvero a comprendere la domanda o se la stesse del tutto evitando.

“Non credo che l’amministrazione Trump abbia ancora un piano per l’Afghanistan”, ha affermato Frogh.

Tuttavia, Trump si è espresso a gran voce riguardo alle richieste che fa ai talebani, in particolare la restituzione dell’equipaggiamento militare lasciato dagli Stati Uniti e il controllo della base aerea di Bagram, che secondo lui è ora sotto l’influenza cinese, affermazione che i talebani hanno negato.

Secondo l’ex diplomatico Janbaz, queste dichiarazioni non riflettono una concreta strategia degli Stati Uniti nei confronti dell’Afghanistan, ma rientrano piuttosto nella retorica della campagna elettorale di Trump.

“Il tempo rivelerà come Trump gestirà la situazione in Afghanistan, ma ciò che è chiaro è che il suo approccio non rispecchierà quello della precedente amministrazione”, ha concluso.

A cura di: Wesley Rahn

Il Pakistan costringerà decine di migliaia di rifugiati afghani a lasciare la capitale

DiZia ur-Rehman, The New York Times, 7 febbraio 2025

L’ordine, che dà agli afghani tempo fino al 31 marzo per recarsi altrove in Pakistan, è arrivato subito dopo la sospensione delle ammissioni di rifugiati negli Stati Uniti da parte del presidente Trump

Decine di migliaia di rifugiati afghani che si sono radunati nella regione della capitale pakistana per cercare di essere reinsediati in altri paesi hanno ricevuto l’ordine di trasferirsi altrove in Pakistan entro il 31 marzo.

Per fare pressione sulle nazioni occidentali

I rifugiati sono arrivati ​​in gran numero nella capitale, Islamabad, e nella vicina Rawalpindi a causa delle ambasciate e delle agenzie per i rifugiati che vi hanno sede. Costringerli ad andare altrove nel paese ha lo scopo di fare pressione sulle nazioni occidentali, compresi gli Stati Uniti, affinché li accolgano rapidamente.

L’annuncio del governo pakistano, diffuso la scorsa settimana, affermava che i rifugiati afghani che non fossero riusciti a trovare un paese che li accogliesse sarebbero stati deportati nell’Afghanistan governato dai talebani, senza tuttavia specificare i tempi necessari dopo la scadenza del 31 marzo.

L’ordine ha aumentato la paura e l’incertezza affrontate dai rifugiati, in particolare i 15.000 che avevano fatto domanda di reinsediamento negli Stati Uniti. Giorni prima, il presidente Trump aveva messo in dubbio il destino di quegli afghani con un ordine esecutivo che sospendeva tutte le ammissioni di rifugiati negli Stati Uniti.

Molti di quegli afghani lavoravano con la missione guidata dagli Stati Uniti nel loro paese, o con ONG o altre organizzazioni finanziate dai paesi occidentali, prima che i talebani prendessero il potere nell’agosto 2021. Altri sono familiari di afghani che lo hanno fatto. I sostenitori di questi rifugiati hanno accusato il governo degli Stati Uniti di aver tradito gli alleati in tempo di guerra bloccando loro la strada verso il reinsediamento.

Rischiano la persecuzione talebana

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno affermato mercoledì che molti dei rifugiati minacciati di deportazione, in particolare membri di gruppi di minoranze etniche e religiose, donne e ragazze, giornalisti, attivisti per i diritti umani e artisti, potrebbero essere sottoposti a persecuzione da parte del governo talebano. In una dichiarazione congiunta, hanno esortato il Pakistan a “implementare qualsiasi misura di ricollocazione tenendo in debita considerazione gli standard dei diritti umani”.

Sara Ahmadi, 26 anni, ex studentessa di giornalismo all’Università di Kabul, ha detto che la sua famiglia temeva di essere deportata in Afghanistan, “proprio il posto per il quale abbiamo rischiato tutto” da quando l’amministrazione Trump ha bloccato le ammissioni dei rifugiati.

“Quella paura sta diventando realtà”, ha detto la signora Ahmadi in un’intervista telefonica. Sua madre aveva lavorato a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, per Children in Crisis, una ONG finanziata dagli Stati Uniti. La loro famiglia di sei membri è arrivata a Islamabad nel novembre 2021, sperando di stabilirsi in seguito negli Stati Uniti.

 

Radio Begum: il silenzio assordante dell’Occidente

Antonella Mariani, Avvenire, 6 febbraio 2025

“Avvenire” ben interpreta lo sgomento e l’interrogativo di tutti davanti alla chiusura di Radio Begum nel silenzio dell’Occidente: a chi importa?

«All’inizio ci hanno incoraggiate, dicevano che poiché non potevano garantire la frequenza alle ragazze era utile che la scuola arrivasse nelle loro case. E abbiamo iniziato. Non ci hanno fermato». Così raccontava Hamida Aman ad Avvenire nell’aprile 2024. Poco meno di un anno dopo è accaduto: le hanno fermate. La notizia è di martedì, ma come spesso accade quando si tratta dell’Afghanistan, nei media internazionali non ha avuto il rilievo che avrebbe richiesto la sua rilevanza. Il complotto del silenzio, che ha violentemente zittito Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nell’Emirato islamico, ha complici anche in Occidente.

Martedì, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco (a proposito, ecco a cosa servono i “carrozzoni” da cui Trump sta scendendo precipitosamente: a dare voce a chi non ce l’ha più) non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan dal 15 agosto 2021, quando i taleban si sono impadroniti del potere.

L’unico contatto con la realtà

Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. Radio Begum, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, e approfittando dei minimi spazi che gli occhiuti controllori concedevano, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa.

Che infatti chiamavano numerose. Hamida Aman aveva raccontato ad Avvenire che una delle ascoltatrici più assidue era Fatima, 16enne di Bamyan, cieca dalla nascita e praticamente analfabeta. «Non aveva mai frequentato scuole speciali, né imparato l’alfabeto Braille. Ora non si perde una delle nostre lezioni, e ci ha detto che così ha la sensazione di andare a scuola. La radio è il suo unico contatto con la realtà».

Tutto finito?

Tutto finito? Se la parola più citata dell’anno è speranza, allora l’augurio è che sia solo una prova di forza, come già in passato era accaduto con alcuni programmi che erano stati sospesi o cancellati dopo il mancato imprimatur dei taleban. Ma questa volta ci sono gli arresti, ci sono le accuse di aver abusato della licenza diffondendo contenuti di reti televisive straniere: un’accusa pesantissima per chi sostiene che tutto ciò che viene dall’esterno è fonte di corruzione.

Restiamo con le nostre domande aperte: a chi davvero interessa che Radio Begum sia stata chiusa? Al silenzio imposto a una delle più importanti emittenti indipendenti in Afghanistan corrisponde l’assordante silenzio dell’Occidente. A parte le doverose dichiarazione di Reporter senza frontiere e dell’Associazione per la protezione dei giornalisti afghani, che lamentano il recente giro di vite alla libertà (sic) di stampa nel Paese (nel 2024 sono state chiuse 12 testate, con numerosi arresti arbitrari), a chi davvero interessa che una emittente di donne per le donne sia stata silenziata? Domanda senza risposta, come quella d’altronde che la giornalista afghana Nazira Karima ha posto l’altro ieri al presidente Donald Trump sull’esistenza di un piano per il futuro del suo popolo. Ed ecco la replica: «Lei ha una bella voce e un bell’accento. L’unico problema è che non capisco una parola di quello che dice. Ma le dirò questo: buona fortuna. Vivi in pace». C’è in gioco davvero più che una radio tv. C’è in gioco il destino di metà della popolazione di un intero Paese. C’è in gioco, in fondo, l’umanità di ciascuno di noi.

 

La vita di una bambina ceduta in risarcimento

Shamsia, Zan Times, 3 febbraio 2025

Questa è la storia di una bambina che è stato data via come risarcimento e che ora vende penne per le strade di Kabul per sopravvivere. È stata scritta da una giornalista con lo pseudonimo di Shamsia.

Il mio cuore batte forte ogni giorno quando esco di casa e mi dirigo a Pul-e-Surkh, vicino all’Università di Kabul. Temo che i talebani possano fermarsi accanto a me e trascinarmi di nuovo nel loro veicolo. Sono distrutta per essere stata imprigionata dai talebani e per aver dovuto spiegare perché lavoro come venditrice ambulante. La prima volta che mi hanno arrestata, sono riuscita a liberarmi piangendo e supplicando, ora mi nascondo dietro i muri e nei vicoli di Pul-e-Surkh, aspettando che passino i loro veicoli. Mi copro il viso con un velo nero prima di scendere in strada per vendere penne.

So che il mio aspetto rende le persone sospette, pensano che io sia una mendicante. Vendere penne è l’unico lavoro che posso fare al momento. Vorrei avere un lavoro migliore, ma devo portare il cibo a casa e comprare le medicine per mia suocera.

Ogni giorno alle sei del mattino cammino da Company (un quartiere di Kabul) a Pul-e-Surkh. Non posso permettermi il biglietto dell’autobus e vendo penne lungo la strada. Alle sei di sera torno a casa a piedi. Quando dico “casa”, potresti immaginare una casa con un tetto, finestre e porte, ma invece viviamo in una tenda. In inverno, non abbiamo abbastanza carburante per stare al caldo. Mio marito e io usiamo il nostro magro reddito per soddisfare i bisogni di base. Riusciamo a malapena a comprare olio, riso e farina per non morire di fame. Mia suocera prende i miei guadagni e a volte mi dà un po’ di soldi per comprare una sciarpa o dei vestiti. È malata, ma non possiamo permetterci un medico e nessuno la curerà gratis.

Una bambina in cambio

Avevo 12 anni quando mi hanno data in sposa, ora ne ho 14. All’inizio non avevo idea di cosa significasse il matrimonio. Non avrei mai immaginato che sarei stata separata dalla mia famiglia così giovane, ma la mia famiglia non aveva scelta. Mio zio ha avuto una relazione con la sorella di mio marito e i due sono scappati insieme. In cambio della loro figlia che era scappata con mio zio, la famiglia di mio marito ha preteso me.

La mia famiglia mi ha dato via come risarcimento. Mio zio e mia cognata vivono in un posto sconosciuto, ma io sono qui, a pagare il prezzo delle loro azioni. A casa non ho autorità: faccio tutto quello che gli altri mi dicono di fare.

Anche mio marito è vittima della decisione di sua sorella. Eravamo entrambi bambini e ora ci siamo sposati controvoglia. Anche mio marito è un venditore di penne. A volte andiamo insieme al mercato, altre volte lavora a Sar-e-Kotal. A volte, invece di vendere penne, vende acqua.

Compro penne a cinque afghani l’una e le vendo a 10. I miei guadagni giornalieri sono imprevedibili. A volte vendo un pacchetto completo di 12 penne, altre volte ne vendo molto meno. Nei giorni in cui vendo qualche penna in più, torno a casa più felice.

La paura dei talebani

Dopo che i talebani mi hanno arrestato per aver lavorato per strada, ero terrorizzata e non volevo più lavorare. Sono rimasta a casa per qualche giorno, ma mia suocera mi ha detto che dovevo lavorare, altrimenti saremmo rimasti con la fame. Ho dovuto tornare in strada. Ora, sono estremamente attenta, anche se la paura di essere arrestata e imprigionata è sempre con me. Non so se è maggiore la preoccupazione di mettere il cibo in tavola o di come scappare dalla prigione dei talebani.

Quando le forze talebane mi hanno arrestata vicino all’Università di Kabul mi hanno portata in un luogo sconosciuto. Anche mio marito e diversi altri bambini lavoratori sono stati trattenuti. Siamo rimasti sotto custodia per due giorni. Ci hanno dato pochissimo cibo e avevamo costantemente fame. Alcuni bambini sono stati picchiati.

“Non lavorate. Restate a casa. Vi aiuteremo”, ci hanno detto i talebani. Ma non ci hanno aiutato per niente. Invece, ci hanno fatto promettere che non avremmo mai più lavorato e hanno minacciato che ci avrebbero torturati e imprigionati se fossimo stati sorpresi per strada una seconda volta.

Durante l’interrogatorio, ho implorato e pianto, spiegando la mia disperazione per il fatto che avevo una persona malata a casa e nessuno che la nutrisse o si prendesse cura di lei. Dopo due giorni, mi hanno rilasciata ma hanno tenuto mio marito in prigione.

Sogno di diventare mamma un giorno. Non ho ancora pensato a quante figlie o figli vorrei avere, ma mia suocera vuole che diventi mamma presto. Mi manca sempre mia madre. Non mi è permesso andare a trovare a casa i miei genitori, che sono lontani, ma a volte lei viene a trovarmi di nascosto.

Ogni volta che vedo bambini che vanno a scuola, vorrei essere uno di loro. Più di ogni altra cosa, vorrei diventare un medico. Non sono mai andata a scuola, ma so che l’istruzione è una cosa molto buona.

Vorrei che nessun’altra ragazza dovesse subire la mia stessa sorte. Spero che nessun’altra venga data via come risarcimento come è successo a me.

Il Rojava e la difesa della diga di Tishrin

Laura Schrader, volere la luna, 22 gennaio 2025
È notte sulla diga di Tishrin. La donna che stringe il microfono indossa un scialle e il velo bianco delle madri dei martiri. Si chiama Eysha, i suoi quattro figli sono caduti nella guerra di resistenza kurda. «Promettiamo di difendere la diga!» grida. «Promettiamo! Promettiamo! Promettiamo!» le rispondono in coro centinaia di persone facendo il segno di vittoria.

La diga di Tishrin

Dal 7 gennaio un flusso gigantesco di veicoli dalla città di Kobane e dai villaggi di Darik, Girko Lege, Kocerat, Berav arriva sul ponte della diga di Tishrin. Migliaia di persone la presidiano giorno e notte. Donne e uomini di ogni età e professione, ragazze e ragazzi, perfino bebè di pochi mesi in braccio alle mamme. Si intonano canti e slogan, si tengono comizi, si danza l’hayal, il ballo di gruppo emblema di identità (e i vecchi sono quelli che ricamano passi con particolare maestria). Sul ponte sopra la diga sono sorti banchetti di cibo e bevande. Il via vai è incessante nonostante gli attacchi di bombardieri e droni dell’aviazione turca. Tra le almeno dieci vittime, un noto attore di teatro, la co-presidente del partito PYD di Qamishli e entrambi i genitori di una bambina di pochi mesi. Oltre 20 i feriti. Mentre dalle sue sponde si levano i lampi di fuoco e i fumi densi delle bombe l’Eufrate scorre azzurro e silenzioso tra basse colline brulle. La diga di Tishrin è alta 40 metri, il suo bacino idrico è lungo 60 km. Fornisce acqua a milioni di persone nel Rojava, il Nord Est della Siria. Un suo collasso sotto le bombe dell’aviazione turca provocherebbe ingentissimi danni ecologici e condizionerebbe la vita anche delle future generazioni.

Dal 7 gennaio Ankara per mezzo del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA) cerca di valicare la diga, nodo strategico per superare l’Eufrate e arrivare a Kobane. L’Esercito Nazionale Siriano, formato, armato e pagato da Ankara, è forte di 70 mila uomini, jihadisti di ogni genere ed ex tagliagole dell’Isis provenienti da tutto il mondo: sono presenti 40 diverse nazionalità. Operatori e giornalisti della televisione e della radio del Rojava lavorano giorno e notte per trasmetterci le immagini del presidio: i bombardamenti, le schegge che esplodono sopra le loro teste, i soccorsi ai feriti, il trasporto dei morti, le auto distrutte… È importante informare.

Kobane, la preda più ambita

La città martire di Kobane è il simbolo della vittoria contro l’Isis delle Forze Siriane Democratiche (SDF) a guida kurda; l’Isis era sostenuto apertamente dalla Turchia (e per conto di Ankara aveva compiuto le sanguinose stragi contro il partito filo kurdo HDP del 2015 e 2016). Distrutta nel corso dell’assedio del califfato nero e rapidamente ricostruita, Kobane esibisce al centro della sua piazza principale la statua di una donna con ali d’angelo che indossa la divisa delle combattenti kurde, dedicata alla Vittoria delle Donne. Per il suo valore simbolico Kobane è la preda più ambita di Ankara, che non ha mai digerito la vittoria kurda. Da tempo l’aviazione turca bombarda sistematicamente le infrastrutture vitali della città e dei villaggi nei dintorni. In seguito alla caduta di Damasco per mano del gruppo HTS di Al Jolani (terrorista per Europa, Usa e Onu) e di altri cosiddetti ribelli siriani, Ankara ha affidato all’Esercito Nazionale Siriano il compito di distruggere Kobane. Le operazioni sono iniziate l’8 dicembre. Contro SNA combattono efficacemente le Forze Siriane Democratiche (SDF) sostenute dagli Stati Uniti in funzione anti Isis. Cellule del califfato nero sono pericolosamente presenti nel Rojava e la loro attività si è intensificata con l’avvento del nuovo governo di Damasco. Il campo di El Hol custodisce decine di migliaia di tagliagole con le loro famiglie, provenienti da ogni parte del mondo, che i paesi d’origine rifiutano di riprendere. Se il Rojava cadesse nelle mani dei mercenari di Ankara un’ondata di barbarie dilagherebbe fuori dal campo di El Hol. L’agenzia di stampa kurda ANF News il 24 dicembre dava notizia di 15 mila arresti e di molti rapimenti e di riduzione in schiavitù di donne kurde combattenti ferite catturate in ospedale e uccise: crimini compiuti da SNA nell’area di Sheheba a Nord di Damasco.

Annientare il Rojava

Negli ultimi due mesi il presidente turco Erdogan e il ministro degli esteri Fidan insistono sulla volontà di annientare il Rojava, l’Amministrazione autonoma democratica del Nord Est della Siria (DAANES) che tenta di negoziare con il governo provvisorio di Damasco il mantenimento dell’autonomia e la divisione degli introiti del petrolio della regione. Ankara insiste ossessivamente su una “priorità assoluta”: distruggere le forze kurde YPG / YPJ – Unità di difesa composte da uomini e donne, componenti fondamentali di SDF – e ribadisce il progetto della Fascia di Sicurezza, l’occupazione di una grande parte di territorio kurdo in Siria e la sostituzione della popolazione con arabi rifugiati in Turchia.

La Turchia, nata dal genocidio e dalle stragi di Armeni, Greci e Kurdi, fondata sul dogma di un solo popolo, il turco, e di una sola religione, la islamico-sunnita, non ammette il pluralismo di etnie e di religioni presente in Siria e la rivoluzione delle donne nel Rojava. Dopo la caduta del regime di Assad, Erdogan intensifica i proclami sul ritorno alla grandezza dell’impero Ottomano sottolineando i propri successi in Libia, Somalia e Siria. Si presenta come il grande protagonista della caduta di Assad e del nuovo assetto siriano. Presenta piani di ricostruzione e il progetto di un esercito numeroso e ben armato. Alcuni analisti prospettano che la Siria diventi una sorta di protettorato turco con orientamento islamista. Sempre più paradossale l’appartenenza alla Nato.

Non una “nuova Siria”, ma due

Davide Grasso, Micromega, 31 gennaio 2025
Quando Assad ha lasciato la Siria, lo scorso 8 dicembre, in tanti hanno festeggiato. Non mancavano le preoccupazioni per ciò che sarebbe accaduto, ma è prevalsa, giustamente, la contentezza per un’apertura possibile e, per molti, la possibilità di lasciare le prigioni, tornare nelle proprie città, esprimere il proprio pensiero ad alta voce o, semplicemente, respirare, piangere di commozione, rientrare nel paese. La propaganda dei sostenitori del regime deposto, attiva soprattutto all’estero, ha cercato di far passare la sconfitta del Baath per una catastrofe, e l’identificazione di chiunque non mostrasse contrizione come un “jihadista” o un sostenitore del jihadismo. Se il rigetto di questo tentativo è la base e il principio per ogni discussione empatica e realistica sulla Siria futura – e, in controluce, su cos’è oggi una prospettiva rivoluzionaria nel mondo – è altrettanto cruciale la consapevolezza che è (sempre) necessario mantenere vigile la critica, e verso più di un fenomeno politico allo stesso tempo.
Come le battaglie contro big Pharma non dovrebbero implicare il boicottaggio di campagne vaccinali inevitabili durante una pandemia, infatti – o il sostegno alla resistenza ucraina non dovrebbe tradursi in un sostegno politico per le oligarchie al potere nel paese – così il riconoscimento del severo giudizio storico emerso verso le componenti degenerate e corrotte del nazionalismo baathista non dovrebbe indurre a sottovalutare gli atti delle forze che hanno instaurato una nuova autorità su Damasco. Al-Jolani aveva affermato, a inizio dicembre, che il suo movimento avrebbe stupito il popolo siriano, mostrando come i timori verso un «ordine islamico» fossero frutto di fraintendimenti o di scorrette applicazioni passate di questo concetto. Affermazioni abbastanza audaci da attrarre meritata attenzione e da essere necessariamente prese sul serio, in attesa di azioni politiche che le sostanziassero. Io stesso proposi di giudicare il gruppo non in base ai suoi precedenti (che pure non devono essere mai dimenticati), ma in base alle nuove azioni.
A un mese e mezzo di distanza è evidente che, se obiettivo di HTS era mostrare che l’islamismo è compatibile con il rispetto per le persone, per la cultura e per le donne, la giustizia sociale e la costruzione di un percorso istituzionale animato da una decenza minima nel rapporto con le diversità, i dissidenti e i prigionieri, l’obiettivo è fallito su tutta la linea. L’evoluzione della situazione siriana dimostra nuovamente, dopo sole sei settimane, che la paura e il disgusto che covano o si esprimono in gran parte della Siria – e del mondo musulmano – verso i movimenti islamisti nulla ha a che fare con una presunta e improbabile “islamofobia” ma con fatti nudi e crudi che è impossibile ignorare. L’ordine islamista viene quindi o nuovamente scorrettamente applicato oppure, malauguratamente, ancora frainteso da tanti, troppi comuni mortali.

Colpo di mano e riconoscimento esterno

Al-Jolani persiste in una ormai stantia dichiarazione di volontà di dialogo con tutte le “minoranze”, intese in un depoliticizzato senso etno-culturale che mira a rimuovere la sostanza politica dei problemi sul piatto. HTS è d’altra parte di per sé una minoranza politica che ha deciso, forte del sostegno turco, delle monarchie del golfo e atlantico, di agire come se non fosse tale. Anziché permettere al primo ministro Al-Jalali in carica a inizio dicembre (come inizialmente annunciato) la possibilità di formare un governo di transizione scevro da rappresentanti del Baath ma composito, Jolani ha trasferito nella capitale direttamente il governo monocolore che la sua organizzazione aveva imposto alla popolazione di Idlib dal 2017. La Siria si è trovata così ad essere governata da una compagine salafita senza dubbio forte e influente nel panorama delle opposizioni, ma lungi dal poter essere rappresentativa del quadro socio-politico complessivo delle forze estranee al passato. Nell’attuale processo costituente il governo transitorio mostra inoltre diverse ambiguità: l’incertezza sulla sua durata, la natura del processo costituzionale annunciato e la collocazione esatta della sovranità transitoria.
Jolani ha dichiarato a dicembre che i poteri del suo personale esecutivo sarebbero durati tre mesi. Non è chiaro però cosa seguirà, se è vero che a fine mese ha affermato anche che la celebrazione di elezioni potrebbe non avvenire prima di quattro anni. Ha più volte lasciato intendere nelle sue interviste, in secondo luogo, che la costituzione non sarà scritta da un’assemblea costituente eletta, ma da un gruppo di “esperti”; termine che naturalmente non vuol dire nulla, a meno che non si intenda – nella tradizione politica di HTS – dottori della giurisprudenza islamica selezionati su base ideologica dal movimento e dai suoi alleati controllati dalla Turchia (una base ideologica e giuridica estranea alla maggioranza della popolazione, anche credente e sunnita).
Non è un caso che le prime grandi manifestazioni contro l’atteggiamento del nuovo governo siano state organizzate dalle associazioni femminili arabe, che hanno reagito alle dichiarazioni secondo cui le donne non sarebbero adatte a ricoprire tutti i ruoli esistenti nella società.
La risposta di Aisha Al-Dibs, prontamente appuntata come dirigente di un ufficio per gli affari femminili nel governo (e unica donna nell’esecutivo), non ha fatto che aumentare (e rivelare) i problemi: ha affermato che le donne devono preoccuparsi in primo luogo dei loro mariti e figli, che non vi sarà spazio per il femminismo in Siria e che la porta resterà chiusa per tutte le visioni in disaccordo con la sua (sic).
Resta infine il problema della posizione di HTS nell’architettura istituzionale della transizione. Il parlamento è stato sospeso, lo scranno del presidente è vacante: il Comando delle operazioni militari, organo di HTS che ha formato il governo, ha avviato un processo di unificazione dei gruppi armati islamisti nel paese. Al-Jolani dirige questo organo ed è quindi un esponente di partito che non fa parte dell’esecutivo. D’altra parte, presiedendo l’entità che ha formato il governo e gli ha dato operatività, e che sta costituendo un esercito, è il depositario della sovranità effettiva, ed è effettivo capo dello stato là dove lo stato esercita una controllo territoriale. Con lui, non a caso, si relazionano i rappresentanti degli altri stati. Governi come quello italiano, che hanno riconosciuto nei fatti questa autorità con la visita di Tajani del 10 gennaio, considerano quindi un processo di questo tipo (che non era affatto l’unico possibile) come legittimo (e da legittimare esternamente). Sul piano interno, tuttavia, l’esclusione di tutte le altre forze di opposizione dal governo di transizione si qualifica come un colpo di stato dentro la rivoluzione o contro la rivoluzione possibile.

L’incontenibile pesantezza di una mentalità suprematista

Per ottenere questa precipitosa legittimazione, di cui il governo afghano dei Taliban non ha ad esempio usufruito (avendo rovesciato un governo sostenuto dalla Nato, e non da Iran e Russia), una figura che è giunta al potere coltivando il mito dell’abbattimento delle Twin Towers e delle stragi irachene di sciiti come Al-Jolani non ha dovuto mostrare l’annunciato rispetto per minoranze, neanche cristiane. Il 25 dicembre l’incendio dell’albero di Natale tradizionalmente costruito in piazza dalla comunità cristiana ad Hama è stato seguito dalla diffusione del video della profanazione di un luogo di culto alawita ad Aleppo. Le proteste delle minoranze religiose che ne sono seguite sono state represse con l’invio di centinaia di veicoli di HTS nelle città e nei villaggi, che hanno scatenato il terrore. L’operazione è stata giustificata come atto repressivo contro poliziotti o militari di Assad manovrati dall’Iran, iniziando la litanie delle paranoie complottiste che, c’è da crederlo, farà invidia a quella del Baath. Questa versione, ripresa dagli organi d’informazione globale della Fratellanza musulmana come Al-Jazeera o del governo turco come Middle East Eye, non è stata tuttavia corroborata da nessun documento o prova, e ha mascherato nei fatti il primo pogrom in grande stile della Siria sottoposta all’egemonia islamista.
I video circolati su Telegram e X, peraltro, non hanno mostrato isolati episodi di rabbia sfociati in esecuzioni sommarie, ma un’operazione di massa, preordinata e organizzata, in cui nuovi poliziotti con il dito indice alzato (saluto politico di HTS, ma anche di Daesh) non sembrano in grado di effettuare arresti senza offrire lo spettacolo di uccisioni di gruppo con colpi alla nuca sul marciapiede, decapitazioni e torture, tra cui l’obbligo per gli arrestati di strisciare per terra o di abbaiare come cani; o fedeli cristiani, nel villaggio aramaico Maloula, obbligati a inginocchiarsi e umiliarsi di fronte a nuovi “conquistatori”. Comportamento da rivoluzionari? Un’istituzione, tanto più se pretende di costituire un elemento trasformativo, si definisce anche dal modo è in grado di trattare i propri nemici, soprattutto se sconfitti, e se conduce contro di essi un’operazione organizzata. Quale sia l’idea di trasformazione è stato chiaro con le direttive immediatamente successive per la riforma dei curriculum scolastici e dei libri di testo, dove si prevede siano censurati riferimenti al “passato politeista della Siria” (sic) e ad elementi filosofici e religiosi considerati distanti dal (corretto intendimento del) messaggio divino.

Gli stati e noi (o logiche diverse di riconoscimento potenziale)

Nonostante tutto questo Stati Uniti ed Europa, con Germania e Italia in testa, hanno lasciato intendere che l’apertura al mercato annunciata dall’esecutivo e realizzata con la prima partecipazione storica della Siria governata dall’islam “politico” al WTO di Davos è più che sufficiente per chiudere tutti e due gli occhi sulle atrocità commesse e su quelle a venire. Non a caso i media europei, a partire da quelli italiani, non stanno più parlando della Siria e nessuno di questi crimini è stato dovutamente raccontato e contestualizzato. Mentre i pogrom di Natale avevano luogo, Repubblica e Ansa plaudivano a presunti sequestri di droga dei fedeli di Al-Jolani, accuratamente esibiti a beneficio di una stampa occidentale che non saprei se ingenua (a dir poco) o in malafede. Anche in taluni ambiti politici e accademici non manca chi reagisce con sorpresa a qualsiasi commento scandalizzato su questi fatti – quasi che giudicare HTS per quello che è significhi coltivare nostalgie per Assad e il suo sistema.
Ciò che più è grave è che l’alternativa esiste. Nessuno, tuttavia, la conosce per l’assenza di ricerca e informazione, o la vuole (ri)conoscere negli apparati statali. La legittimità del nuovo regime trova infatti sul piano interno il principale ostacolo nel convitato di pietra del processo transitorio: quella parte di Siria (circa un terzo) che rimane fuori dal controllo dello stato ed è governata da organi legislativi ed esecutivi diversi: l’Amministrazione democratica autonoma (DAA) che controlla la maggior parte delle risorse agricole ed energetiche del paese. Fondata su un sistema di consigli e cooperative socialiste ed ecologiche, dove le donne si sono conquistate autorità e autonomia, dispone di un esercito il cui numero di effettivi è stimato in 80.000 tra donne e uomini. Il fuorviante gergo giornalistico nostrano si riferisce a questa istituzione come “i curdi”, ma l’Amministrazione e le sue forze militari sono formate da siriani che, come nel caso degli altri gruppi emersi dalla guerra rivoluzionaria, si identificano in parte come curdi (molti in questo caso), ma in maggioranza come arabi. A questa pluralità linguistica, espressa anche nei suoi simboli e documenti ufficiali, corrisponde una coerente pluralità religiosa e di genere – e una disponibilità al dialogo politico di cui HTS (che pure ne è tra i destinatari) si sta confermando incapace.
La speranza di Al-Jolani è che la Turchia distrugga la DAA con una vasta operazione di aria e di terra che in parte è cominciata lungo l’Eufrate, dove Ankara sta cercando di sfondare da dicembre presso la diga di Tishrin per raggiungere Kobane, sempre nel silenzio internazionale. L’aviazione turca ha bombardato i cortei di migliaia di civili che hanno raggiunto la diga per dimostrare la loro indisponibilità ad accettare un futuro dispotico, neoliberale e oscurantista, ma neanche questo è bastato a fare breccia tra gli stessi giornalisti che idolatravano in modo spesso caricaturale la resistenza di Kobane dieci anni fa. Al-Jolani e Erdogan contano sul probabile disimpegno militare dell’amministrazione Trump: come sempre i movimenti suprematisti – bianchi o islamici che siano – mostrano funzioni speculari e complementari, e un’analoga volontà di dominio capitalista e patriarcale che conduce alla distruzione del pianeta e delle possibilità, che sarebbero sempre attuali in Siria e altrove, di intesa pacifica e giustizia sociale.
Occorre quindi prendere posizione politicamente, denunciando nel mondo della comunicazione e della cultura che non esiste una nuova Siria dopo l’8 dicembre, ma almeno due Sirie: una al momento nera e teocratica, dove una minoranza politica rafforza un colpo di stato strisciante grazie al sostegno dei mercati e degli stati occidentali, e una multicolore e secolare, sebbene non fanaticamente secolarista, che non sembra avere appoggi futuri se non quelli di chi produrrà analoghe rivoluzioni nel mondo. Analoghe rivoluzioni non arriveranno presto, ma se gli stati riconosco la prima Siria, è nella nostra libertà individuale e collettiva decidere di offrire un riconoscimento politico alternativo alla seconda con la voce, la mobilitazione, il viaggio o la scrittura – almeno fino a quando una Siria davvero “nuova” non sarà frutto dell’inclusione e della libera decisione di organi democraticamente scelti.
Leggi l’articolo su Micromega: https://www.micromega.net/nuova-

I talebani chiudono la radio delle donne afghane

ANSA, 3 febbraio 2025

Un comunicato Ansa informa che i talebani hanno chiuso Radio Begun a Kabul irrompendo in forma plateale e arrestando due dipendenti

La scure dei talebani si abbatte ancora una volta sulle donne afghane, privandole di una voce importante.

Radio Begum, emittente che promuove l’istruzione e l’empowerment femminile raggiungendo con le sue trasmissioni quasi tutto l’Afghanistan, è stata costretta a chiudere. E’ stata un’operazione plateale, con un’irruzione nella sede di Kabul, che ha portato anche all’arresto di due dipendenti. L’accusa, tra le altre cose, è di aver collaborato con delle tv all’estero: una cosa ritenuta inammissibile in un Paese che da oltre tre anni è tornato ad essere governato con la più oscurantista interpretazione della sharia.

Sono stati i vertici di Radio Begum a denunciare il blitz dei talebani che ha portato all’oscuramento della programmazione. “Ufficiali della Direzione generale dell’intelligence assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura hanno fatto irruzione nel nostro complesso a Kabul”, ha riferito l’emittente, aggiungendo che le autorità hanno arrestato due dipendenti maschi “che non ricoprono alcuna posizione dirigenziale” e sequestrato computer, dischi rigidi e telefoni. Non è stato aggiunto nient’altro, per non compromettere la sicurezza dei membri del personale trattenuti, ma è stato lanciato un appello alle autorità a “prendersene cura e a rilasciarli il prima possibile”.

La versione dei talebani è che Bagum si è resa responsabile di “molteplici violazioni, inclusa la fornitura di materiali e programmi ad una stazione televisiva all’estero” e la trasmissione di contenuti di emittenti straniere. Un “uso improprio della licenza” che porterà ad una “sospensione” a tempo indefinito in attesa di ulteriori indagini.

Radio Begum era stata fondata l’8 marzo 2021, in occasione della giornata internazionale della donna, dall’imprenditrice e giornalista Hamida Aman. Con una programmazione 24 ore su 24, 7 giorni su 7, che includeva corsi educativi per studenti delle scuole medie e superiori, in particolare rivolti alle ragazze a cui era stato impedito l’accesso all’istruzione formale dal ritorno al potere dei talebani nell’agosto dello stesso anno. Queste lezioni venivano trasmesse in dari al mattino e in pashtu al pomeriggio, le due lingue ufficiali dell’Afghanistan. Nel 2024, tra l’altro, era stata lanciata Begum Tv, un canale satellitare con sede a Parigi finanziato in parte dal Malala Fund, l’organizzazione nata su impulso dell’attivista pachistana Nobel per la Pace.

Radio Begum ha sempre sostenuto di non essere mai stata coinvolta in alcuna attività politica e di essere semplicemente “impegnata a servire il popolo afghano e più specificamente le donne afghane”. E tuttavia, l’emancipazione femminile è di per sé una violazione della legge islamica, secondo i talebani, che hanno imposto ampie restrizioni alle donne, escludendole dalla vita pubblica del ricostituito Emirato. Un “apartheid di genere”, è la denuncia dell’Onu, aggravato dalla stretta più generale contro la libertà di stampa, che secondo i gruppi di difesa dei diritti umani ha fatto precipitare l’Afghanistan nel più completo isolamento internazionale.