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Autore: Patrizia

Come non curarsi in Afghanistan se sei donna

Radio Bullets, 5 gennaio 2025

Leila Sarwari non è il suo vero nome, per ragioni di sicurezza dobbiamo tenerlo nascosto, ma Radio Bullets, sa molto bene chi è. Ha studiato all’università di Kabul, ha fatto un master e il suo sogno era diventare una diplomatica.

La sua vita e i suoi sogni, come per tutte le donne afghane che hanno studiato o lavoravano o erano socialmente impegnate, si sono infranti il 15 agosto del 21 quando i talebani hanno preso il potere consegnato dagli americani e dalla Nato che hanno tradito le speranze di milioni di donne che ora vivono in un regime di apartheid di genere.

Sentire la loro voce è un modo per non dimenticarle e per noi un monito di quello che il potere fa quando le società civili non intervengono.

KABUL – L’accesso alle cure sanitarie per le donne dell’Afghanistan sotto il regime talebano è diventata sempre più difficile. Da quando i talebani hanno preso il controllo nell’agosto 2021, sono state imposte numerose restrizioni che compromettono gravemente la possibilità delle donne di ricevere assistenza medica.

La mancanza o l’assenza di ospedali nelle province, le difficoltà economiche, le restrizioni sui viaggi delle donne, l’aumento della depressione e i sentimenti negativi nei confronti delle donne, hanno ulteriormente ridotto l’accesso ai servizi sanitari.

In tutto l’Afghanistan, le donne non possono recarsi nelle cliniche o vedere un medico senza essere accompagnate da un uomo, mettendo a rischio la vita di milioni di donne e ragazze.

Il tabù degli assorbenti

Nazanin, un’ex studentessa costretta a rimanere a casa, un tempo poteva andare in farmacia per acquistare prodotti igienici, ma ora deve affidarsi al fratello minore per paura dei talebani.

Nazanin, residente a Kabul, ci dice di trovare fastidioso chiedere ai familiari di comprare assorbenti: “Per me è stato davvero complicato acquistare prodotti igienici ultimamente, perché tutte le farmacie sono gestite da uomini e non ci sono dipendenti donne. I talebani sono molto restrittivi”.

“Se ti vedono sola senza un accompagnatore maschile o mentre parli con un uomo in farmacia, ti causeranno problemi. Per questo ho paura e spesso supplico mio fratello minore di andare in farmacia a comprare i prodotti per l’igiene. A volte anche lui si rifiuta, perché le mestruazioni sono un tabù sociale e molti uomini afghani si vergognano di acquistare questi prodotti”.

I contraccettivi

D’altra parte, alcune donne affermano che il divieto di vendita di contraccettivi e forniture correlate è diventato un altro problema importante.

Sebbene i dipartimenti talebani abbiano negato di aver bandito questi farmaci, testimonianze della popolazione e dei farmacisti indicano che i talebani hanno avvertito ufficiosamente le farmacie, almeno in alcune città, di non vendere questi prodotti.

E’ aumentata la mortalità materna in Afghanistan, ogni due ore una madre muore per complicazioni legate alla gravidanza o per malattie trattabili e prevenibili durante il parto, non è raro che le donne condividano letti negli ospedali, anche nei centri sanitari avanzati.

Sempre più donne muoiono durante il tragitto verso gli ospedali a causa delle complicazioni della gravidanza, dovendo viaggiare per ore o giorni per ricevere assistenza medica.

Il dominio talebano sull’Afghanistan ha ulteriormente aumentato il tasso di mortalità materna. Dal ritorno al potere dei talebani, le donne afghane hanno affrontato gravi restrizioni ai loro diritti e libertà, che hanno avuto un impatto diretto sul loro accesso alle cure mediche.

Ad esempio, le donne sono spesso obbligate a essere accompagnate da un tutore maschile (mahram) – padre, marito, fratello) per ottenere cure mediche, limitando gravemente la loro autonomia e il loro accesso ai servizi sanitari, specialmente per quelle senza un tutore disponibile.

Maternità complicate

Fatima, una donna di 27 anni di Kandahar, ha sperimentato complicazioni durante la gravidanza. A causa delle restrizioni imposte dai talebani, non ha potuto visitare la clinica senza il marito, che era lontano per lavoro. Di conseguenza, ha dovuto aspettare diversi giorni prima di ricevere assistenza medica, mettendo a rischio la sua salute e quella del bambino.

L’economia afghana è in crisi a causa dell’instabilità politica, delle sanzioni internazionali e della riduzione degli aiuti esteri. La pressione finanziaria ha reso difficile per molte donne permettersi cure sanitarie di base.

Inoltre, le strutture sanitarie spesso mancano di forniture essenziali, attrezzature e personale medico a causa della carenza di fondi.

Laila, una madre di 35 anni di Kabul, ha lottato per permettersi i farmaci necessari per una malattia cronica. Con il reddito familiare drasticamente ridotto, ha dovuto scegliere tra acquistare cibo o medicine. La mancanza di opzioni sanitarie accessibili ha aggravato la sua condizione, portando a ulteriori complicazioni.

Infrastrutture limitate

Il terreno accidentato e le infrastrutture limitate dell’Afghanistan rappresentano sfide significative per l’accesso alle cure sanitarie. Molte donne vivono in aree remote e rurali dove le strutture sanitarie sono scarse o inesistenti.

Le lunghe distanze e la mancanza di opzioni di trasporto rendono difficile raggiungere i centri medici. Zahra, una giovane donna di 22 anni proveniente da un villaggio remoto di Badakhshan, ha dovuto viaggiare per ore a piedi per raggiungere la clinica più vicina.

Il viaggio è arduo, specialmente durante i rigidi mesi invernali. A causa di queste barriere geografiche, Zahra e molte altre donne nel suo villaggio spesso ritardano la ricerca di cure mediche, con conseguenti problemi di salute evitabili.

La tradizione e le norme culturali in Afghanistan spesso impediscono alle donne di cercare cure sanitarie in modo indipendente.

Le donne possono affrontare stigma o disapprovazione da parte delle loro famiglie o comunità se tentano di accedere ai servizi medici senza un accompagnatore maschile.

Questa barriera culturale limita ulteriormente la loro capacità di ricevere cure tempestive e appropriate.

Amina, una donna di 30 anni di Nangarhar, ha affrontato critiche dalla comunità per essersi recata in una clinica senza il marito. Le aspettative culturali su di lei hanno reso difficile dare priorità alla sua salute, causando ritardi nel ricevere il trattamento necessario.

Vietati gli studi medici alle donne

La recente decisione dei talebani di vietare alle donne di frequentare gli studi medici ha conseguenze di vasta portata per il sistema sanitario del paese e il benessere della popolazione.

Uno degli impatti più immediati e gravi è la riduzione del numero di operatori sanitari donne. In una società dove le norme culturali spesso impediscono alle donne di ricevere cure mediche da medici uomini, la presenza di operatrici sanitarie è cruciale.

Il divieto di studi medici per le donne significa che ci saranno meno dottoresse, infermiere e ostetriche disponibili a fornire cure, causando un significativo divario nei servizi sanitari per le donne.

Ad esempio, nelle aree rurali, dove le restrizioni culturali sono ancora più pronunciate, le donne possono evitare del tutto di cercare cure mediche se non sono disponibili operatrici sanitarie.

Questo può portare a malattie non trattate, complicazioni durante il parto e un aumento della mortalità materna e infantile.

L’Afghanistan ha uno dei tassi di mortalità materna più alti al mondo
Il divieto di studi medici per le donne aggrava questa situazione riducendo il numero di ostetriche e medici qualificati disponibili a fornire cure essenziali durante la gravidanza e il parto.

La carenza di personale sanitario qualificato può portare a ritardi nell’assistenza prenatale, gestione inadeguata delle gravidanze a rischio e insufficiente supporto durante il travaglio e il parto.

 

Questo pezzo è stato scritto grazie al sostegno di alcune associazioni di Frascati che ci hanno permesso di fare la differenza. In Afghanistan oggi le giornaliste non possono scrivere, andare ad una conferenza stampa o apparire in televisione. Ma il fatto che non possano farlo nel loro paese, non significa che non possano farlo da qualunque altra parte. Radio Bullets vuole tenere una luce accesa sull’Afghanistan e le afghane hanno bisogno che si sappia cosa sta succedendo loro. Per saperne di più cliccate sul pezzo sotto.

Divieti contro le donne in Afghanistan, “nel centro maternità di Emergency…

Il Fatto Quotidiano 31 Dicembre 2024, di Martina Castigliani

L’ospedale di Anabah è un luogo dove le donne si battono per continuare a lavorare perché lì “sentono di poter fare la differenza”. Intervista a Raffaela Baiocchi, responsabile dei progetti salute donna di Emergency, che di fronte alle nuove strette dei talebani dice: “Restiamo in allerta, ma continuiamo a fare il nostro lavoro”

Un centro di maternità tra le montagne, gestito per la maggior parte da donne e rivolto alla cura delle donne in un Paese dove è stato deciso che non possono studiare. E presto sarà sempre più difficile anche lavorare. Le parole per raccontare l’ospedale di Anabah, creato e gestito dalla ong Emergency nella valle del Panshir in Afghanistan, non sono sufficienti. Non rendono la potenza di un progetto che, senza bisogno di proclami e con grande attenzione per i bisogni della popolazione, continua a lavorare sul territorio dal 2003. Oltre 70mila i bambini nati tra quelle mura, quasi 6mila e 500 solo l’anno scorso, e più di 470mila le visite effettuate. Un ospedale che offre cure di qualità in un Paese a risorse limitate e che funziona quasi interamente grazie al personale afgano: “Le nostre dottoresse, ostetriche, infermiere fanno anche due ore di viaggio per arrivare a lavorare da noi”, racconta Raffaela Baiocchi, ginecologa responsabile dei progetti di salute della donna di Emergency.

Un personale che qui viene formato continuamente e preparato a una gestione in autonomia della struttura, nonostante le limitazioni che arrivano dall’alto. Il centro di Anabah – intitolato alla ricercatrice e volontaria Valeria Solesin – è un luogo dove le donne si battono per continuare a lavorare perché lì “sentono di poter fare la differenza”. Uno spazio dove il solo fatto di esserci è diventata un’azione di resistenza: “Quel fronte lo difendiamo con le unghie e con i denti”. Anche se il futuro è e resta la più grande incognita: “Abbiamo almeno cinque dottoresse in attesa di essere abilitate per lavorare”. Aspettano, ma le speranze sono sempre meno. “Servono le donne per tenere in piedi il sistema sanitario, per tenere in piedi la società”, chiude Baiocchi. E fa un appello: “L’Afghanistan non sia dimenticato”.

La Repubblica Islamica ha appena ordinato la chiusura delle ong che impiegano donne. Cosa succederà al centro di Anabah?
Non è la prima volta che i vertici dell’Emirato tuonano in questa direzione. Un proclama simile era stato diffuso tempo fa, ma le ong operanti nel settore sanitario erano state esentate. Questo nuovo decreto è freschissimo e non abbiamo ancora ricevuto nessun ordine applicativo in merito: restiamo in allerta e continuiamo a fare il nostro lavoro, sperando si risolva in un nulla di fatto. Il Paese è inquieto, e anche tra i gruppi dirigenti, a tutti i livelli, le visioni sono divergenti e talvolta conflittuali sul tema.

Finora cos’è cambiato con l’arrivo dei talebani al potere?
Non avevamo avuto grandi scossoni. Nei posti dove facevamo chirurgia di guerra, quindi a Kabul e nel Sud del Paese, abbiamo riconvertito le attività. E ci sono comunque sempre feriti a causa della grande diffusione di armi. Dopodiché, la nostra decisione politica, ma anche pratica, è stata quella di espandere i servizi per le donne.

Cosa significa?
Dove eravamo già abbiamo cercato di assumere più ostetriche possibile, ma anche educatrici sanitarie. E nel Sud, ovvero la zona tradizionalmente più conservatrice, abbiamo aperto nuovi ambulatori. Qui abbiamo trovato una situazione inaspettata: c’erano già scuole pubbliche di ostetriche, in cui si parlava di contraccezione. E gli stessi direttori, le mostravano orgogliosamente. Poi dieci giorni fa, è arrivato il nuovo divieto che chiude anche queste.

Come è possibile?
Tocchiamo ogni giorno con mano le profonde contraddizioni. E noi andiamo avanti. Quel fronte lo difendiamo con le unghie e con i denti. Per il momento ci è solo stato chiesto di riadattare i nostri ambulatori per separare uomini e donne più nettamente di quanto già non si facesse. Ma per il resto nessuno ha impedito alle lavoratrici di andare a lavorare o alle pazienti di accedere all’ospedale. Solo ultimamente, osserviamo donne con quadri molto gravi di malnutrizione. Negli ultimi mesi sono state meno di dieci, ma non le avevamo mai viste prima ed è un segnale. Sono in una chat con le dottoresse afgane per monitorare i casi: l’altro giorno hanno ricoverata una donna di circa 31kg. Una collega ha scritto: “Another one”, un’altra.

È un allarme che riguarda solo le donne?
La popolazione sta soffrendo moltissimo. La disoccupazione galoppa: gli uomini erano principalmente impiegati nella sicurezza, ora molti sono a casa. E questo nonostante i talebani abbiano approvato delle leggi per redistribuire i posti di lavoro. Noi abbiamo ostetriche che sono le uniche in famiglia a riportare uno stipendio a casa.

Com’è la situazione per la formazione delle donne?
Al momento l’unica possibilità per la formazione femminile, a parte quella primaria, è la scuola di specializzazione in ginecologia e ostetricia. Noi ne gestiamo una e in più cerchiamo di formare chi già lavora con noi: le nostre dipendenti sono bravissime, con tanta voglia di imparare e c’è una grandissima richiesta di corsi di formazione e aggiornamento.

Come vede il futuro?
Continuiamo per la nostra strada finché non ci bloccano. Ci sono leggi a livello nazionale e organi che le fanno rispettare con ispezioni e sanzioni, però c’è anche chi nell’apparato non è d’accordo. Molto recentemente abbiamo avuto visite di pezzi molto grossi nella nostra maternità e non dico che si sono commossi, però ci hanno detto “andate avanti”. È ovvio che uno cammina sulle uova. Però noi respiriamo un grande conflitto interno: la linea sulle donne è minoritaria, ma del gruppo predominante. Chi può preserva gli spazi di libertà, facendo finta di niente. Non so però fino a quando durerà.

E se non dura?
Il giorno in cui finiranno le dottoresse già laureate che possono accedere alla specializzazione, anche quella scuola si chiuderà. A ottobre sono andata in Afghanistan ed ero positiva: abbiamo assunto due dottoresse che da due anni aspettano di fare l’esame di Stato. Per due anni hanno detto loro: per ora non lo fate, ma poi si vedrà. C’è sempre stata la speranza e, a ottobre scorso, era stata annunciata una data. Poi, invece, è arrivato il divieto. E due giorni dopo c’è stata la convocazione solo per gli studenti maschi. Siamo piombati nella disperazione. Se qualcosa non cambia, presto saremo in crisi. Oltre al fatto che anche se domani dovessero riaprire tutto, ci sono tre anni di gap durante i quali non hai fatto studiare le donne.

L’ospedale di Anabah funziona grazie alle donne afghane?
Il personale sanitario è composto da 130/140 donne e con chi pulisce la struttura, ed è fondamentale, sono circa 170. Poi ci sono le infermiere nei dipartimenti pediatrici e chirurgici. Chi si occupa di donne sono donne. Quindi non è solo la salute riproduttiva che viene colpita, ma tutta l’assistenza sanitaria. Chi le lava, chi le tocca, sono donne. Ma abbiamo anche uomini. Ad esempio, ho parlato con una donna incinta, molto istruita, che è venuta per una visita da noi: suo marito, un tipo molto conservatore, l’aveva portata anche da un ginecologo nella capitale a fare i controlli. Se un medico uomo è bravo, anche i più conservatori, in città, ci portano le mogli. Però, sicuramente, in futuro la sanità non può stare in piedi senza le donne. Servono per tenere su la società, non si può pensare che i lavori di cura li facciano solo gli uomini. E sicuramente non in una maternità, dove c’è maggiormente l’esposizione del corpo della donna: nelle zone rurali nessun marito porterebbe la moglie da un ostetrico.

È difficile per le donne venire a lavorare ad Anabah?
Quasi tutte le dottoresse, ostetriche e infermiere che lavorano per Emergency vivono molto lontano. A loro servono almeno due ore di trasporto per arrivare. Ma qui respirano un’aria internazionale, fanno formazione. Sentono che hanno i mezzi per poter fare la differenza: siamo in un Paese a limitate risorse, ma non siamo un ospedale a limitate risorse.

Quanto è importante per loro questo impiego?
Faccio un esempio. Una nostra dottoressa viveva con la famiglia del marito. Il suocero, con due mogli, aveva una clinica privata per cui lei faceva attività libero professionale e insieme lavorava ad Anabah. Di solito veniva aiutata dalle suocere a tenere i figli. Con l’arrivo dell’Emirato, il suocero le annuncia che non l’avrebbero più aiutata. Lei ha chiesto allora di fare i turni il giorno in cui le sue sorelle erano libere: viaggiava tra le province per portare a loro i suoi bimbi e poi venire in ospedale. Dopo il primo mese era distrutta: abbiamo creato uno spazio interno per tenerle i figli e lei ha strappato con la famiglia. Tutto perché lei voleva decidere da sola dove e con chi lavorare.

E se le leggi dovessero essere sempre più severe?
Io comincio già a pensare a come poter portare avanti il progetto tra dieci anni. Ora non riesco neanche a fare un piano dell’organico futuro. Quando sono arrivata, era il 2007, venivamo dopo un periodo di chiusura a causa del sequestro Mastrogiacomo: abbiamo davvero ricominciato tutto da zero. Cercavamo ragazze che sapessero leggere e scrivere e che potessero lavorare la sera. Speriamo di non dover tornare a quella situazione di deserto. Al momento abbiamo almeno cinque ragazze laureate in medicina e che non vengono abilitate all’esercizio della professione. E nel mentre non possono praticare.

Come resistono?
Per noi è facile perché abbiamo scelta. Io lo faccio perché è un Paese che amo molto e ormai mi sento parte della famiglia. Ma se penso al loro futuro, se penso alle persone intrappolate in leggi assurde, sto male. Finora, per chi lavora e non ha figli o ha figli maschi, la vita non è cambiata tantissimo. Per chi invece deve completare il proprio percorso formativo, ha altre ambizioni o ha figlie femmine, è cambiato tanto: c’è chi ha già lasciato il Paese o cerca di farlo. Mi dicono: “Rimarrei, ma ho le bimbe piccole, che futuro avranno?”.

Ci siamo dimenticati dell’Afghanistan?
È una realtà dimenticata perché, nel mondo, ne stanno succedendo di tutti i colori. In Afghanistan il dramma ora è la povertà, ma anche una guerra alle donne complessa da combattere. Per questo non deve essere dimenticato. Perché, tra le altre cose, ha un record: è l’unico Paese al mondo in cui alle donne non è concesso di studiare e, quindi, di costruire la società. Bisogna continuare a parlarne. Perché se le donne riprendono il loro posto, può solo fare del bene a tutto il Paese.

Afghanistan, Putin firma disegno di legge per riconoscere i Talebani

ADN Kronos 28 dicembre 2024

Il Presidente russo Vladimir Putin ha firmato un disegno di legge che permetterà al governo russo di riconoscere, se lo riterrà opportuno, il movimento fondamentalista dei Talebani come legittimo sovrano dell’Afghanistan. La Russia, come il resto della comunità internazionale, considera i Talebani un gruppo di golpisti che ha ripreso il potere con la forza nel 2021. Tuttavia, questo non ha impedito a Mosca e Kabul di mantenere da allora legami diplomatici ed economici.

La legge firmata da Putin consente di sospendere temporaneamente l’appartenenza dei Talebani alla lista delle “organizzazioni terroristiche bandite in Russia”, a patto che si dimostri che il movimento fondamentalista “cessi le attività volte a promuovere, giustificare e sostenere il terrorismo”. La firma di Putin è arrivata poco più di una settimana dopo l’approvazione del disegno di legge per la revoca del divieto da parte della Duma.

Una volta che la decisione giudiziaria entrerà in vigore, saranno apportate le modifiche corrispondenti all’elenco delle organizzazioni terroristiche. Lo hanno rivelato fonti ufficiali all’agenzia russa Interfax.

“Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere”. La campagna del Cisda

Altreconomia, 23 dicembre 2024 di Patrizia Fabbri

Il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane ha lanciato una petizione per chiedere al governo italiano e alle Nazioni Unite di riconosce l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. E di non riconoscere il governo dei Talebani, sostenendo invece i movimenti democratici del Paese. Una lotta che non si “limita” all’Afghanistan

Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno Stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.

È la definizione di crimine di apartheid di genere che il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente attraverso la delegazione italiana alla VI Commissione delle Nazioni Unite che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.

È un lavoro complesso, sul quale l’Onu si sta confrontando da sei anni. Alla fine del 2024, tuttavia, nonostante l’ostruzionismo di alcuni Paesi, è stato delineato un percorso che definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione, anche se le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste solo nel 2028 e 2029.

Per sostenere il proprio contributo a questo processo, il Cisda, con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa, ha lanciato la “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere“, evidenziando la stretta connessione tra fondamentalismi e apartheid di genere.

Nell’ambito di questa campagna è stata avviata una raccolta firme per una petizione con la quale si chiede al governo italiano di sostenere una serie di obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Iniziando dal riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari di quello su base etnica) all’interno dei Trattati internazionali e di come sia applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan; al non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano, sostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella alla Corte penale internazionale per ulteriori indagini sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

Infine, il Cisda chiede il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. E contestualmente di negare la rappresentanza alle esponenti e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

Ma entriamo nel dettaglio di ciascuno di questi obiettivi e cerchiamo di capire perché sono così fortemente connessi.

Prima di tutto bisogna ricordare che il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine in quanto quello di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, si concentra sulla discriminazione razziale.

Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere hanno invece caratteristiche uniche distinte dalla discriminazione razziale e il loro riconoscimento come crimine consentirebbe di affrontare, a livello giuridico internazionale, le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, come le persone Lgbtqi+.

Nella definizione proposta dal Cisda, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi anche da attori statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che questi ultimi possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere.

Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone Lgbtqi+.

Il Cisda ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale.

Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo infatti che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine Ottocento, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam.

E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario”. Per questo il Cisda ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire “Stop” a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico.

Concretamente la campagna, e di conseguenza la petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui Lgbtqi+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne.

L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa.

Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche in quello occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie.

Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella petizione del Cisda: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e con i partiti fondamentalisti.

Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere del gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham.

La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali. Dalla fine degli anni Settanta ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti Paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.

Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni Settanta, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Come ad esempio l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) o l’Associazione umanitaria per l’assistenza alle donne e ai bambini dell’Afghanistan (Hawca) che il Cisda sostiene dalla loro nascita.

Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione che per la maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano.

Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso infatti si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi.

Patrizia Fabbri è attivista per il Cisda, il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che da tempo collabora con Altreconomia. Per seguire i progetti del Cisda e sostenerne l’operato clicca qui

 

SBS Australia – Il regime dei talebani “considera le donne come un pericolo per la società”

La campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e a sollecitare azioni concrete da parte del governo italiano e della comunità internazionale contro i fondamentalismi, con un focus particolare sul regime talebano.

SBS Australia – 20 dicembre 2024

Il CISDA (Coordinamento Italiano di sostegno alle donne afghane) è un’organizzazione che da 25 anni si dedica a sostenere la lotta delle donne afghane, anche attraverso il finanziamento di progetti segreti per garantire la loro sicurezza.

“I progetti sono segreti perché il regime talebano ha cancellato ogni diritto delle donne, come quello di studiare oltre i 12 anni, lavorare fuori casa o viaggiare, e negli ultimi giorni ha anche tolto loro la possibilità di lavorare come ostetriche”, racconta Beatrice Biliato del CISDA ai microfoni di SBS Italian.

Nella campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”, lanciata in concomitanza con la giornata mondiale dei diritti umani, il CISDA ha inviato una richiesta all’ONU affinché l’apartheid di genere venga riconosciuto come crimine contro l’umanità.

“Questo sarebbe un passo fondamentale per sensibilizzare la comunità internazionale sulla grave situazione delle donne afghane”, spiega Beatrice Biliato ai microfoni di SBS Italian.

Oltre alla richiesta all’ONU, il CISDA, nella sua campagna, ha anche inoltrato una richiesta al governo italiano di intervenire contro il regime talebano.

“Lo stato italiano non dovrebbe riconoscere né di fatto né di diritto il governo dei talebani, condannando quanto sta avvenendo in Afghanistan”, afferma Beatrice Biliato mentre spiega anche quanto sia importante fermare i finanziamenti al regime.

Radio Popolare – Puntata di Rights Now dedicata all’Afghanistan

Nella Giornata Mondiale contro la violenza di genere, Radio Popolare ha dedicato la puntata di Rights Now (il settimanale della Fondazione dei Diritti Umani) all’Afghanistan: “Qual è il posto peggiore per le donne? Probabilmente l’Afghanistan. E lì andiamo con Barbara Schiavulli, il generale Giorgio Battisti e … la cantante Mojgam Azimi”

Per ascoltare la puntata clicca qui.