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Tag: Iran

A giugno, secondo le Nazioni Unite, oltre 250.000 afghani hanno lasciato l’Iran

Aleks Phillips, Soroush Pakzad, BBC, 1 luglio 2025

Più di 256.000 afghani hanno lasciato l’Iran nel solo mese di giugno, segnando un’impennata nei rientri in Afghanistan da quando Teheran ha fissato una scadenza rigida per i rimpatri, come dichiarato dall’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato 28.000 afghani che hanno lasciato l’Iran in un solo giorno a giugno, dopo che il regime iraniano ha ordinato a tutti gli afghani sprovvisti di documenti di lasciare il Paese entro il 6 luglio.

Il numero di rifugiati afghani in Iran è aumentato da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021; molti di loro vivono senza uno status legale.

Ciò ha contribuito ad accrescere il sentimento anti-afghano in Iran, dove i rifugiati devono affrontare discriminazioni sistematiche.

Afghani rimpatriati con la forza

L’OIM ha dichiarato che, da gennaio, più di 700.000 afghani hanno lasciato l’Iran e il portavoce Avand Azeez Agha ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che il 70% di loro è stato “rimandato indietro con la forza”.

L’aumento dei rimpatri e la scadenza sono avvenuti dopo che Iran e Israele hanno ingaggiato un conflitto diretto, iniziato con l’attacco di Israele a siti nucleari e militari a metà giugno. Da allora è stato mediato un cessate il fuoco.

Mentre i due Paesi si scambiavano attacchi quotidiani, il regime iraniano ha arrestato diversi migranti afghani sospettati di spionaggio per conto di Israele, come riportato dai media statali.

In seguito a queste denunce, è iniziata una nuova ondata di rimpatri forzati. L’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Mehr ha riferito che la polizia era stata incaricata di accelerare le deportazioni, ma la polizia ha poi smentito.

“Abbiamo paura ad andare ovunque, perché c’è sempre il timore che ci accusino di essere spie”, ha dichiarato alla BBC Persian un migrante afghano in Iran, che non nominiamo per proteggerne l’identità.

“Ai posti di blocco perquisiscono le persone e controllano i telefoni . I messaggi o i video di media stranieri sui social network possono letteralmente mettere in pericolo la vita di chi li ha”.

“Molti iraniani ci insultano, dicendo ‘Voi afghani siete spie’ o ‘lavorate per Israele'”.

Numerose notizie riportate dai media iraniani indicano che sono stati espulsi con la forza anche afghani in possesso di visti e documenti validi. Alcuni, rilasciati dopo essere stati arrestati, hanno dichiarato di essere stati accusati dai funzionari di aver tradito il Paese.

Arafat Jamal, coordinatore dell’UNHCR per l’Afghanistan, ha dichiarato che, nonostante il cessate il fuoco tra Israele e Iran, “le conseguenze di quella guerra continuano”.

“Questo movimento di espulsione era precedente, ma è stato esacerbato dalla guerra”, ha dichiarato alla BBC Pashto.

“I rimpatriati raccontano di una serie di azioni, alcune piuttosto coercitive, altre meno, che li hanno spinti a tornare”.

Sottoposti a oppressioni ovunque

I rifugiati afghani non hanno diritto alla cittadinanza iraniana, neanche se sono nati nel Paese, e molti di loro non possono aprire conti bancari, acquistare carte SIM o vivere in determinate aree. Anche le opportunità di lavoro sono fortemente limitate e spesso si riducono a lavori coercitivi con bassi salari.

In questa fase di allontanamento, le autorità iraniane hanno anche esortato il pubblico a denunciare gli afghani senza documenti.

“Ci sono oppressori qui e oppressori là”, ha detto un altro afghano in Iran. “Noi migranti non siamo mai stati liberi, non abbiamo mai vissuto una vita libera”.

Un altro ha dichiarato: “Il futuro degli afghani che vivono in Iran sembra davvero tetro”, aggiungendo: “La polizia è violenta e umiliante e ora anche i Basij [milizie volontarie] sono stati incaricati di arrestare gli afghani”.

L’aumento dei rimpatri arriva dopo che il Pakistan ha intensificato le proprie azioni di espulsione degli afghani senza documenti, affermando di non essere più in grado di ospitarli.

Jamal ha dichiarato che quest’anno il numero di rifugiati afghani rientrati in patria dall’Iran e dal Pakistan ha superato il milione. Pur ringraziando entrambe le nazioni per aver accolto, negli ultimi decenni di instabilità, milioni di afghani ha esortato i due Paesi a cercare una soluzione comune alla crisi.

Dichiarazione di quattro prigioniere politiche nel carcere di Evin

Kanoon-e Zanan-e Irani (Centro delle Donne Iraniane), 24 giugno 2025

Questa è una traduzione dal farsi di un comunicato pubblicato sulla pagina del Kanoon-e Zanan-e Irani (Centro delle Donne Iraniane). Ho scelto di tradurlo per contribuire a colmare il vuoto informativo in lingua italiana, dove una parte della diaspora iraniana — spesso vicina a posizioni monarchiche o, purtroppo, apertamente favorevole al genocidio in corso — sta disinformando e confondendo l’opinione pubblica. Mentre vincitrici del Premio Nobel per la Pace o registi premiati con riconoscimenti politicizzati scelgono di tacere sull’illegalità di un attacco al proprio Paese e si concentrano solo sulla questione dell’arricchimento dell’uranio, leggete cosa scrivono combattenti e prigioniere politiche dal carcere di Evin.

“L’identità degli Stati Uniti e del “regime fascista di Israele” è fondata su “aggressione” e “infanticidio”

Quattro donne prigioniere politiche nel carcere di Evin, tra cui Variesheh Moradi, condannata a morte, hanno pubblicato una dichiarazione con tono deciso, in cui definiscono i crimini del regime israeliano a Gaza e in altri Paesi del Medio Oriente come “genocidio” e “barbarie sistematica”, criticando duramente il sostegno delle potenze globali, in particolare degli Stati Uniti, a tali crimini. Sottolineando che Israele è nato con l’occupazione e la violenza, affermano che fare affidamento su forze del genere è un tradimento nei confronti del popolo iraniano e delle genti della regione.

Testo integrale della dichiarazione

Israele è nato attraverso massacri e crimini, ha preso possesso delle terre con l’occupazione, e nel corso della sua esistenza ha trasformato il Medio Oriente in un campo di guerre infinite con aggressioni e genocidi.

Israele, come avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente, è emerso come rappresentante delle superpotenze mondiali nel dopoguerra e fin dall’inizio ha mostrato la sua barbarie al mondo: in Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen, e più recentemente con il genocidio a Gaza.

In nessuno di questi Paesi si sono trovate armi nucleari né vi erano preparativi per l’arricchimento dell’uranio.

Il genocidio non ha bisogno di una giustificazione logica, ma la democrazia occidentale cerca sempre un pretesto per giustificare la sua barbarie permanente e per conservare la facciata democratica che rivendica.

L’identità degli Stati Uniti e del “regime fascista di Israele” si è formata attraverso l’aggressione e l’infanticidio; ovunque si siano rivolti, hanno portato solo guerra e distruzione.

Condanniamo l’attacco all’Iran, l’uccisione di civili e la distruzione delle infrastrutture del Paese da parte del “regime sionista” e dei suoi sostenitori americani — come condanniamo anche gli altri loro crimini nel mondo e nel Medio Oriente.

Il sostegno a Israele e la fiducia nel suo potere distruttivo da parte di qualsiasi individuo, gruppo o movimento politico, qualunque sia il sogno o l’illusione perseguita, è anch’esso condannabile e riflette la bassezza e la meschinità dei suoi sostenitori.

La nostra liberazione, quella del popolo iraniano, dal regime dittatoriale che governa il Paese, sarà possibile solo con la lotta delle masse e facendo affidamento sulle forze sociali — non sperando nel sostegno delle potenze straniere.

Queste potenze, che da sempre perseguono i propri interessi attraverso lo sfruttamento, il colonialismo, le guerre e i massacri, non porteranno altro che rovina e una nuova forma di sfruttamento per i Paesi della regione.
La distruzione delle infrastrutture della Siria dopo la caduta di Assad, e la prospettiva di applicare lo stesso metodo in Iran, dimostrano la brama di Israele per un Medio Oriente debole e soggiogato.

Questo indica che, nel nuovo disegno per il Medio Oriente, potrà sopravvivere solo un ordine che accetti senza condizioni il dominio di “Israele” sulla regione.

Ai traditori dell’Iran,
ai traditori dei popoli del Medio Oriente,
ai traditori delle lotte per la libertà del popolo contro l’oppressione:
sappiate che il vostro tradimento e la vostra ignominia saranno registrati nella memoria del popolo iraniano e nella storia.

Le generazioni future ricorderanno con vergogna coloro che hanno danzato sui cadaveri di un popolo indifeso.
Reyhaneh Ansari,
Sakineh Parvaneh,
Varisheh Moradi,
Golrokh Iraee

Carcere di Evin”

I curdi nel caos mediorientale

La situazione attuale, le questioni aperte e perché la proposta di un confederalismo democratico, il nuovo paradigma pensato da Abdullah Ocalan, manda in fibrillazione ognuno dei Paesi dove la presenza curda, pur minoritaria, è importante

Carla Gagliardini, Patria Indipendente, 26 giugno 2025

I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.


In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.

Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.

Il confederalismo democratico

Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.

Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, giovane curda iraniana, rea di non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica
E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.


Netanyahu è sotto processo della Corte penale internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui 125 Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Non lo hanno ratificato Russia, Stati Uniti e Israele.
Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.

PJAK e KJAR

Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.


I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv

NOTE

(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.

Nessuna terra da considerare sicura: una donna afghana a Teheran sotto bombardamento

Zan Times, 19 giugno 2025 , di Sarah Hossaini

Sono Sarah Hossaini e scrivo questo mentre la guerra tra Israele e Iran entra nel suo quarto giorno.

Tutto è iniziato esattamente alle 3:30 di venerdì mattina, quando ho sentito il rumore della prima esplosione in lontananza. Ho pensato che potessero essere i petardi per l’Eid al-Ghadir. La seconda esplosione è arrivata pochi istanti dopo, e di nuovo l’ho scambiata per una festa. Ma quando è risuonata la terza esplosione, la mia compagna di stanza ha urlato a squarciagola: “È successo qualcosa!”

Guardammo fuori dal quarto piano del dormitorio. Attraverso la finestra, vedemmo una densa colonna di fumo che si levava verso il cielo in lontananza.

Eravamo terrorizzati. Mi sembrava che gli occhi mi stessero uscendo dalle orbite, non sapevo cosa fare. Entrambe preparammo velocemente le nostre cose. Io buttai nello zaino il portatile e i documenti che avevo accumulato in Iran in anni di lavoro, e corremmo fuori nel cortile.

Quei momenti di panico furono profondamente sconvolgenti per me e per le altre ragazze afghane del dormitorio: un’esperienza amara che stavamo vivendo per la seconda volta. Trattenevamo il respiro, ignare del destino che ci attendeva.

Verso le cinque o le cinque e mezza del mattino, tornammo in camera. Non avevo dormito tutta la notte, e quel giorno finalmente mi addormentai, consumata dalla paura e dalla preoccupazione.

Quel giorno passò con ansia, ma senza più esplosioni. Verso le 18:30, andai nella stanza di un’altra ragazza nel dormitorio. Eravamo tutte sedute lì, pronte a prendere le nostre cose e a correre in cantina se fosse successo qualcosa.

E poi, di nuovo, un altro boom terrificante.

Tutti andarono nel panico. Corsi in camera mia. Quel giorno ero andata al supermercato e avevo comprato tonno in scatola, biscotti, bibite e pane, giusto per ogni evenienza, per sopravvivere qualche giorno se fosse successo il peggio.

Quella notte intera rimanemmo nel seminterrato del dormitorio, circondati da rumori assordanti. Alle 7 del mattino tornammo nelle nostre stanze.

Quattro giorni di guerra

Sono trascorsi quattro giorni dall’inizio della guerra tra Israele e Iran: giorni amari e dolorosi che riecheggiano i ricordi strazianti dello sfollamento del popolo afghano, in particolare di coloro che sono fuggiti in Iran in cerca di rifugio dall’insicurezza, dalla paura e dai talebani.

Quattro anni fa, quando i talebani presero il potere, ero a Kabul per un incarico di lavoro, proveniente da Mazar-e-Sharif. Durante la caduta di Kabul, cercai rifugio a casa di un parente nella parte occidentale della città. Rimasi lì da solo per un mese intero, con ogni respiro pesante nel petto, intrappolato in un silenzio soffocante.

All’epoca, seguivo le notizie in TV, guardando le scene dall’aeroporto. La folla si accalcava. C’ero andato anch’io. La gente guadava fossi sporchi, disperata per raggiungere la salvezza. Anch’io ero in quella fogna, umiliata e distrutta. Il trauma persiste ancora. Dopo anni di sforzi e lavoro, la nostra gente ha mendicato nelle fogne solo per fuggire dall’Afghanistan.

Alla fine sono arrivata in Iran con un visto per studenti, perché persino la mia casa non era più un posto sicuro.

Sono quasi quattro anni che vivo in Iran: apolide, senza un soldo, in difficoltà psicologiche e senza futuro. Questi sono gli ultimi giorni del mio visto studentesco. Nonostante mi aggrappassi alla speranza ormai affievolita che le ambasciate mi aprissero una porta, non si è mai concretizzato alcun segno di quella speranza.

Esausta e disperata, cercavo di trovare una via d’uscita da questo limbo, quando è iniziata la guerra tra Iran e Israele, rendendo tutto ancora più insopportabile.

Ora, non ho futuro in Afghanistan, dove governano i talebani, e non c’è sicurezza in Iran, in queste condizioni terrificanti.

Ancora una volta, come anni fa, ho fatto le valigie nella speranza di sopravvivere e mi sono rifugiata a casa di un parente in un angolo sperduto di Teheran.

Dal primo giorno dell’attacco fino ad oggi, il quarto giorno, mi sono sentita persa, incerta su dove andare, sotto shock, incapace di decidere.

Altri paesi hanno chiesto ai propri cittadini di lasciare l’Iran, ma solo i cittadini afghani restano intrappolati nell’incertezza più totale.

Non c’è posto per noi, nessun rifugio sicuro, nessun rifugio, soprattutto per le migliaia di ragazze afghane vulnerabili che sono arrivate in Iran per disperazione, private del diritto all’istruzione nel loro Paese, nella speranza di trovare un barlume di opportunità e continuare gli studi. Ora, in questo momento terrificante, quelle stesse ragazze sono state lasciate ancora una volta completamente sole.

Io sono uno di loro: una che è stata costretta a venire in Iran perché non aveva altra scelta. E ora, tutto ciò che cerco di fare è sopravvivere.

Mi chiedo: qual è il mio ultimo rifugio sicuro? Quanto a lungo potrò sopportare questa infinita incertezza?

Sono una ragazza fuggita dalla guerra, che ha cercato rifugio in Iran. Ora, dove posso andare da qui?

Sarah Hossaini è lo pseudonimo di una giornalista iraniana.

Il partito curdo Pjak: «Questa non è una guerra di liberazione»

Il Manifesto, 17 giugno 2025, di Tiziano Saccucci

Intervista Parla il membro del Politburo, Siamand Moeini

In risposta ai raid aerei israeliani sul territorio iraniano, il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Pjak), promotore del progetto del confederalismo democratico nel Rojhilat (Kurdistan orientale), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà), slogan che nel 2022 ha scosso l’Iran dopo l’assassinio da parte delle forze di sicurezza della ventiduenne curda Jina Amini.

Nel comunicato, il Pjak afferma: «Questa è una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni», aggiungendo che solo una lotta popolare può portare alla libertà in Iran: «Il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale». Per Siamand Moeini, membro del consiglio di leadership del Pjak e co-presidente del partito dal 2018 al 2024, «la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica». Moeini ha ricordato come «fin dall’inizio, la Repubblica islamica dell’Iran ha avviato il suo dominio assassinando la gioventù iraniana e trasformando il Kurdistan in una terra di fuoco e sangue».

NATO NEL 2004, il Pjak è stato coinvolto in numerosi scontri con le forze di sicurezza iraniane, culminati nel 2011 in una vasta operazione militare guidata dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica terminata con un cessate il fuoco firmato da entrambe le parti. «I governanti hanno dato inizio a questa guerra e i costi sono sopportati da una popolazione già colpita da crisi sociali ed economiche. L’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, mette in luce la tragica realtà che gli Stati attribuiscono scarso valore alla vita umana», prosegue Moeini, secondo cui tuttavia un indebolimento della Repubblica islamica «creerebbe un’opportunità per il popolo iraniano di proseguire la propria lotta contro la dittatura in varie forme».

Il leader di Pjak rivela che i raid israeliani hanno spaventano non poco i funzionari del regime nella regione curda: «Negli ultimi tempi appartenenti alle forze armate locali al servizio del regime hanno cercato di contattarci per assicurarsi un futuro, e questi contatti sono aumentati notevolmente nelle ultime settimane».

Nel suo comunicato, Pjak ha invitato la comunità curda, in particolare i partiti politici, a collaborare, a partire dalla creazione di gruppi di sostegno per le vittime della guerra e comitati di soccorso e cooperazione finanziaria. «Abbiamo buone relazioni con gli altri partiti curdi. Abbiamo incontri regolari e, in alcuni casi, cooperazione pratica – racconta Moeini – Abbiamo anche relazioni strette e sincere con gruppi di altre nazionalità, comprese le comunità baluche e arabe».

NONOSTANTE IL PJAK non sia l’unico partito curdo attivo in Iran, dopo lo scoppio delle proteste del 2022, Teheran ha reagito bombardando i campi dei gruppi curdi-iraniani nella Regione del Kurdistan in Iraq e firmando un accordo con il governo regionale guidato dalla famiglia Barzani, che ha costretto tre partiti – Pdk-I, Pak e Komala – al disarmo e alla ricollocazione nell’entroterra. L’accordo non ha colpito il Pjak, che rivendica ancora una presenza attiva in territorio iraniano: «Siamo l’unica organizzazione con una struttura e forze militari operanti all’interno dell’Iran. Abbiamo la capacità di intervenire in difesa del nostro popolo se necessario. Se le forze repressive della Repubblica islamica agiscono violentemente, la nostra nazione ha il diritto innegabile all’autodifesa», afferma Moeini.

DOPO LA DECISIONE del Pkk di concludere la lotta armata, Amir Karimi, neo eletto co-presidente del Pjak, aveva dichiarato: «Noi non deporremo le armi né ci scioglieremo», chiarendo tuttavia che «le armi servono per l’autodifesa». Anche Moeini ha ribadito la linea del partito nel cercare di evitare il conflitto: «Non abbiamo mai cercato guerra o spargimento di sangue e abbiamo sempre sostenuto soluzioni dialogiche e democratiche all’interno della società. Sebbene ci siano stati diversi scontri negli ultimi anni, abbiamo sempre cercato di evitare il confronto militare. Ma se il regime agisce violentemente contro il popolo, consideriamo l’autodifesa attiva come nostro diritto naturale».

Resistenze femminili a Kabul (o Teheran)

Cristina Giudici, il Post, 25 febbraio 2025

«Credo di avere intuito cosa sia il coraggio solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere l’apartheid di genere»

Alla fine degli anni Ottanta vivevo a Managua. Per incontrare i gruppi armati controrivoluzionari dei Contras, andai in un territorio minato in una foresta del Nicaragua. Ero convinta di fare la cosa giusta per stare dalla parte dei sandinisti (che hanno fatto una bruttissima fine, ma questa è un’altra storia). Fu un atto di coraggio? Non so, ma ci voleva parecchia incoscienza per trovarsi in quel luogo. Feci molte altre esperienze simili, soprattutto all’inizio del mio lavoro da giornalista.

Sono andata da sola nella foresta amazzonica peruviana, certa di incontrare un leader leggendario dei guerriglieri Tupac Amaru sulla base di una vaga promessa ottenuta da un loro dirigente che si era trasferito in Germania dopo essere rimasto cieco per aver maneggiato ordigni esplosivi rudimentali. Ci rimasi diversi giorni da sola, camminando giorno e notte, senza una rete di sostegno su cui contare. Alla fine il gran capo non si fece vedere. Incontrai solo agguerriti soldati dell’esercito che mi scacciarono dalla zona del conflitto. Anche quella fu una scelta rischiosa che non avrebbe certo reso il mondo migliore.

Racconto questi episodi, magari un po’ deformati dalla memoria, perché non è stato sfidando la ragionevolezza per inseguire il mio spirito di avventura e il desiderio di un giornalismo “in presa diretta” che ho capito cosa sia il coraggio. Credo di averlo intuito solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere pacificamente regimi che impongono l’apartheid di genere. Ma non è possibile cogliere appieno la forza di una donna disposta a immolarsi anche solo per ottenere il diritto di vedere una partita di calcio dal vivo.

La forza delle donne

Sahar Khodayari aka Blue Girl si è data fuoco il 2 settembre 2019 per non sottostare al processo che la vedeva imputata per essere entrata in abiti maschili in uno stadio, interdetto alle donne dal 1981, due anni dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Grazie al suo gesto, il 25 agosto del 2022 cinquecento donne hanno potuto assistere a una partita di calcio del campionato nazionale nello stadio Azadi di Teheran e cantare in coro dagli spalti Girl Blue di Stevie Wonder: «Bambina, sei triste. Anche se tutto quello che hai è visibile a te, nel tuo cuore resta una parte che è blu come il cielo».

Samia Hamasi, invece, si è ribellata per giocare. L’ho incontrata in un centro di accoglienza milanese dove era arrivata nell’agosto del 2021 in fuga dall’Afghanistan riconquistato dai talebani e vergognosamente abbandonato dalla missione internazionale guidata dalla NATO (dopo aver spacciato dosi massicce di tesi infondate su come la democrazia potesse essere esportata con le armi). Indossava i jeans e una t-shirt della sua squadra.

La sua passione per il calcio – mi ha raccontato in inglese stentato – era nata guardando Holly e Benji, un cartone animato giapponese, poi era diventata calciatrice e allenatrice della squadra femminile afghana under 17. Il suo racconto si è improvvisamente interrotto quando un altro profugo afghano si è avvicinato. Davanti alla sua espressione corrucciata, ho smesso di farle le domande e ci siamo lasciate con la promessa di risentirci al telefono e rivederci presto. Invece è scomparsa. «Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi. Ti chiamo presto, ciao Sam», mi ha scritto prima di inabissarsi di nuovo.

Semplicemente ineluttabile

È stata lei a dettare i tempi dei nostri contatti, che ho accettato perché sentivo la necessità di conoscere i dettagli della sua storia e di come era riuscita a scappare, mentre gli studenti coranici le puntavano contro il fucile. Sapevo che Samia vagava fra l’Italia, dove ogni tanto tornava per vedere sua madre, e la Germania, dove sperava di ottenere l’asilo e l’opportunità di scendere in campo di nuovo. Ci siamo ritrovate un anno dopo il nostro primo incontro. Era riuscita a ricominciare a giocare con il VfL Bienrode, una squadra di Braunschweig, in Bassa Sassonia. Mi ha mostrato i suoi disegni: si era autoritratta coperta da un burqa ma abbracciata a un pallone, davanti allo sguardo di un talebano con una frusta. «L’ho fatto per ricordarmi come sarebbe andata a finire se non fossi scappata», mi ha detto. Le ho chiesto dove avesse trovato il coraggio, ha alzato le spalle, con un’espressione scanzonata come se fosse stato semplicemente ineluttabile.

Ho fatto la stessa domanda ad Atefa Ghafoory, giornalista afghana di Herat, che mi aveva raccontato di quando i talebani avevano devastato la sua casa, picchiato il padre e ammazzato lo zio. Prima di riuscire a oltrepassare i confini e arrivare in Europa, aveva dovuto attraversare il paese con il figlio in braccio e i genitori anziani, cambiando cinquanta rifugi in tre mesi. Era angosciata all’idea di non poter salvare altre donne, alcune delle quali resistono e costruiscono scuole clandestine, rimaste in un paese dove ora alle donne si impedisce perfino di avere una finestra. Anche Atefa Ghafoory mi ha risposto con un sorriso: «Vuol dire fare ciò che è necessario, ma è comunque troppo poco».

Vorrei tanto sapere dove abbia trovato la forza anche Khalida Popal, che nel 2007 ha fondato la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, ed è stata così abile e intelligente da diventare responsabile finanziaria della federazione afghana di calcio e sfidare gli uomini che preferivano restare senza stipendio piuttosto che prendere l’assegno mensile dalle sue mani. Recentemente ho letto la sua autobiografia, My Beautiful Sisters, non ancora tradotta in Italia. Khalida racconta di aver iniziato a palleggiare in un campo profughi in Pakistan nel 1996, quando aveva solo nove anni, dopo la fuga della famiglia durante il primo emirato dei talebani, e di aver continuato anche una volta rientrata a Kabul, protetta dalle alte mura del cortile della scuola e dalla complicità della madre, insegnante di educazione fisica.

All’inizio di ogni capitolo Khalida Popal, che a scuola veniva soprannominata la «calciatrice matta», riassume la sua filosofia sportiva con un paragrafo che si conclude sempre con la stessa frase: «Apri gli occhi».

“Apri gli occhi”

«La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Apri gli occhi».

Dopo essere stata minacciata, aggredita e intrappolata in un conflitto di potere fra il presidente del comitato olimpionico e quello della federazione di calcio, che la teneva sorvegliata in ufficio con una videocamera, nel 2011 Khalida è riuscita a scappare in India con un passaporto falso. Oggi vive in Danimarca, dove ha creato Girl Power, un’organizzazione che usa lo sport come strumento di attivismo politico con lo scopo di connettere, unire e aumentare il potere delle ragazze in tutto il mondo. È stata lei, nell’agosto del 2021, a far evacuare in Australia, in Portogallo e a Londra le calciatrici delle nazionali senior e giovanili dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari.

Ho chiesto cos’è il coraggio a molte donne afghane e iraniane che hanno scelto di essere libere di scegliere. Ognuna di loro mi ha dato una risposta diversa. «Quando sono andata a vivere da sola, lasciavo una piccola luce accesa ogni sera per sentirmi al sicuro. Con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà quella luce non mi avrebbe aiutato a superare le mie ansie e l’ho spenta», mi ha detto Sadaf Baghbani, un’attrice iraniana di 29 anni arrivata in Italia per curare le ferite provocate da circa 150 pallini di piombo che le avevano sparato addosso i pasdaran nel settembre del 2022, durante la rivolta scoppiata dopo l’omicidio di Jina Mahsa Amini. «Il coraggio è la paura di non farcela a vivere senza libertà», mi ha detto poi. Quindi si diventa coraggiosi perché si ha paura e si deve imparare a camminare nel buio?

Cristina Giudici
Scrive per Il Foglio, Grazia, Linkiesta. Da diversi anni si occupa di immigrazione e fondamentalismo. Nel 2018 ha fondato la testata online NuoveRadici.world e dal 2022 collabora con la Fondazione Gariwo. Ha scritto diversi libri: con L’Italia di Allah ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli. Nel 2024 ha vinto il Nuovo Premio Guido Vergani. A marzo uscirà il suo nuovo libro, scritto con Fabio Poletti: Vita e Libertà contro il fondamentalismo (Campo Libero, collana della Fondazione Gariwo, Mimesis).

 

Il ministro degli Esteri iraniano incontra i talebani a Kabul per la prima volta da otto anni

euronews.com 27 gennaio 2025

Purtroppo si allarga il consenso internazionale al governo talebano”

Abbas Aragchi ha parlato con i leader talebani delle tensioni al confine, dei rifugiati afghani in Iran e del trattato sull’acqua del fiume Helmand

L’Iran ha dichiarato di sperare di migliorare i legami economici e le relazioni bilaterali con l’Afghanistan, durante la prima visita di un ministro degli Esteri iraniano a Kabul da otto anni a questa parte.

Abbas Aragchi, ministro degli Esteri di Teheran, ha avuto colloqui con alti funzionari talebani nella capitale afghana domenica, con discussioni incentrate sulle tensioni ai confini, sul trattamento dei rifugiati afghani in Iran e sulle dispute sui diritti idrici.

Il diplomatico iraniano ha incontrato il primo ministro afghano ad interim Hassan Akhund, il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi e il ministro della Difesa Mohammad Yaqoob.

Aragchi ha espresso la speranza di un rafforzamento dei legami economici e di un miglioramento delle relazioni bilaterali, riconoscendo gli “alti e bassi” nei rapporti tra i Paesi, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Irna.

In una dichiarazione condivisa dai talebani, Aragchi ha anche affermato che l’Iran si è impegnato per il ritorno dei circa 3,5 milioni di rifugiati afghani che vivono in Iran.

Il primo ministro afghano ha esortato Teheran a trattare i suoi rifugiati con dignità, avvertendo che un tentativo di rimpatrio su larga scala non è possibile al momento.

Ha aggiunto che incidenti come l’esecuzione di afghani in Iran hanno acuito le tensioni.

Sebbene l’Iran non riconosca formalmente il governo talebano, che ha assunto il controllo dell’Afghanistan nel 2021 dopo il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, Teheran mantiene relazioni politiche ed economiche con Kabul.

L’Iran ha anche permesso ai Talebani di mantenere l’ambasciata afghana a Teheran.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

Una petizione e una raccolta firme del Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane chiede al nostro governo e all’Onu di riconoscere un nuovo crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. Intanto è il Parlamento su iniziativa di Laura Boldrini ad accogliere la proposta. Mentre Kabul lancia un ultimatum alle Ong contro l’impiego di personale femminile. Per abbattere le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

ANPI, Redazione, 7 gennaio 2025

Se ne parla da anni, con un nulla di fatto. Ma le donne sono determinate quando si tratta di affermare la loro dignità e la richiesta di rispetto e parità. Perché se la strada del riscatto di genere è lunga e tortuosa, la storia delle battaglie dei movimenti femminili lo è altrettanto, e ha temprato lotta dopo lotta.

Cos’è l’apartheid di genere

L’iniziativa è internazionale, volta a sensibilizzare e ottenere “il riconoscimento legale di qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, stabilisce, mantiene o perpetua il dominio di un genere sull’altro attraverso la segregazione, l’oppressione o la discriminazione”. Questo il significato di “apartheid di genere” elaborato da giuriste del Cisda, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane.

Una nuova fattispecie di reato, dunque, diverso da quello di discriminazione razziale come definito nello Statuto di Roma che, entrato in vigore nel 2002, ha istituito la Corte penale internazionale. Un delitto non ancora previsto dai trattati globali, permettendo così impunità giuridica a chi, realtà statuali o gruppi organizzati, viola i diritti umani con angherie sessuali, stupro, negazione dei diritti riproduttivi, sia delle donne sia della comunità Lgbtqi+.

Come sottolinea la campagna lanciata dal Cisda esiste una stretta relazione tra l’apartheid di genere e tutti i fondamentalismi. Perché il tema non riguarda unicamente alcune rigide interpretazioni dei precetti islamici o le posizioni estreme dei movimenti cristiani antiabortisti, e nemmeno solo la religione. Abita dovunque, precisa l’associazione, prevalga con la forza e la violenza l’idea che tra sfera pubblica – fedeltà a un credo o a una visione politica – e vita civile non ci possa essere distinzione.

La campagna del Cisda, a cui tra le altre associazioni ha subito aderito l’Anpi con il Coordinamento Donne, è stata lanciata, o meglio rilanciata lo scorso 10 dicembre, Giornata mondiale per i diritti umani, in vista del Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in elaborazione alle Nazioni Unite. Le negoziazioni vere e proprie saranno avviate nel 2028 e 2029, quindi per l’iter necessario a stabilire accordi internazionali il tempo stringe.

L’etimologia della parola apartheid deriva dalla lingua afrikaans dei coloni bianchi nell’Africa meridionale, ma il termine è ormai utilizzato a livello globale per indicare una forma di dominio sistematico di una categoria, sia etnica sia di genere sull’altra. Proprio come in Afghanistan, dove alle donne è vietato perfino parlare in pubblico.

Si tratta anche di assumersi una responsabilità storica e politica: Paesi e potenze mondiali dove la laicità è un valore condiviso, pur di garantire “la loro egemonia coloniale hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti, generando decenni di guerre con migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate”. Così con i talebani e così dopo il crollo del regime di Assad in Siria, arrivando al paradosso di sentir definire “ribelli” i paramilitari dell’impronunciabile Al Qaeda, ora dipinta in Occidente come democratica e liberatrice.

Il dibattito a Montecitorio

Pochi giorni fa, l’Italia grazie a una mozione presentata da Laura Boldrini in Commissione Esteri a Montecitorio (presieduta da Giulio Tremonti, che con la “cultura non mangia, ricordate”?), ha accolto all’unanimità la proposta di introdurre nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu il reato di “segregazione di genere”.

In un’oretta di dibattito, dove la Lega avrebbe voluto che “genere” si riferisse “esclusivamente ai due sessi, maschile e femminile, escludendo la tutela della comunità Lgbtqi+, e altri rappresentanti della maggioranza di governo (per esempio Forza Italia) si siano opposti ad adottare il termine “apartheid”, nonostante in sede di Parlamento europeo lo scorso settembre avessero votato favorevolmente, il risultato è stato tuttavia raggiunto. Frutto di mediazione lessicale, il vocabolo “segregazione” proposto dal Pd ha messo tutti d’accordo.

Ben disposto anche il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli (arrivato agli onori delle cronache una manciata di giorni fa per aver affermato che “Il tratto distintivo più profondo del fascismo era uno spirito straordinario di libertà”). Conclusione: nonostante la riformulazione non corrisponda esattamente agli obiettivi prefissati “L’Italia sosterrà l’introduzione del reato di ‘segregazione di genere’ nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu”.

Resta essenziale quindi, politicamente ed eticamente, sostenere la campagna del Cisda. Perché bisogna salvare vite umane in Afghanistan, Iran, Arabia Saudita, Yemen, dovunque l’essere donna è in sé fonte di “persecuzione di Stato”.

CLICCA QUI PER FIRMARE

Per sottoscrivere la petizione “STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE” si può cliccare direttamente al link https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere. Sulla pagina online del Cisda inoltre è disponibile utile materiale informativo https://www.cisda.it/wp-content/uploads/2024/12/Press-Kit.zip

L’associazione chiede inoltre al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania, Paesi Bassi, e appoggiata da altri 22 Stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale (dove devono rispondere gli Stati) per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW, il primo e finora il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne), di cui l’Afghanistan è firmatario.

Cisda inoltre chiede che Palazzo Chigi supporti l’attività di Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico di sottoporre alla Corte Penale Internazionale (che si occupa dei crimini commessi da persone in carne e ossa) per ulteriori indagini le continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

La capacità di lotta delle donne è straordinaria

Le donne di tutto il mondo possiedono una straordinaria capacità di fare tesoro delle lotte di altre donne, indipendentemente dai confini nazionali. Questa solidarietà femminile trascende le divisioni politiche, culturali e geografiche, creando una rete globale di supporto e resistenza.

La storia propone esempi. Già nell’antica Grecia, donne come Saffo e Aspasia hanno cercato di sfidare le norme patriarcali della loro epoca. Durante la Rivoluzione Francese, le femmes parigine marciarono su Versailles per chiedere pane e giustizia, un atto di coraggio che ispirò future generazioni di attiviste. Allo stesso modo, le suffragette britanniche all’inizio del XX secolo lottarono instancabilmente per il diritto di voto, influenzando movimenti simili in tutto il mondo.

Durante la Resistenza italiana le donne hanno svolto un ruolo fondamentale, non solo nella lotta contro l’occupazione nazifascista ma anche nella costruzione di una rete di solidarietà che ha superato i confini nazionali. Come corriere, infermiere e combattenti, le donne italiane hanno mostrato una straordinaria determinazione. La loro lotta non si è limitata al contesto locale; ha infatti ispirato e ricevuto sostegno da donne in tutto il mondo, creando un legame di solidarietà internazionale.

In tempi più recenti, abbiamo assistito a un incremento della solidarietà femminile internazionale.

Il movimento delle donne curde ha svolto un ruolo cruciale nella difesa e liberazione dall’Isis della regione autonoma del Rojava in Siria. Il loro motto “Jin, Jiyan, Azadî” (Donna, Vita, Libertà) è migrato in Iran dopo l’uccisione da parte della polizia morale iraniana di Masha Amini per sfidare le restrizioni imposte dal regime, con il movimento “Donna, Vita, Libertà”. Un grido che ha visto milioni di donne, da Teheran a New York, unirsi per chiedere cambiamenti significativi.

L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala, dal 19 dicembre scorso detenuta nel carcere di Evin, periferia della capitale, fa riflettere. Non sono state formulate precise accuse formali, solo uno scarno comunicato dell’agenzia statale Irna: “La cittadina italiana è arrivata in Iran il 13 dicembre con un visto giornalistico ed è stata arrestata il 19 per aver violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran”. Seppur si sospetta che la vicenda possa essere una rappresaglia per l’arresto in Italia di un ingegnere iraniano, il caso evidenzia le difficoltà e le sfide che le donne giornaliste affrontano in Paesi dove i diritti umani sono costantemente violati.

Le donne afghane, sotto il regime talebano, trovano nella comunità internazionale una voce che amplifica le loro richieste di diritti fondamentali. E Kabul continua con il pugno di ferro. In una lettera pubblicata qualche giorno fa su X (il social di Musk) il ministero dell’Economia del Paese ha minacciato la chiusura di tutte le ONG che impiegano donne afghane, minacciando di sospendere le attività e revocare le licenze alle organizzazioni umanitarie che lavorano nel Paese nei progetti di sviluppo e di aiuto.

Le guerre sono le più acerrime nemiche dei diritti delle donne. Le donne di Gaza stanno affrontando da quindici mesi una realtà devastante, segnata da sofferenze inimmaginabili. L’aggressione targata Netanyau ha causato nella Striscia la morte di oltre 41.600 persone e ne ha ferite 96.000, la maggior parte donne e bambini. La mancanza di accesso a servizi essenziali come ospedali, acqua e cibo aggrava ulteriormente la situazione. Molte donne incinte e in fase di allattamento affrontano sfide critiche per accedere alle cure prenatali e postnatali.

Un altro esempio di lotte comuni dei nostri tempi è quello delle donne migranti, che spesso affrontano discriminazioni e violenze. In risposta, organizzazioni femminili in diversi Paesi hanno creato reti di supporto per offrire assistenza e protezione, dimostrando che la forza della solidarietà può superare le barriere più ostili.

La capacità di fare patrimonio delle battaglie di altre donne è una delle più grandi risorse del movimento femminista. È un richiamo potente alla giustizia e all’uguaglianza, unito dalla convinzione che i diritti delle donne non possono essere limitati da confini nazionali. La lotta di una donna in un angolo del mondo è la lotta di tutte le donne, ovunque esse siano.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane.

La lotta contro l’apartheid di genere è una battaglia cruciale per i diritti umani non solo delle donne, nel XXI secolo è di tutte e tutti.

 

Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

L’attacco degli jihadisti filo-turchi contro Aleppo e Hama, che ha disfatto le forze di Assad, minaccia direttamente i Curdi sia dei quartieri di Aleppo che dei vicini villaggi del Rojava, fino al distretto ezida di Shengal

Carla Gagliardini, Dinamo Press, 6 dicembre 2024

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.