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Droni turchi contro i giornalisti curdi: così Erdogan impone il silenzio

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Il Manifesto, 6 marzo 2025, di Anna Irma Battino

Siria. Tre i reporter uccisi in poche settimane sulla diga di Tishreen, fronte strategico nella Siria del nord-est: se cade, i filo-turchi arriverebbero alle porte di Kobane. Per Ankara è uno dei modi per indebolire il fronte militare e popolare.

«Forse non vedrò la vittoria, ma credo che un giorno la mia città, Afrin, sarà libera». Questo è il testamento di Egîd Roj, giornalista freelance curdo ucciso da un drone tre settimane fa. Il 19 dicembre 2024 la stessa sorte era toccata a Nazım Daştan e Cihan Bilgin: il primo lavorava per Anf, la seconda era corrispondente per Anha. Un altro giornalista, Aziz Köyllüoğlu, è rimasto ucciso il 27 gennaio nel distretto di Ranya, a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno.

La Federazione Internazionale dei Giornalisti (Ifj) ha riferito che nel 2024 sono stati assassinati 122 giornalisti (di cui la metà uccisi a Gaza dall’esercito israeliano), tra cui 14 donne, segnalando un’escalation delle minacce globali alla libertà di stampa. Sei giornalisti curdi sono stati uccisi in Iraq e Siria in attacchi condotti da droni turchi, aumentando le preoccupazioni sulla repressione esercitata da Ankara contro i media.

LE ORGANIZZAZIONI giornalistiche curde Dicle Fırat Journalists Association (Dfg) e Mezopotamya Women Journalists Association (Mkg) con sede in Turchia e l’Unione della stampa libera (Yra), con sede nel nord-est della Siria, hanno denunciato in una dichiarazione congiunta «le gravi condizioni in cui operano i giornalisti in Kurdistan, Turchia e Medio Oriente».

Da oltre due mesi Erdoğan, con il supporto delle fazioni alleate dell’Esercito nazionale siriano (Sna), sta intensificando gli attacchi intorno alla diga di Tishreen, un impianto idroelettrico fondamentale per la sussistenza di centinaia di migliaia di persone nel nord della Siria. Per difenderla, la popolazione locale ha avviato una mobilitazione pacifica, radunandosi nella zona. Nonostante ciò, i bombardamenti di Ankara proseguono senza sosta dall’8 gennaio con il presunto obiettivo di colpire i gruppi armati curdi, quando in realtà a perdere la vita sono soprattutto civili e giornalisti.

Dilyar Jazizi, co-presidente dell’Unione dei media del nord-est della Siria, traccia un quadro della situazione alla diga di Tishreen, divenuta un punto chiave del conflitto nell’era post-Assad: «Le forze turche e i loro mercenari continuano ad attaccare questo luogo strategico, ancora sotto il controllo dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria settentrionale e orientale (Daanes). Con aerei da guerra e droni cercano di prenderne il controllo e distruggere le infrastrutture che garantiscono servizi essenziali a oltre cinque milioni di civili».

Non è solo una diga: è un pilastro della sopravvivenza dell’idea di una Siria democratica. Nel contesto del regime-change in corso, il suo controllo è diventato cruciale: dalla sua integrità dipende la continuità dell’esperienza rivoluzionaria. Se dovesse cadere, le bande jihadiste sostenute e dirette dalla Turchia avrebbero via libera verso Kobane e il cuore della rivoluzione confederale.

JAZIZI AFFERMA che la resistenza alla diga di Tishreen si basa su tre pilastri: militare, civile e mediatico. Gli fa eco Ziyad Rusteem, co-presidente del Consiglio per l’energia di Daanes che in una recente intervista ha dichiarato: «La Turchia ha condotto una guerra mediatica sui social diffondendo informazioni false, come se la città di Manbij fosse caduta e la diga fosse sotto il loro controllo. Tuttavia, quando i giornalisti curdi hanno raggiunto Tishreen, la verità è emersa. Hanno rivelato chi ne detiene realmente il controllo, confermando che è ancora nelle mani delle Forze democratiche siriane (Sdf), ossia della popolazione locale».

L’eliminazione dei giornalisti curdi non è un effetto collaterale, ma una strategia deliberata per spegnere chi contrasta la propaganda di Erdoğan e svela la realtà sul campo. Con le trattative tra Daanes e il governo provvisorio di Damasco in corso e il recente appello del fondatore del Pkk Abdullah Öcalan per la fine della lotta armata, Ankara punta a delegittimare le Sdf, mostrandole come deboli e frammentate.

Indebolirle mediaticamente significa minare il peso politico del movimento curdo e rafforzare la propria posizione negoziale. Intanto, sul terreno, la repressione continua: con bombe, droni e il silenzio imposto a chi racconta la verità.

 

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