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Non solamente io!

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Il forte grido di dolore delle ragazze afghane davanti all’indifferenza per le continuate privazioni di ogni loro spazio vitale, cui sono costrette dalle leggi fondamentaliste talebane e della diffusa mentalità ignorante e misogina

Samana Jafari, 8AM Media, 22 giugno 2025

Ero seduta sulla sedia, ma la mia anima era altrove. Le gambe mi tremavano per l’ansia e le dita erano strette l’una all’altra. Le tecniche di respirazione profonda si stavano rivelando inefficaci e lo stress si faceva sempre più opprimente. Mezz’ora prima avevano annunciato che l’esame sarebbe iniziato con un’ora di ritardo, il che significava altri trenta minuti intrappolati in questa tensione soffocante. Anche la ragazza seduta accanto a me sembrava nervosa, forse anche più di me. Feci un respiro profondo e cercai di distrarmi. Tanto per rompere il ghiaccio, le chiesi: “A che livello sei?”.

Lei mi guardò e disse: “A1”.
Perfetto. Eravamo allo stesso livello.

Il lenimento della musica

Continuai la conversazione fino ad arrivare alla domanda che rivolgevo sempre e che aveva sempre dato un solo tipo di risposta. «Perché stai studiando il tedesco?»

Potrei giurare di aver visto il dolore affiorare nei suoi occhi. Riconobbi il groppo in gola e le lacrime pungenti che le si appiccicavano alle ciglia. Neanche lei se la passava bene.

«Non c’è altra scelta», rispose. «Per tre anni ho bussato a tutte le porte per poter seguire le cose che amo, ma non se n’è aperta nemmeno una. Ora sono solo stanca”.

Rimasi in silenzio,  non avevo nulla da offrirle come conforto. Anch’io ero stanca, stanca di lottare e di non raggiungere mai alcun risultato. In effetti, tutte in quella classe erano esauste, tutte avevano preparato le valigie per fuggire da un Paese in cui non c’era posto per loro.

Avvertendo il mio silenzio, aggiunse: “Ti piace la musica? A me piace molto cantare”.

Io e la mia amica illuminammo al solo sentir parlare di musica. Raccontammo quanto la musica significasse per noi e la mia amica parlò delle sue esperienze canore durante gli inni scolastici.

Quei giorni sembravano ormai un sogno lontano: i giorni in cui ci avvolgevamo i nastri neri, rossi e verdi intorno ai polsi, mettevamo le mani sul cuore e cantavamo con orgoglio l’inno nazionale davanti a centinaia di persone. Giorni in cui l’insegnante non si presentava e noi chiedevamo al nostro amico di recitare le poesie in Dari dal nostro libro di testo con una melodia. Giorni in cui cantavamo tutti all’unisono:

“La luce del risveglio ha riempito il mondo,
Per quanto tempo dormirai nell’ignoranza, o compagno?”.

Anche la ragazza condivise con noi i suoi ricordi legati al canto. Desiderose di sentire la sua voce, le chiedemmo se poteva canticchiare qualcosa per noi. Lo fece, ma la canzone che scelse scatenò una ribellione dentro di me, una ribellione di sentimenti sepolti che dovevano essere liberati.

Lei cantò e io mi immersi nei ricordi, nelle parole che avevo conservato per tre anni: le prese in giro che avevo sopportato nei momenti peggiori, le frecciatine crudeli di chi mi circondava.

“O, mia patria, ancora una volta, eccoti qui con le spalle al Pamir,
Scuoti le stelle, perché l’alba si diffonda”.

Solo io, con milioni di ragazze

Ancora oggi qualcuno mi ha detto: “È un bene che le scuole abbiano chiuso. Stavi studiando solo per necessità”. La sua risata dopo – un pugnale conficcato nel cuore – è stata insopportabile.

“Scrollati di dosso le stelle, perché le stelle di questa città
sono tutte cicatrici di ferite, tutti ricordi di catene”.

Solo pochi giorni prima, qualcun altro mi aveva detto: “Nessuno rimane analfabeta. Tu non puoi andare a scuola – gli altri vivono una vita perfettamente normale”. Strano come, in un paese in cui a milioni di ragazze è vietato l’accesso all’istruzione, a ognuna di noi venga detto: solo tu. Solo io? E la prossima generazione? Le ragazze in prima media quest’anno? Quelle che si sono unite a noi solo due mesi fa? Solo io? E la ragazza in nero, seduta di fronte a me?

“Io sono la speranza di un giorno, quando ti vedrò come meriti,
Un’immagine dai mille colori, come le ali di un pavone”.

Anche lei aveva dei sogni: forse, con la sua bella voce, sperava di studiare musica un giorno. Ma ora aveva messo a tacere quella voce, l’aveva sepolta in fondo alla sua anima, solo per poter rimanere in questo paese. E per cosa? Che cosa offre questo Paese per scegliere una vita invisibile qui piuttosto che una visibile altrove? Perché, nonostante tutte le ingiustizie che questa terra ci infligge, cantiamo ancora canzoni per la nostra patria con tanta passione?

“Lascia che i fiori, il grano e i papaveri fioriscano nei tuoi campi,
lascia che il sole sorga dalle tue spalle orgogliose”.

Cos’ha questa terra che ci spinge a morire per essa, anche quando non ci è permesso camminare liberamente tra i suoi campi in fiore? Perché ci vergogniamo di aver deciso di andarcene? Perché altri se ne sono andati così facilmente, hanno fatto le valigie al primo segno di un’altra bandiera nel cielo e non si sono mai voltati indietro?

“O mia patria, che nessuno dei tuoi germogli pianga mai, 

Che nessuno soffochi nel tuo dolore.”

A questo punto della canzone, la sua voce si incrinò per l’emozione. Lei stava male e noi stavamo peggio. Perché il mondo continuava a dire “soltanto tu” a milioni di persone come noi? Giuro sul Dio in cui credo, non sono solamente io.

Perché nessuno vuole capire?

Quel giorno non risposi. La guardai soltanto, con gli occhi colmi di dolore. Perché qui nessuno ci capisce. E non avrebbero bisogno delle nostre parole per capire. Tutto è visibile: nei nostri occhi addolorati, nelle nostre voci strozzate dalle lacrime, nel pianto nascosto nella notte, nelle statistiche internazionali, in ogni angolo di questa geografia ferita.

Tutto è sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno vuole capire.

Nessuno vuole ammettere che non sono l’unica. Vorrei essere soltanto io, perché mi sono abituata a piangere di notte e se la mia assenza potesse portare gloria alla mia patria, se la mia presenza qui fosse la causa della povertà, dell’insicurezza, dell’impotenza, allora scomparirei volentieri. Vorrei che sacrificando me, solo me, si potessero ricucire i pezzi rotti del mio Paese.

Ma nessuno vede. Nessuno capisce.

Se sono l’unica a essere stata privata di qualcosa, perché ho dovuto camminare per chilometri, controllando tutte le biblioteche che ho incontrato, per trovare dei libri di testo per la dodicesima classe? Sono l’unica? E allora chi sono queste ragazze esauste intorno a me, quelle che hanno scelto questa classe per sfuggire alla propria disperazione? Perché qualcuna si è data fuoco e nessuno se n’è accorto? Perché qualcuna si è buttata da questo stesso edificio e nessuno l’ha vista? Perché nessuno ha notato il tremito nella voce di quella ragazza?

Perché sono diventati tutti ciechi e sordi?

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