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Autore: Anna Santarello

Afghanistan, non c’è pace senza giustizia per le donne

Il Manifesto – 3 marzo 2020, di Giuliana Sgrena

donnepaceL’accordo Usa-Taleban. La situazione delle afghane, che hanno sostituito il burqa con l’hijab, non fa più notizia e non rientra nell’agenda dei negoziati.

L’Onu e diversi studi a livello internazionale sostengono che la presenza delle donne nei negoziati di pace per risolvere i conflitti fa la differenza, non solo per la riuscita e la qualità dell’accordo ma anche per la formazione dell’agenda delle trattative. Purtroppo il contrario di quel che accade in Afghanistan.

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Accordi USA-Talebani? Non c’è pace senza giustizia.

3 marzo 2020, CISDA

talebani pace USAL’accordo per il ritiro delle truppe americane e della Nato dall’Afghanistan prevede la riduzione entro 135 giorni delle forze straniere da 17.000 a 8.600 uomini e il ritiro delle forze rimanenti in entro 14 mesi, a patto che i guerriglieri mantengano “gli impegni stabiliti”.

Accade dopo 19 anni di occupazione militare americana e dopo 41 anni di guerra dall’invasione sovietica, proprio negli stessi giorni in cui è stato pubblicato il report annuale di UNAMA (Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan)[1] che documenta con 135 pagine la drammatica situazione in cui versa il paese e registra oltre 10.000 vittime civili per il sesto anno consecutivo, più di 100.000 dal 2009. A partire dal 2001, il costo umanitario è stato altissimo: le vittime sono oltre 140.000, di cui almeno 26.000 civili.

Come si legge nel rapporto, le donne soffrono effetti collaterali al conflitto, quali privazione della libertà di movimento, assenza di istruzione e assistenza sanitaria. La perdita di familiari maschi le espone a discriminazione e povertà: necessitano di protezione e assistenza, avendo perso i mezzi di sussistenza e soffrendo limitazioni di accesso ai servizi di base. La violenza sessuale domina incontrastata, generando stigmatizzazioni sociali e abusi ulteriori.

Tutto all’insegna di una radicata impunità a causa della svalutazione delle denunce. Lo sanno bene le attiviste con cui siamo in contatto con continuità da quasi venti anni, scrive Simona Cataldi su Q Code Mag[2]: Belquis Roshan, senatrice della provincia di Farah, Malalai Joya, attivista indipendente ed ex parlamentare, Selay Ghaffar, portavoce del partito laico di Hambastagi, Weeda Ahmad, fondatrice dell’Associazione sociale degli afgani che cercano giustizia (Social Association of Afghan Justice Seekers – SAAJS). Tutte conducono vite difficili, di sacrificio, e si dicono consapevoli di dover “fare per sé” e autotutelarsi.

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Comunicato del KJK, Coordinamento delle comunità delle donne curde per l’8 marzo 2020

KJKIn occasione dell’8 Marzo, Giornata Internazionale delle Donne diciamo:

Trasformiamo questo secolo nell’era della rivoluzione delle donne!

Donne, sorelle, compagni;

Stiamo attraversando un periodo storico, una fase di transizione che accade una volta in un secolo. Il vecchio viene superato e il nuovo aspetta di essere costruito. Questa volta non saranno i governanti, ma noi, che determineremo come sarà il nuovo! Noi, le donne il cui cuore batte per la libertà, la rivoluzione e la vera uguaglianza, siamo la forza rivoluzionaria di quest’epoca! Siamo noi che costruiremo una vita libera ed equa.

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Per la liberazione di Reber Apo e la difesa della rivoluzione delle donne

ReteJin – marzo 2020

Marcia2020 copy Una testimonianza di una compagna della Retejin che ha partecipato alla LongMarch2020 per la liberazione di Reber Apo Ocalan e la difesa della rivoluzione delle donne.

“Se Reber Apo [Abdullah Öcalan], il leader del movimento di liberazione kurdo chiuso in un carcere, fosse un giardiniere, mi aspetterei che il suo giardino fosse selvaggio e colorato, uno spazio che si estende oltre i suoi confini con uno splendido mix di verdure, alberi, fiori e vigne. Pensando ai suoi scritti sulla trasformazione politica, lo immagino come un permaculturalista [permanente + cultura], capace di creare un giardino che asseconda la saggezza della natura […] e non destinato all’autodistruzione, come tende a essere il sistema corrente.”  da Make Rojava Green Again, 29 luglio 2019”

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Pace in Afghanistan. Quanto durerà?

Enrico Campofreda – 29 febbraio 2020

doha

Dicono pace e la firmano. Sui tavoli diplomatici di Doha, dove per mesi i rappresentanti talebani e statunitensi si sono incontrati sotto la regia di mister Khalilzad, l’ambasciatore dell’accordo. Alla stipula, evidenziata con enfasi dal Segretario di Stato americano Pompeo, erano presenti delegazioni di Pakistan, India, Turchia, Indonesia, Uzbekistan, Tajikistan e Qatar. Gli annunci delle parti hanno sottolineato ciò che a ciascuno, fra un alterco e l’altro, stava maggiormente a cuore: il ritiro delle truppe Usa per i turbanti, la cessata ostilità per le truppe a stelle e strisce. Se sarà una vera pacificazione, si vedrà nell’immediato futuro, perché in quella latitudine anche i patti sottoscritti può portarseli via il vento di interessi che restano contrapposti.

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Afghanistan, a Kabul fanno esplodere anche le biciclette mentre si parla di pace

La Repubblica – 28 febbraio 2020

kabul

La testimonianza di un cooperante medico di EMERGENCY. Dodici feriti solo ieri. Un via vai continuo nel presidio sanitario di Kabul, anche se gli attentati diminuiscono.

KABUL – Ieri, nel Centro chirurgico per vittime di guerra di EMERGENCY a Kabul, sono stati ricevuti dodici feriti. Verso le 19, ora locale, due biciclette-bomba sono esplose nel centro della città, colpendo decine di persone, tra cui alcuni giovani studenti di un istituto scolastico privato.

Tutto ciò, come al solito, durante i colloqui di pace. Un attacco che segue quello del giorno precedente, quando a causa dell’esplosione di una motocicletta nel pronto soccorso di EMERGENCY sono arrivati altri cinque feriti. Entrambi gli attacchi, non rivendicati, avvengono – come spesso avviene – durante la settimana di riduzione della violenza, annunciata dal governo di Kabul sabato scorso e frutto dei negoziati in corso tra Stati Uniti e talebani, che potrebbero portare all’avvio di veri e propri negoziati di pace.

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Dalla Siria arriva il contagio della vergogna

Alberto Negri, Il Manifesto, 28 febbraio 2020

 siria

Guerre comunicanti. Erdogan ricatta gli europei minacciando ondate di profughi sulla rotta balcanica che comincia in Grecia e non è detto che non lo possa fare anche in Libia dove tiene per il bavero il governo di Tripoli sotto attacco del generale Khalifa Haftar, alleato dei russi.


Circo mediatico al valico di Cilvegozu, presso la città turca di Hatay, confine sud-orientale della Turchia con la Siria.

Dalla Siria quasi dimenticata arriva la stagione cinica e amara dei ricatti incrociati e delle contraddizioni laceranti di un conflitto iniziato nel 2011 come una guerra civile diventata sempre di più una guerra per procura tra potenze internazionali e attori regionali. In un’area, il Medio Oriente, dove le azioni di destabilizzazione – cominciate quest’anno con l’assassinio da parte degli Usa del generale iraniano Qassem Soleimani – si accavallano alle devastanti crisi economiche, politiche e sociali interne che non lasciano scampo ai cittadini siriani, curdi, iracheni, libanesi, iraniani, palestinesi.

A noi qui in Europa, per la nostra indifferenza, la mascherina del Coronavirus serve soprattutto a evitare il contagio della vergogna di non guardare quanto accade intorno a noi. Ma forse ancora per poco.

A Idlib lo scenario è quello di un’immane tragedia umanitaria e di uno scontro aperto su larga scala tra Turchia e Siria nel quale Mosca, il principale sponsor di Assad con l’Iran, non può certo fare la parte dell’attore neutrale ma appare anche l’unica potenza in grado di intervenire per abbassare una tensione giunta al culmine con l’attacco aereo di Bara e Balyoun in cui sono stati uccisi 33 soldati turchi.

Erdogan ricatta gli europei minacciando ondate di profughi sulla rotta balcanica che comincia in Grecia e non è detto che non lo possa fare anche in Libia dove tiene per il bavero il governo di Tripoli sotto attacco del generale Khalifa Haftar, alleato dei russi. Nella guerre comunicanti di Siria e Libia tutto è possibile. In Grecia intanto la guerriglia per i campi profughi in costruzione sulle isole sta già favorendo l’azione di propaganda dei neonazisti di Alba dorata.

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Social offline in Turchia, opposizioni all’attacco: l’Akp perde terreno

Chiara Cruciati, Il Manifesto, 28 febbraio 2020

 Il messaggio di Demirtas dal carcere

Turchia/Siria. Sedici ore di blocco dopo la notizia dell’uccisione di 33 soldati a Idlib. Il Chp chiede una sessione di urgenza al presidente del parlamento, che la nega. Il leader detenuto dell’Hdp: «Ora si alzi la voce della pace»

Foto: Il messaggio di Demirtas dal carcere.

Per sedici ore, tra la sera di giovedì e il primo pomeriggio di ieri, i social media in Turchia non hanno funzionato. A dirlo è NetBlocks, organizzazione che monitora gli shutdown di internet in giro per il mondo.

Dal lancio della notizia dell’uccisione di 33 soldati turchi a Idlib Facebook, Twitter, Instagram, YouTube, WhatsApp non erano utilizzabili. Meglio evitare, verrebbe da dire, la tempesta di post e commenti che avrebbero messo in imbarazzo il governo turco.

All’interno del paese la situazione è sempre meno stabile. Con l’economia ferma al palo (cresciuta solo delle 0,9% nel 2019, dopo la crisi estiva che ha fatto collassare la lira e impennare l’inflazione) e Ankara incapace di coprire le spese per i mega progetti infrastrutturali voluti dal presidente Erdogan e la sua galassia familistico-imprenditoriale, il consenso cala. Lo si è visto appena sei mesi fa con Istanbul passata dalle mani dell’Akp a quelle del sindaco del Chp Imamoglu. A marzo era toccato alla capitale.

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