In strada con gli “Ambasciatori di gentilezza”. Gli artisti educano i ragazzi e sfidano i talebani
KABUL – Quando la voce di Masooma Mohammadi si diffonde nel giardino del caffè, dai tavolini accanto gli avventori alzano appena lo sguardo dietro la siepe di rose. Poi riprendono la teiera d’acciaio, versano bevanda aromatizzata allo zafferano e si rimettono a chiacchierare. Ne è passato di tempo da quando i seguaci del mullah Omar impiccavano i televisori e vietavano danze e canti in tutto l’Emirato islamico d’Afghanistan.
«La gente deve passare più tempo alla moschea», diceva allora il mullah Qalamuddin, incaricato di impedire la corruzione della cultura tradizionale. Ma quegli anni sono lontani per l’Afghanistan che sabato è andato alle urne per scegliere il suo presidente, fra paura di attentati e instabilità. Ai tempi dell’Emirato, Masooma non era nata e i suoi amici erano ancora bambini.
Sono cinque, tutti attorno ai vent’anni: una voce, due chitarre, un violino e una telecamera.
La Stampa – Francesco Semprini – 29 Settembre 2019
Sono poche ma determinate. Sfidano i pregiudizi tribali e le minacce dei terroristi
«I nostri padri hanno combattuto contro gli invasori, i nostri mariti combattono contro gli oppressori, è nostro dovere essere qui, questa è la nostra linea del fronte». Zarghwan Wardak indossa il gilet azzurro della Commissione elettorale indipendente ed è presidente di uno dei seggi femminili della scuola Abozagghazari, nella periferia di Kabul.
Quando le chiediamo se non teme le ritorsioni dei taleban tira fuori il guerriero che è in lei: «Lo facciamo per le nostre figlie». Dinanzi alla desolazione delle urne sono le donne la vera «resistenza» afghana contro guerra e miseria.
Come Bahar studentessa di oftalmologia che una volta terminati gli studi vorrebbe andare in Canada per la specializzazione. Ci guarda incuriosita mentre sta per attraversare la cancellata dell’università di Kabul, sul viso fard e rimmel: «Non è mica un reato», ci dice. È senza dubbio una sfida però, specie in certe aree dell’Afghanistan, come Ghazni la città controllata dai taleban che l’aspirante oculista ha lasciato per venire a studiare nella capitale. È determinata ad andare a votare, «per chi non ve lo dico, ma lo sento come un dovere nei confronti dei miei genitori che mi hanno permesso di essere libera in un posto dove a molte ragazze come me è vietato andare a scuola».
I Am The Revolution racconta una rivoluzione necessaria e lontana. Racconta di donne leader e donne comandanti che combattono una stessa guerra in modi e in mondi diversi. In Afghanistan, con Selay Ghaffar (portavoce del Partito della solidarietà), in Siria (con Rodja Felat, comandante delle Forze democratiche siriane) e in Iraq, con Yanar Mohamed (che lavora con le donne in fuga dalla violenza).
Donne che hanno capito che la rivoluzione non si fa. Si è.
9/10 alla Casa delle Donne di Milano – via Marsala 8/10 – alle ore 19,30 CRISTINA CATTAFESTA (Presidentessa CISDA) e ZILAN DIYAR (Comitato Europeo di Jineoloji) presenteranno il film Contributo per il CISDA 5€ “a seguire aperitivo per le Socie della Casa”
11/10 alla LUD – MILANO, Corso di Porta Nuova 32 – alle ore 16 proiezione del documentario e dibattito con la regista, Benedetta Argentieri, e Laura Quagliuolo del CISDA
Si è aperto all’insegna del terrore il primo turno delle presidenziali in Afghanistan, che vede opposti il presidente uscente Ghani e il capo dell’esecutivo Abdullah.
Un voto per mascherare un fallimento. Un voto insanguinato per eleggere un presidente che controlla neanche la metà del territorio sul quale dovrebbe governare. Si è aperto all’insegna del terrore il primo turno delle presidenziali in Afghanistan, che vede opposti il presidente uscente Ashraf Ghani e il capo dell’esecutivo Abdullah Abdullah. Dopo settimane costellate di attentati firmati dai talebani con l’intento dichiarato di far saltare le elezioni, attacchi sono stati registrati all’apertura dei seggi in diverse zone del Paese. Almeno due persone morte e diverse ferite in vari attentati durante lo svolgimento delle elezioni presidenziali in Afghanistan.
Diciassette i feriti, a detta delle autorità locali. Presso un seggio elettorale nella provincia orientale di Nangarhar, nel distretto di Sorkh Rod, l’esplosione di una mina ha causato una vittima e 3 feriti, come riferito da rappresentanti del consiglio provinciale di Sohrab Kaderi. E un osservatore alle operazioni di voto è morto in seguito al lancio di un razzo nei pressi di un seggio a Kundus, nel nord del Paese, come riferito dal consigliere provinciale Maulawi Abdullah.
Per quello che riguarda l’attentato di stamattina a Kandahar in cui sono stati ferite 15 persone tra civili ed un agente di polizia, la bomba deflagrata era stata nascosta all’interno di un amplificatore di una moschea utilizzata come seggio. Complessivamente a Kandahar sono state disinnescate o fatte brillare dalle forze di sicurezza afgane almeno 31 esplosivi. Piccole esplosioni sono state segnalate anche nella capitale Kabul, ma non ci sono ancora notizie certe su possibili feriti. Secondo l’ong Emergency 18 persone “ferite in diverse zone” sono ricoverate nel suo ospedale di Kabul, dove sono in “arrivo almeno altri otto” feriti.
La Stampa – 28 settembre 2019 – Francesco Semprini
ARDAK (AFGHANISTAN). Le lingue di fuoco dalla bocca del cannone disegnano un inferno giallorosso che ingoia l’azzurro opaco del cielo sopra Kabul. Il boato di artiglieria pesante squarcia il silenzio della vallata dove, imboscati, i nemici sono pronti a sferrare attacchi su postazioni militari e seggi elettorali. Il cannone da 122 millimetri fa sentire di nuovo la sua voce, la coltre di polvere è accompagnata dall’urlo del colonnello Hamidullah Kohdawani: «Obiettivo centrato». Siamo nella provincia di Wardak epicentro degli scontri tra forze governative e formazioni talebane determinate a trasformare in un bagno di sangue l’appuntamento alle urne per l’elezione del presidente.
È il voto più difficile dall’11 settembre 2001, anche perché è il primo la cui sicurezza è totalmente affidata agli afghani, polizia ed esercito, senza l’ausilio della coalizione Nato che dal gennaio 2015, con il cambio della missione da Isaf a Resolute Support, ha smesso ogni attività “combat” assumendo compiti esclusivi di assistenza e addestramento. Dopo 18 anni però la guerra continua, ogni giorno ci sono combattimenti in circa venti delle 34 provincie del Paese dove almeno 2 mila dei 7 mila seggi rimarranno chiusi per motivi di sicurezza. Macchiato da una lunga scia di sangue e da due rinvii del voto, l’anno delle presidenziali, secondo Unama la missione Onu presente nel Paese, ha registrato nella sua prima metà circa 4 mila tra morti e feriti nella popolazione civile.
Il ministero dell’Interno ha annunciato il dispiegamento di 72 mila uomini ai circa 5.000 seggi elettorali aperti nel Paese, che sono stati aperti alle 7 ora locale e che dovrebbero chiudersi alle 15. Al voto in 9,5 milioni elettori.
KABUL. È di almeno due morti e 17 feriti il bilancio di una serie di esplosioni e attacchi con razzi registrati in Afghanistan nel giorno delle elezioni presidenziali. L’esplosione di una bomba in un seggio nel distretto di Sorkh Rod, nella provincia orientale di Nangarhar, è costata la vita ad almeno una persona e ha provocato il ferimento di altre tre. Il bilancio dell’attacco messo a segno in una scuola è stato confermato all’agenzia Dpa dal consigliere provinciale Sohrab Qaderi.
Un’altra esplosione è avvenuta a Kandahar all’interno di una moschea, usata come seggio. Qui, secondo l’ufficiale di polizia Mohammad Qasim Azad, si contano 14 feriti, compreso un agente. Attacchi con razzi nella provincia settentrionale di Kunduz sono costati la vita ad almeno un osservatore impegnato a monitorare il processo elettorale, come confermato dai consiglieri provinciali Ghulam Rabbani Rabbani e Mawlawi Abdullah. Rabbani ha accusato i Talebani per gli attacchi.
Gli Stati Uniti sono stati accusati numerose volte di fornire varie forme di supporto a Daesh e ad altri gruppi terroristici che operano nella regione. I Servizi speciali statunitensi sono coinvolti nel trasferimento dei militanti Daesh nelle regioni settentrionali dell’Afghanistan con l’obiettivo di destabilizzare la situazione ai confini con il Commonwealth of Independent States (CIS1). Questo è quanto è stato dichiarato da Sergey Beseda, capo del dipartimento relazioni internazionali del Servizio di sicurezza federale russo.
“Abbiamo ricevuto informazioni sul coinvolgimento dei servizi speciali statunitensi nel trasferimento dei combattenti di Daesh nelle regioni settentrionali afghane per destabilizzare la situazione ai confini meridionali della CSI e successivamente in Asia centrale”, ha dichiarato Beseda all’incontro.
Secondo un funzionario, le agenzie di sicurezza e i servizi di intelligence dei paesi della CSI devono identificare tempestivamente le minacce per garantire la sicurezza degli stati della CSI.
Gli Stati Uniti sono stati accusati numerose volte di fornire varie forme di supporto a Daesh e ad altri gruppi terroristici che operano nella regione.
Nel 2018 il capo dello stato maggiore iraniano, il maggiore generale Mohammad Hossein Baqeri, ha accusato gli Stati Uniti di trasportare terroristi Daesh in Afghanistan dopo essere stati sconfitti in Siria e Iraq per mantenere la tensione nella regione, usandolo come scusa per rimanere più a lungo nel Paese.
1) La Comunità degli Stati Indipendenti nacque nel dicembre 1991 con la firma dell’Accordo di Belaveža, sottoscritto dai Capi di Stato di Bielorussia, Russia e Ucraina . L’annuncio dell’accordo, a cui furono invitate anche le altre repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancì di fatto la fine stessa dell’URSS. Hanno aderito alla CSI i leader di Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e nel dicembre 1993 si è unita anche la Georgia.
Il Ministero della Sanità Pubblica afghano ha riferito che negli ultimi 12 mesi le violenze nel Paese hanno causato la morte di oltre 3.300 civili e il ferimento di oltre 14.600 persone.
Il periodo di tempo considerato va dal 16 settembre 2018 al 10 settembre 2019. “Raccogliamo dati in tutte e 34 le nostre province e quando i numeri vengono verificati li inseriamo nel sistema”, ha dichiarato Mir Lais Mustafa, capo del Dipartimento di Risposta agli Incidenti del Centro di Comando e Controllo afghano. Il rapporto non specifica a chi siano da attribuire le responsabilità di tali decessi. Tuttavia, il documento specifica che i civili morti a causa di attentati kamikaze sono ben 460 e i feriti ammontano a 1.200. Queste morti sono facilmente attribuibili ai talebani e le altre vittime sono la conseguenza, invece, di scontri o di attacchi aerei ordinati dal governo afghano.
Una Commissione indipendente per la tutela dei diritti umani ha sollevato preoccupazioni riguardanti le vittime civili causate dalle operazioni e dagli attacchi aerei delle forze armate afghane, supportate da Paesi stranieri. “Sfortunatamente, abbiamo visto vittime civili delle operazioni delle forze di sicurezza nel distretto di Sayed Abad, nella provincia centrale di Wardak, e nel distretto Khogyani, della provincia di Nangarhar”, ha dichiarato Abdul Shakur Mashkur, membro della Commissione indipendente per i diritti umani. Il Ministero della Difesa e il Ministero degli Interni afghani, da parte loro, dichiarano di aver messo in atto tutti gli sforzi possibili per prevenire vittime collaterali durante le operazioni militari. “Le forze di sicurezza si stanno impegnando a fondo per prendersi cura della vita dei civili e non danneggiarli”, ha affermato Rohullah Ahmadzai, portavoce del Ministero della Difesa. “Ogni volta che i civili vengono colpiti da un errore delle forze di sicurezza, investighiamo sull’incidente e coloro che sono stati negligenti subiscono gravi punizioni”, afferma Nusrat Rahimi, portavoce del Ministero degli Interni.
Alla Casa in Movimento – via Neruda 5, Cologno Monzese (MI) – Sabato 28 Settembre ha inizio: RENDERE POSSIBILE L’IMPOSSIBILE: IL NOSTRO MODO DI LEGGERE LA POLITICA
Da decenni la classe dominante ci propina il mantra neoliberista, dicendo che “non ci sono alternative”. E dal loro punto di vista è vero. Ma non dal nostro: non dal punto di vista degli oppressi, di coloro che scappano da fame, guerra, miseria e devastazioni ambientali. È necessario, oggi più che mai, aprire le nostre menti a vie alternative all’attuale società capitalista.
Un’alternativa ambientale che guardi all’ecosocialismo come strumento per superare la devastazione che è sotto i nostri occhi. Un’esperienza internazionale che nel Kurdistan martoriato dall’Isis, dalle armi turche, dal silenzio connivente delle potenze europee, sta cercando di costruire una società diversa. Una società che riconosca finalmente un giusto ruolo alle donne, che nel mondo capitalista e patriarcale continuano a subire discriminazioni. Senza dimenticare le esperienze locali che, tenacemente e controcorrente, tentano nei territori del nord Milano di perseguire una proposta concreta di alternativa, attraverso la lotta insieme ai soggetti oppressi.
PROGRAMMA*** SABATO 28 SETTEMBRE 2019
15.00: PRESENTAZIONE DELL’UNIVERSITÀ
15.30: POLITICA INTERNAZIONALE Il confederalismo democratico in Kurdistan: un modello di società plurale e auto-organizzato.
Relatrici: Rete Jin Milano
18:30: aperitivo conviviale
A cura di Rosso in Movimento, gruppo di autoformazione e discussione politica.
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A cinque giorni dalla pluririmandata scadenza elettorale per le presidenziali afghane c’è un candidato che sicuramente prega Allah perché si giunga al voto. È il presidente uscente Ashraf Ghani, il fantoccio statunitense osteggiato da taliban e dagli altri candidati, compreso l’amico-nemico di governo Abdullah.
Gli attentati che fino a una settimana fa hanno cercato di riproporre un ennesimo rinvio per ragioni di sicurezza non ne hanno piegato la convinzione, ma più che saldezza democratica l’ostinazione con cui Ghani resta attaccato a quest’elezione riguarda il suo futuro. Infatti è da tempo il grande escluso dalla vita politica nazionale, un paradosso per chi riveste la carica più alta d’un Paese, pur disastrato com’è l’Afghanistan.
Ma si tratta d’un Paese che non esiste. Continua soltanto a essere un luogo di morte per la guerra strisciante fra gli occupanti della Nato e i talebani che rivendicano il ruolo di resistenti all’invasore.
Nell’anno in cui i contendenti statunitensi e i turbanti di Quetta si sono ripetutamente incontrati per discorrere del futuro prossimo, Ghani è rimasto fuori dalla porta, considerato indesiderato e indegno dalla delegazione della Shura, senza che gli americani obiettasse nulla. Per questo il ‘presidente senza potere’ si spende da tempo per il ritorno alle urne, senz’altro previsto come scadenza, ma in un sistema completamente svilito.