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Autore: Anna Santarello

New campaign #SOSTurkey

Vi invitiamo a firmare l’appello dell’Istituto curdo di Bruxelles al link :
http://www.kurdishinstitute.be/new-campaign/

Lunedì 23 ottobre l’Istituto Curdo, in coordinamento con altre organizzazioni e individui di supporto, lancerà una nuova campagna chiamata #SOSTurkey
L’obiettivo è quello di formare un’ampia rete di solidarietà a sostegno di coloro che soffrono dalle purghe e di richiedere una democratizzazione della Turchia.
Di seguito il testo della piattaforma per la campagna che è ora aperta a tutti, sia organizzazioni che individui, per firmare!

#SOSTurkey
Noi, i firmatari, vogliamo esprimere la nostra preoccupazione per la repressione in Turchia. Dopo il fallito tentativo di colpo di stato del 25 luglio 2016, il giro di vite (reale o percepito) che ha colpito i critici del regime turco si è velocemente allargato a tutti i settori della società. Più di un centinaio di migliaia di persone sono state licenziate, un numero analogo è stato perseguitato e/o imprigionato, e moltissime di queste persone hanno visto i propri beni confiscati. Nel frattempo i cambiamenti costituzionali che trasformeranno la Turchia in un sistema presidenziale daranno sempre più poteri ad un’unica persona, il presidente turco.
Grazie allo stato di emergenza il regime turco sta limitando pesantemente le libertà fondamentali, come la libertà di assemblea e la libertà di stampa, vietando scioperi e manifestazioni e chiudendo oltre 180 mezzi di comunicazione. Nessun paese ha un numero maggiore di giornalisti in carcere. La repressione contro il mondo accademico era già iniziata all’inizio del 2016 con i processi contro gli oltre mille accademici che avevano firmato una petizione per fermare la guerra nella regione curda. Dopo il tentativo di colpo di stato è stata messa in atto una purga su larga scala dell’intero sistema d’istruzione.

E intanto i nuovi programmi scolastici hanno messo al bando la teoria dell’evoluzione ed aggiunto lezioni sull’islam e la jihad.
L’opposizione politica è stata bersagliata pesantemente, specialmente il partito pro-curdo HDP. I co-presidenti, parecchi parlamentari e migliaia di membri del HDP sono stati messi in carcere. Nel sud-est curdo le autorità turche hanno epurato sindaci democraticamente eletti e li hanno sostituiti con amministratori governativi. Questo mentre la rinnovata guerra nel sud-est ha lasciato intere città distrutte e oltre mezzo milione di persone senzatetto.

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Gli interessi della Cina in Afghanistan che tagliano fuori gli Stati Uniti.

Gli occhi della guerra – Lorenzo Vita, 13 ottobre 2017

LAPRESSE 20170930140406 24458578Quando si parla di Afghanistan, di solito si tralascia uno degli attori fondamentali dell’Asia: la Cina. Abituati a leggere le notizie sulle truppe occidentali nel Paese, sui rischi del terrorismo islamico, i talebani e gli attori esterni nel grande gioco afghano, Pechino viene sempre tralasciata, come se fosse estranea a tutto ciò che avviene all’interno del Paese.

In realtà, è bene ricordarlo, la Cina non solo ha enormi interessi nell’Afghanistan, ma ci confina anche. Un piccolo lembo dell’Afghanistan, corrispondente al corridoio del Vacan, confina con il colosso cinese. E questo confine terrestre, di poche decine di chilometri in totale, rende, di fatto, i due Paesi molto più connessi di quanto si possa credere o di quanto si possa leggere quotidianamente. Questa connessione, soprattutto negli ultimi mesi (forse anni) si sta facendo estremamente rilevante. E può avere un peso specifico molto importante non soltanto sullo stesso conflitto che insanguina l’Afghanistan da ormai 16 anni, ma anche su tutta la struttura geopolitica dell’Asia centrale.

Le ultime mosse cinesi, in particolare dal 2015, dimostrano un costante interesse per l’Afghanistan. Un dato su tutti basta a fugare ogni dubbio su come e quanto Pechino abbia a cuore il problema: l’80% dei diritti estrattivi delle risorse minerarie afghane è in mano alla Cina. Già solo questo basta a far comprendere l’importanza del Paese per gli interessi cinesi. In un momento di crescita costante del gigante asiatico, la richiesta di metalli è molto importante. La Cina sta convertendo la sua industria e necessita di molte materie prime di cui Kabul è ricca. Parliamo soprattutto di rame, metalli rari e di elementi utili a tantissime componenti elettriche. Basti pensare soltanto al litio, di cui sembra che l’Afghanistan sia in possesso del più grande giacimento al mondo. Fatto tra l’altro ben noto anche al Pentagono che ha definito già nel 2007, l’Afghanistan proprio come “l’Arabia Saudita del litio”.

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Tribunale irakeno ordina l’arresto di funzionari curdi pro indipendenza.

AsiaNews.it – 12 ottobre 2017

IRAQ curdi arresti indipendenzaIl provvedimento riguarda un gruppo di ufficiali coinvolti nelle operazioni di supervisione del voto. Il referendum è “contrario alle direttive dell’Alta corte federale”. Per i curdi la vittoria del “sì” conferisce il mandato pre trattare la secessione. Per Baghdad è un voto senza valore e in contrasto con la Costituzione.

Baghdad (AsiaNews/Agenzie) – Un tribunale federale irakeno ha ordinato l’arresto di un gruppo di funzionari del Kurdistan, coinvolti nell’organizzazione del controverso referendum per l’indipendenza che si è tenuto il mese scorso nella regione autonoma. Il mandato di arresto, emanato dalla corte di inchiesta di Rusafa, a Baghdad, è diretto ai membri della commissione elettorale della regione curda.

Il 25 settembre scorso la regione autonoma nel nord dell’Iraq ha tenuto un referendum per l’indipendenza, che si è chiuso con una schiacciante vittoria dei favorevoli (oltre 90% di sì). Il voto si è svolto anche nel territorio conteso di Kirkuk.

Il Primo Ministro Haider al-Abadi ha chiesto a più riprese la sospensione del controverso voto. In risposta, i leader curdi hanno risposto rivendicando la legittimità del referendum.

Ieri il tribunale di Rusafa ha annunciato “misure legali” in arrivo dall’ufficio del pubblico ministero, contro una serie di funzionari del Kurdistan coinvolti nelle operazioni di “supervisione” del voto. Abdulstar Bayraqdar, portavoce del tribunale, sottolinea che i mandati di arresto seguono un’azione legale intentata in precedenza dal Consiglio per la sicurezza nazionale, secondo cui il referendum era “contrario alle direttive dell’Alta corte federale”.

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Turchia: AI chiede il rilascio di 11 difensori dei diritti umani dopo 100 giorni di carcere.

Pressenza International Press Agency – 11 ottobre 2017, Amnesty International

9055575076 8a9383e1f9 k 720x398Cento giorni dopo il loro ingiusto arresto, Amnesty International ha preso la guida della richiesta globale di scarcerare 11 noti difensori dei diritti umani in Turchia.

Dieci di loro, compresa la direttrice di Amnesty International Turchia İdil Eser, sono stati arrestati il 5 luglio, un mese dopo l’arresto di Taner Kılıç, presidente dell’associazione. Il 4 ottobre un pubblico ministero ha chiesto per loro 15 anni di carcere sulla base di pretestuose e assurde accuse di terrorismo.

“Cento giorni dopo, i nostri colleghi sono ancora in carcere per aver difeso i diritti umani. Ogni giorno in più in cella mostra ulteriormente la lunga gittata della repressione successiva al tentato colpo di stato e le profonde manchevolezze del sistema giudiziario turco”, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International.

“La richiesta del pubblico ministero è una miscela velenosa di insinuazioni e falsità che non resterebbero in piedi di fronte alla minima contestazione e reitera ridicole e contraddittorie prove che non troverebbero spazio in qualsiasi tribunale che volesse rispettare il proprio ruolo”, ha aggiunto Dalhuisen.

Tre mesi dopo l’arresto, non è affatto sorprendente che dalle indagini non sia emersa alcuna prova concreta a sostegno delle fantasiose accuse del pubblico ministero. Né è stato dimostrato come il seminario di formazione presuntamente segreto svolto sull’isola di Buyukada avesse in alcun modo a che fare col terrorismo.

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Il balletto tra Turchia e Russia

Caratteri Liberii – 10 ottobre 2017

h 51685402 1160x841L’esercito turco sta per entrare nell’area di Idlib, nel nord della Siria, che da tempo è stata liberata dall’ISIS ed è controllata da un mix di forze ribelli anti-Assad. Le forze turche sarebbero appoggiate da alcune milizie ribelli di Aleppo, da tempo sostenute da Ankara. Inoltre avrebbero la protezione aerea della Russia, secondo quanto ha dichiarato un portavoce del governo turco.

I Turchi avevano già inviato militari in Siria a sostegno dell’operazione ‘scudo dell’Eufrate’ contro l’ISIS, ma ne avevano approfittato per condurre attacchi soprattutto contro i combattenti curdi del Rojava, impegnati a combattere l’ISIS.

La Turchia ha sostenuto per anni alcune forze ribelli a Idlib. Nel corso del 2016 le ha abbandonate e ora pare aver raggiunto un accordo con i Russi, che invece sostengono Assad.

Nei mesi scorsi si sono tenuti molti incontri ad Astana (in Kazakhistan) fra rappresentanti di Iran, Russia e Turchia, oltre che di alcune milizie ribelli. Il risultato è stata la decisione di aprire ‘aree di raffreddamento’ (de-escalation zones) in Siria, da cui permettere la ritirata dei combattenti verso altre regioni, o il loro ritorno a casa e l’abbandono delle armi. La zona di Idlib è una di queste aree, e la Turchia pare aver ottenuto il compito di riportarvi l’ordine, anche a nome dei Russi e di Assad.

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Così si vive in Kurdistan. Sarti che fanno fortuna cucendo bandiere. Ieri col sole raggiante e oggi nere di lutto per l’addio a Talabani.

Il Foglio  – di Adriano Sofri, 10 ottobre 2017

GN4 DAT 1458821.jpgC’è una baracca, al bazar attorno alla Cittadella, che vende quasi solo chiodi, nuovi, raddrizzati o storti e da raddrizzare, con tre tariffe differenti, naturalmente. Ci passo parecchio tempo. Chi sta lontano chiede spesso come si viva in questo Kurdistan, con una sentita apprensione.

Si vive così, “normalmente”, vendendo e comprando chiodi (pochi) o oro a 24 carati (di più), sul permanente rumore di fondo degli eventi clamorosi che porta ogni nuovo giorno: una guerra che si è appena spazzata via, un’altra che preme alle porte, gli aeroporti svuotati, la scommessa vinta di un referendum per l’indipendenza, il vecchio Mam Jalal che muore nel momento giusto, il viavai diplomatico del mondo intero, le minacce e le promesse, e le bandiere dappertutto, ieri col sole raggiante, oggi nere di lutto, domani chissà. Un sarto turcomanno, pur scusandosi coi suoi notabili, si è augurato un referendum all’anno per farsi ricco con le bandiere tagliate e cucite da tutta la famiglia. La cassa di Jalal Talabani era coperta dalla bandiera curda: qualche notabile iracheno e una televisione araba hanno interrotto presenza e trasmissione per protesta. Ma no, hanno detto all’indomani i curdi, strizzando l’occhio, è stata una distrazione del cerimoniale.

Al funerale di Talabani, venerdì, nessuno ha dato cifre sulla partecipazione, impressionante: “C’era mezzo Kurdistan”, ha detto qualcuno. “Il referendum aveva votato, il funerale ha ratificato”, ha detto il mio amico Lokman. Da Erbil a Suleymanyah, passando per Kirkuk e per una mezza dozzina di check-point, nessuno mi ha chiesto un documento: “Bakher beyt”, dicono, con la mano sul petto, benvenuti. La calca di Suleymanyah era tale da spaventare più di ogni aggressione esterna, e non c’è stato il minimo incidente, come nel giorno del referendum, del resto. Hanno un misterioso modo di sentirsi sicuri questi curdi. Alla solenne cerimonia funebre tenuta a Erbil ho guardato sfilare e prendere posto tutti i notabili: lo spettacolo più vicino a un congresso democristiano siciliano guardato da Leonardo Sciascia, a condizione che Sciascia potesse guardarlo con una certa simpatia. (La Dc infatti era divisa, più che in correnti, in tribù). Ognuno è a suo modo un capo, e spesso arriva col suo seguito.

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Mozione Approvata dall’assemblea delle Giuriste e dei Giuristi del Mediterraneo sulla liberazione di Ocalan.

UIKI – 9 ottobre 2017

FreeOcalanMozione Approvata dall’assemblea delle Giuriste e dei Giuristi del Mediterraneo
Napoli 7-8 ottobre 2017

L’assembla delle giuriste e dei giuristi dei paesi dell’area del Mediterraneo, riunita a Napoli i giorni 7-8 ottobre 2017, ha approvato la seguente mozione:

L’assemblea

PROMESSO
Che la difesa e la tutela dei diritti umani, della libertà e dignità dei popoli unitamente alla piena affermazione ed attuazione delle garanzie di effettiva difesa giuridica, costituiscono le ragioni per le quali i partecipanti all’assembla di sono incontrati, hanno costituito un coordinamento permanente e dato vita ad una dichiarazione di intenti e di impegno (Carta di Napoli);

RITENUTO
Che la cattura, il processo e la determinazione del leader del movimento di liberazione del popolo curdo, Abdullah Ocalan, hanno costituito e costituiscono una inaccettabile violazione dei diritti umani delle garanzie giurisdizionali e del divieto di trattamento disumano e degradante dei detenuti;

che la repressione realizzata dallo stato turco contro Ocalan è emblematica e rappresentative delle politiche repressive ed autoritarie poste in essere contro il popolo curdo, tese a negare ogni sua istanza di libertà, democrazia e sviluppo sociale ed economico;

che le politiche autoritarie e repressive del governo turco hanno conosciuto, dopo il fallito golpe, un ulteriore inasprimento estendendosi a tutti i soggetti e le realtà sociali, dal mondo della cultura a quello giudiziario, dalle realtà sindacali alle associazioni di promozione sociale che reclamano il rispetto della democrazia e dei diritti umani;

CONSIDERATO
Che la liberazione di Ocalan, il riconoscimento e il sostegno al movimento di liberazione dei popoli e alla lotta per la piena democrazia in Turchia e nel Medio Oriente costituiscono elementi essenziali per la pacificazione e democratizzazione di un’area geografica devastata da sanguinosi conflitti e da gravi sofferenze per i popoli;

DICHIARANO
di aderire e sostenere, singolarmente ciascuno dei partecipanti, e congiuntamente come assemblea la campagna internazionale per la liberazione di Abdullah Ocalan, per il riconoscimento dei diritti umani e delle aspirazioni alla libertà e alla democrazia dei popoli, nonché per la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente.

Napoli 7-8 ottobre 2017

 

Dentro le stanze della tortura nelle prigioni segrete della CIA.

TPI NEWS – 9 ottobre 2017

bagramNell’agosto 2017 la famiglia di Gul Rahman, un prigioniero di un carcere della CIA in Afghanistan, ed altri due sopravvissuti alle violenze, hanno ottenuto un risarcimento per le torture subite.

C’erano venti celle nella prigione Cobalto, in Afghanistan. In sedici di queste, quelle regolari, i prigionieri erano legati alle pareti con anelli di metallo. Nelle altre 4 celle speciali, destinate alla tortura della privazione del sonno, i prigionieri erano incatenati per i polsi a una barra di metallo sopra la loro testa. Quelli nelle celle regolari avevano un secchio di plastica, gli altri indossavano un pannolino. E quando i pannolini non erano disponibili, le guardie li sostituivano con del nastro adesivo, o semplicemente facevano spogliare nudi i detenuti. Le celle non erano riscaldate, vi era un buio pesto e musica sparata a tutto volume.

Questa notizia puoi leggerla direttamente sul tuo Messenger di Facebook. Ecco come

John “Bruce” Jessen è uno dei due psicologi che progettò, insieme a James Mitchell, le cosiddette “tecniche di interrogatorio avanzate” della CIA, e che nel 2002 si trovava nel carcere segreto della CIA vicino Kabul, in Afghanistan. Cinque giorni dopo essere andato via da quel luogo, Gul Rahman, un prigioniero, fu trovato morto in cella per ipotermia, nudo dalla vita giù e sdraiato sul pavimento di cemento freddo.

Nel mese di agosto 2017, la famiglia di Gul Rahman, insieme a Mohamed Ben Soud e Suleiman Abdullah Salim, due prigionieri sopravvissuti alla prigione afghana, hanno raggiunto un accordo extragiudiziale contro Jessen e James Mitchell, ottenendo un risarcimento per le torture.

Con questo accordo, Mitchell e Jessen hanno evitato un processo in un tribunale americano, che avrebbe fatto luce su quello che accadeva nel carcere dal nome in codice Cobalto, conosciuto semplicemente come “l’oscurità” dai suoi prigionieri.

Ma quello che succedeva in quel luogo, può essere comunque trovato in 274 documenti che la CIA e il Pentagono sono stati costretti a declassificare e a rendere pubblici.

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Afghanistan, un protettorato fondato su tonnellate di oppio.

Il Fatto Quotidiano – di Enrico Piovesana, 9 ottobre 2017.

ED img11502088L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale.

La produzione afgana di oppio, iniziata negli Anni 80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli Anni 90 durante la guerra civile, era stata bandita dai talebani nel 2000.
Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine Anni 90.

Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del Paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.

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Afghanistan: Comitato Croce Rossa riduce attività dopo attacchi.

SWI swissinfo.ch – 9 ottobre 2017

image 20171009phf9092Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) ha annunciato la decisione di ridimensionare fortemente la sua presenza in Afghanistan a causa dei persistenti rischi di sicurezza a cui deve fare fronte il personale impegnato nelle strutture sanitarie.

In dichiarazioni alla stampa la responsabile della delegazione afghana del Cicr, Monica Zanarelli, ha spiegato che “dal dicembre 2016 le strutture della Cicr sono state colpite direttamente tre volte nel nord del Paese, e fra queste anche quella che era considerata la più sicura, il Centro di riabilitazione di Mazar-e-Sharif. Questi incidenti non hanno colpito solo il Cicr in Afghanistan ma l’organizzazione nel suo complesso”.

Zanarelli ha precisato che la decisione è stata adottata dopo intense discussioni con il quartier generale del Cicr a Ginevra.
In conseguenza di essa, saranno chiusi gli uffici nel nord di Maimana (provincia di Faryab) e Kunduz City (Kunduz), mentre la rappresentanza a Mazar-i-Sharif (Balkh) sarà fortemente ridimensionata. Il Centro di riabilitazione in questa città resterà aperto, ma il Circ sta studiando la possibilità di cederne la gestione ad altre organizzazioni o al governo afghano.

Anche nel resto del Paese, ha aggiunto la responsabile italiana, “stiamo pensando ad una riorganizzazione e alla definizione di piani sociali per aiutare lo staff che perderà il lavoro per la cessazione delle attività”.
“Voglio però essere molto chiara – ha concluso Zanarelli – sul fatto che siamo in Afghanistan da 30 anni e che non ce ne stiamo andando. Dobbiamo però operare per dare il massimo di sicurezza al nostro personale in modo da assistere il più possibile i civili colpiti dal conflitto”.

Solo nell’ultimo anno un membro dello staff del Cicr è stato sequestrato in Kunduz, sei altri sono stati uccisi e due sequestrati nella provincia di Jawzjan, mentre una fisioterapista è stata uccisa da un paziente a Mazar-i-Sharif.