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Autore: Anna Santarello

Regole d’ingaggio più aggressive per gli Usa in Afghanistan.

AD Analisi Difesa – 7 ottobre 2017

5IIUSP5CPZGXZGQPLZXK5ZH4RARimozione dei requisiti di prossimità per gli attacchi contro le forze nemiche e rapporti più stretti con le forze afgane sul terreno. Queste le novità nelle regole di ingaggio volute dal segretario alla Difesa statunitense, James Mattis, per rafforzare e rendere più efficiente la battaglia contro i talebani in Afghanistan.

Mattis aveva ricevuto piena libertà dalla Casa Bianca per allentare le regole, come chiesto negli ultimi anni, da molti alti ufficiali per le operazioni di combattimento in Afghanistan, Iraq e Siria.

Lo stesso presidente statunitense, Donald Trump, nel suo discorso del 21 agosto sulla nuova strategia in Afghanistan, aveva annunciato che avrebbe “rimosso le restrizioni e ampliato il potere” delle forze statunitensi sul campo di battaglia.

Aumenteremo il potere delle forze armate statunitensi per colpire terroristi e reti criminali che seminano violenza e caos in tutto l’Afghanistan” aveva aggiunto.

Come riporta Defense News, Mattis ha parlato delle novità davanti a due commissioni del Congresso, a cui ha confermato la rimozione di restrizioni “che non ci permettevano di usare pienamente la nostra potenza aerea”.

Ora gli Usa non sono più limitati alla necessità che il nemico sia in contatto o in prossimità delle forze alleate per colpire dall’aria il nemico. Importante anche la novità che prevede il rafforzamento del numero dei consiglieri statunitensi e alleati e la loro presenza nelle brigate e nei battaglioni afgani, vicini al nemico e alle azioni decisive.

In precedenza i militari statunitensi si relazionavano con i vertici delle forze armate afgane mentre prima di chiedere il supporto aereo, ora con i consiglieri militari statunitensi in prima linea, le richieste di Clse Air Support (CAS) saranno più veloci ed efficaci.

“Le unità afgane con i consiglieri Nato e statunitensi vincono, quelle senza, spesso non vincono” ha commentato Mattis, parlando davanti alla commissione delle Forze Armate della Camera. In ogni caso, il segretario Mattis ha voluto sottolineare che gli Stati Uniti continueranno a fare tutto ciò che è “umanamente possibile” per evitare la morte di civili.

Negli anni scorsi le restrizioni alle regole d’ingaggio erano state poste gradualmente su pressione dell’allora presidente afghano Hamid Karzai, preoccupato che le vittime civili (i cosiddetti “danni collaterali”) favorissero i talebani e screditassero il governo. L’attuale presidente afghano, Ashraf Ghani, appare molto più debole del suo predecessore anche nei confronti delle pressioni di Washington.

Combattenti e martiri afghani: una denuncia di Human Rights Watch

dal Blog di Enrico Campofreda

Afghan refugees 300x169Human Rights Watch lancia per bocca della sua responsabile dell’area mediorientale un’esplicita richiesta alla Repubblica Islamica dell’Iran affinché cessi il reclutamento di giovanissimi immigrati afghani che finiscono sul fronte siriano. E lì muoiono in combattimento, com’è di recente accaduto a otto di loro. Martiri certo, ma d’una guerra scelta per modo di dire.

Un report pubblicato sul sito dell’Ong evidenzia due contraddizioni: si tratta di ragazzi-soldato spesso d’età inferiore ai diciotto anni dichiarati. Lo scopo è essere inseriti nei reparti della divisione Fatemiyoun, la milizia degli hazara sciiti, già attiva all’epoca della guerra antisovietica e dal 2014 impegnata a sostegno del governo di Damasco, sotto la supervisione delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Attualmente la divisione conta 14.000 combattenti. Per entrarvi i giovani si aumentano l’età (le ultime vittime avevano fra i 14 e 15 anni) e i reclutatori non indagano, l’unico loro interesse è avere miliziani al fronte. L’altra contraddizione si riferisce alla presunta “vocazione” alla battaglia, scaturita dalla possibilità di guadagnarsi un’accoglienza definitiva sul territorio iraniano. Purché si resti in vita…

HRW ne fa una questione, diciamo deontologica, sostenendo che accordi internazionali impediscono il reclutamento di militi adolescenti. E rilancia sostenendo che proprio in base ai princìpi proclamati l’Iran dovrebbe tutelare i minori, di qualunque etnìa. Le ultime statistiche in circolazione calcolano 2,5 milioni gli immigrati e rifugiati afghani in Iran, la scelta di andare a combattere offre ai giovani e ai loro familiari la possibilità di essere stabilizzati nel Paese.

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Cena Afghana a sostegno di CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane

Sabato 14 ottobre ore 20,00 presso la Trattoria Popolare Arci Traverso – Via Ambrogio Figino 13 Milano

22141157 1536051266487928 2041147673902178745 n 200x300Cena Afghana a sostegno di CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane

Menù:

  • Qabli palau (un riso con carote, mandorle, uvetta e cardamomo, con un pezzo di carne per chi non è vegetariano)
  • Buranì banjam (melanzane fritte con sugo di pomodoro e yogurt magro)
  • Boulani (frittelle salate con verdure e patate)
  • Budino cardamomo e zafferano
  • Vino e acqua.

per prenotazioni telefonare ad Arci 348 055 9421

La somma raccolta verrà devoluta al CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane – per il progetto dei Centri di Aiuto Legale per le donne afghane (Centri di Aiuto Legale a Kabul ed Herat (attivi dal 2009) forniscono protezione e assistenza legale alle donne vittime di violenza.
Dal 2014 ha attivato un nuovo Centro a Mazar-e-Sharif: avvocate afghane che forniscono consulenza e assistenza legale alle donne e ragazze vittime di violenza domestica e sessuale.

Presentazione del libro “SOTTO UN CIELO DI STOFFA: Avvocate a Kabul” di Cristiana Cella

Martedì 24 ottobre 2017 alle ore 18.00
presso l’ Associazione Casa della Cultura – Via Borgogna 3 – 20122 Milano (MM1 – San Babila)

Cristiana Cella copertina libro 268x300La Casa della Cultura in collaborazione con il Cisda organizza la presentazione del libro

SOTTO UN CIELO DI STOFFA : Avvocate a Kabul (Città del Sole Edizioni)

Oltre all’autrice Cristiana Cella intervengono:

  • Piero Basso 
  • Ferruccio Capelli
  • Elisa Giunchi

SOTTO UN CIELO DI STOFFA. Avvocate a Kabul (2017, Città del sole Edizioni) – Una pubblicazione a cui l’autrice ha lavorato nel corso di alcuni anni fatti di viaggi, incontri e interviste. Quello che viene fuori è una raccolta di storie e di voci di donne forti che ci portano dentro la loro vita quotidiana, facendoci partecipare alle loro sfide, al loro coraggio, tenace, generoso e leggero. Racconta, in particolare, la guerra quotidiana delle avvocate. Il filo conduttore della prima parte, infatti, è il difficile cammino di un’avvocata che lavora al Centro donne dell’associazione Hawca (sostenuto dal progetto COSPE, Vite preziose) e della sua cliente, tra mille ostacoli, per salvare la sua vita. In questa storia se ne inseriscono tante altre, storie di tragedie e di riscatti, di dolore e di libertà. La seconda parte del libro racconta l’Afghanistan di oggi, la vita dei suoi abitanti, sempre più fragile e minacciata, la situazione politica disastrosa, la guerra in corso, attraverso interviste, documenti e incontri.

CRISTIANA CELLA – Giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Dal 2009 è membro del Cisda. Si occupa di progetti umanitari nel Paese, ha collaborato con “L’Unità”, “Il Sole 24 ore” e altre testate on line.

Rimpatri forzati in Afghanistan: le politiche illegali dei governi europei

Amnesty International Italia

afghanistan 79492 960 720 300x194governi europei stanno aumentando i rimpatri forzati di richiedenti asilo in Afghanistan: migliaia di persone, in spregio alle norme del diritto internazionale, sono costrette a tornare esattamente nei luoghi da cui erano fuggite.

I nostri ricercatori hanno documentato in un rapporto presentato il 5 ottobre le testimonianze di diverse famiglie che, in modo angosciato, hanno raccontato l’orrore in cui sono finite dopo essere state rimpatriate dall’Europa.

Persone che hanno perso i loro cari, che sono sopravvissute per miracolo a un attentato o che vivono nel costante timore di essere perseguitate. I rimpatri forzati hanno riguardato anche minori non accompagnati e minorenni diventati adulti quando sono arrivati nel continente europeo. Diverse persone hanno raccontato di essere state portate in zone dell’Afghanistan in cui non erano mai state.

Storie orribili di afgani respinti da Germania, Norvegia, Olanda e Svezia e che sono stati uccisi, sono rimasti feriti in attentati o sono costretti a vivere nella costante paura di essere perseguitati a causa del loro orientamento sessuale o della loro conversione al Cristianesimo.

Rimpatri forzati in Afghanistan: i numeri

Secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3.290 a 9.460. Questo aumento corrisponde a un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68% del settembre 2015 al 33% del dicembre 2016.

Nello stesso periodo, in diverse zone dell’Afghanistan sono aumentati gli attacchi contro i civili, la maggior parte dei quali rivendicati da gruppi armati tra cui i talebani e lo Stato islamico. Secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) nel 2016 sono state uccise o ferite 11.418 persone. Nei soli primi sei mesi del 2017 le vittime civili documentate da Unama sono state 5.423.

Il 31 maggio 2017, in uno dei peggiori attentati mai registrati a Kabul, rivolto contro alcune ambasciate europee della capitale, sono state uccise almeno 150 persone e i feriti sono stati il doppio.

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Afghanistan: la lunga guerra delle donne

di Cristiana Cella, Babel online – Cospe

Dazebao 300x169La guerra delle donne afgane dura da 40 anni. Nel luglio 1980, quando arrivai per la prima volta in Afghanistan, le montagne erano già popolate di combattenti. I feroci governi comunisti degli anni precedenti e la recente invasione russa avevano prodotto una dura reazione di resistenza. A Kabul, la società civile era integra e combattiva e si opponeva con tutte le sue forze all’invasione russa.
Le donne ne erano parte integrante, occupavano posti di responsabilità, lavoravano, studiavano, non portavano il velo, tranne rare eccezioni, si battevano per le loro idee di libertà, di laicità, di democrazia e per i loro diritti. Furono proprio le donne, in quel primo anno di occupazione, a essere protagoniste delle manifestazioni contro i russi a Kabul.

Organizzavano scioperi e disobbedienza civile. Giovanissime studentesse dei licei, universitarie, professioniste e donne di tutte le età e classi sociali, scendevano in strada per contrastare il primo passo della lunga tragedia che ancora non è finita. Nell’apparente e blindata normalità della capitale, a cui i russi tenevano molto, la resistenza afgana si muoveva clandestinamente, organizzando attentati e sabotaggi: una rete fatta di intellettuali, studenti dei movimenti di sinistra, partiti islamici moderati, democratici di ogni classe sociale, commercianti nei cui negozi si riunivano piccoli gruppi.

Le donne erano parte della dirigenza, si occupavano principalmente di fornire informazioni. Molti combattenti andarono in montagna, coinvolgendo la popolazione rurale nella guerra contro i russi. Molti di loro furono in gran parte uccisi dai gruppi fondamentalisti, che li temevano più dell’Armata Rossa, dai russi e dall’esercito afgano.

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Mi chiamo Saniya e vi dico che la violenza è di casa

Cospe.org – settembre 2017 Babel online la rivista

da cisda 1024x682 300x200Testimonianza raccolta dalle operatrici di Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) nella “Casa protetta” che gestiscono a Kabul. Saniya è una delle 20 donne che hanno beneficiato del progetto “Vite Preziose” nato nel 2011 dalla collaborazione tra la ong di donne afgane Hawca, il quotidiano L’Unità e il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) e che prevede il sostegno a distanza di donne e bambine afgane vittime di violenza.

“Mi chiamo Saniya e vengo dalla provincia di Laghman. Ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. Gli ospiti sono arrivati, il cibo pronto. Ma la festa non comincia. ‘Che succede, perché?’. Le voci si alzano, le porte sbattono.

Il mio “fiancé”, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Il futuro suocero ha detto che non mi vuole più. Litiga con mio padre. La mamma piange. Ma a me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole, e non lo voglio nemmeno io. Tutto è sistemato, rimango a casa mia. Ma l’illusione dura poco. Bisogna riparare l’offesa e non si può sprecare tutto quel cibo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore. Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa.

L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. È così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Sto zitta se no mi picchiano. Lo fanno spesso. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo. Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti.

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Mehmet Aksoy ucciso a Raqqa in un attentato ISIS

CISDA 27 settembre 2017

22008196 1641579392571617 942010633622197683 nLa notte del 26 settembre ha perso la vita in un attentato ISIS a Raqqa, Mehmet Aksoy, uno straordinario compagno kurdo, partito da qualche mese da Londra per organizzare l’ufficio stampa YPG. Mehmet era un caro amico, una persona speciale che ha donato la sua vita non solo per la causa kurda, ma per tutti noi.

Riposa in pace, Memo, non ti dimenticheremo!

Cara Arzu e compagni del Kurdish Community Center,
siamo profondamente addolorate e attonite per la terribile notizia che vi ha colpiti.

Memo era un amico, una persona intelligente, ironica, amorevole, generosa, che ha sacrificato la sua vita per la causa kurda. Solo con la sua cinepresa. E la lotta di Memo non era solo per la causa kurda, ma per la pace nel mondo.

Era un’anima meravigliosa, un compagno capace di motivare tutti coloro che lo circondavano. Memo, non ti dimenticheremo mai, non dimenticheremo il tuo sorriso e il tuo messaggio.
Cari compagni, la nostra promessa è quella di rimanere sempre al vostro fianco. La lotta continua, in memoria di Memo.

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La costruzione del villaggio JINWAR

Jinwar.org – Newsletter 1 settembre 2017

IMG 1278 klein 2000x1200 300x180“Quando noi donne staremo insieme, costruiremo insieme le basi della nostra vita e ci difenderemo reciprocamente, ci sarà libertà, e con la libertà ci sarà la bellezza”. Cihan, membro del Comitato di Jinwar.

L’idea di un villaggio di donne in Rojava è nata diversi anni fa, e ha origine dalla lunga storia, spesso nascosta, di società, spazi e utopie centrate sulle donne. È un’idea stimolata anche da Abdullah Ocalan che ha espresso il desiderio che le donne creassero una propria città. Costruire un villaggio nostro non significa per noi soltanto vivere insieme, ma piuttosto creare un modo di vita, lavoro e interazione diverso. Guardando alla storia passata troviamo tracce di questo modo di vita: in epoche in cui la logica di stato e il capitalismo non modellavano la società e la vita di tutti, le donne rappresentavano spesso il cuore della società. La vita era collettiva, comunitaria ed ecologica. Ora, nel mondo moderno capitalista, siamo di fronte ad un sistema di dominazione patriarcale che sta distruggendo le fondamenta della società e priva le donne di energia e creatività.

La storia, l’idea di Abdullah Ocalan e la volontà di molte donne di realizzare insieme un modello di vita comunitario ed ecologico ci ha portato alla creazione di Jinwar – il primo villaggio di donne nel Medio oriente. Con la costruzione del villaggio vogliamo sfidare la logica distruttiva delle guerre che stanno delineando l’assetto del Medio oriente e vogliamo dimostrare che è possibile vivere in modo diverso. Speriamo che Jinwar ispiri le donne di tutto il mondo ad unirsi, creare le basi per una vita solidale e difendere questa forma di vita in comune. Per coordinare il lavoro di costruzione del villaggio abbiamo fondato un comitato. Siamo donne di tutte le età e di background diversi, abbiamo conoscenze diverse e diversi punti di vista. Discutiamo le nostre idee e le potenzialità di Jinwar in curdo, arabo, turco e inglese.

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Kurdistan, le conseguenze del sogno referendario

Enrico Campofreda 26 settembre 2017 dal suo Blog

al seggio 300x200Sogno gioioso – Fra chi festeggia (i kurdi iracheni) e chi minaccia (Turchia, Iran e ovviamente il governo di Baghdad) si muovono i dati ufficiosi del referendum sull’agognata indipendenza in Kurdistan, compresi i seggi collocati nella preziosa area di Kirkuk. Ha votato il 78% degli aventi diritto e il sì supera il 93%. I dati ufficiali saranno noti entro giovedì.
Le telecamere di numerose emittenti accorse a Erbil mostrano gente gioiosa che celebra un giorno considerato storico, seppure potrebbe risultare l’anticamera d’una deriva anche pericolosa.
Basata su nuovi conflitti in casa, ora che lo scontro con lo Stato Islamico pare, se non concluso definitivamente, di certo attenuato. Nel giorno della festa la voce più dura la fa il solito Erdoğan, che pensa sicuramente ai suoi kurdi, tre volte più numerosi, sparsi in più punti dell’Anatolia, seppure il sud-est sia la loro patria mai designata.
E minacciosi dopo la ripresa delle ostilità col Pkk, più i dissidenti (Falconi della libertà) quest’ultimi sì usi al terrorismo diffuso. Per animare la divisione fra i molteplici ceppi dell’etnìa kurda – separata, dopo il ‘tradimento’ del trattato di Losanna, nelle quattro nazioni confinanti (Turchia, Siria, Iraq, Iran) – l’attuale presidente turco aveva da tempo stabilito un rapporto cordiale col più malleabile e filoccidentale dei leader della regione autonoma del Kurdistan: quel Masoud Barzani, nipote e figlio di chi nel nome dei kurdi cercava di ottenere terra e potere.

consulto sul votoBarzani nella storia – Questo Kurdistan, solo di recente riconosciuto come regione autonoma, anche in funzione del barcollante assetto di un Iraq lacerato dai conflitti interni dopo la caduta di Saddam Hussein, riceve le sue risorse dalla ricchezza del sottosuolo, principalmente nella provincia contesa di Kirkuk. Terra abitata dall’etnìa, che subì verso la fine degli anni Ottanta una delle operazioni politiche del dittatore iracheno. Alla pulizia etnica praticata coi gas, s’aggiunse quella della colonizzazione dei luoghi,  e nella città del petrolio giunsero frotte di arabi pagati da Baghdad. Le estrazioni dai pozzi di Kirkuk trovano nei Paesi confinanti, specie la Turchia, un canale di distribuzione e commercio, di cui Ankara ora minaccia di chiudere i rubinetti.

Questa, al di là del potere delle armi, è la mannaia che può pendere sulla testa della comunità festante, finora garantita rispetto ai fratelli collocati oltre confine. Un vantaggio finanziario non di poco conto, con una ricaduta distributiva delle ricchezze magari limitata dai capi clan, ma comunque presente.

Ecco l’azzardo che l’accelerazione di Masoud Barzani sul tema dell’indipendenza sta introducendo. Però l’ormai settantunenne leader difficilmente farà marcia indietro, spera di poter far scrivere sui libri di storia il conseguimento d’un obiettivo più concreto di quelli raggiunti dal nonno e dal padre. Una questione privata o di famiglia, dunque? Non del tutto. Chiaramente, nelle mosse dell’attuale statista senza Stato, c’è la volontà di dare un senso ad antiche battaglie.

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