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Autore: Anna Santarello

NGO: Stop alle deportazioni in Afghanistan delle famiglie richiedenti asilo “Le condizioni di sicurezza in Afghanistan sono peggiorate”, ha dichiarato il portavoce di Amnesty International Horia Mosadiq.

+31MAG.nl – 24 aprile 2017.

9377515138 1e533ecc23 hOtto organizzazioni per i diritti umani, tra cui Unicef ​​e Amnesty International, hanno chiamato in causa i Paesi Bassi per smettere di deportare le famiglie con bambini piccoli in Afghanistan.

La situazione nel paese è instabile e non sicura per le famiglie. “Le condizioni di sicurezza in Afghanistan sono peggiorate”, ha dichiarato il portavoce di Amnesty International Horia Mosadiq. “Le aree un tempo protette ora non sono più sicure, e il numero di bambini uccisi è aumentato. La maggior parte delle persone vive in una situazione estremamente precaria”.
L’accordo dell’Unione europea “Joint Way Forward” firmato l’anno scorso tra l’UE e l’Afghanistan sulle deportazioni, è inaccettabile, secondo le organizzazioni.

“I Paesi Bassi hanno stretto questo accordo per deportare i rifugiati, inclusi i bambini, in Afghanistan“, ha detto la portavoce della campagna Martine Goeman. “Recentemente una famiglia con bambini piccoli e due fratelli, di cui uno 18enne, sono stati detenuti e poi deportati. Il governo olandese sta facendo delle scelte inaccettabili ».

Afghanistan, allarme ONU. Le Nazioni Unite rilevano un aumento esponenziale delle torture nei luoghi di detenzione e puntano il dito contro la polizia.

RSI News – 24 aprile 2017

LONU20stigamtizza20laumento20dei20casi20di20tortura20in20AfghanistanI casi di tortura sono aumentati in Afghanistan. L’ONU, in un rapporto pubblicato lunedì a Kabul e a Ginevra, stigmatizza l’uso della tortura nella lotta agli insorti e segnala che sempre più casi riguardano anche minorenni. Sotto la lente delle Nazioni Unite il comportamento violento della polizia.

Il rapporto è in corso di valutazione da parte degli esperti della Convenzione contro la tortura, siglata anche dall’Afghanistan nel 1987. I responsabili del lavoro hanno intervistato 469 detenuti. Secondo loro “il 39% ha riferito, in modo credibile, di torture o di forme di trattamento disumane e degradanti durante la detenzione. Il 31% ha aggiunto di essere stato torturato in diversi luoghi di detenzione”.

I dati sono in “netto aumento rispetto allo scorso anno”. La Missione d’assistenza ONU in Afghanistan si dice altresì “estremamente preoccupata dall’uso sistematico della tortura da parte degli agenti della polizia nazionale, responsabile di oltre il 45% dei casi dei maltrattamenti e che i responsabili non vengono mai puniti”.

SAVE THE DATE

La rete “In Difesa Di“, di cui il CISDA è parte attiva, ha invitato in Italia Michel Forst, Special Rapporteur per i diritti umani dell’ONU.

NewBannerWebsite 1024x207 copyIl 7 maggio Michel Forst sarà ospite del Festival dei Diritti Umani a Milano, insieme a Fabrizio Petri (Comitato Interministeriale Diritti Umani), Remo Danovi (Ordine degli Avvocati) Angela Gui (attivista e figlia dell’editore e scrittore di Hong Kong Gui Minhai) e Francesco Martone (portavoce della rete In Difesa Di). Al Festival sarà presente MALALAI JOYA, la straordinaria attivista ed ex parlamentare afghana che una delegazione del CISDA ha incontrato a Kabul il mese scorso.

 

6 Maggio hh 15,30 – Milano Teatro dell’Arte Salone d’Onore
Sognando Beckam in Afghanistan: ragazze, calcio e diritti sotto assedio.
Con Malalai Joya e Stefano Liberti.

Proiezione di Herat dream team di Stefano Liberti e Mario Poeta
(première italiana, prodotto da Cospe, Italia 2017, 16’)

Per programma completo clicca qui

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Il Cisda aderisce alla rete “In Difesa dei diritti umani e di chi li difende”

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Il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan lavora dal 1998 a fianco di chi difende i diritti umani. La cosiddetta “madre di tutte le bombe” MOAB (massive ordnance air blast) che Trump ha sganciato in Afghanistan è solo l’ultimo episodio di violenza e distruzione di un paese che è in guerra. Ormai è chiaro che l’intervento militare di Stati Uniti e Comunità Internazionale non ha portato pace, né giustizia né democrazia.

Purtroppo l’Afghanistan non è l’unico paese a soffrire l’assenza di stato di diritto. Episodi di sequestri, incarcerazioni illegittime, come quella in Turchia che ci tiene con il fiato sospeso per le sorti di Gabriele Del Grande, nonché notizie di processi non equi, torture e vessazioni di ogni genere contro attivisti e associazioni per la tutela dei diritti umani rappresentano un fenomeno che sta assumendo le proporzioni di un’emergenza globale.

Come evidente dai rapporti e dati della Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo (FIDH) sono in aumento i casi di omicidi e assassini di chi si oppone a regimi oppressivi e si batte per la libertà e l’ambiente. Secondo il rapporto annuale dell’organizzazione non governativa Front Line Defenders, nel 2016 sono stati uccisi almeno 282 difensori dei diritti umani in 25 Paesi.

Per questo il Cisda ha deciso di unirsi alla rete “In Difesa dei diritti umani e di chi li difende”. Un network composto da oltre 30 organizzazioni e associazioni italiane attive su tematiche quali diritti umani, ambiente, solidarietà internazionale, pace e disarmo, diritti dei lavoratori, libertà di stampa e stato di diritto. Gli obiettivi principali sono promuovere campagne e iniziative volte alla tutela di chi difende i diritti umani, sensibilizzare l’opinione pubblica su queste tematiche, e chiedere alle istituzioni italiane (Governo, Parlamento ed enti locali) di impegnarsi a sviluppare strumenti e meccanismi di protezione per difensori/e dei diritti umani.

Nel 1998, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto il ruolo vitale che gli Human Rights Defenders svolgono nonché i pericoli reali a cui sono esposti e ha adottato un’apposita Dichiarazione. L’Unione Europea, a sua volta, ha elaborato Linee Guida specifiche che rappresentano un solido quadro per i lavori comunitari volti alla promozione e alla tutela dei diritti umani. Data l’attualità dell’argomento, molti paesi UE hanno proposto una serie di pratiche da adottare a livello nazionale per assicurare un approccio unico nella tutela e difesa degli human rights defenders: i visti temporanei svedesi, l’iniziativa delle città rifugio nata in Olanda, l’Humanitarian Visa Scheme irlandese per il rilascio facilitato di un visto Schengen di tre mesi su base umanitaria. Esiste anche una piattaforma “EU Human Rights Defenders Relocation Platform” che mette insieme organizzazioni nazionali, regionali ed internazionali coinvolte in programmi di temporary relocation per gli attivisti a rischio con l’obiettivo di facilitare il coordinamento tra gli attori e favorire l’ottimizzazione dei risultati raggiungibili.

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CONCERTO A FAVORE DELL’ORFANOTROFIO DI AFCECO

Concerto 13 maggio 527x1024Il prossimo 13 maggio si terrà a Cantù (CO) presso il Teatro San Teodoro il concerto a favore dell’orfanatrofio di AFCECO con la partecipazione di due stelle emergenti:

  • DANIELE SABATINI violinista
  • SIMONE RUGANI pianista

Il concerto è inserito nel vasto programma del Maggio della Grande Musica organizzato dalla Scuola di Musica con la partecipazione del Comune di Cantù.

Il partito della solidarietà afghano contro la bomba Moab

dal sito di Hambastagi – 16 Aprile 2017

Per vedere tutte le foto clicca qui

Kabul, 16 aprile 2017: Attivisti del Solidarity Party of Afghanistan hanno organizzato una manifestazione per protestare contro il lancio della MOAB – la cosiddetta Madre di tutte le bombe – da parte del Governo degli Stati Uniti su Achin, un distretto della provincia di Nangarhar.

unnamed 2Gli attivisti hanno espresso la loro rabbia contro i crimini degli Stati Uniti e contro il governo fantoccio di Ghani-Abdullah. I manifestanti hanno esposto cartelli contro le politiche di occupazione del governo degli USA e hanno gridato slogan contro l’occupazione e contro il fondamentalismo: “la guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo è una presa in giro!” “La vera causa della guerra in Afghanistan è il governo degli Stati Uniti!” “Talebani e ISIS sono una creatura del governo degli Stati Uniti!” “Dobbiamo ribellarci, il nostro silenzio è la nostra morte!”.

Selay Ghaffar, portavoce di SPA, ha dichiarato:
“Sono ormai più di 16 anni che l’Afghanistan è stato occupato dagli Stati Uniti e dalla Nato. Gli occupanti, con la scusa della “guerra al terrorismo” sono entrati in Afghanistan e hanno trasformato il nostro paese in un cimitero per la nostra gente inerme. Hanno ucciso più di 250 mila afghani; hanno usato bombardamenti distruttivi; hanno sperimentato armi chimiche; e ora hanno lanciato la MOAB nel Distretto di Achin. Questo è il risultato voluto anche dal governo fantoccio afghano, che spudoratamente chiede alla nostra gente di essere grata alle forze statunitensi. Il governo afghano ha espresso apprezzamento per questo attacco, sostenendo che sono stati uccisi solo le milizie dell’ISIS e non civili afghani.

Il Governo afghano, consentendo di testare la MOAB in Afghanistan, ha firmato un accordo di schiavitù e ha commesso il crimine più atroce contro il nostro popolo. Tuttavia, le persone che amano la libertà in Afghanistan non consentiranno che il nostro paese diventi un’arena dove si combattono le potenze occidentali e orientali.”

È intervenuto poi Mahmud, un semplice cittadino di Kabul, che ha recitato una poesia. I giovani del Gruppo di Teatro del SPA ha realizzato un prototipo di MOAB trasportato da compagni con le maschere di Trump, Ghani e Abdullah. L’incontro si è concluso con la lettura di un comunicato ufficiale del Solidarity Party of Afghanistan.

Cosa sappiamo dell’attacco americano in Afghanistan

Il Post – 14/4/2017

Gli Stati Uniti hanno bombardato dei tunnel dell’ISIS usando la loro bomba più potente tra quelle non nucleari: 36 miliziani sono morti

C9UPvOJXkAM5byeIl dipartimento della Difesa americano ha fatto sapere che giovedì 13 aprile gli Stati Uniti hanno usato in Afghanistan la più potente bomba tra quelle non nucleari a disposizione dell’esercito statunitense. La bomba – che non era mai stata usata prima in combattimento – è stata usata per colpire un sistema di tunnel che secondo gli Stati Uniti erano utilizzati dallo Stato Islamico per muovere uomini e armi. Il ministero della Difesa afghano ha detto che 36 miliziani dello Stato Islamico sono morti, che la loro base è stata distrutta e che non ci sono morti tra i civili. Abdullah Abdullah, capo esecutivo dell’Afghanistan – una carica governativa creata appositamente nel 2014 quando sia Abdullah che l’attuale presidente Ashraf Ghani sostennero di aver vinto le elezioni – ha confermato che l’attacco è stato compiuto dagli Stati Uniti in accordo con il governo afghano, e che è stato fatto «con grande attenzione per evitare morti tra i civili».

Il nome tecnico della bomba è GBU-43/B MOAB (sigla per Massive Ordnance Air Blast), ma è conosciuta soprattutto col suo soprannome di “madre di tutte le bombe”: fu sviluppata nel 2003, è lunga circa nove metri e pesa 10 tonnellate. È stata sganciata da un aereo cargo MC-130 nel distretto di Achin, che si trova nella provincia di Nangarhar, nel nord-est dell’Afghanistan, vicino al confine con il Pakistan. Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, ha detto che nella zona erano presenti alcuni tunnel che permettevano ai miliziani dello Stato Islamico di muoversi liberamente e attaccare le forze americane e afghane. Secondo le stime degli Stati Uniti, i miliziani dello Stato Islamico nella zona sono tra i 600 e gli 800, e sabato scorso un soldato americano era morto nella zona durante un’operazione compiuta insieme all’esercito afghano.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che la missione ha avuto «molto successo», e che non è stata compiuta per mandare un messaggio internazionale. Il ministero della Difesa afghano ha anche detto che nell’esplosione sono state distrutte molte armi dello Stato Islamico, mentre il New York Times, citando funzionari afghani, dice che l’esercito afghano aveva provato a fare un’offensiva via terra contro lo Stato Islamico nel distretto di Achin, ma era stato respinto dai miliziani nascosti nei tunnel e si era ritirato, per poi chiedere il sostegno aereo degli Stati Uniti.

L’ex presidente afghano Hamid Karzai ha scritto su Twitter: «Questa non è la guerra al terrorismo ma lo sfruttamento disumano e brutale del nostro paese come luogo per testare armi nuove e pericolose. Sta a noi afghani fermare gli Stati Uniti».

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137 donne e bambini yezidi salvati nell’operazione a Raqqa

UIKI Onlus – 13/4/2017

137 donne e bambini yezidi sequestrati a Shengal in Iraq dal gruppo jihadista Stato Islamico (IS) nel 2014 sono stati salvati dalle Forze Siriane Democratiche (FSD), ha affermato una comandante del gruppo.

Yazidi 599x275Parlando con l’agenzia stampa Hawar, Nesrin Abdullah, la portavoce delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ) interamente costituite da donne, ha detto che le donne e i bambini sono stati salvati nell’operazione Ira dell’Eufrate in corso sotto la guida delle FSD a maggioranza curdo-araba a Raqqa e nelle zone limitrofe.

Alcune delle donne e dei bambini sono stati ricongiunti alle loro famiglie, mentre altri sono stati mandati dalle autorità competenti, ha detto Abdullah.

Si pensa che almeno 1.800 donne e bambini yezidi si trovino ancora nelle mani del gruppo estremista, con alcuni bambini cresciuti come combattenti jihadisti.

Migliaia di donne sono state vendute come schiave sessuali e portate dall’Iraq in Siria e anche in Turchia. Si ritiene che la maggior parte delle donne si trovi a Raqqa, ultima roccaforte di IS in Siria.

Gli yezidi sono un Gruppo etnico-religioso di lingua curda native della regione. Come gruppo non-musulmano sono stati presi di mira da IS dopo il suo assedio a Mosul. Migliaia di yezidi sono stati uccisi e catturati, mentre centinaia di migliaia sono stati espulsi.

Le Nazioni Unite hanno definite la persecuzione degli yezidi da parte di IS un genocidio.

Afghanistan, gli americani bombardano le aree pashtun del sud

di Emanuele Giordana, Il Manifesto

800px Afghanistan.valley.view 300x200C’è un altro fronte di scontro tra russi e americani in Asia. Un fronte nascosto e dimenticato ma dove la guerra infuria con continuità e, per numero di decessi, più di prima. È il fronte afgano, la porta che dal Medioriente e dall’Asia centrale arriva al subcontinente indiano. Un fronte di guerra che l’anno scorso ha contato 11mila vittime civili e dove si sta assistendo a un’escalation dei bombardamenti americani nel Sud e alla possibilità che Trump, in campagna elettorale favorevole al ritiro, aumenti le truppe nel Paese. Come anche il governo di Ashraf Ghani gli chiede.

L’Afghanistan fu terreno di scontro durante il «Grande Gioco» tra Impero zarista e Inghilterra nell’800 e divenne il confine  guerreggiato durante la Guerra Fredda quando l’Urss invase l’Afghanistan e gli Usa armarono, con sauditi e pachistani, l’armata mujaheddin: i primi «combattenti della fede» manovrati anche dall’Occidente come da lì a poco sarebbe avvenuto anche per la guerra in Bosnia.

I sovietici lasciarono l’Afghanistan con le ossa rotte nel 1989, dopo 10 anni e migliaia di morti, poco prima che la Perestrojka desse il colpo di grazia all’Unione delle Repubbliche socialiste. L’Afghanistan fu il detonatore di una crisi profonda e la carta che Washington aveva giocato, assieme a molte altre, per combattere i comunisti nel mondo. Poi fu la volta degli americani. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001, prima gli Stati uniti e poi la Nato (quindi ancora gli Usa), presero il controllo del Paese per far presto i conti con le tribù afgane adesso col turbante nero dei talebani.

Mosca intanto si era ritirata dalla scena, alle prese con la ricomposizione di un impero ormai spezzettato. Se aveva perso l’Afghanistan, Mosca stava soprattutto perdendo influenza in Asia centrale e nel Caucaso dove, oltre alla protesta islamista, c’era da far i conti con la perdita di giacimenti di gas e petrolio, cotone, minerali.

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L’Europa vista da Kabul

di Giuliano Battiston, Sbilanciamoci Info

8888 623x415 300x200Vista da Kabul, Baghdad, Damasco, il Cairo o Tripoli, l’Europa appare diversa. Non ha il volto rassicurante di chi invoca e promuove democrazia, giustizia e diritti, ma quello minaccioso di chi, per mantenere i propri privilegi, è disposto a tutto. Anche alla guerra. Quella diretta, con le truppe sul terreno, le forze speciali o i bombardamenti aerei, e quella indiretta, con la vendita delle armi, il sostegno logistico alle coalizioni internazionali o dei volenterosi, la complicità con regimi sanguinari e repressivi. A ricordarci quanto sia importante adottare il punto di vista degli “altri”, quegli “altri” a cui spesso imputiamo il fatto di non essere abbastanza riconoscenti, è Paul Rogers.

Docente emerito di Peace Studies all’Università britannica di Bradford, esperto di sicurezza globale, firma ricorrente di Opendemocracy, Rogers ha pubblicato alcuni mesi fa Irregular Wars. ISIS and the New Threats from the Margins. È un libro utile, nuovo nell’approccio, perché fa quel che pochi hanno fatto finora: colloca l’affermazione di gruppi armati non-statuali, come lo Stato islamico, dentro una prospettiva di lungo periodo, in cui l’economia politica conta più delle ideologie, gli squilibri e le contraddizioni del sistema di relazioni internazionali più del radicalismo islamico.

Rogers ha una tesi chiara, e preoccupante: sostiene infatti che i gruppi armati non-statuali – dai Talebani in Afghanistan allo Stato islamico in Iraq e Siria, da Boko Haram in Nigeria ad al-Shabaab in Somalia, dai naxaliti in India ai maoisti in Nepal – siano da vedere non come una causa, ma come sintomi delle patologie strutturali del nostro sistema-mondo, di cui l’Europa è protagonista. Per rintracciare la matrice di queste patologie, Rogers parte dalla fine della Guerra fredda e dalla conseguente transizione al modello unico di mercato libero. Una transizione che ha generato ricchezza, crescita e benessere per una parte numericamente significativa (un miliardo e mezzo di persone) ma comunque minoritaria della popolazione mondiale. Lasciando il resto del pianeta indietro, ai margini. Quei “margini” in cui nascono le nuove rivolte armate.

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