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Autore: Anna Santarello

Lettera ai donatori e agli sponsor degli orfanotrofi dell’associazione afghana AFCECO

Agosto 2016 – Newsletter

AFCECO 300x200Cari sponsor e amici,

Il mese scorso molte cose positive sono accadute per gli orfanotrofi di AFCECO ma è stato anche un momento terribile per il popolo afghano. I bambini hanno sostenuto i loro esami e i risultati sono stati eccezionali.

Molti degli studenti hanno ottenuto il massimo dei voti per i loro esami. Abbiamo organizzato un evento per riconoscere e incoraggiare gli studenti che si sono distinti nei loro studi, nell’atletica, nelle arti, nella musica così come i bambini che si sono impegnati duramente durante e per gli eventi.

Il 17 agosto abbiamo organizzato una piccola festa di addio per Allegra Boggess, l’insegnante dei nostri studenti di musica. Allegra ci ha lasciato per gli Stati Uniti dopo cinque anni di insegnamento di pianoforte e oboe. Ha lavorato molto duramente con i nostri ragazzi e infatti i nostri studenti di maggior successo sono stati suoi alunni. Lei si è meritata un posto speciale nel cuore dei suoi studenti e ci mancherà molto.

Come ogni anno i bambini il 18 agosto hanno celebrato il 97° anniversario dell’indipendenza dell’Afghanistan. Sono state eseguite molte performance ma molti dei partecipanti e degli ospiti hanno apprezzato particolarmente lo spettacolo di danza dei bambini.

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Afghanistan, l’assedio continuo

Blog – E. Campofreda, 9/9/2016

e5ebd784b7a247689e5dcc74f5a9404e 9La via dell’assedio – L’ultimo annuncio giunge da Tarinkot, cittadella di settantamila anime, nella provincia dell’Uruzgan che di abitanti ne ha poco più di trecentomila, né piccola, né grande ma certamente scarsamente ricordata nelle cronache dall’Afghanistan. È una provincia che sta a nord di Kandahar, l’antica Alessandria Arachosia dei tempi di Alessandro il Macedone, ed ex capitale afghana sotto la dinastia Durrani. A Kandahar molti talebani sono di casa, hanno radici, parenti, legami tribali. E un bel pezzo di quel territorio, seppure desertico, è controllato dalle loro milizie.

Ma sappiamo come da oltre un anno, la tattica dei Talib sia quella di prendersi, villaggi e città, con blitz armati, più o meno duratori, soprattutto per dimostrare l’inconsistenza dell’esercito afghano e di quello che sta a monte: il progetto americano di costruire e sostenere una struttura militare a difesa di un’amministrazione evanescente, plasmata sulla figura di Ghani. Attualmente la provincia di Helmand è all’80% controllata dai clan talebani; nell’immaginario quadrilatero: Kunduz (nord-est), Kabul (est), Herat (nord-ovest), Kandahar (centro-sud) si stanno sempre più allargando le decine e decine di chilometri quadrati dove i turbanti stabiliscono una presenza continua, subìta o accettata dalla popolazione, che comunque non digerisce la presenza straniera targata Nato e quei contractors, ingaggiati dalla stessa Multiforze, che sono diminuiti, non scomparsi.

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Rojava. Un Medio Oriente in «comune»

Combattenti kurdi delle Ypg e le Ypj in Rojava © LaPresse

ilManifesto – C.Cruciati, 8/9/2016

Rojava 300x200Combattenti kurdi delle Ypg e le Ypj in Rojava © LaPresse

Intervista. Ozlem Tanrikulu, presidentessa di Uiki: «Il modello di confederalismo di Rojava può andare oltre i confini kurdi, una democrazia popolare fondata su assemblee di strada, villaggio, città. Oltre gli Stati e il potere». Dalla teoria di Ocalan alla pratica: società multietniche basate su uguaglianza di genere ed ecologia

Dopo l’invasione turca nel nord della Siria non è in pericolo solo l’unità fisica dei cantoni di Rojava, Afrin, Kobane e Jazira. È in pericolo un modello politico democratico, egualitario, multi-etnico, femminista ed ecologista che va oltre i confini kurdi.

«Il confederalismo democratico è un modello di convivenza sociale oltre lo Stato, il potere, la violenza»: poche parole e Ozlem Tanrikulu, presidentessa dell’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, si addentra in una questione dibattuta nei mesi della liberazione di Kobane ma lasciata lì, in un angolo. Come Kobane, oggi sotto attacco turco nell’indifferenza di chi esaltò i combattenti di Ypg e Ypj.

Cosa prevede la teoria del confederalismo democratico?

Senza tenere conto dei vincoli coloniali e neocoloniali non si può comprendere l’attuale scenario in Medio Oriente, né le politiche genocide della Turchia. Nel Nord del Kurdistan i kurdi – seguendo il paradigma dell’autonomia all’interno del confederalismo democratico, modello di organizzazione sociale basato su ecologia, liberazione delle donne, autogoverno e autodifesa – hanno dato vita ad un’infrastruttura politica e sociale che li ha messi nella condizione di amministrare i territori con forme di autogoverno.

Si tratta di un modello di convivenza sociale inclusivo ma non limitante, perché si basa sull’autorganizzazione dal basso nel rispetto della pluralità etnica, culturale, religiosa. Un sistema morale nel quale sussiste una relazione dialettica sostenibile con la natura e che al suo interno non è basato su dominio e gerarchia: il bene comune è stabilito dalla democrazia diretta.

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RAPPRESENTANTE DI RAWA PARTECIPA ALLA CONFERENZA ANNUALE DEL CISDA

Oltre alle attiviste del CISDA, hanno partecipato alla conferenza sostenitori di RAWA provenienti da Italia, Germania e Stati Uniti, e di organizzazioni turche e curde progressiste e contro la guerra.

Rawa – settembre 2016.

RAWALogo2Il 2 e 3 luglio 2016, una rappresentante dell’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA) ha partecipato alla conferenza annuale del Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (CISDA). Oltre alle attiviste del CISDA, hanno partecipato alla conferenza sostenitori di RAWA provenienti da Italia, Germania e Stati Uniti, e rappresentanti di organizzazioni turche e curde progressiste e contro la guerra.

Nel primo giorno della conferenza, la rappresentante RAWA ha parlato in dettaglio della situazione disastrosa del popolo afghano – soprattutto per quanto riguarda la condizione delle donne – sotto il giogo del governo Ghani-Abdullah, i criminali jihadisti e talebani, e degli Stati Uniti. Nel suo intervento ha precisato:

“Se nel recente passato erano i talebani a uccidere le donne nello stadio di Kabul, oggi sono i vari jihadisti agli ordini dei loro padroni Sayyaf e Ismail, a massacrare Farkhunda (ndt: la ragazza afghana picchiata a morte e poi bruciata) a Kabul, davanti a migliaia di persone e in presenza di agenti di polizia. I paesi USA e NATO, tra cui l’Italia, sono i sostenitori di questo governo e millantano successi nel campo dei diritti delle donne che di fatto sono inesistenti.

Un esempio è il libro pubblicato dal George W. Bush Institute: “Noi siamo donne afghane: voci di speranza” che contiene le storie di successo di diverse donne afgane. Queste donne sono come marionette nelle mani degli Stati Uniti e del governo afghano, e stanno cercando di ritrarre gli Stati Uniti come i salvatori. Diffondono l’idea che l’Afghanistan sia diventato un paradiso per le donne afghane dopo l’occupazione degli Stati Uniti, quando in realtà il nostro paese è ancora un INFERNO per le nostre donne”.

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Le calciatrici afgane sfidano sul campo i taliban e i pregiudizi

Internazionale – S. Liberti – 9/9/2016

Calciatrici 300x212L’appuntamento è fissato per le cinque e mezzo del mattino. “Ci alleniamo di buon’ora, per evitare il caldo e non dare troppo nell’occhio”, dice la capitana Sabrina Nawrozi. “E poi perché”, aggiunge con tono rassegnato, “le altre ore sono riservate ai maschi”.

L’indomani alle prime luci dell’alba ritrovo Sabrina e le sue compagne puntuali allo stadio comunale di Herat: scarpe da ginnastica, capelli avvolti nell’hijab, magliette lunghe e calze a coprire le ginocchia. Sono una ventina, tra i sedici e i ventidue anni. Tutte studentesse, si riuniscono prima dei corsi in questo grande stadio deserto due o tre volte alla settimana, per allenarsi e praticare lo sport che amano più di qualsiasi altra cosa: il calcio.

Intorno a loro, c’è l’allenatore Najibullah Nawrozi (nessuna parentela con la capitana), un uomo robusto, dagli occhi di ghiaccio e i modi apparentemente bruschi, che le ragazze sembrano adorare come un padre. È imperturbabile. Al centro del gruppo, dà ordini secchi e concisi. Le incita a scaldarsi i muscoli. A fare stretching. A saltare gli ostacoli. E a lanciarsi il pallone. Loro eseguono. Faticano. Sudano. E si divertono.

Allenamento semiclandestino “Per me il calcio è come l’ossigeno. Non potrei farne a meno”, dice ansimando Maryam Merzhad, 19 anni, che gioca nel ruolo di terzina e corre come una pazza dietro la palla. “È nutrimento per la vita, come il cibo o l’acqua”, le fa eco la centrocampista Zahra, anche lei di 19 anni. Le altre annuiscono, si mettono in due file parallele per stirarsi i muscoli a vicenda.

Dopo una lunga sessione di riscaldamento, viene approntata la partitella di metà allenamento. Alcuni ostacoli mobili sono spostati e usati come pali per segnare le porte. Perché loro non giocano sul terreno vero e proprio: sia il match sia l’allenamento si svolgono in uno spazio dietro la rete, a bordo campo. “Non abbiamo gli scarpini e non ci fanno stare sul manto erboso. Dicono che lo roviniamo”, spiega un po’ mortificata la capitana Sabrina.

Footbol 300x192L’allenatore Najibullah Nawrozi e l’allenatrice Abeda Nafieh all’ingresso dello stadio di Herat, luglio 2016. (Stefano Liberti)

Lo stadio è nuovo e scintillante. Il prato, curatissimo. Rinnovato con fondi di donatori internazionali – in parte anche della cooperazione italiana, come indica una targa proprio all’ingresso – l’impianto sembra per lo più destinato ai maschi. Relegate a giocare a queste ore antelucane in uno spicchio del campo, le ragazze sembrano far parte di una squadra semiclandestina.

E in un certo senso è proprio così. “Convochiamo gli allenamenti via sms. E ogni volta cambiamo il giorno. I taliban e gli altri islamisti radicali odiano quello che facciamo e preferiamo non esporci troppo”, racconta l’allenatore, che ha ricevuto anche minacce dirette dagli ex studenti coranici. “I taliban me l’hanno giurata. Ma io certo non mi fermo. Vedere i progressi di queste ragazze è per me fonte di enorme soddisfazione”.

Veicolo per la libertà Ex giocatore di basket, Najibullah ha 45 anni ed è il capo del comitato sportivo di Herat. Allena sia le squadre maschili sia quelle femminili. Dice di svolgere il doppio incarico con uguale entusiasmo, ma vedere queste sue allieve correre dietro il pallone sembra dargli un senso di felicità e di fierezza estrema. “Siamo amanti della libertà”, dice con gli occhi che brillano. “Lo sport è un veicolo per la libertà”.

Durante il regime dei taliban, dal 1996 al 2001, quando alle donne era perfino vietato andare a scuola o uscire di casa da sole, gli sport erano banditi per tutti. Dopo averli definiti “antislamici”, il regime oscurantista aveva deciso di utilizzare gli stadi per le esecuzioni pubbliche. Oggi, nel nuovo Afghanistan, gli impianti sono tornati alla loro funzione originaria e il calcio ha cominciato a diffondersi anche tra le ragazze. Un fenomeno del tutto nuovo e in crescita: ci sono più di mille giocatrici registrate nelle federazioni attive in sei province del paese – Herat, Bamyan, Ghazni, Jowzjan, Balkh, e la capitale Kabul, dove si contano ben 22 squadre. C’è un campionato e anche una nazionale femminile che ha partecipato negli ultimi anni a qualche torneo internazionale (nel 2014, è arrivata terza ai Giochi dell’Asia del sud).

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Afghanistan: tasse e aiuti in un Paese senza economia

Blog – E. Campofreda – 4/9/2016

comizio talebano a Kabul 1994 300x212Osservatori delle vicende afghane hanno diffuso dati relativi alle entrate finanziarie registrate dal governo di Kabul. Sorprendentemente, visto il caos in cui versa il Paese, nei primi sei mesi del 2016 si riscontra un incremento di oltre l’11% rispetto all’anno precedente, si passa dal 22% al 33.3%. Immediata giunge la precisazione che questo non determina alcun segnale di salute dell’economia interna che resta bloccata oppure svenduta per i vantaggi di multinazionali straniere che offrono cifre non certo stratosferiche in cambio dello sfruttamento di talune risorse, ad esempio nel settore minerario. Il surplus è frutto del pagamento di talune tasse, fra cui quella di sorvolo versata per intero dall’aeronautica militare americana e conseguente all’attività delle nove basi strategiche allestite in questi anni.

Seguono le somme incamerate dalla vendita a privati di terreni del demanio e un certo rientro della cifra (circa un miliardo di dollari) scomparsa dalla Kabul Bank in occasione dello scandalo del 2010. Altre entrate vengono dalle ricariche telefoniche, nonostante la diffusa povertà la metà della popolazione afghana è dotata di telefono cellulare e l’utilizza quotidianamente. I gestori telefonici sono stranieri (statunitensi, sauditi, iraniano) ma sulle ricariche introita Kabul.

Le entrate hanno galleggiato sul raddoppio da 2% al 4% dell’imposta per il business che coinvolge importazioni, vendite, contratti e su un incremento fiscale del 10% per le telecomunicazioni (aumenteranno le tariffe dei cellulari?), quindi sulla riscossione di tributi sul reddito dipendente con ritenute alla fonte degli stipendi impiegatizi. Hanno concorso all’incremento delle entrate anche tutta una serie di accordi stipulati dalla presidenza Ghani con la World Trade Organization, con taluni programmi del Fondo Monetario Internazionale e coi patti di collaborazione proposti dai giganti dei prestiti che chiedono in cambio un controllo politico-economico della nazione aiutata. L’esempio più illustre è l’Usaid. Quest’impegni saranno monitorati anche nella Conferenza Internazionale sull’Afghanistan prevista il 5 ottobre prossimo a Bruxelles, in cui i Paesi donatori (e in tanti casi occupanti affiliati alla Nato) analizzeranno gli sviluppi di nuovi piani che s’innestano su quelli antichi avviati con l’Enduring Freedom. Ricordiamo come nei quattordici anni di “attenzione” occidentale alle vicende afghane, sviluppatisi anche con la missione Isaf, sono stati spesi 4500 miliardi di dollari.

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Intervista a Malalai Joya: “la più coraggiosa donna dell’Afghanistan”

Blog di Masih Sadat – 28/6/2016

malalai FB 300x291Nel marzo di quest’anno, l’attivista afghana di fama mondiale, Malalai Joya, ha effettuato una visita a Copenaghen, in Danimarca. Durante il suo soggiorno, ho avuto un colloquio con lei circa l’occupazione dell’Afghanistan e il futuro del paese.

Malalai è nata nel 1979 e fa parte della generazione della guerra afghana. Oggi, lei vive in clandestinità a Kabul dopo aver subito diverse minacce di morte e tentativi di assassinio. Da qui, sta conducendo una lotta mortale contro il fondamentalismo in Afghanistan e si batte per la giustizia e i diritti umani concentrandosi principalmente sulle donne afghane.

SIAMO CRESCIUTI NELLA GUERRA

Sono nata solo tre giorni prima che il mio paese venisse occupato dai russi. La situazione non è cambiata da allora. L’unica cosa che è cambiata è il nome del nemico. I russi per esempio hanno commesso i loro crimini in nome del socialismo, seguiti dagli estremisti e fondamentalisti che lo fanno in nome dell’Islam e, oggi, stiamo subendo una occupazione che dura da 15 anni in nome della democrazia. Siamo cresciuti nella guerra.

Quali conseguenze ha avuto l’invasione dell’Afghanistan?

Nella storia dell’Afghanistan abbiamo subito diverse invasioni di potenze straniere, ma ogni volta gli invasori hanno saggiato la resistenza del popolo afghano – uomini e donne, giovani e vecchi. Gli inglesi, poi i russi, e oggi gli americani. L’ultima invasione – quella degli americani – ha portato il nostro paese ad una situazione catastrofica. Le conseguenze della loro invasione sono state solo ulteriori spargimenti di sangue e violazioni dei diritti umani. Decine di migliaia di persone sono state assassinate in questi quindici anni durante la cosiddetta “guerra al terrore” – qualcosa che preferirei chiamare “guerra ai civili afgani innocenti”.

Le potenze occupanti non fatto alcuno sforzo nella lotta contro i talebani e il terrorismo?

In quindici anni di occupazione gli Stati Uniti e la NATO hanno direttamente e indirettamente sostenuto i talebani. La loro lotta contro i talebani non è stata condotta seriamente. Stanno semplicemente giocando a “Tom e Jerry” con questi terroristi e hanno finanziato con milioni di dollari i signori della guerra sin dalla guerra fredda. Gli Stati Uniti utilizzano i loro crimini come una scusa per rimanere in Afghanistan. Affermano che il loro ritiro si tradurrà in una guerra civile. Ma che ne è della guerra che ha avuto luogo negli ultimi 15 anni in cui le persone sono state catturate tra i signori della guerra, i talebani, e la potenza di occupazione?

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La battaglia delle donne afghane contro i matrimoni forzati

Internazionale – S. Liberti 2/9/2016

donne afghanistan 2 300x194Abida ha quattordici anni e un figlio neonato di cui non sa più nulla. Avvolta in un vestito ornato di lustrini, lo sguardo assente che ogni tanto si accende in lampi improvvisi, sembra vivere in un mondo tutto suo. Parla poco, e quando lo fa si perde in labirinti di frasi sconnesse. Riesce solo a dire, in un raro momento di lucidità riferendosi al figlio che ha dato alla luce: “Non sono in grado di occuparmi di me stessa, figuriamoci di qualcun altro”.

Abida è una sposa bambina. Consegnata dal padre a un signore di 50 anni più vecchio di lei quando aveva appena 11 anni, un anno e mezzo dopo è rimasta incinta. La gravidanza e il parto le hanno causato visibili danni psicologici: quasi a volersi riappropriare di quell’infanzia che le è stata sottratta, ha cominciato a comportarsi come una bimba piccola, agitandosi, strillando senza motivo, scalciando contro chiunque si avvicinasse.

Dopo il tracollo psicologico, il marito ha affidato il neonato a un’altra moglie, ha cacciato di casa Abida e l’ha rispedita dalla madre, che è andata a vivere a Herat nell’abitazione di un fratello. Oggi le due donne sono lì, senza mezzi di sostentamento, sopportate a malapena dal familiare. “Ci ha messo in una stanza e ci dà qualcosa da mangiare”, dice la signora. “Ma non permette ad Abida di interagire con il resto della famiglia”.

Una prassi diffusa
Madre e figlia fanno la spola tra questa casa in cui sono ospiti non gradite e il Family protection center, un centro che dà assistenza alle vittime di violenze domestiche nella città afgana. Quando la incontriamo in questo edificio all’interno del compound dell’ospedale di Herat, sembra uno zombie. Si muove a scatti. Parla solo con la madre facendo squillare la sua vocina da bimba piccola. A un tratto si alza e si mette a sedere tra le ginocchia della donna, come a voler cercare protezione. “La storia di Abida è molto estrema, perché la violenza sessuale e il parto le hanno causato una grave forma di schizofrenia”, racconta la dottoressa Neelab Sultany, psicologa del centro. “Ma i casi di bambine date in spose in matrimoni combinati sono molto frequenti, soprattutto tra i ceti più poveri e in ambienti rurali”.

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Afghanistan, le sue donne e l’impegno per contrastare l’atrocità di un conflitto che sembra non trovare soluzione

tralerocceeilcielo – 8 agosto 2016

img 3481 1 300x200Afghanistan, le sue donne e l’impegno per contrastare l’atrocità di un conflitto che sembra non trovare soluzione

Intervista a Cristiana Cella

Dalla voce di una testimone d’eccezione, Cristiana Cella, l’esperienza di collaborazione tra il Cisda e il progetto Vite Preziose e 5 Ong afgane fatte di donne per le donne che lavorano per il rinnovamento di un Paese dilaniato da decenni di conflitto.

In un suo aforisma Voltaire scrive “Uccidere è un crimine. Tutti gli assassini vengono puniti, a meno che uccidano in gran numero di persone e al suono delle trombe”. Questa terribile verità è ormai storia da decenni e in molte parti del Pianeta. Il rapporto di noi occidentali con la guerra è alquanto controverso e distorto, passiamo dall’essere sconvolti e traumatizzati dal conflitto, al disinteresse e all’apatia, troppo spesso “consumiamo” la guerra come un qualsiasi spettacolo mediatico e solo se non ci tocca direttamente facciamo presto ad annoiarci e ad interessarci a nuove tragedie.

Il 19 agosto, durante la seconda giornata del Festival “Tra le rocce e il cielo” avremo modo di ascoltare la testimonianza di Cristana Cella, giornalista e attivista dei diritti umani, che ci racconterà l’Afghanistan, le sue donne e l’impegno che la società civile sta portando avanti da anni per contrastare l’atrocità quotidiana di un conflitto che sembra non trovare soluzione.

Quell’area strategica del medio oriente, pacifica e florida per gran parte del xx secolo ha avuto una storia sofferta e travagliata che possiamo far partire dal colpo di Stato del 1973. Da quel momento in poi una serie di accadimenti scossero il Paese e lo portarono all’attuale condizione di guerra aperta. La Rivoluzione d’Aprile del 1978 di stampo marxista-leninista, l’invasione dell’Urss del 1979, la repubblica Islamica dei primi anni novanta e inseguito il dominio talebano che portò, dopo l’attentato al World Trade Center, all’invasione americana e delle forze Onu nel 2001. Da quel momento in poi la cronaca, l’operazione Enduring Freedom, la “democrazia” imposta con Karzai e la continua instabilità e violenza fino ai giorni nostri, gli attentati, le truppe del contingente Nato ancora sul territorio.

Parlare con Cristiana Cella vuol dire dar voce a questa storia e a molte altre, prime fra tutte alle donne che la giornalista ha conosciuto quando era in Afghanistan per il quotidiano l’Unità e come membro del Cisda e che continua a seguire grazie al progetto Vite Preziose che ha creato e che porta avanti da anni.

Procediamo con ordine e iniziamo a conoscere Cristiana Cella.

Quando sei andata per la prima volta in Afghanistan?

La prima volta che sono andata in Afghanistan era il 1980, la Nazione era stata appena invasa dai russi e la situazione era molto diversa rispetto a quella attuale. Quando i russi hanno iniziato a bombardare l’Afghanistan, la società civile era ancora integra, le donne andavano in giro senza velo, Kabul era una città bellissima, le donne erano medici, ingegneri, architetti, guidavano la macchina, c’era stato il 68 afgano. La società civile era forte e iniziò proprio in quel periodo la lenta distruzione della parte democratica del Paese.

Allora, ho avuto l’opportunità di conoscere i mujaheddin democratici. Già allora c’erano i primi movimenti fondamentalisti, ma i fondamentalisti che stavano a Peshawar erano solo una parte della Resistenza, poi c’era tutta la parte democratica che si opponeva alla invasione russa e all’avanzata del fondamentalismo. C’era tutto l’Afghanistan democratico e islamico moderato, che io ho avuto la possibilità di seguire e documentare sulle montagne durante i combattimenti, che lottava per l’indipendenza del proprio paese. Tuttavia, proprio la parte democratica della Resistenza è stata devastata negli anni seguenti, in quanto colpita contemporaneamente sia dai russi che dalla resistenza fondamentalista. Le donne che adesso hanno strutturato tutte le attività politiche e umanitarie che seguo, molto spesso sono figlie di chi ha portato avanti, negli anni 80, la resistenza democratica. Sono cresciute e sono state educate con l’idea di un Paese democratico, laico, libero e svincolato dalle ingerenze straniere.
C’è un filo diretto che collega quello che sta avvenendo adesso e quel periodo storico ben preciso, ma da allora ad adesso il Paese non ha mai potuto conoscere un momento di pace e quindi le attività di ricostruzione della società civile sono sempre state condotte parallelamente e in concomitanza con i conflitti. Dopo i russi, la guerra civile, i talebani e poi gli americani.

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Turchia: sfida all’Europa sui diritti

Dal sito fondazionebasso.itEnglish version below

Appello a

The Secretary General of the Council of Europe, Jeppe Tranholm-Mikkelsen
The President of the European Commission, Jean-Claude Juncker
The first Vice-President of the European Commission, Frans Timmermans
The High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy, Federica Mogherini
The Commissioner on Trade, Cecilia Malström
The EU Commissioner on Migration, Home Affairs and Citizenship, Dimitris Avramopoulos The President of the European Parliament, Martin Schultz
The European Council President, Donald Tusk

Turchia: sfida all’Europa sui diritti

Vero o finto che sia stato il tentativo di colpo di Stato dei militari, il regime autoritario del presidente turco Recep Tayyip Erdogan lo ha accolto come “un dono di Dio” e un’occasione per sbarazzarsi una volta per tutte di ogni opposizione, soprattutto quella civile e democratica, che in questi giorni viene aggredita, imprigionata, umiliata.

Con il pretesto, finora indimostrato, che i suoi oppositori siano complici del tentativo di colpo di stato, Erdogan ha deciso di portare a compimento la sua politica di annientamento di ogni dissenso, calpestando leggi interne e convenzioni internazionali sottoscritte dalla Repubblica turca, e trasformando la Turchia in un potente centro di destabilizzazione regionale.

A tutti i popoli, e specialmente a quello curdo, che stanno soffrendo il potere sopraffattorio e oppressivo di Erdogan va la nostra solidarietà attiva di persone che lottano affinché i diritti umani e i diritti dei popoli prevalgano sugli interessi politici ed economici dei poteri dominanti.

Nel recente convegno internazionale svoltosi a Roma il 4 e 5 luglio scorso, organizzato dalla Fondazione Lelio Basso, abbiamo denunciato la vergogna di cui si è macchiata l’Unione Europea quando ha accolto le condizioni del regime turco, finanziandolo e stipulando con Erdogan un “patto di morte” ai danni di persone disperate che fuggono dalla violenza della guerra e della fame, e che un’Europa egoista non riesce a distribuire tra i suoi paesi membri.

I fatti atroci di questi giorni confermano l’intollerabilità dell’autocrazia di Erdogan e l’assoluta inadeguatezza e ipocrisia delle prese di posizioni di facciata dei governanti europei quando si limitano a sollecitare cautela al governo turco, non mancando nel contempo di ricordarne la democratica elezione, così riducendo la democrazia a mera investitura, in violazione del patrimonio di diritti e di libertà proprio della civiltà europea, secondo cui non è democratica una società in cui non siano garantiti i diritti fondamentali.

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