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Autore: Anna Santarello

Intervista a Mariam Rawi di RAWA (Revolutionary Association Women of Afghanistan)

Apparsa recentemente sulla rivista svedese “ASTRA” di Alessandra Garusi

mariam rawi canarias“A partire dall’uccisione di mio padre e di altri membri maschili della mia famiglia, la tragedia ha sempre accompagnato la mia vita. Per questa ragione il mio unico sogno è una vita sicura e protetta per i miei figli: un ragazzo di 14 anni e una bambina di 7 anni. Ciò che desidero è veramente poco. Il successo non mi interessa”.
Mariam Rawi (nome inventato per motivi di sicurezza) è nata 38 anni fa a Kabul. Lavora per RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan), un’associazione che, fin dai tempi della guerra di resistenza tra l’Afghanistan e l’Unione Sovietica (1977), lotta per la democrazia e i diritti delle donne afghane. Una battaglia dura, allo stremo delle forze, che è diventata lo scopo della sua vita. Ecco l’intervista che Mariam ha rilasciato ad ASTRA.

Dopo 11 anni di occupazione, è migliorata la situazione in Afghanistan?
No, purtroppo non è migliorata. Attualmente l’Afghanistan è al secondo posto nel mondo per la corruzione e produce il 90% di oppio. Inoltre è il posto più pericoloso per le donne: il 90% della popolazione femminile afghana ha subito violenza domestica (stupri, matrimoni forzati, etc.); nel 2011, 2.300 donne si sono suicidate.
Sicuramente 11 anni fa l’America ha avuto la grande opportunità di poter occupare un’aerea molto vasta. Tuttavia, niente ha funzionato: i Talebani sono tuttora molto forti nel nostro paese. Sicuramente non dominano la capitale, ma molte regioni sono ancora nelle loro mani. Qualsiasi negoziato di pace deve per forza coinvolgerli ed è destinato a fallire.

Le donne indossano ancora il burqa? Ad esempio, tu lo indossi?
Per anni ho indossato il burqa quasi ogni giorno. Ora dipende: paradossalmente, indossarlo a Kabul potrebbe essere addirittura pericoloso poiché molti degli attacchi suicidi vengono perpetrati da persone che nascondono bombe sotto il burqa. Quindi, quando sono nella capitale mi metto gli occhiali da sole e una sciarpa, mentre indosso il burqa quando viaggio in altre province, dove si svolgono molte delle attività di RAWA.

Quali sono gli ambiti in cui RAWA opera?
Operiamo in vari ambiti, prima di tutto nell’ambito educativo: organizziamo scuole per i figli dei profughi in due città pakistane e corsi che si tengono in case private in Afghanistan.
L’altra area in cui lavoriamo è l’assistenza sanitaria. Fino a poco tempo fa gestivamo un ospedale a Quetta, ma ora purtroppo è stato chiuso per problemi finanziari. Comunque abbiamo ancora 13 unità mobili in 7 province afghane, che lavorano a pieno regime – anche se non ufficialmente con il nome di RAWA. Ci sono anche locali d’emergenza speciali per le donne.
Nel campo politico organizziamo eventi e incontri con la stampa in Pakistan. Dal 1981 curiamo la pubblicazione di Payam-e-Zan (Messaggio delle Donne) nelle lingue persiana e pashto e abbiamo anche un sito web: www.rawa.org. L’obiettivo è aumentare la consapevolezza.

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Afghanistan. Quali sono i numeri dell’impegno militare post-Nato?

Osservatorioiraq – 20 maggio 2013 di Claudio Bertolotti

Per rispondere a questa domanda è necessario affrontarne un’altra: gli Stati Uniti continueranno a condurre operazioni di controterrorismo in Afghanistan e in Pakistan?

Questa è la questione centrale di qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in Afghanistan.
Secondo molti esperti la risposta sarebbe indubbiamente sì, se la strategia per l’Afghanistan rimanesse quella attuale, portando a 68 mila le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole nel corso del 2015.

Dunque, con una presenza significativa forte di circa 30.000 uomini, la questione si sposta allora sul piano logistico. La presenza fisica di truppe sul terreno richiede infatti un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione.
La svolta strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e sostanziali): il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il mantenimento di basi strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo in fase di definizione).

In sintesi – meglio di quanto già tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima sul lungo periodo, al momento ipotizzabile sino al 2024.

Dopo mesi di dibattiti, l’allora comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R. Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf (dal primo gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno formalmente trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.

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Afghanistan: in aumento le donne in carcere per “reati morali”

La denuncia di Human Rights Watch: fuggite dai mariti-aguzzini

Kabul, 21 maggio 2013

Il numero delle donne detenute in Afghanistan per “reati morali”, come la fuga dai mariti violenti, è aumentato consistentemente. Lo ha denunciato Human Rights Watch, mettendo in forse la tesi che la condizione femminile nel Paese sia migliorata.

Il gruppo per la tutela dei diritti umani ha riferito che i dati del ministero degli Interni dimostrano che il numero delle donne e delle ragazze condannate per crimini morali nel Paese funestato dalla guerra è aumentato del 50 per cento nell’arco di diciotto mesi, passando da quattrocento a seicento. Secondo il rapporto di Human Rights Watch, la maggior parte delle seicento donne detenute in carcere sono vittime di aggressioni sessuali e violenze familiari, scappate dai loro aguzzini.

“Quattro anni dopo l’adozione della legge sulla violenza contro le donne e dodici anni dopo il regime dei talebani, le donne sono ancora in carcere perchè vittime di matrimoni forzati, violenze domestiche o stupri”, ha denunciato Brad Adams, direttore Asia director of Hrw.

La legge contro la violenza sulle donne in Afghanistan

Il Post – 18 maggio 2013

Il parlamento afghano ha bloccato la legge contro la violenza sulle donneIl parlamento ha bloccato la discussione che avrebbe dovuto tramutare in legge il decreto presidenziale del 2009

Venerdì 17 maggio il parlamento afghano ha fermato la discussione sulla possibilità di ratificare la legge contro la violenza sulle donne e il matrimonio tra bambini. Il dibattito è durato in tutto 15 minuti: il presidente della Camera ha interrotto la seduta dopo le violente proteste dei mullah e dei deputati più tradizionalisti.

Una legge contro la violenza sulle donne in Afghanistan esiste dal 2009 sotto forma di decreto del presidente, ma non è mai stata passata all’approvazione del parlamento. Attualmente il decreto può essere usate dai tribunali come base per il loro lavoro e alcune centinaia di persone si trovano attualmente in carcere per averne violato le disposizioni.

La decisione di forzare la mano e tentare di far approvare la legge dal parlamento ha diviso gli attivisti a favore delle donne, tra cui ci sono le 68 donne parlamentari (un quarto dei seggi è riservato a loro).
Alcuni hanno sostenuto che l’approvazione in parlamento della legge renderà più difficile per i tribunali perseguire i responsabili sulla base del codice penale ordinario o della sharia, che prevedono pene più lievi. Se il decreto non sarà tramutato in legge, sostengono, per il governo sarà più facile renderlo più morbido con lo scopo di facilitare i colloqui di pace con i talebani.

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Afghanistan 2013. Un’impressione.

Di Daniele Giaffredo – 365giorni.org

afg jfUno tra i ricordi più vivi che conservo delle parole del nostro presidente Mario Fontana è un frammento di conversazione tra me e lui, un pomeriggio in ufficio, nel 2008.
Era autunno, Mario era di ritorno da un viaggio in Afghanistan: “Quello che vedi laggiù è terribile”, mi disse.

E poi, con lo sguardo vago e basso, come a cercare egli stesso un appiglio: “È un popolo che non ha futuro, la gente che non ha più la speranza”.

Diverse volte mi è capitato di riflettere su quelle parole e di citarle. La condizione umana più disperata mai incontrata da Mario, che certo di Paesi del Sud del mondo ne aveva girati tanti, era dunque l’Afghanistan.
Uno si immaginerebbe al primo posto, in questa classifica al contrario, la miseria delle favelas nel Sud America, o l’estrema povertà di alcune regioni dell’Africa Sub sahariana. Invece no, era l’Afghanistan che si era stampato come l’esperienza più sconvolgente di tutta una vita. La moglie Giusi, che con gli amici Carla e Olindo aveva preso parte a quel viaggio, mi aveva confessato che Mario era un giorno arrivato alle lacrime, toccato nel profondo dell’animo.

Quale l’elemento distintivo, dunque, che fa di questa terra la terra più disgraziata? Che in Afghanistan non c’è speranza. Perché la miseria più maledetta, le privazioni più inumane possono essere vissute da un popolo quasi con trascuratezza, se si proietta la propria esistenza oltre il buio perché già si distinguono i segni buoni di un domani migliore. Ma se non hai la speranza, se ogni giorno ti svegli con la certezza di veder soffrire i tuoi figli e la tua gente, se la tua vita è minacciata da ogni dove e chi dovrebbe proteggerti difende invece i tuoi aggressori… A quel punto puoi e vuoi solo scappare dalla tua terra.

O dalla tua stessa vita.

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Afghanistan, la sindrome Saigon

GIULIANA SGRENA – 14 maggio 2013 – Globalist

NEWS 84686In vista del ritiro delle truppe straniere nel 2014 molti afghani cercano di lasciare il paese. Gli Usa vogliono far accettare basi americane dopo il ritiro.

In Aghanistan si sta diffondendo la “Sindrome Saigon”. In vista del ritiro degli americani nel 2014, molti sono gli interrogativi, l’unica cosa certa è che molti afghani che si sono messi da parte un gruzzolo depositato in banche straniere, quelli che hanno proprietà da vendere e soprattutto quelli che hanno lavorato per le truppe straniere se ne vogliono andare. E stanno già chiedendo i visti per l’occidente. Usa e Canada le mete prescelte.

Sono in molti quelli che per partire dovranno vendere le ville dall’architettura discutibile o le innumerevoli sale per matrimoni (wedding hall) sorte come funghi nella capitale, come se i matrimoni fossero la principale occupazione dei rampolli delle famiglie dei signori della guerra ulteriormente arricchitisi con il narcotraffico. La corsa alla vendita insieme alla partenza di molti occidentali farà prevedibilmente crollare i prezzi di vendita e di affitto di molti palazzi e ville finora esagerati per una città disastrata come Kabul. In previsione di questo crollo molti cantieri edilizi hanno già interrotto i lavori.

Anche se la Sindrome Saigon avrà un impatto limitato sulla popolazione, questo sembra l’unico effetto del ritiro delle truppe americane che tutti avvertono. Frutto probabilmente anche della propaganda americana che paventa lo scoppio della guerra civile dopo la loro partenza. L’obiettivo degli Usa tuttavia non è quello di far scappare gli afghani ma di diffondere la paura per far accettare le numerose basi che gli americani stanno contrattando per mantenere la propria presenza e il proprio controllo sul paese.

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Karzai ammette: presi soldi dagli Stati Uniti (e dall’Iran).

di Andrea Intonti – 11 maggio 2013 – Agoravox

arton47738 79b65 copyKabul (Afghanistan) – Si è sempre detto che Hamid Karzai fosse un presidente più amato dagli Stati Uniti che dal popolo afghano. Ora, grazie alle rivelazioni di Matthew Rosenberg del New York Times, quelle voci trovano ulteriore conferma. Negli ultimi dieci anni, infatti, la Cia ha depositato mensilmente valigette piene di denaro negli uffici del presidente e che finivano nelle mani di membri del Consiglio Nazionale Afghano, tra i quali Mohammed Zia Salehi, arrestato nel 2010 per traffico di denaro, finanziamento ai Taleban e commercio di oppio, al culmine di un’operazione di contrasto alla corruzione che aveva il suo fulcro nella Kabul Bank.

Quei soldi, secondo Karzai, sono serviti per curare i feriti, per l’istruzione dei giovani o per altre operazioni comunque legali. Secondo le fonti del quotidiano newyorkese – funzionari statunitensi rimasti anonimi – sono stati invece utilizzati per corrompere politici e signori della guerra, tra i quali alcuni al governo, come i vicepresidenti Muhammad Qasim Fahim e Karim Khalili.

La notizia di per sé non stupisce e, anzi, più che di scoop sarebbe forse più giusto parlare di ammissione. Non essendo riusciti a batterli sul campo, attraverso Karzai gli Stati Uniti hanno lavorato ad un piano alternativo: comprarsi i signori della guerra afghani a suon di milioni di dollari, forse l’unico modo per realizzare una exit-strategy davvero sicura. L’unico risultato realmente ottenuto è stato infatti quello di dare protezione, soldi e legittimità alle stesse reti – il traffico di droga, i Taleban – che ufficialmente si combattevano.

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Afghanistan. Karzai: “Gli Usa manterranno 9 basi”

Rinascita – 10/5/2013 di Ferdinando Calda

Karzai1 150x150Gli Stati Uniti vorrebbero mantenere 9 basi militari in Afghanistan dopo il ritiro del 2014, e il governo di Kabul è intenzionato a consentirlo perché “è nell’interesse del Paese”. Lo ha dichiarato ieri il presidente afgano Hamid Karzai, che però non si è espresso sulla spinosa questione dell’immunità giuridica per le truppe straniere. Condizione ritenuta indispensabile da Washington, sulla quale però Karzai ha bisogno del consenso del Parlamento e della Loya Jirga (un’assemblea popolare). Inoltre l’affermazione del presidente afgano solleva dei dubbi sull’entità del contingente Usa – e degli altri Paesi Nato – che dovrà rimanere nel Paese, dato che per presidiare e gestire tante basi saranno necessarie diverse migliaia di uomini.

“Concederemo l’uso delle basi perché ciò è nell’interesse del Paese”, ha dichiarato Karzai in un discorso televisivo rivolto agli studenti dell’Università di Kabul, senza però entrare nel merito dell’estensione a dopo il 2014 dell’immunità di fronte alla legge afgana per i soldati e i funzionari statunitensi. Una clausola richiesta da Washington (il mancato rinnovo dell’immunità da parte del governo iracheno portò al ritiro completo dall’Iraq nel 2011), ma sulla quale l’ultima parola spetta alla Loya Jirga (l’assemblea afgana che comprende leader politici, religiosi e tribali ed esponenti della società), almeno secondo quanto assicurato dallo stesso Karzai all’inizio dell’anno dopo un incontro con l’omologo Usa Barack Obama.

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Comunicato CISDA contro gli attacchi delle forze di sicurezza afghane a una manifestazione di Hambastagi

Milano, 8 maggio 2013

Hambastagi2Il CISDA, Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane condanna fermamente la brutale repressione di una manifestazione pacifica di protesta contro il governo afghano organizzata dal Partito della Solidarietà.

Il 2 maggio 2013, il Partito della Solidarietà dell’Afghanistan (SPA) ha organizzato una manifestazione di protesta a Kabul per denunciare due giorni tragici per il popolo afghano, il 27 aprile 1978 – invasione sovietica – e 28 aprile 1992 – quando i mujaheddin entrarono in Kabul.

Si sono ripetuti i tragici fatti dello scorso anno quando le forze di sicurezza scatenarono una violenta repressione delle voci di protesta contro i signori della guerra nel Parlamento afghano e il Partito della Solidarietà venne sottoposto ad indagine pubblica. Solo grazie all’appoggio delle associazioni internazionali per i diritti civili, il Partito ha potuto evitare la sospensione ufficiale.

Quest’anno la polizia afghana ha ricevuto l’ordine dal palazzo presidenziale di ricorrere alla forza e all’intimidazione per fermare centinaia di manifestanti che hanno marciato con decisione e passione, gridando slogan espliciti contro i signori della guerra, contro i talebani e i loro padroni stranieri, contro gli Stati Uniti e le forze di occupazione NATO.

Centinaia di poliziotti e agenti di sicurezza hanno circondato il corteo chiudendo tutta la zona per evitare che la gente sentisse gli slogan che venivano gridati e si unisse alla protesta. Le forze di sicurezza hanno arrestato almeno nove persone. Secondo quanto riferisce Human Rights Watch, sei di loro sono stati trattenuti in carcere per tre giorni e sottoposti a brutali maltrattamenti: pugni, calci, e colpi di calcio di fucile mentre venivano interrogati sugli organizzatori della protesta.

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Afghanistan: brutale repressione di una protesta pacifica

Human Rights Watch – 7 maggio 2013

HRsW copyKabul – “Le autorità afghane dovrebbero indagare gli arresti e le torture inflitte a pacifici manifestanti da parte delle forze di sicurezza a Kabul”, così ha dichiarato oggi Human Rights Watch. “Gli abusi sono stati effettuati per mettere a tacere ogni forma di pubblico dissenso contro il governo.”
 
Il 2 maggio 2013, centinaia di persone hanno partecipato ad una manifestazione nel quartiere del Cinema Pamir di Kabul, organizzata dal Partito della Solidarietà dell’Afghanistan, per protestare contro il fallimento del governo nel perseguire gli abusi dei signori della guerra, compresi quelli che sono ora al governo. Le forze di sicurezza hanno cercato di fermare la manifestazione – che pure era autorizzata – e hanno arrestato almeno nove persone. Sei di loro, come è stato appurato da Human Rights Watch, sono stati trattenuti in prigione per tre giorni, sono stati duramente picchiati con pugni, calci, e calci di fucile, mentre venivano interrogati sugli organizzatori della protesta.
 
Afghanistan1Web«L’arresto e il brutale pestaggio di manifestanti pacifici è stato fatto per dissuadere tutti gli afgani dal criticare pubblicamente il governo», ha detto Brad Adams, direttore della sezione Asia di Human Rights Watch. “Il Presidente Karzai dovrebbe ordinare un’immediata indagine su quanto è successo e punire tutti i responsabili per questi abusi”.
 
Le sei persone intervistate da Human Rights Watch hanno detto che gran parte del loro maltrattamento si è verificato durante il trasporto in prigione, subito dopo l’arresto, e mentre erano ammanettati. Human Rights Watch ha osservato che le lesioni fisiche sono coerenti con quanto denunciato dai detenuti, compresi i lividi e il gonfiore. Due di loro sono stati seriamente feriti: a uno di loro è stato rotto un ginocchio con il calcio del fucile e sarà necessario un intervento chirurgico. Vari detenuti hanno riferito la confisca di quanto possedevano. Tutti sono stati rilasciati senza ALCUNA ACCUSA PENALE.
 
Human Rights Watch ha chiesto informazioni sulle azioni delle forze di sicurezza al Ministero dell’interno, ma non ha ricevuto alcuna risposta.
 
Il Ministero degli Interni ha infatti autorizzato in un primo momento lo svolgimento della manifestazione del 2 maggio, ma poi le forze di sicurezza hanno obbligato i residenti e gli imprenditori locali a lasciare la zona interessata dalla manifestazione e hanno rifiutato l’accesso a diverse centinaia di manifestanti.
 
Una giornalista ha anche denunciato a Human Rights Watch che le forze di sicurezza le hanno impedito di fare interviste e svolgere il suo lavoro.

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