Ieri l’omicidio di Najia, impegnata nelle istituzioni, poco tempo prima quella di una attivista. E l’Onu presenta un dossier choccante. Najia Siddiqi, responsabile del Dipartimento Affari Femminili della provincia di Laghman, (Afghanistan nord-orientale), è stata assassinata da “sconosciuti” a Mehtarlam la mattina del 10 dicembre, mentre si recava al lavoro. Gli aggressori le hanno sparato da un’auto in corsa. Siddiqi ricopriva la carica lasciata vacante a luglio scorso da Hanifah Safai, rimasta uccisa in un attentato dinamitardo. Nonostante fossero in pericolo di vita, sia Siddiqui che Safai erano senza scorta.
Solo pochi giorni fa nella provincia di Kapisa, confinante con quella di Laghman, è stata ammazzata la 22enne Hanisa, “rea” di lavorare a una campagna per la vaccinazione anti-polio. Un mese fa nella zona di Kunduz è stata la volta della giovane decapitata perché il padre aveva rifiutato di darla in sposa al ceffo di turno. L’elenco potrebbe essere aggiornato ogni giorno dell’anno.
Una donna che non sparisce in un burqa, o non tiene un profilo raso-terra in Afghanistan è a rischio di vita in ogni momento. E dire che sono passati ormai undici anni dalla “vittoria” dei “nostri” su quei Talebani che mortificavano in primis le donne. Certo, le donne oggi votano in Afghanistan e, potendo, vanno pure a scuola (eccetto nelle zone in cui gli stessi talebani o i warlords che agiscono indisturbati lo impediscono).
Nella Giornata internazionale dei diritti umani (10 dicembre) manifestazione di SAAJS (Social Association of Afghan Justice Seekers, Associazione afgana per la giustizia)
Se il 10 dicembre, la Giornata Internazionale per i diritti umani, è una formalità in alcuni paesi, per l’Afghanistan che è stato in guerra negli ultimi 34 anni, ha vissuto due invasioni da due superpotenze del mondo, è stato governato da fondamentalisti, e le sue vittime principali sono la giustizia e i diritti umani, questo giorno non può essere trattato come tale. L’Associazione afgana dei richiedenti giustizia (SAAJS), che alza la voce per ottenere la giustizia per le vittime dell’ingiustizia e dei crimini di guerra, ogni anno celebra il 10 dicembre con questa visione e necessità, in modo che documentando i crimini di guerra pone le basi per il perseguimento dei criminali e aiuta le vittime che non hanno appoggio e nessuna speranza di giustizia.
Oggi, sono passati undici anni da quando è avvenuta l’invasione militare della NATO a guida Usa e il regime fantoccio di Karzai, che è un insieme perfetto di personaggi antipopolari e criminali. Se il nostro popolo, assetato di giustizia, che sta bruciando nell’inferno dell’ignoranza e dei crimini perpetrati dai Jihadi e Talebani, era stato dapprima ingannato dagli slogan demagogici degli Stati Uniti, è testimone oggi che la giustizia è calpestata in modo peggiore di qualsiasi altro momento nella storia del nostro paese, e le nostre donne sono le sue prime vittime. L’Afghanistan è diventato più debole grazie alla presenza degli Stati Uniti e paesi occidentali, è stato trasformato in un terreno di gara per la rivalità tra i vari paesi del mondo, che minacciano l’integrazione del nostro paese, la nostra gente perde la vita ogni giorno, a causa del bombardamento cieco dalla Comunità internazionale e degli attacchi feroci dei talebani e Gulbuddin.
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Durante il déballage verranno selezionati alcuni manufatti il cui ricavato della vendita verrà interamente devoluto al C.I.S.D.A. (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane).
“Sono grata ai giornalisti italiani perché ritraggono con onestà il quadro politico del mio Paese, ma bisogna fare di più. Dieci anni di presenza della forze internazionali non hanno migliorato la situazione, come spesso si scrive” intervista a Selay Ghaffar, direttrice di Hawca.
L’Afghanistan è un paese morfologicamente aspro che si trascina dietro un amaro destino storico fatto di un succedersi di guerre che non lascia fiato alla popolazione da oltre trent’anni. Selay Ghaffar, attivista per i diritti umani e direttrice esecutiva di Humanitarian Association for the Women & Children of Afghanistan – l’associazione umanitaria da lei fondata nel 1999 e attiva sul territorio afgano con sede a Kabul e in altre 11 province, ha 29 anni e un tono ruvido e fiero come la sua terra quando la incontriamo a Milano in occasione di una visita ufficiale nel nostro Paese. Selay sta girando l’Italia, ospite di convegni e organizzazioni umanitarie, per promuovere l’attività di Hawca e tenere alta l’attenzione della comunità internazionale sulla violenza endemica che, in percentuali imbarazzanti, si perpetra sulla popolazione femminile e sui bambini. Poco meno del 90% delle Afgane ha subito una violenza di tipo fisico, sessuale o psicologico nel corso della sua vita e l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sancisce che l’Afghanistan è il peggior paese al mondo dove vivere per le donne.
Dopo aver sottolineato come la salvaguardia della loro sicurezza e l’accesso all’istruzione e al lavoro delle donne siano l’unica via percorribile per dare una svolta al destino del suo popolo, Selay lancia un vero appello a tutti i giornalisti: “Dovete venire in Afghanistan e raccontare quello che succede davvero, la realtà. Non si può descrivere la condizione di donne e bambini visitando solo la capitale, Kabul, in due giorni, magari soggiornando in un albergo del centro. La realtà la si incontra solo viaggiando nelle province dove, lontano dalla messinscena di modernità e democrazia allestita dal governo a favore della comunità internazionale, la popolazione è molto provata e vive ai margini dei diritti umani fondamentali. In queste aree le forze di coalizione stesse non sono ben viste e questa diffidenza della popolazione talvolta aumenta il margine di azione dei gruppi terroristici che si stanno frazionando e moltiplicando sempre più”.
Molti cittadini afghani sono terrorizzati da loro. Affermano che i loro comandanti estorcono denaro e cibo, si impadroniscono della terra, assaltano la gente – e a volte la uccidono.
Di Rustam Qobil
In molte zone dell’Afghanistan sono i signori della guerra a dominare – non il governo centrale o i Talebani. Essi sono capaci di sfruttare impunemente gli abitanti dei villaggi tramite la minaccia o l’uso vero e proprio della violenza. Nella provincia rurale di Takhar, situata nel remoto nord-est dell’Afghanistan, il tempo sembra essersi fermato al 19° secolo: strade sconnesse, case di fango, villaggi senza legge e nessun segno del governo di Kabul. Qui il potere è gestito dai comandanti armati e dalle loro pistole. Ogni loro parola è legge. “Alcuni comandanti locali armati hanno obbligato tre dei miei fratelli a combattere per loro contro gli insorti”, racconta il ventiseienne Najbullah, “e sono stati tutti uccisi”.
Najbullah – nome d’invenzione – parla a bassa voce perché teme che qualcuno possa sentirlo, quindi ci spostiamo nell’ultima stanza del negozio del suo amico. “Ora vogliono che anch’io combatta per loro, ma devo curare i miei anziani genitori e i nipoti orfani, quindi ho rifiutato”, afferma. “Nonostante questo, continuano a minacciare di uccidermi e di prendere la nostra terra”. Najbullah non sa cosa fare. Spostarsi altrove non è una buona soluzione. È un povero contadino con una famiglia numerosa a cui badare. Sia i Sovietici che i Talebani hanno combattuto per il controllo di questa parte dell’Afghanistan e dei suoi “signori della guerra mujaheddin”, che oggi dominano incontrastati.
In una regione con prospettive quasi inesistenti, molti giovani uomini finiscono col combattere per conto dei signori della guerra. In molti luoghi, questi ultimi impongono tasse ai commercianti locali. Alcuni di loro sono diventati anche funzionari del governo. Altri addestrano milizie anti-talebane, chiamate Arbaki, sostenute dal governo e dalle forze internazionali. E molti Afghani sono terrorizzati da loro. Affermano che i loro comandanti estorcono denaro e cibo, si impadroniscono della terra, assaltano la gente – e a volte la uccidono. La provincia di Takhar è situata sulle sponde meridionali dell’Amudarya, il fiume più grande dell’Asia Centrale. I suoi affluenti dovrebbero essere in grado di fornire acqua a sufficienza per l’intera agricoltura della regione, tuttavia – stranamente – molti contadini fanno fatica ad irrigare i loro campi. Nel distretto di Khojaye Ghor i canali di irrigazione si sono completamente asciugati e i raccolti stanno morendo; centinaia di famiglie hanno dovuto abbandonare le loro case in cerca d’acqua. La spiegazione si trova a monte: “Alcuni personaggi armati e potenti hanno dirottato il corso del fiume per alimentare i loro generatori idro-elettrici” dichiara Muhannad Sharif, un contadino della zona. Ci racconta che uno di loro è Aghagul Qataghany, un ex comandante mujaheddin, divenuto ora sindaco di Taloqan, capitale della provincia di Takhar.
Da: Corriere della Sera – 3.12.2012 Per le spose bambine promesse a un parente lontano anche a soli nove anni spesso la morte è l’unica soluzione perché soltanto con un gesto così estremo il patto matrimoniale potrà essere invalidato.
Lo sapeva bene Nasreen, 18 anni, di Kunduz, che qualche giorno fa ha preso un fucile da caccia e si è sparata, uccidendosi. Nasreen non è di certo l’unico esempio. Fatima, 17 anni, di Kabul ha provato a fare lo stesso qualche mese fa ma a lei è andata peggio: è sopravvissuta e, per farsi annullare il fidanzamento, è dovuta andare in tribunale dove vige la sharia e una ragazza per farsi ascoltare deve avere almeno cinque testimoni a favore, ovviamente maschi. .
Secondo gli organismi umanitari che operano in Afghanistan, il numero di ragazze che decidono con un gesto estremo di mettere fine a vessazioni famigliari o a matrimoni indesiderati è in aumento. L’altra alternativa è la fuga, un’opzione che apre le porte del carcere a moltissime donne: secondo Human Rights Watch circa 500 sono attualmente in carcere per aver cercato di sfuggire a un matrimonio forzato o a un marito violento.
E poi, purtroppo, ci sono i feminicidi, molto frequenti in questa parte del mondo. Tre giorni fa sempre nella provincia di Kunduz un’adolescente di 14 anni, Gisa, è stata decapitata senza pietà per essersi rifiutata di sposarsi. Due uomini, identificati dalla polizia solo come Sadeq e Massoud, sono stati arrestati per l’assassinio della ragazza. Secondo i media afghani, i due sarebbero parenti stretti della famiglia ed entrambi volevano sposare Gisa, ma sia la giovane che il padre avevano ripetutamente respinto le loro proposte. I due l’avrebbero aggredita mentre tornava a casa, dopo essere andata al pozzo per prendere l’acqua. Il suo corpo è stato trovato in un campo nel distretto di Imam Sahib.
Un altro caso che è fatto scalpore è accaduto il mese scorso quando una ventenneè stata decapitata dalla famiglia del marito per essersi rifiutata di prostituirsi, mentre lo scorso settembre cinque persone sono state arrestate per aver inflitto 100 frustate in pubblico a una 16enne accusata di avere una relazione.
KABUL – Quei raid notturni nei villaggi afgani non avvenivano per dare la caccia a presunti terroristi ma per violentare le donne del luogo.
È la denuncia dei residenti di un villaggio afgano del distretto di Chahar Bolak, nella regione di Balkh, dove le forze Usa effettuano stranamente perlustrazioni “casa per casa” molto più del solito. Lo ha riferito Domenica l’AIN, l’Afghanistan Information Network.
Il bello è che i residenti del villaggio però hanno chiesto di non citare il nome del centro abitato dato che sono stati minacciati a priori dai generali americani di “dolorose ritorsioni” nel caso la questione fosse passata al dominio pubblico. La straziante pratica avviene pressapoco in questo modo: i soldati americani dividono nelle famiglie gli uomini dalle donne e poi si danno all’animalesca pratica.
È una nobile dimostrazione della cultura e della civiltà occidentale, che in teoria sarebbe “superiore” alle altre. Finora la guerra al terrorismo era servita da scusa per molti crimini, come l’assassinio di massa di gente innocente; da oggi sappiamo che serve pure come pretesto per violentare le donne. Complimenti vivissimi a president Obama.
Un contributo di Valentina Acava Mmaka e Bashir Sakhawarz per la stanza degli ospiti, A.L.M.A. Blog
La prima volta che ho incontrato Bashir Sakhawarz era il 2005, in occasione di un convegno svoltosi a Ferrara sulle Letterature Migranti. Nel contesto del Festival c’era la rappresentazione di una performance dal titolo And the city spoke, che vedeva protagonisti scrittori e artisti migranti e in esilio tra cui gli amici Tahar Lamri (Algeria), Soheila Ghodstinat (Iran), Simon Mol (Ghana/Cameroun) e anche Bashir Sakhawarz (Afghanistan).
Nel corso del tempo io e Bashir non abbiamo mai smesso di dialogare, anche a grandi distanze attraverso i mezzi che oggi offre la tecnologia. Ho avuto l’occasione di tradurre un suo scritto originale per la rivista STILOS, sul post 11/9 e poi intervistarlo in diverse occasioni e più recentemente ho anche avuto il privilegio di leggere e discutere le diverse stesure del suo primo romanzo scritto in lingua inglese, ora in uscita in Asia con il titolo Maargir- The Snake Charmer.
Sicuramente Bashir è uno scrittore di talento, già nel 2005 ebbi l’opportunità di leggere alcune sue poesie e racconti in inglese, tessuti di ironia e forti di una passione per la verità che spesso la Storia cela dietro la trappola del pensiero lineare, o dietro la sua presunta obiettività. Con questo suo romanzo ha sradicato completamente la facile versione semplicistica che l’occidente ha dell’Afghanistan, quella propinata da autori come Khaled Hosseini che hanno trasformato il dramma afghano in un bestseller degno della tradizione americana. Nelle numerose conversazioni telefoniche intercontinentali mi chiedeva spesso in che misura questo suo romanzo raccontava un Afghanistan “sconosciuto”, quasi a volersi sincerare di non essere affiancato a nomi che nel grande catalogo della letteratura erano stati erroneamente inseriti più per un fattore di vendite che per la qualità insita dell’autore e della sua opera. Sotto questo punto di vista il suo Afghanistan era al sicuro da qualunque etichetta. L’Afghanistan di Bashir è un corpo vitale segnato da amori, passioni politiche, sofferenze, perdite ma anche da un senso di verità profonda che sta dietro la complessità delle scelte umane di fronte ai drammi della Storia e al fatto di come essa non possa essere letta senza tenere in considerazione le storie personali.
Bashir nasce a Kabul, fugge dal suo paese appena ventenne e va in esilio in Gran Bretagna dove compie studi di ingegneria. Ha vissuto in diversi paesi del mondo, lavorando per conto di diverse ong e nonostante la sua formazione professionale scientifica, Bashir nasce poeta e storyeteller. Inizia la sua attività letteraria giovanissimo, all’età di diciassette anni scrivendo poesie ispirate al grande Rumi. Ha all’attivo numerose opere in farsi e in inglese: il Saggio su Mualana Jaladin Balkhi (Rumi); le raccolte di poesie: Sabzineh Sharqi e Pileh Tanhaiee. E’ anche traduttore in farsi delle poesie di Octavio Paz e autore di uno studio sulla vita e sull’opera del poeta persiano Ghalib.
Attraverso lo spessore della distanza, Attraverso le pareti delle montagne, Attraverso la profondità degli oceani, Ieri sera ti ho toccato Ho toccato il tuo dolore Ed è diventato il mio.
Non c’è alcun senso nel sorriso dei bambini I fiori crescono, ma sono fiori? I bambini sorridono, ma stanno davvero sorridendo? Senza i tuoi bambini Senza il tuo giardino I fiori e i sorrisi non cresceranno Senza la tua mano, La vita mi offre solo il vuoto
Quando sono partito Lei sussurrò “prenditi cura di te” E tu, ti sei presa cura di te stessa? Hai difeso il tuo sogno? Non hai visto distruggersi le speranze? Non hai schivato il disastro? Le catastrofi sono nell’aria Crescono nel tuo giardino Cadono dagli alberi.