Skip to main content

Autore: Anna Santarello

accuse alla giornalista marinella correggia

di Marinella Correggia

Lettera di denuncia del danno morale e materiale inflittomi pubblicamente da alcune persone per il mio impegno contro la guerra in Siria con la richiesta che ritirino pubblicamente le accuse di Marinella Correggia (Torri in Sabina, Rieti)

Mi ritengo gravemente danneggiata sul piano umano e materiale da reiterati “articoli” o interventi su facebook e su blog (un parziale elenco si trova più oltre) contro il mio impegno assolutamente gratuito e a mie spese benché quasi a tempo pieno, un impegno contro le guerre e i loro devastanti effetti, impegno iniziato nel 1990-91, e ultimamente volto a scongiurare la guerra Nato in Libia prima e in Siria ora, grazie a una intossicazione mediatica senza pari, alla quale gli autori delle ingiurie nei miei confronti collaborano (nel loro piccolo) e che io da molto tempo cerco di contrastare (nel mio piccolissimo).
Ecco alcuni degli articoli e interventi ai quali mi riferisco (ringrazio chi me li ha segnalati poiché non sono su facebook e la mia navigazione internet non si riferisce a siti di opinione). La libertà di giudizio non deve però arrivare a una disinformazione infamante. Invito le persone e i siti o blog o gruppi facebook nominati a ritirare al più presto le accuse e a scusarsi:
– Scritto apparso sul sito Vicino Oriente a firma Monti Germano che mi accusa di essere al servizio del regime di Assad e mi affianca a gruppi di estrema destra (accuse entrambe ridicole per chiunque mi conosca; ma non è il caso dell’autore). L’articolo è stato ripreso dal sito di Amedeo Ricucci. –
– L’intervento della signora Aya Homsi nel gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” che fiancheggia il CNs (Consiglio nazionale siriano) e l’Esercito sirano libero; la signora afferma che se io scrivo quel che scrivo è perché “ne traggo un profitto”. –
– Le accuse di essere “embedded” rivoltemi pubblicamente dal signor Enrico De Angelis che lavora al Cairo per un centro di ricerca francese.
1. Gli attacchi ingiuriosi si riferiscono alla ricerca e divulgazione che compio e che in parte viene pubblicata sul sito dedicato sibialiria.org. Come chiunque può vedere il sito non dice nemmeno una parola a favore del governo siriano. Ma analizza in tanti episodi i cortocircuiti della disinformazione attuata sin dai massimi livelli (settori dell’Onu che attingono a fonti di parte), la quale sta portando Occidente e petromonarchie a un altro intervento con pretesti “umanitari”, reso possibile dalla creazione del consenso che manipola una realtà di scontri settari con interferenze esterne pesanti fomentati e la fa diventare “un intero popolo massacrato da un dittatore”.
Riporto anche testimonianze dirette con nomi e cognomi di vittime alle quali nessuno presta attenzione. Il mio attivismo consiste non tanto nello scrivere articoli (questo non prenderebbe tanto tempo) quanto soprattutto nel networking nazionale e internazionale (rispetto a militanti, siti, gruppi politici, media alternativi) al quale dedico molte ore al giorno; per non dire delle numerose manifestazioni, sit in eccetera nei quali mi attivo da oltre un anno. Ma questo è sconosciuto a chi mi attacca.
2. E’ un grande dolore essere accusati – per la prima volta da quando ho iniziato l’attivismo pacifista nel 1991 – di “pacifismo nero” da parte di persone (vedi oltre) che sostenevano indirettamente i cosiddetti “ribelli” libici, le cui gesta razziste, violente, repressive dei diritti umani, e che ora sostengono il Consiglio nazionale siriano (Cns), il quale è finanziato da stati come Qatar e Arabia Saudita, oltre alle potenze occidentali (“dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei”) e per questo invece di muoversi su una vera strada negoziale chiede ufficialmente interventi armati esterni da parte dei suoi alleati stati capitalisti e sostiene il cosiddetto Esercito siriano libero, delle cui gesta riferiscono ormai gli stessi media mainstream. E’ sorprendente che al tempo stesso i suoi “attivisti” siano presi come fonte di notizie…
3. E’ vergognoso che mi si accusi sul gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” di trarre profitto dai miei scritti. E’ l’esatto contrario, come sa chiunque mi conosca. E’ infatti notevole e ormai quasi insostenibile il danno materiale che traggo dall’impegno per la pace, a causa di
mancati introiti dalle mie attività lavorative, pressoché abbandonate da un anno per mancanza di tempo dovendo/volendo dedicarmi solo a questo impegno antiguerra,
spese di viaggi in loco (Libia e Siria), e di telefono. A questo si aggiungerà ora
il pregiudizio a mie attività future nel campo dell’ecologia di giustizia, a causa di questa diffamazione nei miei confronti. Di pagato in relazione alla Siria ho scritto solo un reportage con foto, per un totale di circa 300 euro. Il resto è stato gratuito e, ripeto, con spese a mio carico. E con una perdita di tempo che mi rallenta diversi progetti anche editoriali.
La mia ostinazione è giustificata solo dal non voler vedere più il mio paese partire a bombardare altrui popoli (con effetti che ho verificato in loco più volte) con pretesti umanitari veicolati da menzogne assordanti. Mi muove il desiderio che quella alla Libia sia stata L’ultima delle (nostre) guerre di bombardamenti e massacri. Ma grazie a tanta gente non sarà così.
4. Per me questo è il naturale seguito di un impegno contro le guerre occidentali iniziato nel 1991 e sempre gratuito e autofinanziato (dalle mie attività di autrice di libri e articoli in materia di ecologia, rapporti Nord-Sud, rispetto dei viventi). L’indignazione per il ruolo bellico del paese nel quale purtroppo vivo mi ha portata a essere presente sia in Iraq che in Jugoslavia che in Libia durante i bombardamenti e non certo come inviata di guerra (!) ma come militante. Dal 1991 (prima guerra del Golfo) la propaganda mediatica e la disinformazione creano consenso a interventi bellici. Ora, accertare la verità è cosa difficile, ma cogliere le menzogne e la disinformazione lo è meno. Prende solo molto tempo
5. Con l’occasione denuncio l’opera di demonizzazione contro chiunque esca dal coro assordante e faccia notare esempi lapalissiani di propaganda pro-bellica a tutti i livelli. E’ additato e oltraggiato anche l’impegno di diversi attivisti della Rete NoWar di cui faccio parte.
Solidarietà alla giornalista e pacifista Marinella Correggia di Rete No War – Roma
In questi giorni abbiamo assistito, allibiti, ad una serie di attacchi alla nostra collega Marinella Correggia, giornalista, pacifista dal 1991 e componente di lunga data della Rete NoWar – Roma. Attacchi che respingiamo con sdegno perché infondati, strumentali e meschinamente ad personam.
Il lavoro che Marinella porta avanti da diversi anni, insieme ad alcuni di noi della Rete, è quello di smontare le bugie contenute in quel diluvio di notizie sensazionalistiche che i mass media usano regolarmente, si direbbe ad arte, per convincerci di sostenere interventi armati in paesi terzi. Il suo è un lavoro di “pacifismo militante giornalistico”, gratuito e a sue spese (e quindi niente affatto “per conto terzi”).
Marinella, nello smontare le falsificazioni dei mass media, dà senz’altro fastidio a qualcuno, non abbiamo dubbi. E non solo ai giornalisti interessati, ma anche e soprattutto ai ceti dominanti che cercano di promuovere, per profitto, le guerre di conquista fatte passare per interventi “umanitari” in Libia, in Afghanistan, in Iraq, nell’ex-Jugoslavia, ora in Siria. Marinella sembra infastidire persino molti opinionisti politici che amano dipingere i conflitti in corso in modo semplicistico e del tutto subalterno ai mass media: “popoli coraggiosi che affrontano spontaneamente e a mani nude spietati dittatori i quali, assetati di sangue, non esitano a bombardarli”.
Marinella guasta la festa, scoprendo e documentando come, dietro queste sollevazioni senz’altro coraggiose e soggettivamente spontanee, ci siano anche registi occulti che armano i settori più estremisti, inviano nel paese in questione guerriglieri mercenari per aizzare il dittatore di turno e, quindi, provocano guerre civili per giustificare poi i loro interventi “umanitari” a suon di bombe. E che usano dunque, come i loro “apologeti de facto”, questi opinionisti e questi giornalisti compiacenti.
Marinella li denuncia, documenti alla mano; non sorprende, dunque, che qualcuno di loro, per stizza o per partito preso, denuncia Marinella — e, non avendo documenti di appoggio, ricorre all’insinuazione e all’attribuzione di intenti. Ma ora basta. Continuare a spargere queste denigrazioni potrebbe danneggiare seriamente l’attività giornalistica di Marinella. Pertanto avvertiamo chi vorrebbe continuare a farlo che saremo solidali con Marinella nella tutela del suo nome e della sua professionalità.

Afghanistan. Ore di paura a Kabul: 13 morti dopo un assalto a un hotel

ArticoloTre, 22 giugno 2012

Un gruppo di talebani armati di lanciarazzi e mitragliatrici ha assaltato un hotel di Kabul presso il lago Qargha. A quel punto uno dei terroristi si è fatto esplodere. Nella rivendicazione i talebani hanno accusato “ricchi afghani e stranieri” di fare feste selvagge a base di alcol.

-Redazione- 22 giugno 2012-  Ancora una notte di terrore a Kabul, Afghanistan, dopo che un commando di talebani ha assaltato un hotel rinomato nella zona del lago Qargha, a pochi chilometri dalla capitale. Poco prima di sera alcuni talebani armati di giubbotto esplosivo, lanciarazzi e mitragliatrici ha assaltato la hall dell’albergo, sequestrando tutti gli ostaggi. I terroristi hanno scelto proprio l’hotel come obiettivo perchè al suo interno si servivano alcolici ed è frequentato da stranieri. Nella rivendicazione dell’attentato i terroristi se la sono proprio presa contro le “feste selvagge” a base di alcol, pòerchè contrarie allo spirito dell’Islam. Gli attentatori erano tre secondo le prime ricostruzioni, e uno di loro si sarebbe fatto esplodere nelle fasi iniziali dell’attacco, uccidendo quattro civili, cinque militari,  tre guardie di sicurezza e un poliziotto. Dopo l’esplosione. avvenuta iverso le 23,00 locali, si sarebbe scatenato il caos, con una violenta battaglia nel buio della notte tra talebani e forze di sicurezza. A quel punto i due sopravvissuti si sono asserragliati dentro l’hotel, prendendo come ostaggi donne e bambini. Al momento dell’attacco dentro l’hotel si trovavano civili che avevano appena concluso un picnic e stavano partecipando a un matrimonio. Il portavoce dei talebani però, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato che l’hotel era invece pieno di stranieri militari e diplomatici, inviati da qualche responsabile amministrativo da Kabul. Le forze di sicurezza hanno comunque atteso l’alba prima di intervenire, anche perchè nella notte sarebbe stato difficile assicurare l’incolumità degli ostaggi. Alla fine l’operazione delle forze speciali si è conclusa con il salvataggio di tutti e 18 gli ostaggi e l’uccisione dei due talebani.  Negli ultimi giorni gli attacchi dei talebani si erano peraltro fatti molto insistenti, al punto che una serie di attacchi contro l’esercito afghano e le forze Nato aveva causato ben 32 morti, di cui 20 tra l’esercito afghano e le truppe americane.

I rifugi per le donne maltrattate minacciati dal ministro della Giustiza

Agence France Presse, 19 giugno 2012,  RAWA NEWS

Gli attivisti per i diritti umani chiedono le dimissioni del ministro della Giustizia afgano

Lo scorso lunedì 18 giugno 2012 numerosi attivisti per i diritti umani in Afghanistan hanno chiesto le dimissioni del ministro della Giustizia afgano, dopo che questi aveva detto che i rifugi per le donne maltrattate, in questo paese devastato dalla guerra, sono luogo di “immoralità e prostituzione”.
Nel corso della conferenza organizzata dal Comitato per gli affari femminili presso la Camera Alta del parlamento domenica, il ministro della Giustizia Habibullah Ghaleb aveva infatti affermato che i gruppi di difesa dei diritti della donne finanziati dall’estero spingono le giovani afgane a disobbedire ai loro genitori: “Nella maggior parte dei casi, questi gruppi influenzano le ragazze, dicendo loro che possono non ascoltare il loro padre se questi dice qualcosa di insensato, di non ascoltare la madre se ordina qualcosa di male, e che ci sono rifugi sicuri dove possono andare a vivere”. E il ministro ha aggiunto: “Ma quali rifugi? Quanta immoralità e prostituzione ci sono in quei posti?”.
Da quando è caduto il regime talebano, discreti progressi sono stati fatti per la condizione femminile in Afghanistan; e tuttavia molti temono che quei progressi saranno fortemente minacciati quando le truppe Nato lasceranno il paese e Kabul cercherà di negoziare la pace con le forze islamiste.
I dodici rifugi per donne maltrattate attualmente aperti in Afghanistan ospitano circa 250 donne, la maggior parte vittime di violenza domestica, secondo quando registrato dal ministero degli Affari Femminili. Per lo più, i rifugi sono gestiti da organizzazioni non governative afgane e finanziati da donatori internazionali.
L’attivista per i diritti della donne Wazhman Frogh ha accusato Ghaleb di avanzare sospetti infondati e ha chiesto al presidente Hamid Karzai di deporlo dal suo incarico: “Chiediamo ufficialmente al presidente di licenziare il ministro per le sue esternazioni”.
Anche la Rete delle Donne Afgane (Afghan Women’s Network), il più importante movimento per i diritti della donne in Afghanistan, si è unito nella richiesta di scuse ufficiali e chiede che i funzionari responsabili di simili affermazioni siano rimossi dai loro incarichi.
La parlamentare del ministero per gli Affari Femminili  Syeda Muzhgan Mustafahi chiarisce che i rifugi vengono ispezionati ogni settimana e che “non c’è alcun segnale che possa avvalorare le affermazioni del ministro”.
Anche la deputata Syed Yousuf Aleem, che lavora per il ministero della Giustizia, ha preso le distanze da quanto asserito dal ministro Ghaleb, dicendo: “Non c’è alcuna denuncia ufficiale né alcuna prova che i rifugi siano usati per attività immorali.”
Durante il regime talebano, dal 1996 fino alla invasione USA del 2001, alle ragazze era vietato andare a scuola, le donne che non indossavano il burqa per strada potevano venire frustate e le donne accusate di adulterio erano lapidate in pubblico.
Negli ultimi 10 anni, il numero di ragazze che ha potuto accedere al sistema scolastico è aumentato grandemente e sono migliorate le opportunità di lavoro per le donne; ma per il futuro ci sono preoccupanti segnali negativi.
Nel marzo scorso, Karzai ha approvato un editto del Consiglio degli Ulema, la massima autorità islamica del paese, che afferma che le donne valgono meno degli uomini e devono evitare quasiasi contatto con gli uomini nella vita pubblica.

Human Rights Watch in sostegno di Hambastagi

(New York, 14 giugno 2012) – Human Rights Watch ha emesso un comunicato in cui si chiede al governo afgano di cancellare immediatamente la sospensione del Partito afgano della Solidarietà (Hambastagi), deliberata a seguito della manifestazione di protesta organizzata dallo stesso partito nella quale si denunciavano i responsabili di crimini di guerra. La sospensione del partito viola sia la legge afgana sia i diritti di libera espressione, di associazione e di manifestazione riconosciuti dalla legge internazionale per i diritti umani.

Lo scorso 2 giugno 2012, il ministro della giustizia afgano ha mandato comunicazione al Partito della Solidarietà per informare i suoi membri della decisione presa il 29 maggio precedente dalla Mashrano Jirga, la Camera Alta del parlamento afgano, di sospendere il Partito stesso, e di avviare un’indagine contro i suoi leader con possibile esito penale.

“I governi non possono sospendere un partito politico semplicemente perché non condividono le sue posizioni o le sue dichiarazioni” afferma Brad Adams, responsabile di Human Rights Watch per l’Asia.”Tutti gli afgani hanno il diritto di esprimere pacificamente le loro opinioni, che piacciano o che non piacciano a qualcuno”.

Secondo la legislazione afgana in materia di partiti politici, un partito può essere sciolto solo da un tribunale a seguito della richiesta del ministro della giustizia. Le cause che legittimano lo scioglimento di un partito solo l’uso o la minaccia di violenza, l’affiliazione con forze armate o la violazione delle leggi. In questo caso, nessun ordine del tribunale è stato richiesto dal ministro della giustizia per sciogliere il partito. La legge non ammette la sospensione dei partiti politici.

Il Partito Afgano per la Solidarietà è legalmente registrato come partito politico dal 2004. Non ha esponenti politici nelle istituzioni, ma è attivo soprattutto attraverso l’organizzazione di accese manifestazioni pubbliche contro la presenza degli USA e della NATO in Afghanistan, contro le esecuzioni di afgani in Iran, contro le stragi di vittime civili da parte delle truppe internazionali in Afghanistan. Inoltre, il Partito denuncia apertamente gli abusi dei talebani e si schiera a sostegno dei diritti delle donne. […]

Un pezzo di storia afgana poco conosciuto

Presentato al Salone del Libro di Torino lo scorso 13 maggio, il libro di Enrico Piovesana Shùlai, Il movimento maoista afghano raccontato dai suoi militanti (1965-2011), pubblicato da Città del Sole Edizioni, sarà occasione di un incontro con l’autore il prossimo 27 giugno a Milano (al circolo Arci Bellezza). Pubblichiamo la Prefazione del volume, firmata dalla ex parlamentare e attivista democratica afgana Malalai Joya.

PREFAZIONE
Quando nel 2003 alla Loya Jirga denunciai i crimini dei signori della guerra che sedevano accanto a me in parlamento, essi mi urlarono dai loro scranni che ero una prostituta, un’infedele, una comunista. Usarono il termine ‘shùlai’, che per loro è un insulto.  Ma solo per loro, perché in Afghanistan gli Shùlai non hanno una cattiva reputazione. La gente ha ben chiara la differenza tra i sedicenti comunisti del partito filosovietico Khalq, che in nome del socialismo hanno commesso orrendi crimini e che oggi siedono in parlamento a braccetto con i  fondamentalisti, e gli Shùlai che invece sacrificarono le loro vite combattendo contro entrambi.
I militanti maoisti sono gli unici, nella tragica storia del mio Paese, a non essersi sporcati le mani con il sangue del nostro popolo, i soli a non aver  commesso crimini contro l’umanità e a non aver agito come fantocci controllati da padroni stranieri. Per questo li rispetto e li considero degli eroi. Come eroi sono i giovani militanti dell’Organizzazione per la Liberazione dell’Afghanistan (ALO), che ancora oggi continuano a lottare clandestinamente contro gli stessi criminali fondamentalisti e contro l’occupazione militare degli Stati Uniti e della NATO, che invece i loro crimini li commettono in nome della pace e della democrazia.
Condivido, non solo idealmente, la loro scelta di clandestinità, di lavorare tra la gente fuori dalle dalle istituzioni corrotte di questo regime-fantoccio di criminali mafiosi sostenuti dall’Occidente. Come ho avuto modo di sperimentare personalmente, nell’Afghanistan di oggi non ci sono alternative alla lotta politica clandestina. Non solo perché è evidente che nessun reale cambiamento potrà mai venire dalle farse elettorali con cui questi signori cercano di legittimare il proprio potere. Ma anche perché la clandestinità è l’unica arma che abbiamo per lottare contro questa banda di assassini senza venire eliminati fisicamente. Non abbiamo armi, armi vere, e personalmente spero che non saremo mai costretti a imbracciare un fucile. Anche se sarei pronta a farlo se fosse l’unico modo per difendere la libertà del mio Paese, come fece mio padre ai tempi dell’occupazione sovietica.
Ritengo molto importante che si parli degli Shùlai, che anche all’estero si conosca la storia di un movimento che ha avuto un ruolo importante e pulito nella sporchissima storia di questo Paese e che ancora oggi continua a stare dalla parte del popolo opponendosi all’occupazione straniera e al fondamentalismo: sia quello dei signori della guerra al potere, sia quello dei talebani che presto potrebbero tornarvi con il sostegno degli Stati Uniti.

Malalai Joya
(Ex parlamentare, attivista democratica e autrice del libro Finché avrò voce, Piemme edizioni)

La guerra e i bambini

Afghanistan, rapporto Onu: “In aumento il numero dei bambini vittime del conflitto”

13 giugno 2012 – E – Il mensile

Il numero dei bambini che rimangono uccisi o restano feriti in Afghanistan è in aumento. Lo dice un rapporto delle Nazioni unite diffuso dal Segretario generale Ban Ki-moon, contenente dati che si riferiscono al 2011.


L’anno scorso, in Afghanistan, dove la guerra di fatto continua, 1.756 bambini sono stati uccisi o feriti; nel 2010 erano stati 1.396. Si tratta di un aumento considerevole che rivela come l’Afghanistan sia tutto tranne che un Paese pacificato. In media, circa cinque bambini al giorno rimangono uccisi o feriti in attentati o azioni di guerra.
“La morte o la menomazione di ogni singolo bambino è una tragedia”, ha detto Vidhya Ganesh, numero due di Unicef nel Paese. In particolare, preoccupa il reclutamento forzato di minori, il loro utilizzo per piazzare eplosivi, per compiere attentati o per portare armi e munizioni alle milizie, “soprattutto da parte dell’opposizione armata”, dice il dossier. “È un dovere per tutte le parti coinvolte nel conflitto fare tutto il possibile per proteggere la vita e i diritti fondamentali dei bambini afghani”.

(Vedi anche l’articolo di The Huffington Post e il report di Rawa)

Il vero obiettivo di Obama in Afghanistan

Vivere nell’impero di Obama – L’agenda americana in Afghanistan, vista dalla prospettiva di un civile

(di Ian Pounds, Kabul, 30 maggio 2012)

La cosa più vera che possiamo dire della guerra è che la verità è la sua prima vittima.

Sono un insegnante volontario per la pace. Quattro anni fa risposi a un appello del candidato Barack Obama per reclutare un nuovo tipo di soldato che portasse la pace, un soldato senza uniforme e senza fucile. Nel terzo anniversario della mia nuova vita in questo orfanotrofio in Afghanistan, per dieci ore di fila sento gli spari e le bombe della battaglia che devasta il mio quartiere di Kabul: per tutta la notte, fino a mattino inoltrato. E mentre la CNN annuncia che la rivolta degli “insorgenti” è finita, io scuoto la testa: “Eh no”, mormoro tra me e me, mentre sento pallottole vaganti sibilare sopra la mia stanza.

Due settimane più tardi, il presidente Obama arriva improvvisamente in Afghanistan, inatteso e inannunciato, per quella che sembra essere la prima importante mossa della sua campagna per la rielezione. A mezzanotte fa un discorso e firma un accordo con Karzai, e se ne va prima che faccia giorno. Una visita furtiva che non conferma, in effetti, il clima di pace e sicurezza che dovrebbe essere ormai garantito solidamente in tutto il paese.

Nel suo discorso, Obama da per certa la prossima fine della più lunga guerra dell’America.

Elenco qui di seguito alcune realtà che Obama ha trascurato di citare nel suo discorso, e le propongo ai lettori nello stesso stile autorevole, patriarcale e da solida America del Midwest degli anni Cinquanta nel quale Obama ha condiviso con noi tutti le sue rassicurazioni parecchio confuse.

Primo – In Afghanistan ci sono attualmente 400 basi militari americane, di varia entità e grandezza.

Secondo – Dei 3005 soldati della colazione morti in questa querra, 1956 sono morti da quando io sono arrivato qui. Ovvero, nei dieci anni e mezzo di questa guerra, il 65% delle vittime militari della coalizione sono morte negli ultimi tre anni.

Terzo – Il 2011 è stato l’anno peggiore per numero di morti civili dall’inizio della guerra.

Quarto – Gli USA hanno firmato un accordo, per i dodici anni che seguiranno il 2014, che è tanto fumoso quanto losco. L’accordo prevede che gli USA torneranno ad avere un ruolo di “supporto attivo” per tutto il periodo che sarà necessario alle forze di sicurezza afgane per subentrare completamente al comando delle operazioni. Si tratta di una collaborazione che assomiglia in tutto e per tutto a un prolungamento dell’occupazione.

Se si guarda a questi fatti, è difficile immaginare una luce alla fine del tunnel, e come gli USA si preparino a lasciare il paese. Non aspettatevi un “calo” della presenza in stile iracheno: quella è stata una mossa strategica incoerente e inconseguente, dato che gli USA hanno semplicemente spostato le proprie forze nelle basi del Kuwait e che  l’ambasciata USA di Bagdad è stata potenziata per fare il lavoro di base operativa per procura.

L’Afghanistan rimane solidamente al centro degli interessi geopolitici americani, anche se l’accordo firmato da Obama assicura che gli interessi americani saranno mitigati. E per aggiungere la beffa al danno, è decisamente conveniente per l’America che gli afgani continuino a patire il fallimento della politica NATO sul fronte interno, consentendo in questo modo agli USA di mantenere le proprie basi militari, dove droni e forze speciali sono pronte per essere utilizzate in qualsiasi missione in Pakistan o in Iran. E certo, sia che lo vogliamo sia che ci siamo costretti, ci riserviamo il diritto di tornare a pieno titolo a capo delle operazioni militari nel paese. Ci teniamo a disposizione la nostra torta, e ce la mangiamo quando vogliamo.

Si considerino le basi americane ancora attive a Cuba, in El Salvador, in Columbia, in Germania, in Giappone, nelle Filippine, nella Corea del Sud, a Taiwan, in Kuwait (e si parla anche di una base in Vietnam): non c’è lo straccio di un caso nella storia che dimostri che l’America abbia mai davvero voluto abbandonare un paese che aveva invaso. Allora non posso fare a meno di pensare che, dato che circa il 70% degli americani oggi è contrario a questa guerra, per fare stare buona questa maggioranza nell’anno delle elezioni Obama abbia semplicemente mentito, nel suo discorso, usando un linguaggio volutamente oscuro che solleva solo dubbi, senza dare risposte.

[leggi l’articolo intero, in inglese, a questo link]

COMUNICATO CISDA: SOSTEGNO AL PARTITO DEMOCRATICO HAMBASTAGI

Il Ministero della Giustizia afghano ha reso nota la sospensione del Partito della Solidarietà Hambastagi e l’avvio da parte dei Servizi Segreti e del Ministero degli Interni di indagini per un’eventuale denuncia legale nei confronti dei suoi esponenti accusati di aver insultato la “Jehad”.

Il 30 aprile scorso, nel ventesimo anniversario della presa del potere di Kabul da parte delle milizie fondamentaliste, il Partito democratico afghano Hambastagi ha organizzato una partecipata manifestazione per chiedere giustizia per le vittime civili e la deposizione dei warlords che ricoprono incarichi istituzionali.

Successivamente, Hambastagi ha denunciato di aver subito pressioni e minacce da parte di esponenti del parlamento e del senato che hanno condannato il corteo e chiesto l’annullamento del suo status giuridico di partito con l’intenzione di delegittimare il movimento democratico e richiederne l’espulsione.

In Italia, questo episodio è stato oggetto di un’interrogazione parlamentare a risposta scritta da parte dell’on. Di Stanislao che ha espresso ferma condanna e chiesto al Governo afghano di porre fine a un modus operandi che va contro una libertà di opinione e di espressione, indispensabile per costruire uno Stato democratico e autonomo a tutela e sostegno dei cittadini.

Nato nel 2004, Hambastagi è un partito laico e democratico che si oppone ai criminali di guerra al governo del paese e alla presenza della NATO, denunciandone la volontà di stabilire basi permanenti in Afghanistan una volta ultimato con successo il ritiro formale delle truppe.

Hambastagi vanta oltre 30.000 iscritti e ha costruito negli anni una presenza capillare nelle province e nelle zone rurali promuovendo l’educazione e il coinvolgimento attivo della cittadinanza alla ricostruzione del paese. Le manifestazioni e i cortei che spesso i suoi militanti organizzano costituiscono fondamentali strumenti di presenza per dimostrare concretamente che la resistenza pacifica non è scomparsa.

La stigmatizzazione delle opposizioni politiche, rappresentata da questo grave episodio, si riflette anche sul rischio di marginalizzazione delle organizzazioni non governative locali che non sono perfettamente allineate con il governo afghano e la presenza delle truppe nel paese. Non a caso, gli USA hanno spostato la gestione diretta dei fondi per lo sviluppo dal Ministero degli Esteri, a quello della Difesa e poi ai PRT (Provincial Riconstruction Team).

Il Cisda denuncia quanto accaduto come il segno evidente di una politica che lede i diritti, la libertà e la sovranità dei cittadini afghani e invita le associazioni e le istituzioni italiane a richiedere l’integrazione del partito d’opposizione afghano Hambastagi e a richiamare e condannare tale politica che arreca anche il rischio di indurre alla clandestinità e di estremizzare le opposizioni che, al contrario, dovrebbero convivere pacificamente all’interno di una democrazia reale.

Per ulteriori informazioni:
cisdaonlus@gmail.com

Appello contro la sospensione del Partito della Solidarietà Afghano

A seguito della manifestazione del 30 Aprile scorso organizzata dal giovane partito democratico Hambastagi nel ventesimo anniversario della presa del potere di Kabul da parte delle milizie fondamentaliste, il Ministero della Giustizia afghano ha reso nota la sospensione del Partito della Solidarietà Hambastagi e l’avvio da parte dei Servizi Segreti e del Ministero degli Interni di indagini per un’eventuale denuncia legale nei confronti dei suoi esponenti accusati di aver insultato la “Jehad”.

Per sostenere Hambastagi vi chiediamo di inviare il seguente testo al Governo Afgano:

We learned that after the April 30th demonstration in Kabul, organized against the afghan fundamentalist criminals, the Democratic Solidarity Party – Hambastagi – faces threats every day and risks to lose its legal status.The Ministries of Justice and Internal Affairs, as well as the National Directorate of Security, will investigate about the matter and the Afghan Senate has suspended the registration of this party till the investigation is over.We express support to the Solidarity Party of Afghanistan and ask your government to defend freedom of expression for people who are just seeking justice for the victims of these criminals!

INDIRIZZI E-MAIL A CUI INVIARE LA LETTERA DI PROTESTA:

Office of the President of Afghanistan
president.pressoffice@gmail.com
http://www.facebook.com/ARGAFG
http://twitter.com/ARG_AFG
Justice Ministry of Afghanistan:
spksperson@gmail.com

Afghan Parliament (Meshrano Jirga or Upper House):
asmatullah.latifi@gmail.com
kamelahmadahmadi@gmail.com

Afghan Parliament (Wolesi Jirga or Lower House):
parliament.press@gmail.com

e in copia per conoscenza SEMPRE a:
solidarity.party.afghanistan@gmail.com

CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane

I signori della guerra vogliono sciogliere l’unico partito progressista

7/6/2012 Redazione Contropiano

Dopo una grande manifestazione contro i signori della guerra e le loro milizie tribali organizzato dal Partito della Solidarietà ‘Hambastagi’, il parlamento ha deciso la sospensione dell’unico partito laico e progressista attivo nel paese. 
L’Afghanistan antitalebano occupato dagli Stati Uniti – e dall’Italia – somiglia sempre di più a quello dominato dagli studenti coranici, fino a quando l’attacco alle Torri Gemelle non consentì a Washington e alla Nato di invadere il paese. Soprattutto in Afghanistan diventa sempre più difficile, e pericoloso, pensare, avere un’idea diversa da quella dei signori della guerra che imperversano mascherati da leader politici democratici.

L’ultimo atto di una stretta autoritaria in via di accelerazione – man mano che il governo fantoccio di Karzai perde credibilità e autorevolezza tra la popolazione – è stata la sospensione del Partito della Solidarietà Hambastagi da parte del Ministero della Giustizia afghano che ha annunciato anche l’avvio di indagini da parte dei Servizi Segreti e del Ministero degli Interni per un’eventuale denuncia legale nei confronti dei suoi esponenti accusati di aver insultato la “Jehad”.

Lo scorso 30 aprile, nel ventesimo anniversario della presa del potere di Kabul da parte delle milizie fondamentaliste (tornate al potere dopo la cacciata dei talebani nella nuova veste ‘democratica’) l’unico partito laico e di sinistra presente in parlamento, Hambastagi, aveva organizzato una partecipata manifestazione per chiedere giustizia per le vittime civili e la deposizione dei capi tribali che si sono appropriati delle istituzioni del paese, forti della copertura e della protezione delle truppe della Nato.

In seguito a quella mobilitazione, Hambastagi aveva denunciato di aver subito forti pressioni e serie minacce da parte di deputati e senatori che proprio sulla base del corteo del 30 aprile hanno chiesto l’annullamento dello status giuridico del partito e la sua il legalizzazione di fatto.
“Nato nel 2004, Hambastagi è un partito laico e democratico che si oppone ai criminali di guerra al governo del paese e alla presenza della NATO, denunciandone la volontà di stabilire basi permanenti in Afghanistan una volta ultimato con successo il ritiro formale delle truppe” spiega in un comunicato il Cisda, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane. Hambastagi vanta oltre 30.000 iscritti e ha costruito negli anni una presenza capillare nelle province e nelle zone rurali promuovendo l’educazione e il coinvolgimento attivo della cittadinanza alla ricostruzione del paese.
Nonostante le minacce e le aggressioni contro i suoi militanti e i suoi dirigenti, Hambastagi non ha rinunciato alla sua presenza nel paese e nella vita politica attiva, scatenando così le ire dei signori della guerra che con la sua sospensione provano a delegittimarlo e farlo tacere.

“La stigmatizzazione delle opposizioni politiche, rappresentata da questo grave episodio, si riflette anche sul rischio di marginalizzazione delle organizzazioni non governative locali che non sono perfettamente allineate con il governo afghano e la presenza delle truppe nel paese. Non a caso, gli USA hanno spostato la gestione diretta dei fondi per lo sviluppo dal Ministero degli Esteri, a quello della Difesa e poi ai PRT (Provincial Riconstruction Team)” denuncia il Cisda che poi aggiunge: “Invitiamo le associazioni e le istituzioni italiane a richiedere l’integrazione del partito d’opposizione afghano Hambastagi e a richiamare e condannare tale politica che arreca anche il rischio di indurre alla clandestinità e di estremizzare le opposizioni che, al contrario, dovrebbero convivere pacificamente all’interno di una democrazia reale”.