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Autore: Anna Santarello

La CIA addestra unità segrete di afghani per continuare la lotta contro i Talebani

Forze losche e irresponsabili accusate di violazioni dei diritti umaniTHE INDEPENDENT

Da Giulio Cavendish a Kabul
Mercoledì 20 luglio, 2011

 EPA
Commandos afghani dicono che sono stati reclutati per le unità speciali e addestrati dalla CIA.
Forze segrete della CIA e paramilitari afgani sono stati addestrati per continuare la guerra guidata dagli Usa contro i talebani poichè migliaia di soldati americani si preparano a lasciare il paese.

Membri di un gruppo segreto di circa 400 uomini nel sud della provincia di Kandahar hanno rivelato alla testata “The Independent” la notizia del loro addestramento e le operazioni segrete contro gli insorgenti poiché le truppe straniere si preparano a lasciare l’Afghanistan entro il 2014.

Personalità di alto livello di una delle forze hanno rivelato che sono stati addestrati al combattimento corpo a corpo da consiglieri militari stranieri, sono stati consegnati agli obiettivi da elicotteri Black Hawk americani ed hanno ricevuto una lettera di ringraziamento del presidente Hamid Karzai per il loro lavoro.

Nonostante il loro apparente successo militare, uno dei gruppi, la Strike Force di Kandahar, è stata accusata di abusi dei diritti che hanno sollevato interrogativi circa il loro ruolo quando i loro addestratori stranieri lasceranno il paese.  “Queste forze sono le più oscure e più irresponsabili del paese ed è un problema serio che nessuno si sta assumendo la responsabilità”, ha detto Rachel Reid, consulente politico della Open Society Foundation.

Nell’ambito di una strategia  contro il terrore resa nota il 28 giugno, gli Stati Uniti hanno dichiarato che intendono “assicurare la rapida distruzione della struttura di leadership di al-Qaeda” – e quelle dei suoi seguaci – usando tattiche segrete “al di fuori della tradizionale intelligence, forze militari, e applicazione della legge”. I dettagli del funzionamento del gruppo sono stati dati nelle interviste da tre ex membri in una prigione fuori Kabul dove stanno scontando la condanna, con altri 38 compagni, per l’uccisione di un capo della polizia avvenuta nel 2009. La sparatoria è stata scatenata dalla detenzione di un membro della Strike Force di Kandahar. Stanno facendo ricorso contro la loro condanna.

I gruppi paramilitari sono concentrati nella parte orientale e meridionale dell’Afghanistan dove raccolgono informazioni, assicurano il confine con il Pakistan, e lanciano raid contro i militanti di al-Qaeda, i talebani e altri gruppi di insorgenti. Fonti talebani hanno rilasciato  al “The Independent” che la Strike Force di Kandahar è quella che temono di più.
Atal Afghanzai, un ex comandante della Strike Force di Kandahar, ha detto che è stato reclutato quando ha sentito che gli americani stavano cercando protezione. Era alloggiato a Camp Gecko, un luogo situato sulle colline fuori Kandahar  che un tempo era sede del Mullah Omar, capo dei talebani, ma che oggi ospita una piscina, una caffetteria e una fontana con pesci gatto. Secondo il New York Times, la CIA e le Forze Speciali degli Stati Uniti la presero in affitto da Ahmed Wali Karzai, fratellastro del presidente afghano che è stato ucciso la scorsa settimana.

Consiglieri militari stranieri al campo hanno addestrato al combattimento corpo a corpo, hanno formato nuove reclute, insegnando loro inglese, ha detto Afghanzai. Tutti dal cuoco ai consulenti delle forze speciali, hanno “lavorato in qualche modo per OGA “: un acronimo che sta per “altre agenzie governative”, solitamente utilizzato per riferirsi alla CIA. “Abbiamo portato a termine raid di giorno e notturni. Ogni volta che ricevevamo un ordine da NDS (servizi di sicurezza Afghani) che c’erano 10, 20, 50 insorgenti radunati in una casa o un giardino, lanciavamo un’offensiva”. Non si discutevano operazioni specifiche.
La Strike Force di Kandahar era composta da 400 uomini ed era diventata così efficace che, secondo Afghanzai, “il presidente Karzai aveva inviato lettere di ringraziamento.”
Due altri membri della Strike Force di Kandahar, Basir, un ex comandante di squadra, e Fazel Mohammad, un vice comandante di squadra, in carica al carcere di Pul-i-Charkhi hanno detto che facevano parte di un commando afgano nel 2004, quando furono reclutati in “unità speciali”. Hanno detto inoltre che il loro comandante è stato avvicinato da un consulente americano. Le autorità carcerarie e il giudice che ha presieduto il processo del 2009 ha confermato che hanno lavorato a Camp Gecko. Funzionari afghani e occidentali hanno anche confermato che sono stati assunti come guardie di sicurezza private per lavorare per la CIA a Camp Gecko e che hanno condotto raid.

Retroscena di guerra e missioni militari

Silvana Pisa  – Elettra Deiana

Siamo all’ennesimo voto sul rifinanziamento delle missioni militari. Un film infinito, reiterato con le modalità di sempre, l’indifferenza di sempre, le mistificazioni e bugie di sempre. E anche l’ipocrisia istituzionale di sempre.

La morte in Afghanistan del quarantesimo militare italiano, a pochi giorni da quella del trentanovesimo, è passata praticamente sotto silenzio se non fosse stato per la gaffe del ministro La Russa che, non arrivando in tempo  per  accogliere la salma, ha costretto l’aereo che la riportava in Italia  a ritardare l’atterraggio.

La “routine della morte”legata al teatro di guerra afgano ha via via cambiato in Italia i suoi costumi di scena. Il compianto corale dedicato nei primi tempi ai morti italiani col tempo è scivolato dell’indifferente assuefazione dell’opinione pubblica e delle pubbliche istituzioni. Resta il fatto che a morire sono sempre giovani, intorno o sotto ai trent’anni. Per lo più meridionali. Ci sarebbe molto da discutere. E resta il fatto che la morte dei civili afgani ha orami raggiunto punte drammatiche:, anche qui nell’indifferenza internazionale e nei silenzi colpevoli dei comandi militari, la cui unica voce, quando c’è, è quella di giustificare o nascondere la verità dei fatti. L’ultima strage è di questo mese: a Khost, l’8 luglio. Un totale di circa 12.000 vittime civili e 8000 di militari afgani,  oltre i morti delle truppe d’occupazione tra cui i nostri militari. Tutti morti per una guerra  fallimentare e insensata che non si sarebbe mai dovuta fare e che bisognerebbe almeno chiudere al più presto.

E’ almeno a tutti questi morti che si deve un discorso di verità sulle ragioni che hanno portato gli Stati Uniti, paese allora detentore – così pensava Bush – dell’ordine mondiale, a scatenare quella guerra fatale tra i monti dell’Hindu Kush.

Un discorso di verità che, ancora una volta, non verrà pronunciato nelle aule del Parlamento italiano chiamato in queste settimane a votare il rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Ipocrisia e burocrazia  ne saranno il ritornello. Le  intemperanze della Lega  sono legate in realtà a un gioco delle parti che guarda ad interessi locali. Ci ricordiamo bene quella che per anni, in tempi non remati,  fu l’adesione entusiasta dei parlamentari padanici alle guerre di Bush! Il disaccordo del Carroccio trova oggi motivo unicamente nella crisi economica, come è palesemente questione di soldi l’annunciata riduzione delle spese militari anche da parte della Casa Bianca.

E’ un circolo vizioso che mette sotto scacco il modello liberista : si fanno le guerre per gli “interessi” (risorse energetiche, mercati, industrie degli armamenti, aumento del Pil..) e si è costretti poi ad uscirne se  i soldi non ci sono più. E i droni che seminano morti senza perdite di vite umane per chi li manovra da lontano costano in maniera esponenziale…

Gli Usa hanno speso per le guerre finalizzate a un capitolo genericamente denominato   “terrorismo” oltre 3000 miliardi di dollari  – circa quanto speso per il secondo conflitto mondiale- con un esito fallimentare. Salvo assicurarsi presidii statunitensi in tutte le zone di interesse o preoccupazione strategica.

Questione di soldi anche per la Libia: come non riconoscere che nel caso specifico è il petrolio libico, e non la violenza del dittatore Gheddafi – nota da sempre  –  ad avere convinto le potenze occidentali ad intervenire in uno scontro interno che aveva più i segni della guerra civile che quelli della rivolta popolare contro il regime ?

Il fatto è che le pedine di guerra vengono mosse sulla base del calcolo di interessi mentre si sottovaluta  la durata degli interventi militari. E’ storia antica: la guerra genera e alimenta se stessa.  L’intervento in Libia doveva durare poche settimane, quello in Afghanistan sembrava finito quasi subito, a sentire il presidente Bush. Ma mentre i calcoli sono sbagliati  conseguentemente è sbagliato anche quello delle spese mentre. Come afferma il rapporto dell’università di Rhode Island: “si sopravalutano gli obiettivi politici che possono essere raggiunti con l’uso della forza bruta”.

L’unica missione che il Parlamento italiano probabilmente ridurrà di numero  ( a parte quella impegnata in Kossovo che dopo anni e anni va a esaurimento) è Unifil in Libano : l’unica targata Onu; l’unica costruita con l’accordo dei due contendenti e che ha significato la fine di un conflitto ; l’unica che ha rappresentato un’interposizione di  “pace” (in mancanza dei corpi civili di pace, altro tema su cui chi si nasconde dietro le finalità di pace delle missioni militari dovrebbe interrogarsi e riaprire il dibattito). A nulla vale uno sguardo geopolitico e strategico più attento su quella regione : l’ attuale crisi della Siria che si aggiunge all’annosa disputa con Israele per le alture del Golan;  l’interesse dei vari paesi della zona per i giacimenti di gas recentemente scoperti nelle acque del mediterraneo di fronte al Libano; l’instabilità dello stesso Libano dopo la sentenza sull’assassinio di Hariri; per non parlare dell’irrisolta questione palestinese. Tutti elementi che fanno di quel confine una zona “calda”.

Ma la missione in Libano non è targata né Usa né Nato  mentre questi sono i soggetti che il nostro Governo, il Parlamento e, duole doverlo dire ma va detto, la Presidenza della Repubblica vogliono “garantire” come garanti della legalità internazionale. Si citano continuamente da parte di rappresentanti di queste istituzioni della Repubblica gli impegni internazionali da cui deriverebbero l’immagine e il rango del nostro paese. Ma gli argomenti di questo tipo valgono a correnti alternate:  valgono per le costosissime  missioni militari, non valgono per altri impegni internazionali  come, per esempio, per le quote che l’Italia si è impegnata a pagare – e che non paga – al Fondo Globale contro le malattie proposto dal nostro paese al G8 del 2001 o per quello che riguarda la cooperazione, progressivamente sottoposta a una forte erosione dei fondi. Né conta, evidentemente, che crisi economica, climatica, alimentare  abbiano portato oggi i paesi del Corno d’Africa ad un’emergenza alimentare gravissima.

E c’è un altro capitolo su cui va fatta chiarezza contro il mantra istituzionale che dobbiamo condividere le scelte. Lo diciamo da sempre: l’appartenenza ad organizzazioni internazionali non determina di per sé automatismi di accoglimento delle decisioni che vengono prese, sia pure nelle sedi decisionali preposte. La Germania, autorevole membro della Nato, non partecipa alla guerra in Libia. Non lo fa perché sia in rotta con la Nato o in contrasto con gli Usa, lo fa per decisione sovrana, ex regole della Nato stessa..

Negli Stati uniti, gravati dal debito pubblico, c’è un ripensamento sulle dispendiose guerre “per esportare democrazia”. Potrebbe succedere anche in Italia? Ce lo auguriamo e lo auguriamo al nostro Paese. Il problema sarà di ricostruire cultura e politica di pace come segno distintivo del Paese e della sue istituzioni.

LE AUTORITA’ AFGANE AFFERMANO CHE UN RAID DELLA NATO HA UCCISO 6 CIVILI

Alcuni uomini trasportavano i cadaveri sulle spalle in mezzo alla folla

RAWA NEWS

Amir Shah – Associated Press

PAN, 14 luglio 2011: i residenti e alcuni funzionari hanno affermato che giovedì scorso sei persone, incluse donne e bambini, sono state uccise e altre due ferite durante un’incursione nella provincia sudorientale di Khost.

I funzionari governativi dell’Afghanistan orientale hanno accusato le truppe NATO di aver ucciso sei civili lo scorso giovedì durante un raid notturno. Più di mille persone si sono riversate furibonde sulle strade.

Secondo le forze alleate, una pattuglia congiunta alle forze militari afgane della provincia di Khost ha ucciso sei combattenti appartenenti ad un gruppo militante alleato con i Talebani, conosciuto come la rete Haqqani, e ferito un civile.

“Non ho ricevuto informazioni in merito all’uccisione di sei civili”, ha dichiarato il Capitano Justin Brockhoff ad Associated Press.

Tuttavia, la notizia dell’accaduto ha fomentato rabbia e indignazione a Khost, e centinaia di persone hanno marciato sulla capitale gridando: “Morte all’America! Morte al governo!”. Alcuni uomini trasportavano i cadaveri sulle spalle in mezzo alla folla.

L’incursione è avvenuta nel villaggio di Toora Worai, in un’area chiamata Matoon che dista circa quattro miglia (sette chilometri) dalla città di Khost, capitale della provincia.

Mubarez Zadran, portavoce del governo provinciale, ha affermato: “La notte scorsa la coalizione ha condotto un’operazione in quel villaggio, purtroppo sulla base di informazioni non corrette secondo le quali era in corso una riunione dei capi della rete Haqqani. Questa operazione ha ucciso sei civili”.

Gul Mohammad Zazi, membro del consiglio provinciale di Khost, ha raccontato che le truppe internazionali sono piombate nel villaggio a mezzanotte circa e hanno cominciato a sparare alle finestre delle case. Zazi ha affermato che le vittime non erano in alcun modo collegate al movimento dei ribelli. Ha inoltre precisato che il numero delle vittime è di sei persone e che le informazioni precedenti che indicavano sette morti non erano corrette.

Brockhoff ha detto che le forze Nato e quelle afgane stavano inseguendo uno dei capi della rete Haqqani, responsabile di attentati e traffici di armi nella zona. Secondo il racconto di Brockhoff, alcuni ribelli con pistole e fucili AK-47 hanno aperto il fuoco su di loro. Tra coloro uccisi in questo scontro a fuoco c’era anche una donna armata di pistola che aveva sparato sulle truppe.

Ha aggiunto che le truppe hanno prestato soccorso alla donna ferita e l’hanno trasportata in una struttura medica.

Asif Khan, abitante di Toora Worai che viveva vicino ad alcune delle persone uccise, ha affermato che tutte le vittime erano civili. Il portavoce delle scuole locali, Sayed Musa Majro, ha riferito che fra i morti c’erano un insegnante e due studenti.

Lo stesso giovedì la Nato ha dichiarato che uno dei suoi membri è stato ucciso mercoledì scorso durante un attacco nell’Afghanistan orientale. La coalizione non ha fornito ulteriori informazioni in merito alla nazionalità di questo membro.

Afghanistan, la battaglia delle donne: “In tv per riconquistare i nostri diritti”

Diritto di critica

Cinema, programmi televisivi, soap opera in cui poter diventare protagoniste e documentare la loro vita. Per la prima volta, le donne afghane si raccontano e combattono per la propria libertà attraverso i mezzi d’informazione. Ma la loro battaglia resta difficile, in un paese in cui i casi di violenza sono in aumento e i diritti economici restano inesistenti.

“I segreti di questa casa” è la prima soap della tv afghana, prodotta per Tolo Tv. Una scommessa del fondatore dell’emittente, Saad Mohseni, noto come il “Murdoch di Kabul”, per promuovere la necessità di un cambiamento culturale nel suo paese: per questo, senza mezzi termini, qualche anno fa aveva accusato il presidente Karzai di voler vietare le soap opere indiane, a causa degli eccessivi idoli indù e delle donne troppo svestite. La risposta di Mohseni non si era fatta attendere: via le statue e le attrici seminude, ma la programmazione non si tocca. Anzi, visto che in Afghanistan l’80% di chi possiede un televisore guarda le soap indiane, perché non realizzarne una afghana? Attraverso i personaggi de I segreti di questa casa, Kabul parla a se stessa e di se stessa, cercando di far riflettere sulla reale possibilità di rinnovamento: speranza ancora maggiore, dato che secondo la Altai consulting di Kabul, il 50% circa degli afghani guarda la tv e Tolo Tv raggiungerebbe il 45% di quel pubblico.

La lotta per i propri diritti acquista visibilità grazie ai media. Una battaglia portata avanti, nei mesi scorsi, anche con la trasmissione “Niqab”: nello studio televisivo solo una donna (spesso sotto i 18 anni) col volto coperto da una maschera e un intervistatore. Così, le storie più tragiche passano per il piccolo schermo, arrivano nelle case, come il racconto di una 13enne, venduta dalla sua famiglia per 1000 dollari e poi torturata dal marito e dai parenti. “Usiamo queste vite come esempio – spiega la 28enne Sami Mahdi, ideatrice del programma -: sono sicura che, così, qualcosa può cambiare nella vita delle altre donne e nella mentalità degli uomini afghani”.

Lo scorso aprile, le donne afghane si sono raccontate in cinque documentari all’Oberdan, in una minirassegna organizzata dalla Cineteca e dall’associazione Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane). Tra i titoli, “Sguardo da un granello di sabbia”, girato tra il 2002 e il 2006 da Meena Nanji e premiato in vari festival: le storie di tre donne, un medico, un’insegnante e un’attivista per i diritti umani, tra Kabul e i campi profughi del Pakistan.

Qualche tempo fa, due giovani registe afghane, Roya e Alka Sadat, avevano lanciato un’importante sfida: la fondazione di “un’associazione al femminile, attraverso cui proiettare documentari e raccogliere testimonianze di donne da tutto il mondo che lottano per i propri diritti, cercando di proporre un modello per le donne in Afghanistan”. Qui, molte torture non vengono alla luce, come ha spiegato Roya, “perché la maggior parte della popolazione non può accedere neanche ai giornali. Per questo, il cinema è il mezzo ideale per informare”. Dai cinema di Kabul però le donne continuano a essere escluse, ammesse solo come attrici di soap opera: per questo motivo, le due registe hanno pensato alla realizzazione di una vera e propria “Casa della Cultura”, in cui le donne possano essere dietro la macchina da presa e documentare la propria vita.

I mezzi d’informazione diventano l’unico strumento per far conoscere le violenze subite, in continuo aumento. Secondo i dati dell’AIHRC (Afghanistan Independent Human Rights Commission) l’anno scorso ci sono state 2765 segnalazioni di casi di violenza contro donne e ragazze: tra questi, 144 auto-immolazioni, 261 tentativi di suicidio, 237 matrimoni forzati, 538 episodi di percosse e 45 omicidi. I sociologi evidenziano che le auto-immolazioni sono più frequenti tra le donne profughe tornate a Herat, dopo essere state in Iran, dove le condizioni di vita sono decisamente migliori. Il commissario dell’AIHRC Nader Naderi ritiene che l’inadeguato accesso alla giustizia sia la causa principale dell’aumento della violenza: “finché non verranno applicate le leggi fondamentali, questo flagello non potrà essere eliminato. È necessario che anche nelle scuole religiose si insegni il rispetto per le donne”. L’organizzazione non governativa Women and Children Legal Research Foundation dichiara che il 59% dei matrimoni sono forzati: di questi, il 30% è composto da quelli di “scambio”, in cui gli uomini barattano le proprie figlie e le altre ragazze della famiglia come “merce da matrimonio”. Secondo un sondaggio della Thomson Reuters Foundation, l’Afghanistan è al primo posto tra i paesi in cui le donne corrono maggiori rischi, dallo scarso accesso alle strutture sanitarie e dalla mancanza di diritti economici agli stupri, tratta di esseri umani e violenze in generale.

Continua il “progetto vite preziose”: un futuro per Fahema e Shogofa

Altre donne hanno trovato aiuto dai nostri lettori nelle ultime due settimane.

Articolo di Cristiana Cella – L’UNITA’

Fahema ha adesso un altro sponsor, Angela, che, insieme a Maria, si occuperà di lei. Potrà curarsi e avviare un lavoro a casa dei fratelli.

Shogofa è sempre nella casa protetta, le condizioni della sua famiglia non sono cambiate. Non può sposare il ragazzo di cui è innamorata per le minacce del padre. Lo ucciderà, se la figlia oserà sposarlo contro la sua volontà. Vuole che Shogofa torni a casa per mendicare insieme alla matrigna e portare soldi a casa. I galli non bastano più. Probabilmente cercherebbe anche di farla sposare a chi può pagarlo bene. Con il sostegno di Cristina e Alessandra potrà aiutare la famiglia anche senza mendicare. E potrà avviare un lavoro per lei e per il suo innamorato. In questo caso, Shogofa ci crede davvero, il padre non farebbe più opposizione e il suo sogno d’amore potrebbe avere un lieto fine.

Behnaz con l’aiuto di Annalisa, potrà curarsi e mantenersi a casa del padre con le figlie, sfuggendo quindi al ricatto del cognato che vuole obbligarla a sposarlo.

Hawca troverà per lei un lavoro, nel suo villaggio, comprando una mucca o delle capre oppure avviando un’attività di cucito. I suoi problemi psicologici saranno certamente migliorati dalle medicine che adesso si potrà comprare ma anche dalla speranza di una nuova vita, libera dal ricatto che la soffoca.

Shahzadar aspetta ancora uno sponsor e le sue condizioni non sono cambiate.

LE NUOVE STORIE. COSA CI RACCONTANO
Ero pronta a pubblicare le storie raccolte nei mesi scorsi quando Hawca mi ha scritto da Kabul pregandomi di dare la precedenza a quattro donne e bambine che hanno chiesto aiuto al Centro Legale la scorsa settimana. I loro problemi, simili, sono estremi e molto urgenti e hanno tutti a che fare con la difficoltà di accesso alle cure mediche per le donne. I dati delle organizzazioni umanitarie internazionali sono tragici ma sono sempre solo dei numeri. Ascoltando la voce di queste donne entriamo direttamente nella loro vita e capiamo davvero, anzi, “sentiamo” che cosa significa.

Le donne afgane colpite da depressione, o da altri disturbi psichici, tra i 15 e i 40 anni, sono circa due milioni. Di questo ci parlano due delle nostre storie. Ci raccontano di quando la violenza diventa intollerabile, di quando qualcosa si spezza nella forza di resistenza necessaria a vivere. I drammi di queste donne si consumano dentro le loro case, anche in quelle della capitale, dove, nei quartieri più ricchi, si vedono anche ragazzine sorridenti con i libri sotto il braccio. Dentro molte delle case che si arrampicano sulle colline di Kabul o nei villaggi più sperduti, la sofferenza prosegue il suo cammino implacabile, nell’indifferenza e devasta la mente delle persone più fragili.

L’isolamento, la solitudine, l’impotenza nascondono, come i muri delle case. Le donne che si raccontano oggi hanno trovato il coraggio di rompere questo silenzio e hanno chiesto aiuto.

CURARSI IN AFGHANISTAN
Curarsi, per malattie del corpo o della mente, per le donne è molto difficile. Prima di tutto perché dipendono completamente dal marito o da un parente maschio. Non hanno la possibilità di muoversi autonomamente e devono essere portate dal medico o in ospedale, da un uomo della famiglia. Che spesso è causa dei loro mali e non ne ha nessuna intenzione. In secondo luogo, le medicine costano e chi sopravvive a stento non se le può permettere. O, anche potendo, non vuole comprarle per le donne della famiglia. Non ne vale la pena. Andare a mendicare sembra sia l’unico modo lasciato alle donne per trovare il denaro per curarsi.

Chiedo a Simin Sultani, che lavora con Hawca e si occupa delle nostre storie, qual è adesso la situazione sanitaria in Afghanistan. «Le principali città del paese hanno almeno un ospedale pubblico. Secondo la nostra Costituzione le cure mediche dovrebbero essere accessibili e gratuite per la popolazione senza discriminazioni. Il primo problema è che il livello delle cure in questi ospedali è molto basso. Non ci sono medicine gratuite, né letti sufficienti. Non c’è abbastanza personale medico né attrezzature. E la preparazione dei medici è scarsa. Nella Kabul Medical University, i testi su cui si studia sono vecchi di 30 anni. Non c’è assicurazione sanitaria e ogni cittadino alla fine deve pagare di tasca sua. Ci sono molti ospedali privati con personale straniero, in particolare dal Pakistan, India, Turchia e Tajikistan, che sono ancora più costosi. Ma certamente i medici più preparati non vengono qui a rischiare la vita. A volte succede che infermieri, che non trovano lavoro nel loro paese, siano assunti negli ospedali afghani come medici specialisti. Le medicine che arrivano dall’estero non sono sottoposte a nessun controllo e spesso sono di bassa qualità o scadute. In pratica questo significa che la gente muore per malattie curabili, soprattutto donne e bambini.

Ad esempio, secondo le Nazioni Unite, l’Afghanistan è al secondo posto al mondo come mortalità materna: 1900 morti su 100.000 nascite regolari. 25.000 donne, ogni anno, muoiono per le complicazioni legate alla gravidanza o al parto. L’aspettativa di vita per le donne è di 44 anni».

Questo ci spiega le difficoltà di Deba, Nahida, Homa e Nahima. Ecco le loro storie.

NAHIMA – 30 ANNI- KABUL
Nahima non potrà mai dimenticare quel giorno. Lo ha sempre davanti agli occhi come fosse adesso, così dice. Sono una famiglia povera ma felice, non hanno di che lamentarsi. Due sorelle e un fratello grande, l’unico maschio, adorato da tutti, specialmente dal padre. Poi arriva la guerra civile. Nahima ha 15 anni. E’ il tempo buio in cui un uragano di bombe e razzi si abbatte ogni giorno sulla città. Quando non si sa se il giorno dopo si sarà ancora vivi. Quando è un rischio mortale uscire a comprare cibo o andare a scuola. Eppure Nahima continua ad andarci, è troppo importante per lei. Quel giorno, torna a casa dopo le lezioni. Percorre la sua strada, guardinga, veloce. Capisce subito che qualcosa è successo. I vicini escono dalle case e le vengono incontro gridando e piangendo: il fratello amatissimo è stato ammazzato in mezzo alla strada poche ore prima. Succede spesso in questi anni feroci ma questa volta è successo alla sua famiglia, a lei. Dopo la morte dell’unico figlio maschio, tutto precipita. Il padre si incattivisce. Non sopporta più la presenza della moglie che non ha più maschi da dargli. Né quella delle tre figlie femmine. Si risposa e il loro posto nella famiglia svanisce. Le due sorelle maggiori si sposano, o meglio vengono vendute in matrimonio, Nahima rimane sola con la madre.

Il padre e la nuova moglie le tollerano appena, in una stanza della casa. Ma non le danno da mangiare, il padre non se ne occupa. Anzi. Inizia a picchiarle entrambe, spesso su ordine della moglie. Per Nahima è troppo. La sua mente non regge più. La violenza del padre le scatena frequenti crisi: urla, insulta, grida senza potersi fermare. E picchia la madre, l’unica, forse, sulla quale può sfogare la sua rabbia. La settimana scorsa Nahima ha perso completamente il controllo. Ha rotto una gamba alla madre e il padre l’ha picchiata perché fa sempre tutto quella confusione in casa. La madre non è più in grado di controllarla né di lavorare. Faceva le pulizie nelle case, ma adesso è vecchia, e non può mai lasciare sola la figlia. Da qualche giorno Nahima è incatenata in casa sua.

Eppure curarla è possibile, ha detto il medico, ma deve prendere le medicine con regolarità. E le medicine costano. Nessuno le può pagare.

PROGETTO PER NAHIMA Ha bisogno di aiuto per curarsi e per sopravvivere insieme alla madre. Magari, con un po’ di autonomia economica, potrebbero anche lasciare la casa del padre e vivere in pace.

DEBA- 17 ANNI- KABUL
Mia figlia Deba ha adesso 17 anni. Ne aveva solo cinque quando suo padre è morto. Mio marito è stato ucciso nella guerra civile contro i talebani. Da allora le cose non sono andate bene. La vita di una vedova è molto difficile qui. Viviamo, io e due figlie, nella casa di mio cognato, qui a Kabul. Ci affitta una stanza in casa sua ma non ha mezzi per mantenere anche noi. Così cerchiamo di arrangiarci. Io vado in giro per il quartiere, raccolgo i panni sporchi e li lavo. In questo modo posso pagare la stanza e la nostra sopravvivenza. Deba ha cercato in tutti i modi di aiutarmi ma lo zio non le permette di uscire di casa per lavorare con me o per trovare qualcos’altro che ci sostenga. Ha sofferto molto di questa situazione e adesso ha dei grossi problemi psicologici. Spesso, in casa, per strada, dovunque si trovi, cade per terra, grida, piange. Sono due anni che ha queste crisi. Dovrebbe essere curata e prendere delle medicine ma io non posso permettermelo e non abbiamo parenti che ci possano aiutare. Devo fare qualcosa per Deba, questo me lo dico ogni giorno. Ma cosa? Pregare, certo, questo lo faccio. E mendicare per le strade di Kabul, come molte altre vedove nelle mie condizioni. E’ l’unico modo per trovare i soldi per le cure di cui mia figlia ha bisogno. Ma sono ancora giovane e mi vergogno. Chiedere i soldi per la strada mi fa sentire senza dignità e poi gli uomini non ti trattano bene. Se Deba stesse meglio, se avessimo un aiuto, potrebbe iniziare qualche lavoretto a casa e le cose andrebbero meglio. E’ questo il mio pensiero ogni mattina quando mi sveglio.

PROGETTO PER DEBA
Deba ha bisogno di aiuto per curare i suoi gravi problemi psicologici. In un secondo tempo, potrebbe avviare qualche lavoro a casa, per aiutare la madre e poter vivere meglio.

HOMA – 45 ANNI- KABUL
Mio marito è stato ucciso nella guerra civile e io e mia figlia siamo rimaste sole. Non abbiamo una famiglia che ci possa aiutare. Un parente di mio marito ci affitta una stanza nella sua casa e, per sopravvivere, io vado a pulire una scuola. Quello che mi danno mi basta appena per pagare la stanza, mangiare e far andare mia figlia a scuola. Il problema è che sono malata, ho una grave forma di epatite e non ho i soldi per curarmi. Ho paura per mia figlia, per il suo futuro. Ho paura che si ammali anche lei. Se si ammalasse non avrei altra scelta che mendicare per trovare i soldi per le medicine. Ho paura di non farcela più a lavorare, o di lasciarla sola. Senza di me, che farebbe della sua vita? Tanto vale farla finita subito. Io e lei insieme. Questo pensiero non mi abbandona mai. Un attimo e tutto sarebbe finito. Ma poi qualcosa mi spinge ad andare avanti. Adesso sono riuscita a chiedere aiuto. E’ già qualcosa.

PROGETTO PER HOMA
Homa ha bisogno di aiuto urgente per curarsi l’epatite, finché ha ancora speranza di guarire, e per migliorare le condizioni di vita sua e della figlia. Perché possa continuare ad andare a scuola.

NAHIDA- 6 ANNI. HERAT.
Nahida ha due sorelle più piccole e un fratello di 8 anni. Siamo una famiglia povera ma fino a un anno fa ce la facevamo a vivere decentemente. Poi c’è stato quell’attacco suicida, uno dei tanti. Ma quel giorno c’era anche mio marito. Ha perso i piedi e le mani e non può più lavorare. Sono io a mantenere la famiglia, faccio il bucato per i vicini. Ma Nahida è la mia preoccupazione più grande. Ha un‘infezione alle orecchie che ha attaccato anche l’osso. Quando mio marito stava bene, ha cercato di curarla. Il medico ha detto che deve essere operata al più presto altrimenti sarà sorda per sempre e avrà problemi anche con la gola. Ma i soldi adesso non ci sono per curarla. L’unico modo per trovarli è andare a mendicare. A volte, i problemi che ho sulle spalle mi sembrano troppi e mi manca il coraggio.

PROGETTO PER NAHIDA
Nahida ha bisogno di aiuto per operarsi e curare la sua infezione. Così sua madre potrà evitare di mendicare e potranno migliorare le loro condizioni di vita.

Afghanistan, non è un Paese per donne

LA STAMPA.IT 
  
Le relazioni lasciano pochi dubbi: ogni giorno muoiono di parto 50 puerpere, la vita media è di 44 anni, migliaia sono in carcere per “crimini morali” o vengono lapidate o bruciate vive
  
  
Le uccisioni dei soldati del contingente e attentati come l’ultimo, costato la vita al fratello del presidente Karzai, sono in evidenza nelle cronache. Meno i dati che parlano dell’Afghanistan di tutti i giorni, ben lontano dall’essere liberato o migliorato, dove la situazione delle donne resta drammatica sotto ogni profilo, tanto sanitario come sociale.
Lo dice il rapporto State of the World’s Mothers 2011, recentemente pubblicato dall’organizzazione Save the Children: ogni giorno in Afghanistan muoiono di parto 50 donne; una su tre ha subito violenza psicologica o sessuale, e la vita media è di 44 anni. Questo dona al Paese un triste doppio record, ha il più alto tasso di mortalità materna e la più bassa aspettativa di vita femminile del mondo. Del resto la vita non offre molto: oltre l’85% delle donne afghane sono analfabete e il 70% delle ragazze in età scolare non frequentano le lezioni per motivi diversi, tutti drammatici: dalla mancanza di sicurezza, al timore per la propria vita, al divieto delle famiglie.
Diventare madre anche se inevitabile data la situazione sanitaria e socio-culturale è un azzardo e spesso è preambolo a ulteriori dolori perché i bambini afghani, insieme a quelli dell’Africa subsahariana, hanno il più alto rischio di mortalità al mondo. Uno su cinque, secondo il rapporto, muore prima di aver compiuto 5 anni di età.
Un altro rapporto, nato da un’inchiesta giornalistica ordinata dalla rivista Marie Claire, parla delle carceri afghane dove sono rinchiuse 860 donne, 620 adolescenti e 280 bambini. Ci si chiede quali crimini possa commettere una donna in una nazione dove per lo più non può nemmeno uscire di casa liberamente. Bene, sono “crimini morali”. Ad esempio lasciare mariti che le maltrattano, rifiutare matrimoni forzati, accusare i coniugi, ecc. Il carcere è l’alternativa a morti orrende all’interno della cerchia familiare o del villaggio, lapidate, sepolte vive, cosparse di cherosene e date alle fiamme.
In teoria tutto questo non sarebbe possibile. Nel 2009 il Congresso afghano ha ratificato l’EWAN, Elimination of Violence Against Women Act, mettendo fuori legge la maggior parte di queste “tradizioni” . Ma passare all’applicazione è evidentemente altro discorso.

Da profuga a eroina degli orfani afghani

Istruzione: elemento chiave per il futuro dell´Afghanistan

11 Luglio 2011 – Michael Corgey – Permalink

L´infanzia di Andeisha Farid non è stata poi così diversa da quella di milioni di bambini afghani. Andeisha nasce nel 1983 in un piccolo villaggio afghano, che di lì a poco verrà raso al suolo dai bombardamenti sovietici. La sua famiglia è costretta a lasciare il paese e così, Andeisha crescerà in diversi campi profughi dell´Iran e del Pakistan.

 Nel 1992 la famiglia Farid decide di rientrare in Afghanistan ma viene fermata dalla polizia lungo il confine iraniano, un attacco che costa la vita al fratello di soli dodici anni e ferisce il padre e la sorella più piccola.

 Il paese che li accoglierà più tardi ha cominciato la sua rapida discesa nel caos della guerra civile, le donne sono vittime di violenze e stupri e i bambini, picchiati e costretti a lavorare. Ma come ha fatto questa donna a superare le difficoltà della guerra e diventare nota a livello internazionale?

 La risposta sta in una parola sola: istruzione. Durante gli studi univeritari in Pakistan, Andeisha si rese conto di quanto forunata fosse ad avere avuto la possibilità di ricevere un´educazione accademica e cominciò quindi a vedere la povertà e la disperazione della sua gente sotto una luce diversa: Andeisha era determinata a cambiare il futuro di quei bambini, i figli della guerra.

 Intervistata questa settimana dalla CNN, Andeisha Farid ha dichiarato: `Ero sicura che se avessimo dato a quei bambini un´istruzione, la possibilità di diventare medici, ingegneri e futuri leader del nostro paese, tutto l´Afghanistan avrebbe un giorno beneficiato dei loro successi. Abbiamo bisogno di loro.´

Nel 2001, Andeisha, ancora adolescente, fonda AFCECO (Afghan Child Education and Care Organization). Partita con 20 bambini in una piccola ma sicura casa famiglia ad Islamabad, un marito e moglie come supervisori, l´organizzazione ora conta circa 650 bambini in undici orfanotrofi tra Afghanistan e Pakistan. In collaborazione con l´Ong americana, Charity Help International, nel 2004 Afceco ha inaugurato il programma di sponsorship per i propri bambini.

Sin dalla fondazione, l´idea alla base della filosofia Afceco è stata quella di offrire a questi bambini un´istruzione. I bambini sono sempre protetti nel loro tragitto dalla scuola all´orfanotrofio, in quanto, in Afghanistan ogni vicino rappresenta un potenziale pericolo. I bambini sono scortati da guardie e ancor più lo sono le bambine che si muovnono in un piccolo pullmino. `In una società patriarcale come la nostra, difendere l´uguaglianza tra uomo e donna è un rischio costante´ – ha dichiarato Andeisha.

`Queste giovani ragazze sognano di diventare figure politiche, attiviste per i diritti umani, giornaliste e questo è semplicemente inaccettabile per la società e la cultura afghana.´

Andeisha Farid e la sua organizzazione sono diventate note a livello internazionale grazie alla visita presso l´orfanotrofio Mehan di Kabul del giornalista di NBC Nightly News, Brian Williams. In quell´occasione Williams girò un reportage intitolato `Making a Difference´, Fare la Differenza, trasmesso il 30 settembre 2008 dal canale televisivo americano.

I bambini afghani di Afceco provengono da ogni angolo del paese, hanno origini etniche e credi religiosi diversi. L´organizzazione promuove la tolleranza e la libertà di espressione, ed ognuno è libero di professare il proprio credo. Poiché la legge afghana non prevede l´adozione di bambini afghani da parte di famiglie straniere, la maggior parte di questi considera l´orfanotrofio la propria casa.

Nel marzo 2010, Andeisha Farid, oggi 28 anni, ha incontrato nuovamente il giornalista Williams a Washington D.C. Circondata da figure politiche e personaggi celebri come il segretario di Stato americano Hillary Clinton, il Senatore americano Kay Bailey Hutchison e l´attrice Reese Witherspoon, Andeisha Farid ha ricevuto importanti riconoscimenti dal gruppo Vital Voices in occasione della cerimonia di consegna dei Global Leadership Awards.

Nonostante la notorietà, Andeisha Farids rimane fedele alla propria missione. Quasi sicuramente, le sfide più grandi devono ancora arrivare. L´attuale deficit finanziario e la mancanza di sponsor rappresenta uno delgli ostacoli più grandi per Afceco, ma se le difficoltà e le avversità avessero intimorito Andeisha Farid sin dallgli inizi, Afceco non sarebbe mai nata.

`A ventott´anni ho già molti capelli bianchi, ma non importa, perché questo è quello che ho sempre voluto fare per il mio paese, l´Afghanistan. Lo considero una piccola goccia nell´oceano…´

Un’insurrezione generale ricoprirà di polvere tutti i nemici, interni ed esterni!

HAMBASTAGI – Solidarity Party of Afghanistan

Se un tempo l’Afghanistan era il cimitero di tutti i nemici, senza dubbio oggi questo paese è diventato un raccoglitore di aggressori e di intromissioni. Ad eccezione dei criminali e di tutte le persone della loro razza, nessun Afgano patriottico ed onesto può accettare questa corruzione ormai dominante, né i soprusi e le umiliazioni imposte dai paesi confinanti.

Attualmente, dopo anni di combattimenti e crimini a Helmand, Kandahar, Zabul, Kunduz, Wardak e altre province, il fulcro della battaglia si è spostato ad est del paese. Ora tocca agli abitanti delle aree orientali essere decimati e costretti a lasciare le loro case a causa dei bombardamenti pakistani, degli attacchi USA e Nato e della violenza talebana. L’inarrestabile massacro dei militaristi pakistani, che è costato la vita a centinaia di nostri compatrioti indifesi, è perfettamente in linea con la politica degli occupanti. Lo scopo delle forze di occupazione, infatti, è seminare panico e terrore e utilizzare la minaccia pakistana come giustificazione per perpetuare la loro presenza in Afghanistan e per evidenziare la “necessità” di stabilizzare in modo permanente le loro basi militari qui da noi, creando così le premesse per una perpetua schiavitù del nostro paese.

Il governo pakistano è uno dei regimi piu’ spregevoli della regione. Per decenni ha ordito complotti con traditori e criminali della jihad in Afghanistan, dando la propria benedizione e quella dell’ISI (Inter Services Intelligence) all’uccisione di un numero infinito di patrioti afghani. Ha fatto crescere, finanziato e portato al potere i Talebani e continua tuttora a foraggiarli. Inoltre, non si è risparmiato nemmeno nel sostenere il partito fascista Hezb-i-Islami di Hekmatyar nonché gli attuali attacchi terroristici suicidi. L’ultimo crimine pakistano nei confronti del nostro paese, il tradimento piu’ recente, consiste nella violazione spudorata della frontiera fra Pakistan e Afghanistan. Agli occhi del nostro popolo, il Pakistan è una delle principali cause della distruzione e devastazione dell’Afghanistan.

Dopo la scoperta e l’uccisione di Osama Bin Laden ad Abbotabad, il Pakistan ha perso definitivamente qualsiasi tipo di credibilità. Di conseguenza, ora sta cercando di riguadagnare dignità sfruttando a suo beneficio lo scandaloso dominio mafioso della situazione economica, politica e militare dell’Afghanistan. Il governo pakistano sta cercando di sfruttare lo slittamento di responsabilità nella conduzione della guerra contro i Talebani al cosiddetto “esercito” afgano, al fine di estorcere concessioni a beneficio suo e dei suoi amici Talebani dal moribondo governo Karzai. In un contesto in cui Rahim Wardak, il cosiddetto “ministro della difesa” afgano e molti altri membri del governo, governatori di province, ambasciatori e altri pezzi grossi del regime Karzai sono ex-agenti a suo tempo finanziati dall’ISI, è piuttosto ovvio che si sentano tutti imbarazzati nel doversi opporre al Pakistan e che il Sig. Karzai non o pronunciare una parola di denuncia nei confronti della sleale aggressione del Pakistan verso l’Afghanistan. Del resto, Karzai continua a prostrarsi e ad adulare i Talebani, definendo questi selvaggi assassini “fratelli scontenti” – sempre figli della nostra madreterra afghana. Un governo così odiato e detestato dal suo popolo, composto dai criminali piu’ sordidi, svenduti e corrotti della storia, non sarà mai in grado di contrastare i maltrattamenti e le aggressioni dei paesi confinanti e difendere fermamente e risolutamente la sua gente e i confini del suo paese.

In questo frangente i traditori, i criminali e i signori della droga che appartengono a ciò che si definisce “opposizione” e “Fronte Nazionale” cercano di mascherarsi definendosi “anti-pakistani”. Tutto questo è altrettanto rivoltante per il popolo afgano quanto lo sono le dichiarazioni dei portavoce presidenziali, del ministero degli esteri e di altre spie private pakistane. Chi è cresciuto nelle culle dell’ISI e ha passato la propria vita fra rapine e saccheggi non ha alcun diritto di vociferare contro i soprusi e le criminalità del Pakistan, vomitando bugie per “difendere” questa terra e questa popolazione ferita.

Nelle circostanze attuali, la gente dell’Afghanistan non conosce alcun individuo o gruppo inserito nella “Cosa Nostra” del governo afghano che possa opporsi alla slealtà e ai tradimenti del governo pachistano. Qualsiasi appello da parte di funzionari governativi che inciti alla resistenza contro il Pakistan otterrà dalla nostra gente ciò che effettivamente merita: uno schiaffo in faccia. L’unica possibile risposta consiste in un’insurrezione storica da parte di tutte le etnie che compongono la popolazione afgana emulando l’eroica insurrezione dei popoli arabi e iraniani: un’insurrezione generale prima di tutto contro le forze di occupazione e contro il regime afgano e i suoi finti oppositori. Un simile movimento per la libertà dell’Afghanistan farà sì che i governi del Pakistan, dell’Iran e di altri paesi ostili ci pensino due volte prima di aggredire questa terra.

Siamo fermamente convinti che finché le forze di occupazione non se ne andranno, finché non avremo conquistato indipendenza, democrazia e sicurezza e i criminali di qualsiasi specie verranno processati, qualsiasi paese – vicino o lontano – potrà sempre minacciare e tradire il nostro paese, imponendoci la sua volontà.

Il Solidarity Party of Afghanistan considera gli Stati Uniti e la Nato nemici del popolo afgano e chiede l’immediato e totale ritiro delle loro truppe dal paese. E proprio come avevamo denunciato il regime criminale dell’Iran esprimendo la nostra solidarietà alla popolazione pakistana, intimiamo ora al governo-spia pakistano di smetterla di lanciare missili e bombe sulla nostra gente e di non essere più sleale e traditore nei confronti dell’Afghanistan. Nel giorno glorioso dell’insurrezione delle popolazioni afghane e pakistane, il governo del Pakistan dovrà rendere conto di molte cose.

Il mondo è cambiato. Gli effetti della Primavera Araba arriveranno anche in Afghanistan e Pakistan e consegneranno lo stato-ISI del Pakistan e lo stato-mafia dell’Afghanistan alla pattumiera della storia.

L’intromissione del governo pakistano in Afghanistan deve finire!

Salutiamo l’avvento delle insurrezioni afghane e pakistane per l’indipendenza e la democrazia!

SOLIDARITY PARTY OF AFGHANISTAN

Jalalabad – 11 luglio 2011

L’altro Afghanistan: intervista a Cristiana Cella

di Ilaria Brusadelli e Marco Besana – Lavocedinomas
Prosegue il progetto Vite Preziose sull’Unità. Cristina Cella giornalista che ha proposto l’idea di raccontare le terribili storie di donne Afghane per poterle sostenere, ci racconta il suo Afghanistan: quello terribile e corrotto e quello coraggioso e che cerca un riscatto.

Com’è nata l’idea di questo “ponte tra la società civile e quella afghana”?
L’estate scorsa, appena tornata da Kabul, ho scritto tre  reportages sulla condizione delle donne, raccontando le loro storie. Molti lettori ci hanno scritto, alcuni di loro proponendosi di aiutarle economicamente. Con una piccola cifra mensile avrebbero potuto lasciare la casa dei loro aguzzini, costruirsi un lavoro per essere autonome e ottenere la custodia dei figli. Ne ho parlato con Concita de Gregorio che ne è stata entusiasta. Da qui è nato il progetto. Ci sono stati intoppi (i problemi causati dalla legge di Karzai) e difficoltà ma alla fine ce l’abbiamo fatta. In collaborazione con Hawca, la ONG di donne afghane che sostiene le  vittime di violenza, abbiamo raccolto una ventina di storie. Sono state pubblicate sul giornale e, adesso sono sul sito dell’Unità. Lo spazio dedicato al progetto è fisso e continuamente aggiornato. Ci sono nuove storie, il resoconto delle sponsorizzazioni, interviste e articoli, tra breve, sulla condizione delle donne e sul lavoro di Hawca. Entrare nella vita di queste donne che vivono condizioni per noi inimmaginabili, è difficile. Ma è straordinario sapere che con pochi euro possiamo contribuire a cambiare la loro vita, a dar loro una speranza di un futuro diverso. Su questi cambiamenti i lettori saranno via via informati, creando una relazione diretta con le persone che hanno deciso di aiutare. E’ un intervento preciso, mirato alla singola donna e immediato. Si possono sostenere con 50 o 25 euro mensili, anche associandosi con amici, per un periodo di un anno. Tutti i dettagli li trovate sul sito. Il progetto sta andando bene e sette donne possono adesso contare sull’aiuto dei nostri lettori. Non sono più sole ad affrontare i loro problemi.
Da Kabul continuano a mandarmi nuove storie, urgenti e terribili. Abbiamo dunque bisogno che questo ponte di solidarietà si solidifichi e coinvolga sempre più persone. L’informazione che ci aiutate a fare è quindi preziosa.

Perché raccontare le storie delle donne? In un Paese dove la donna non viene considerata o, peggio, è spesso una vittima, perché partire da loro per costruire una speranza?
Per molte ragioni.
La condizione delle donne è sempre un chiaro sintomo dello stato di salute di un paese e di una democrazia. Ascoltando le loro storie non si può barare. Se 2400 donne si suicidano ogni anno, qualcosa di sicuro non va. La “democrazia” portata in Afghanistan mostra, dopo 10 anni, il suo vero volto di facciata e di propaganda. Niente di quello che era stato promesso nel 2001 sui diritti delle donne, è stato mantenuto. Il governo afghano, sostenuto dalle truppe internazionali, fatto di criminali di guerra, trafficanti, mafiosi, tutti fondamentalisti feroci, con lo stesso credo dei talebani, non ha alcun interesse a proteggerle. Le democrazie occidentali, forze occupanti del paese, nemmeno. La giustizia, a dispetto di leggi anche buone e importanti, è inquinata dalla corruzione e dalla gestione fondamentalista. Quasi mai la Costituzione è messa in pratica. I signori della guerra, nelle loro province, fanno quello che vogliono. E i delitti, soprattutto contro le donne, non vengono puniti. Spesso i giudici sono moullah che applicano sharia e  leggi tradizionali esasperate, in 30 anni di guerra, di barbarie e di impunità. Le donne in Afghanistan sono le prime ad avere bisogno di aiuto perché la maggioranza di loro, non ha accesso a nessuno dei diritti civili fondamentali. Compito dell’informazione è fare sapere come stanno davvero le cose, a maggior ragione per il nostro paese, coinvolto nella guerra  e presente da anni sul territorio afghano.
Aiutare una donna significa impedire un suicidio, un matrimonio forzato, la prostituzione coatta o la morte per violenze subite. E’ già moltissimo ma c’è qualcosa in più, un valore aggiunto. Significa anche rompere questo cerchio di ferro che le imprigiona e aprire una nuova vita ai figli e alla famiglia stessa. Una madre libera fa un’enorme differenza. Una donna che riesce a curarsi, a istruirsi, a lavorare, a conoscere e a credere nei propri diritti, aiuterà i suoi figli a diventare persone migliori. Come ci dice una delle donne di cui abbiamo raccontato la storia, “voglio che mio figlio diventi un uomo migliore di suo padre e del mio.” Il cambiamento nella vita di una donna ha dunque un effetto moltiplicatore e, a volte, può cambiare anche la testa del marito. E’ un passo verso la formazione di una società più giusta che un giorno potrà prendere in mano le sorti dell’Afghanistan.
Con questo progetto, poi, non aiutiamo soltanto le vittime ma anche le donne coraggiose che, sostenendole in tutti i modi possibili, combattono ogni giorno, anche a rischio della propria vita, per i loro diritti. Le aiutiamo a fare il loro straordinario lavoro. Sono loro l’altro Afghanistan e la speranza del suo futuro. Appoggiarle penso sia il dovere di ogni democratico. Conoscere da vicino quello che fanno e come lo fanno, la loro ‘tempra’, mi riempie ogni volta di stupore e di stima.

Il progetto aiuterà le donne in case rifugio gestite dalla ong hawca, case minacciate recentemente dall’ennesimo tentativo del governo di controllare ogni ambito della vita della popolazione….
Hawca ha sostenuto, durante gli ultimi sei mesi, una dura battaglia, insieme alle altre Ong che si occupano di case rifugio, afghane e internazionali. L’offensiva contro gli shelters comincia già in ottobre, quando la Corte Suprema di Giustizia, stabilisce che la donna che fugge da casa per cercare rifugio nei centri di accoglienza, commette reato e deve essere arrestata. Che sia stata sottoposta a torture e abusi o sia in pericolo di vita non ha nessuna rilevanza, nonostante la Costituzione imponga allo Stato di tutelare l’integrità fisica e psichica delle donne all’interno della famiglia. Bisogna dire che l’articolo 3 della Costituzione Afghana prevede che nessuna legge dello stato possa essere contraria alla Sharia e alla religione. Chi lo decide? Sempre la Corte di Giustizia, che ha, quindi, un enorme potere sulla gestione della legge. Negli stessi mesi comincia una campagna denigratoria contro le case protette ad opera di Noorin TV, di proprietà di alcuni signori della guerra, che presenta i rifugi come luoghi di prostituzione, facendo scoppiare uno scandalo. Poi, in gennaio, il Presidente Karzai e il Consiglio dei Ministri afgano varano un decreto: entro 45 giorni dalla sua entrata in vigore, le “case rifugio” passeranno sotto il controllo del Ministero degli Affari Femminili. Le Ong che se ne occupano rischiano di essere tagliate fuori. Il pericolo contro il quale insorgono le organizzazioni dei diritti umani internazionali, è che gli shelters , unica possibilità di fuga e di assistenza per le donne, vengano chiusi o si trasformino in prigioni.
Sono nominate due commissioni, una per monitorare gli shelters, l’altra  per decidere la sorte delle vittime  che cercano rifugio, sempre sotto l’ala della Corte Suprema. Sono formate da persone che non hanno né la libertà di pensiero né la competenza per farlo. Le ‘regole di ammissione’ sono paradossali. La donna dovrà essere accompagnata da un mahram (parente maschio o marito) per evitare le imputazioni della Corte. E’ evidente che nessun marito lo farà mai, essendo, nella maggior parte dei casi, il responsabile delle violenze. Per le donne accolte ci sarà l’obbligo di sottoporsi a costanti “perizie mediche” per il controllo della loro attività sessuale. Esami  traumatici per chi ha già subito violenza, che violano la dignità e l’integrità fisica. Una logica in cui la vittima è già imputata e uno stupro equivale all’adulterio. Se poi  venisse rimandata a casa, cosa che spesso viene pretesa dalla famiglia e rifiutata dalle ONG afghane, vivrebbe nella vergogna, sconterebbe punizioni pesanti e potrebbe essere giustiziata.
I numerosi meeting a Kabul , in Europa e negli Stati Uniti, in cui le Ong hanno contrastato le leggi in questione, hanno avuto un parziale successo. Gli shelters autorizzati con una licenza speciale, tra cui quelli di Hawca, non saranno chiusi ma  lavoreranno sotto la supervisione del Ministero per gli Affari Femminili. Selay Ghaffar, presidente di Hawca e una delle voci democratiche più autorevoli del paese, in prima fila in questa battaglia, ci scrive che le Ong hanno lavorato col Ministero per cambiare le regole degli shelters. In alcuni casi sono riuscite a  far accettare il loro punto di vista. Ma, al momento, ci sono ancora articoli inaccettabili per le organizzazioni della società civile, soprattutto quelle che riguardano l’ammissione delle donne e il forzato rientro nella famiglia dalla quale sono scappate. Se il nuovo regolamento sarà accettato, entrerà in vigore tra tre mesi e tutte le case rifugio dovranno uniformarsi.
In guerra la violenza diventa purtroppo “normalità”. Ma perché, soprattutto contro le donne e all’interno della loro famiglia? Cosa c’è alla base di questa crudeltà che sembra andare oltre la guerra…
Prima di tutto bisogna dire che le donne sono vittime di violenza ovunque nel mondo, anche nei nostri civilissimi paesi europei. E’ dunque una questione che riguarda anche noi. In Afghanistan sembrano non esserci limiti alla violenza. Le storie che ci raccontano sono inimmaginabili. Ho fatto spesso anch’io questa domanda alle nostre amiche afghane. Questo è quello che mi hanno risposto. Le limitazioni alla libertà delle donne hanno certamente un’origine lontana nel paese. Fanno parte di una tradizione tribale di controllo e potere maschile. Non hanno niente a che fare con l’Islam. Queste leggi tradizionali erano, 30 anni fa, combattute e tenute a bada da una giustizia laica funzionante che prevaleva su di loro. Così molte donne erano libere di studiare, lavorare, fare politica, guidare e vestirsi come volevano.  Oggi succede il contrario. La legge è assente e le regole tribali, nutrite da 20 anni di fondamentalismo e imbarbarite dalla guerra e dalla mancanza di sicurezza, prendono il sopravvento, sostenute da chi ha il potere politico. Assassini, strupratori e violenti, non vengono puniti e questo non fa che rafforzare il loro comportamento. Anzi, il più delle volte, è la vittima a essere considerata colpevole. Colpevole di aver offeso, subendo un abuso, l’onore della famiglia. Una distorsione che diventa sempre più ‘normale’. E peggiora ogni giorno. I signori della guerra, secondo le denunce delle organizzazioni umanitarie, fanno continue pressioni sul governo perché queste leggi tribali siano trasformate in leggi dello Stato. La prevista Riconciliazione con i Talebani, non migliorerà certo le cose. Una donna ha poche probabilità di ottenere giustizia e di essere aiutata. Questa vulnerabilità la rende il capro espiatorio delle frustrazioni e delle miserie della vita di molti afghani, come povertà, droga, mancanza di lavoro, malattia ecc. Nella mentalità comune, oggi, la violenza sulle donne è quasi un diritto della famiglia in Afghanistan.

Fare cooperazione attraverso l’informazione… è possibile? Quale credi che possa – o meglio debba – essere il ruolo dell’informazione?
Spero di sì, la scommessa è questa. L’informazione deve avere il coraggio di dire la verità anche se scomoda. E, secondo me, deve raccontare la vita della gente, non solo dare notizia dei comportamenti dei grandi della terra. Andare in profondità nelle situazioni, ascoltare, guardare, accogliere. E raccontare. Raccontare esperienze e storie di vita che ci fanno capire molto di più su un paese. Sappiamo tutto sulla guerra, le azioni militari, i movimenti degli eserciti e le conferenze internazionali ma non sappiamo niente di come vive e muore la gente dell’Afghanistan. Niente che metta la loro vita accanto alla nostra. Questo è un primo passo. Creare un contatto tra le persone e non solo tra le notizie. Come nel caso del nostro progetto, la solidarietà poi viene da sola. Si tratta solo di organizzarla.

E tu, Cristiana, per cosa urleresti ¡NO MÁS!?
¡NO MÁS! violenza sulle donne, sulle bambine, sui bambini, su chi non può difendersi. ¡NO MÁS! violazioni dei diritti umani, guerre “umanitarie” e bugie che le sostengono. ¡NO MÁS! ipocrisie e connivenza. ¡NO MÁS! subire, come ci dicono le nostre amiche delle rivoluzioni arabe…

Centinaia di manifestanti contro gli attacchi pachistani alla frontiera

di Abdul Mueed Hashimi,   Pajhwok Afghan News

Jalalabad (PAN): Centinaia di persone, tra cui donne, hanno partecipato lunedì a una manifestazione a Jalalabad per protestare contro gli attacchi dal Pakistan attraverso la frontiera.

Circa 500 persone sono scese in strada gridando slogan anti-Pakistan per protestare contro i bombardamenti che hanno ucciso numerose persone e ne hanno disperse centinaia nelle provincie orientali di Kunar, Nangarhar e Khost.

Il Pakistan ammette che le sue forze di sicurezza possono avere lanciato accidentalmente i loro esplosivi all’interno dell’Afghanistan mentre davano la caccia a militanti. Sostiene anche che insorgenti dall’Afghanistan abbiano attraversato il confine per attaccare i checkpoints della sicurezza all’interno del Pakistan.

La manifestazione è iniziata a Talashi Street e si è conclusa di fronte alla Bi Bi Hawa School. La polizia ha installato barricate lungo la via che conduce al consolato pachistano, dove sembrava che i dimostranti fossero diretti.

L’acuirsi della disputa ai confini ha danneggiato gravemente le relazioni tra l’Afghanistan e il Pakistan.

I dimostranti hanno gridato slogan contro il governo del Pakistan, l’esercito e i servizi segreti. Hanno attaccato anche il governo afghano perchè non reagisce agli attacchi in modo efficace.

Uno dei dimostranti, Ashiqullah, ha detto che l’esercito pachistano e l’ISI (i servizi segreti pachistani, n.d.r.) si vergognano della morte di Osama bin Laden vicino a una guarnigione militare nella provincia del  Khiber Pakhtunkhwa e hanno voluto distrarre l’attenzione internazionale da quell’episodio.

Il presidente Hamid Karzai ha detto al comandante in capo dell’esercito pachistano Ashfaq Kayani che gli attacchi devono cessare. I Pakistani hanno convocato l’ambasciatore afghano, e il primo ministro Yousuf Raza Gilani ha espresso il suo rammarico a Karzai.

Martedì ufficiali militari provenienti dal Pakistan e dall’Afghanistan si sono incontrati a Peshawar e hanno concordato di proseguire i negoziati ad alto livello e gli incontri tra comandanti allo scopo di disinnescare la disputa.

Gli ufficiali afghani e occidentali vedono l’assistenza da parte del Pakistan come cruciale nello sforzo di aprire un canale di comunicazione con i talebani, in questa fase iniziale di contatti per avviare trattative di pace.