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Autore: Anna Santarello

Afghanistan: doppia strage di civili

Corriere della sera

Un raid Nato provoca 65 morti, un secondo altri sei. Un kamikaze si fa saltare nel nord: 63 tra morti e feriti.
 
MILANO – Due stragi in due giorni in Afghanistan, con un bilancio totale che potrebbe superare il centinaio di morti. Un raid Usa nelle montagne del nord-est dell’Afghanistan ha provocato la morte di 65 civili, fra cui 22 donne e oltre 30 bambini. Lo ha denunciato il governatore della provincia di Kunar, Fazlullah Wahidi, in un’intervista al Washington Post, dopo che domenica il presidente Hamid Karzai aveva parlato di 50 vittime.
 
DUE RAID – Il raid, spiega Wahidi, è avvenuto nel distretto di Ghaziabad, nei pressi del contine con il Pakistan. «Secondo le testimonianze dei locali, gli elicotteri americani hanno bombardato in modo costante il villaggio provocando un numero enorme di vittime civili», ha aggiunto Wahidi, precisando che gli abitanti del villaggio colpito sono ancora «intrappolati» nelle loro case. I militari americani hanno aperto un’inchiesta sul bombardamento in cui, sostengono, sono rimasti uccisi 36 militanti armati. «Prendiamo in seria considerazione le accuse e andremo a fondo al nostro meglio», ha commentato una fonte militare Usa. In un altro raid aereo della Nato la scorsa notte è morta una famiglia di sei persone. Lo hanno riferito alla France Presse responsabili locali. «Il raid aereo doveva colpire tre ribelli che stavano piazzando mine sulla strada. Un missile ha colpito per errore una casa e ha ucciso sei civili, tutti membri della stessa famiglia», ha detto il portavoce delle autorità della provincia di Nangarhar, alla frontiera con il Pakistan. Anche il governatore del distretto di Khogyani ha confermato questa versione dei fatti.

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Intervista a Said Mahmoud portavoce del partito afghano Hambastagi

Circolo Carlo Giuliani Parigi
Said Mahmoud è portavoce di Hambastagi, partito progressista afghano impegnato, pur nel disgregato panorama del Paese, nella divulgazione di un programma di sviluppo economico, libertà e giustizia sociale. Sembra il massimo dell’utopia in una nazione che ha tre generazioni coivolte in conflitti periodici e infiniti. Lo intervistiamo durante una delle tappe europee con cui ha incontrato esponenti politici e della società civile.

Mahmoud, che impatto può avere un piccolo partito come il vostro che si rivolge alle coscienze dei concittadini in una nazione da decenni devastata dallo strapotere delle armi?
Il nostro partito punta a coinvolgere la popolazione con manifestazioni che contestano l’attuale governo così da mostrare come in Afghanistan la resistenza anche pacifica non scompare. Ci basiamo sul più ampio coinvolgimento delle persone. È una scommessa ma la facciamo.
 
Come siete organizzati, avete libertà d’azione?
Il partito Hambastagi ha una propria organizzazione centrale, però l’aspetto fondamentale al quale non vogliamo rinunciare è la diffusa presenza in molte province afghane. Contiamo 30.000 iscritti e puntiamo sul contatto diretto con la popolazione. Diamo un contributo all’acculturamento della gente, con bambini e ragazzi è più semplice, con gli adulti meno, comunque insistiamo. Alfabetizzare gli individui, renderli consci dei propri diritti vuol dire fornirgli le armi migliori: coscienza e capacità d’interpretare la realtà. Simili iniziative espongono a rischi di repressione e morte i nostri membri sia da parte dei Taliban sia del governo considerato legalitario in Occidente. Ma avere il caloroso sostegno di tanti afghani degli strati sociali più diversi anche attraverso telefonate ed email che giungono nelle sedi di partito, evidenziano l’evidente bisogno di cambiamento che c’è nell’aria.
 
Il pashtunwali (il codice comportamentale) influenza pur indirettamente i rapporti fra attivisti e attiviste di Hambastagi?
Il pashtunwali è una delle componenti che regolano le interrelazioni fra i sessi nella società afghana, ma non è l’unica. I rapporti uomo-donna nel partito li abbiamo affrontati e in parte li stiamo risolvendo con una pratica di collaborazione assoluta. Lavoriamo fra pari con rispetto e fratellanza e reciproci. Gli scambi gestuali si riducono a una stretta di mano perché abbiamo costumi più castigati dei vostri ma credo che le nostre attiviste siano più soddisfatte di quelle occidentali. La vice rappresentante di Hambastagi è una donna, la direzione del partito conta tre elementi femminili e nelle cariche le donne occupano il 45% del totale.

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Soldati a Kabul e più basi Usa ecco il prezzo pagato a Obama

Repubblica.it

WikiLeaks, per l’aeroporto Dal Molin è stasta una resa. Letta e La Russa: faremo ciò che volete. Via i caveat per i militari italiani in Afghanistan: potranno combattere a fianco dei marines
di LUCA FRAIOLI

ROMA – Più militari italiani in Afghanistan, pronti a combattere al fianco dei marines, senza i tanti vincoli imposti dai “caveat” che impediscono ai nostri soldati di intervenire in tutto il territorio afgano e soprattutto di partecipare a operazioni d’attacco. E poi il via libera all’ampliamento delle basi Usa nella Penisola, alla loro completa autonomia dalle autorità italiane, allo stoccaggio sul suolo nazionale di armi che, almeno in teoria, il nostro Paese ha messo al bando. Dai nuovi cablo sull’Italia venuti in possesso di WikiLeaks emerge che Washington, in cambio del sostegno al governo Berlusconi, chiede la massima collaborazione in campo militare. E la ottiene, sempre.

L’AFGHANISTAN
In alcuni casi gli americani sono persino sorpresi dalla disponibilità dell’alleato: i cablo rivelano che il Pentagono si aspetta dal governo italiano l’invio in Afghanistan di rinforzi limitati: non più di 500 uomini. E invece Roma decide di spedire a Herat 1200 soldati, con più mezzi blindati, aerei ed elicotteri da combattimento. Non solo, il ministro della Difesa Ignazio La Russa assicura al segretario della Difesa americano Robert Gates che saranno eliminati tutti i “caveat” che limitano le operazioni dei soldati italiani. Tutti tranne uno: ci vorrà un preavviso di sei ore per far intervenire i nostri militari insieme ai marines. “Ma” garantisce La Russa “si tratta solo di una misura psicologica che non avrà alcuna conseguenza pratica”. Insomma, il nostro contingente in Afghanistan ora può combattere in prima linea senza alcun impedimento
Gli americani ringraziano. E apprezzano La Russa quando “con la sua copertura politica” vengono schierati i parà della Folgore. Per la diplomazia Usa questo significa che il ruolo dell’Italia in Afghanistan cambia radicalmente: non più solo a presidio del territorio, ma in prima linea nelle operazioni d’attacco ai Taliban. Rimane una zona d’ombra che, stando ai cablo di WikiLeaks, ci viene rinfacciata in ogni colloquio: gli italiani devono smetterla di pagare tangenti ai guerriglieri in cambio della incolumità delle loro truppe.

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AFGHANISTAN: DI PIETRO, CHE SENSO HA STARE ANCORA LÌ?

”L’Italia dei Valori ieri ha presentato una mozione per chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan. Su quei territori e’ in atto una guerra guerreggiata, le vittime civili e militari aumentano di giorno in giorno e la missione ha ormai perso la sua natura di pace”. Lo scrive in un post sul suo blog il Presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro.

”Condanniamo – aggiunge – l’ipocrisia di chi piange i nostri caduti in Afghanistan e poi, in Parlamento, opera in tutt’altra maniera. Noi non ci stiamo, le nostre Camere stanno calpestano l’articolo 11 della Costituzione: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta’ degli altri popoli. Su quei territori, oramai, sta proseguendo un’azione di sostanziale guerra che si sviluppa senza risultati da dieci anni”.

”Ci rammarica – prosegue il leader dell’IdV – che su un tema cosi’ importante il Pd abbia preferito prendere una posizione contraria alla nostra votando insieme al Pdl e bocciando la nostra mozione”.

”Siamo certi – conclude – che in tutta Italia il popolo del Pd voglia una posizione contraria sulla presenza in Afghanistan delle nostre truppe. La verita’ e’ che ieri il Pd ha perso una grande occasione per dimostrarlo”.

com-vlm/sam/rob

La realtà della guerra britannica in Afghanistan

Con l’entrata nel decimo anno di guerra in Afghanistan, un rapporto di War on Want mostra la verità dietro al conflitto.

Di Yasmin Khan – War on Want

protest munich conf 226x300Mentre l’occupazione in Afghanistan sta per entrare nel decimo anno, le vittime fra i civili e le forze Nato sono aumentate a tal punto da rendere gli ultimi 12 mesi i piu’ cruenti dall’inizio del conflitto. Le forze statunitensi e britanniche stanno conducendo una sporca guerra in Afghanistan, utilizzando bombardamenti aerei, carceri di tortura e mercenari contro la popolazione afghana, sottoposta a una sempre maggior insicurezza e alla costante violazione dei diritti umani.

L’Afghanistan è diventato uno dei paesi piu’ militarizzati del globo, il cui “fattore sicurezza” è ormai l’unico vero investimento nazionale. Negli ultimi anni, la Gran Bretagna ha esportato armi in Afghanistan per un ammontare di 32.5 milioni di sterline. Inoltre, accanto alle forze militari statunitensi e britanniche, esiste un “esercito ombra” composto da gruppi militari privati e da compagnie di sicurezza, per la cui sovvenzione il governo britannico ha speso 62.8 milioni di sterline dal 2006 al 2009.

Decenni di conflitti e interventi militari stranieri hanno reso l’Afghanistan uno dei paesi piu’ poveri al mondo. L’aspettativa di vita è di 44.6 anni, una delle piu’ basse esistenti. Gli unici obiettivi della politica dello sviluppo sono quelli militari nonché la privatizzazione dell’economia nazionale, mentre le multinazionali si arricchiscono a spese di uno dei paesi meno sviluppati della terra.

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ALLARME DONNE AFGHANE: IL GOVERNO DI KABUL IMPONE IL SUO CONTROLLO SULLE CASE RIFUGIO!

Il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (CISDA) denuncia la legge promossa dal Consiglio dei Ministri dell’Afghanistan nel gennaio 2011 secondo la quale entro 45 giorni dalla sua entrata in vigore le case rifugio per donne maltrattate passeranno dalla gestione delle ONG afghane al controllo del Ministero degli Affari Femminili afghano (MoWA).
Il Decreto accoglie così una precedente decisione della Corte Suprema Afghana – l’organismo legislativo più oscurantista del paese – che ha dichiarato REATO l’allontanamento delle donne da casa per rifugiarsi nei centri di accoglienza per donne maltrattate gestiti dalle Ong. La decisione della Corte Suprema Afghana già limitava la possibilità delle donne vittime di violenza di appellarsi agli organismi giudiziari.
La legge prevede inoltre la chiusura di alcuni rifugi, l’accompagnamento delle donne da parte di un mahram (parente maschio o marito), l’insegnamento della religione islamica e l’obbligo per le donne accolte di sottoporsi a costanti “esami medici” per il monitoraggio della loro attività sessuale. Il governo afferma che la gestione da parte del MoWA garantirà una migliore gestione dei fondi e una migliore scelta dello staff interno. Riteniamo che questa misura sia stata presa solo per compiacere i fondamentalisti e i Taliban, con cui si sono avviate delle trattative; così, i rifugi sono stati accusati di essere case di prostituzione e si è scelto di tenerli sotto controllo.

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Gestione diretta delle case per donne maltrattate da parte del governo afghano: oltre al danno la beffa.

Articolo di Horia Mosadiq, ricercatrice di Amnesty International, sull’attuale situazione degli shelters (case-rifugio per donne maltrattate).

afghanistan burqa house 300La recente mossa da parte del Ministero Afghano degli Affari Femminili (MoWA) di prendere direttamente in gestione gli shelters (case per donne maltrattate) è decisamente preoccupante. Le operatrici delle ONG che attualmente gestiscono queste case-rifugio sono indignate per questa nuova legislazione.

Negli ultimi cinque anni ho potuto vedere personalmente il lavoro che è stato fatto in cinque di questi shelters sui 14 sorti in tutto il paese dopo la caduta dei talebani. Gli shelters ospitano centinaia di donne e ragazze afghane le cui vite sono a rischio per via di matrimoni forzati, matrimoni infantili e altre forme di violenza.

Amnesty International esorta il governo afghano a riconsiderare questa terribile legislazione e, al contrario, ad impegnarsi nel proteggere le donne afghane e tutti i coraggiosi difensori dei diritti umani, fra cui molte donne, che stanno cercando di contrastare anni di discriminazioni e violenze sessuali contro le donne in Afghanistan.

Come donna afghana, sono estremamente orgogliosa del lavoro fatto dai colleghi e dalle colleghe in questi shelters, nonostante la mancanza di risorse, i pregiudizi culturali e le intimidazioni. Intimidazioni che provengono dai membri delle stesse famiglie di quelle donne che cercano rifugio, dal governo, da figure politiche alleate con il governo, dai talebani e da altri gruppi anti-governativi.

Infatti, nel 2008, la fondatrice di una di queste ONG venne trattenuta per un giorno intero presso gli uffici generali della procura solo perché stava cercando di risolvere un caso di violenza domestica che coinvolgeva la famiglia di un funzionario governativo.

Invece di sostenere gli sforzi di queste coraggiose donne afghane, la legislazione del MoWA cerca di controllare direttamente la gestione degli shelters e decide chi ha diritto alla protezione attraverso una commissione formata da otto persone, rappresentanti di vari ministeri. La legislazione prevede anche una “perizia medica”, se richiesta dalla commissione.

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L’intenzione del governo di rilevare gli shelters (case per donne maltrattate) minaccia la sicurezza delle donne afghane

Tolo News – 14 febbraio 2011

La scorsa domenica Human Rights Watch ha affermato che l’intenzione del governo di prendere direttamente in carico le case-rifugio per donne maltrattate minaccia la sicurezza delle donne e delle ragazze afghane.

Una dichiarazione pubblicata sul sito web di Human Rights Watch afferma che il governo dovrebbe sostenere chi si sta occupando attualmente degli shelters e non gestirli direttamente.

Secondo questa dichiarazione, il governo intende applicare un regolamento al fine di controllare direttamente questi centri di protezione per le donne, attualmente gestiti da organizzazioni non governative.

L’applicazione di tale regolamento porterebbe alla chiusura di alcuni shelters, a notevoli restrizioni nella libertà di movimento delle donne nonché ad una diminuzione della protezione per le stesse residenti.

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Sinistra Critica incontra il “Partito Afghano della solidarietà” (Hambastaghi)

Il portavoce nazionale di Sinistra Critica Piero Maestri ha incontrato domenica 13 febbraio lo speaker nazionale del “Partito afghano della solidarietà” (Hambastaghi), in Italia su invito dell’associazione Cisda.

Un incontro fraterno e molto cordiale tra due organizzazioni politiche che – nelle loro situazioni differenti – fin dalle loro origini hanno al centro del loro impegno la lotta contro la guerra, contro l’occupazione dell’Afghanistan delle truppe Nato (quindi anche italiane) e l’inganno della “guerra per la libertà”, contro i fondamentalismi – per una vera democratizzazione dell’Afghanistan e la partecipazione di tutti i soggetti, prima di tutto delle donne (usate dai vari fondamentalismi per schiacciarle o per ingannare).
Durante l’incontro questa condivisione politica è risultata davvero totale anche per l’oggi: malgrado le difficoltà del movimento contro la guerra in Italia e in Europa, le ragioni del No alla guerra e all’intervento militare in Afghanistan sono ancora tutte valide.
 
L’incontro è stato però ancora di più l’occasione per approfondire un tema caro a entrambe le forze politiche: in Afghanistan non c’è un’alternativa tra Nato (e governo afghano) e fondamentalismi (talebani o meno), ma tra forze leico-democratiche e signori della guerra (Nato e afghani).
La partecipazione e la democrazia sono possibili in Afghanistan se finalmente si pone fine all’occupazione e si sostengono le forze politiche e sociali democratiche – ponendo fine anche alle centinaia di progetti di “cooperazione” (governativa e non – se ancora c’è differenza…) che non aiutano davvero la popolazione afghana e la sua autonomia, ma perpetuano la sua dipendenza economica e politica.
Sinistra Critica ha ribadito il suo sostegno innanzitutto politico alle forze democratiche e laiche afghane (tra queste Hambastaghi), impegnandosi all’organizzazione comune insieme ad altre forze contro la guerra e per la democrazia di una prossima iniziativa per far conoscere la realtà delle forze alternative in Afghanistan e rafforzare il loro protagonismo politico e sociale.

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L’Afghanistan che nessuno racconta

Riccardo Bottazzo (Terra Nordest)
da eliotropo blog – 8 febbraio

L’INCONTRO. Yaqub Ibrahimi a Ca’ Farsetti: «La gente è contro il fondamentalismo islamico ma i governi occidentali non lo contrastano».

Nove anni fa, il fratello minore del giornalista Yaqub Ibrahimi, studente in una facoltà di Kabul, scrisse su un blog studentesco che, secondo lui, le donne erano uguali agli uomini. L’inconcepibile opinione lo portò di filato in galera per blasfemia. E sarebbe ancora là, a marcire dietro le sbarre, se il fratello Yaqub, che nel frattempo era diventato un affermato corrispondente dell’Institute for War and Peace Reporting, non fosse riuscito a smuovere l’opinione pubblica sino a tirarlo fuori nel 2010. Da sottolineare che a spedirlo per otto anni in galera per bestemmie non furono i talebani ma quel regime “democratico” che gli eserciti europei stanno difendendo a furia di bombardamenti indiscriminati.

Evidentemente, qualcosa non quadra tra la realtà di quanto succede nell’Afghanistan e la spettacolarità di quanto ci viene giornalmente comunicato dalle nostre televisioni e dalla maggior parte della carta stampata, troppo presa a commemorare con tutti gli onori del caso l’ultimo alpino caduto di una serie che pare non aver fine. è proprio per spiegare quella guerra che non trova spazio nei nostri giornali che Yaqub, recentemente insignito del premio Anna Politkovskaja per le sue inchieste sui signori della guerra, ha incontrato ieri mattina i colleghi giornalisti italiani per un intenso scambio di opinioni. L’incontro è stato organizzato dall’associazione “Insieme si può” di Belluno e si è svolto a Ca’ Farsetti, sede del Comune di Venezia.

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