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Autore: Anna Santarello

Duran Kalkan: O finisce il mondo o si ferma il capitalismo

UIKI Onlus, 27 settembre 2022

duran kalkan

Duran Kalkan ha affermato che “o finisce il mondo o il capitalismo si ferma. Non ci si può aspettare che il capitalismo risolva le sue contraddizioni”. Duran Kalkan, del Comitato Esecutivo del PKK, ha scritto in un testo pubblicato sul sito web del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) che “o finisce il mondo o il capitalismo si ferma” e ha aggiunto che “non ci si può aspettare che il capitalismo risolva le sue contraddizioni”.

O finisce il mondo o si ferma il capitalismo

Quando non ci sono state rivoluzioni europee dopo la rivoluzione russa, furono sviluppate teorie come “socialismo in un paese, comunismo in un paese e periodi di depressione nel mezzo”.

Rêber Apo [Abdullah Öcalan] si riferisce a questa fase come ‘il periodo canceroso del capitalismo’. In altre parole, capitalismo significa consumo della natura, della società e dell’individuo.

A quel punto, o il mondo finirà, tutto sarà distrutto, o il capitalismo si fermerà. Proprio come la forma di sfruttamento è stata indebolita da vari pensieri, religioni, mitologia, scienza, filosofia e moralità dai tempi dei Sumeri, ci sarà uno sviluppo rivoluzionario che fermerà e porrà fine al capitalismo. Questa è la rivoluzione; questa è l’essenza del socialismo».

L’età della rivoluzione democratica

Duran Kalkan parla di una prospettiva rivoluzionaria: “Se i rivoluzionari mostrano la strada e riescono a fare una rivoluzione, è possibile risolvere i problemi e le contraddizioni che hanno portato a questa guerra. Non c’è altro modo. La rivoluzione mondiale in realtà dipende dalla rivoluzione in Kurdistan. Rêber Apo ha creato una nuova teoria della rivoluzione e ha mostrato la linea ideologico-politica. Ha sviluppato il loro programma, strategia e tattica. Ha definito una nuova concezione della rivoluzione.

Non ci si può aspettare che il capitalismo risolva le sue contraddizioni

Il cambio di paradigma sviluppato da Rêber Apo mostra ciò che è vero e reale. Non ci si può aspettare che il capitalismo ammorbidisca e risolva le proprie contraddizioni. Non esiste pace o libertà dal conflitto nel capitalismo. È uno stato costante di contraddizione, conflitto, crisi e caos. O il pensiero, la moralità, la politica, l’organizzazione e l’azione si evolveranno per rovesciare, tenere a freno e fermare il capitalismo – e questo significa socialismo – o il capitalismo distruggerà davvero questo mondo”.

I socialisti devono avere il coraggio di guardare in modo critico e autocritico alla loro storia

Duran Kalkan vede una lunga continuità nella consapevolezza del potenziale distruttivo del sistema: “A questo proposito, il fatto che i grandi pensatori liberali della storia abbiano richiamato l’attenzione su questo pericolo non deve essere considerato una fantasia o uno spauracchio. Piuttosto, è una situazione che ha a che fare con il senso profondo della vita, la sua definizione e comprensione. I pensatori liberali lo hanno previsto in quasi tutte le epoche. L’hai visto anche in relazione al socialismo quando hanno detto “O socialismo o annientamento”. Ma il socialismo non poteva fare i passi necessari in tempo, non poteva avere successo.

Chi agisce in nome del socialismo deve analizzare molto bene gli ultimi duecento anni di storia. Devono portare alla luce la verità raccogliendo la forza e il coraggio per essere critici e autocritici e liberarsi dalla prepotenza, dagli stereotipi o dall’insicurezza”.

L’era delle rivoluzioni nazionali, del nazionalismo e del repubblicanesimo è finita

Duran Kalkan sottolinea che nessuno dei blocchi di potere in conflitto offre una soluzione, quindi è necessaria una terza posizione: “Il terzo settore, dalla parte degli oppressi, deve trovare una soluzione attraverso la rivoluzione. Come faremo una rivoluzione che salverà umanità e popoli dalla piaga del capitalismo e del fascismo? Questa è la domanda di cui dobbiamo occuparci. Dobbiamo concentrarci su questa domanda e darle la massima importanza. La questione non è solo la questione curda. Il problema non è solo la questione della rivoluzione della libertà in Kurdistan, è la questione della rivoluzione in Medio Oriente, la questione della rivoluzione dell’umanità libera. C’è una situazione rivoluzionaria in Kurdistan che è strettamente intrecciata con la rivoluzione mondiale e la rivoluzione in Medio Oriente. La rivoluzione non ha più una dimensione nazionale o nazionale. Sì, ci muoviamo in uno spazio all’interno di una società, ma l’età non è più l’età delle rivoluzioni nazionali. L’era del nazionalismo e del repubblicanesimo è finita. Rêber Apo ha parlato dell’era della repubblica democratica, della rivoluzione democratica.

La nazione dell’attitudine è globale

La rivoluzione democratica, ovviamente, si sviluppa in un settore all’interno di una società, ma non è una rivoluzione locale. Non è una rivoluzione limitata a una nazione. Abbiamo chiamato questa rivoluzione la ‘rivoluzione della nazione democratica’ e Rêber Apo ha parlato di una ‘nazione di atteggiamento’. Non è una nazione limitata all’etnia, al paese e alla lingua. È regionale e globale.

Dogmatismo e formalismo significano restare indietro nella storia

Non si tratta solo di risolvere la questione curda. È un problema di proporzioni globali. È necessario capirlo e agire di conseguenza. Ecco come dovremmo guardare alla rivoluzione. A questo punto è importante superare la chiusura mentale. Dobbiamo dare il giusto significato a ciò che sperimentiamo. Se non lo capiamo bene, non possiamo vivere la vita e non possiamo trovare una via d’uscita. Non possiamo vivere e apparire come se non fossimo morti, non possiamo vivere una nuova situazione e valutarla da vecchie prospettive. Questo è dogmatismo e formalismo. Ciò significa rimanere indietro nella storia”.

Kabul, la bomba sull’esame

dal blog di Enrico Campofreda, 30 settembre 2022

kabul esplosione

Una mattina d’esame, la tensione della prova, ma anche la gioia dell’incontro con amici e colleghi d’un percorso difficile, non solo per le materie. Per il luogo. Per l’aria che tira. L’esame si tiene a Kabul, nel quartiere di Dasht-e-Barchi dove gli hazara vivono e troppo spesso muoiono. Per camion-bomba, per kamikaze che ti camminano al fianco e in certe circostanze si fanno esplodere. Da cinque anni, da quando l’Isis-Khorasan s’è organizzato contro tutti e tutto, è tornata anche l’immolazione del miliziano che deflagra  assieme alle sue vittime. Non li fermava la presenza della Nato, non li fermano i talebani, con cui hanno battagliato a distanza dal 2017 attorno all’esplosione più fragorosa, all’attentato più eclatante per mostrare chi è il più abile. Da quando gli studenti coranici hanno preso il potere questa furia distruttiva non è diminuita. Anzi. Iniziava già un anno fa con un centinaio di vittime durante il “passaggio di consegne” fra reparti dei marines che dirigevano la fuga della disperazione all’aeroporto Karzai e i talebani dell’accordo di Doha che s’insediavano nei palazzi del governo. I dissenzienti fra loro, da tempo carne delle milizie del Khorasan, storcevano il naso e preparavano gli ordigni. Ne hanno fatti brillare decine con cadenza mensile, talvolta settimanale, allungando la scia di sangue nelle strade, moschee, scuole, mercati ovunque la popolazione deve aver paura di circolare. Stamane si contano 32 morti e un’infinità di feriti. “L’attacco a obiettivi civili è l’ennesima prova dell’inumana crudeltà e dell’assenza di valori morali” ha affermato il portavoce della polizia dell’Emirato afghano Khalid Zadran, riferendosi all’attentato. Sono giovani e adulti, uomini e donne – prevalentemente studenti di etnìa hazara. Erano riuniti per una prova d’esame in una scuola privata della capitale che li preparava all’ingresso all’università. L’affanno dei loro familiari sta nel cercare segnali sull’accaduto, agognando segni di vita. La speranza è flebile ma resiste, quando si corre verso i pochi ospedali, sempre gli stessi: Emergency, Médecins sans Frontières, si sta appesi a voci che circolano. Che vanno dallo scampato pericolo, cui sebbene abituati non ci si abitua mai, alla disperazione dell’apprendere che uno dei figli è diventato un martire. Proprio come chi lo ha ucciso. Nessun martirio risulta più straziante di quello scelto da un  destino manovrato da chi pianifica morte.

Piccoli fornaciai a Kabul

Dal blog di Enrico Campofreda, 27 settembre 2022

bambini lavori

Quanta polvere respirano a cinque, otto, dodici anni i piccoli fornaciai di Kabul? Molta più di quanto ne incamerano girando per le insicure vie della capitale, dove le strade asfaltate restano sempre poche rispetto a quel che non s’è fatto per decenni e davanti al crescente insediamento urbano. C’è chi fugge dai talebani, ma per andar dove? Restare in città significa avere qualche possibilità di racimolare cibo, pur davanti all’angosciante e pilotata crisi alimentare. I baby fornaciai, fotografati in un servizio dell’Associated Press, erano una realtà presente da tempo, sono semplicemente aumentati col dramma delle difficoltà economiche seguite non tanto al ritiro delle truppe Nato, quanto al congelamento dei fondi di sostegno che annualmente giungevano nel Paese. Se ne discute da mesi, di recente qualche segnale di sblocco appare all’orizzonte.  Intanto i piccoli lavoratori del fango e della terra hanno lavorato per tutta l’estate nella fabbrica a cielo aperto poco a nord della capitale e proseguiranno finché il meteo lo permetterà. I loro genitori non solo permettono, ma sperano che la faccenda proseguirà per incamerare i pochi, maledetti dollari che servono alle casse familiari. I bambini presiedono sotto la supervisione di alcuni adulti tutto il ciclo produttivo, non vengono esentati dai lavori di fatica. Anzi. Trainare recipienti d’acqua necessari a impastare la terra, sollevare cesti di carbone per il fuoco è un compito che non li esclude. Come trasportare le pesanti forme alle fornaci per la cottura.

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Carriola dopo carriola, i manufatti fangosi prendono forma e poi consistenza con la cottura, operazioni ovviamente pericolose oltre che gravose per corpi infantili. Eppure chi li vede all’opera ne sottolinea precisione, pazienza, determinazione qualità da uomini e donne fatte, messe in atto da chi dovrebbe studiare e giocare con gli aquiloni. Per ciascuno giochi pochi e scuola altrettanto. Chi non c’è mai stato, chi l’ha interrotta e vorrebbe riprenderla. Tutti sperano in tempi migliori. Anche perché quei corpicini, soggiogati da pesi e fatica, si fermano dopo ben dieci ore. Dieci ore di dolore. Il panorama in cui si muovono è tetro, sterile, senza vegetazione, solo pietre, fango e mattoni creati dalle fornaci a portata di casa. Lì si susseguono le ventiquattr’ore, perché attorno ci sono i poveri tuguri dove la famiglia vive. I genitori non sono mostri, sono disperati. Alcuni ammettono l’infame condizione, penserebbero anche all’istruzione dei ragazzi ma sopravvivere è il primo passo. Ogni capo famiglia pensa di abbandonare quel luogo e quel lavoro, cercare altro, migliorare. Ma non ora. Ora è impossibile perché non c’è niente attorno e pure a centinaia di chilometri. Quattro dollari per mille mattoni, che un adulto, pure forte e abile, non riesce a produrre. Ci si avvicina: novecento, ma non raggiunge la fatidica cifra, senza la quale non scatta la paga. Se invece ad aiutarlo c’è la prole, i mille mattoni possono salire di numero e diventare addirittura millecinque. E per quel giorno si può mangiare. 

Washington-Kabul, la cooperazione dell’illegalità

La vicenda di Haji Bashir Noorzai, liberato dalla giustizia americana e barattato con l’ingegnere-contractor  statunitense Mark Frerichs, che era detenuto a Kabul, ha diversi risvolti

Enrico Campofreda, dal suo blog, 20 settembre 2022

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La vicenda di Haji Bashir Noorzai liberato dalla giustizia americana e barattato con l’ingegnere-contractor  statunitense Mark Frerichs, che era detenuto a Kabul, ha diversi risvolti. Il primo, più evidente, lo scambio ufficiale di prigionieri fra le due nazioni, e di fatto un riconoscimento da parte americana dell’autorità talebana. In realtà tutto ciò avveniva anche durante il conflitto fra US Army e insorgenza dei turbanti. Tre presidenti statunitensi (Obama, Trump, Biden) dal 2009 al 2021, in più riprese, hanno colloquiato coi nemici e infine stabilito accordi per l’evacuazione militare dal Paese.

Questa mossa, sebbene non sia ampiamente diffusa dai media rispetto alla sicuramente più grave coercizione femminile, sancisce il rafforzamento della linea del confronto, condotta dalla fazione moderata dei talebani di governo. Lo sottolinea con enfasi uno dei suoi esponenti: il ministro degli Esteri Muttaqi.

Restano al palo i duri di Kandahar e il clan Haqqani che non s’è proprio curato della faccenda, forse per rispetto al passato di Noorzai, che, come vedremo, ha a che fare con le origini del movimento degli studenti coranici.

Certo, l’amministrazione Biden non può continuare a rilanciare il veto politico-economico sull’Emirato nel momento in cui gli Stati Uniti stabiliscono accordi diplomatici coi nemici d’un ventennio che loro stessi hanno deciso di chiudere. E con fretta estrema. Anche la questione del blocco dei miliardi afghani congelati nelle banche occidentali sta prendendo una via di soluzione, per quanto univoca perché quei 3.5 miliardi finora dirottati verso un fondo svizzero per essere destinati all’emergenza umanitaria non giungono nelle mani dell’Emirato, cosa che non piace anche ai turbanti del dialogo. Sono i ‘giri di valzer’ tipici di tutti gli inquilini della Casa Bianca che fanno e non fanno, fanno e negano, fanno in via riservata o palesemente segreta, perché agli occhi degli elettori vogliono sempre mostrarsi come gli “eroi senza macchia” esaltati dalla propria propaganda. 

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“Non possiamo pensare che al lavoro”

Il racconto che accompagna il servizio fotografico di AP che documenta il lavoro massacrante dei bambini nelle fornaci di mattoni afghane

Ebrahim Noroozi, AP, 23 settembre 2022

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Nabila lavora 10 ore o più al giorno, facendo il lavoro pesante e sporco di impacchettare il fango negli stampi e di trasportare carriole piene di mattoni. A 12 anni, ha lavorato in fabbriche di mattoni per metà della sua vita, ed è probabilmente la più anziana di tutte le sue colleghe.

Già alto, il numero di bambini messi a lavorare in Afghanistan è in crescita, alimentato dal crollo dell’economia dopo che i talebani hanno preso il controllo del Paese e il mondo ha interrotto gli aiuti finanziari poco più di un anno fa.

Un recente sondaggio di Save the Children ha stimato che metà delle famiglie del paese hanno messo i bambini a lavorare per mantenere la possibilità di avere cibo in tavola mentre i mezzi di sussistenza si sgretolavano.

In nessun luogo ciò è più chiaro che nelle numerose fabbriche di mattoni sull’autostrada a nord della capitale, Kabul. Le condizioni nelle fornaci sono dure anche per gli adulti, ma in quasi tutte si trovano bambini di quattro o cinque anni che lavorano insieme alle loro famiglie dalle prime ore del mattino fino al buio nella calura estiva.

I bambini partecipano a ogni fase del processo di fabbricazione dei mattoni: trasportano taniche d’acqua, portano gli stampi di legno pieni di fango per farli asciugare al sole, caricano e spingono le carriole piene di mattoni secchi nel forno per la cottura, quindi riportano le carriole piene di mattoni cotti. Selezionano il carbone fumante che è stato bruciato nella fornace alla ricerca di pezzi ancora utilizzabili, inalando la fuliggine e bruciandosi le dita.

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“La lotta delle donne non è una lotta locale, è globale”

“Le proteste in Iran sono una rivolta per responsabilizzare lo Stato. Gli slogan cantati durante le proteste, così come il motto jin jiyan azadi, sono stati ispirati dalle idee e dalla filosofia del leader curdo Abdullah Öcalan”

ANF, 22 settembre 2022

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La copresidente del Kurdistan Free Life Party (PJAK)*, Zîlan Vejîn, ha parlato con l’ANF (v. il video) dell’omicidio della donna curda di 22 anni, Jina Mahsa Amini, da parte della polizia morale a Teheran e delle azioni di protesta conseguenti. Ha dichiarato che la rivolta popolare che ne è seguita è “una rivolta per chiedere conto delle sue responsabilità allo Stato e al sistema politico iraniano”.

“La rivolta in Iran è iniziata dopo l’omicidio di Amini. Questa è stata l’ultima goccia per i popoli dell’Iran. La rivolta è nata per una specifica donna curda ma riguarda tutte le donne. È un avvertimento che né le donne curde, né il popolo iraniano accettano questo sistema”, ha detto Vêjîn.

Ha sottolineato l’importanza della lotta delle donne nella situazione attuale: “La lotta delle donne non è una lotta locale, è una lotta globale. Questo spirito di libertà non è limitato a una regione, un quartiere o una città, ogni donna lo sta sperimentando ora”.

Vejin ha stigmatizzato le politiche omicide e sessiste dello stato iraniano nei confronti delle donne e dei popoli, dicendo: “Questa rivolta, condotta sotto la guida delle donne, è una rivolta abbracciata da tutti i popoli curdi e iraniani per sostenere che questo stato, il suo sistema politico e le sue leggi sono responsabili. L’intero sistema politico finirà per essere messo in pericolo, senza alcuna legittimità di sopravvivenza, se le donne si ribellano”.

Ha anche richiamato l’attenzione sugli slogan cantati durante le proteste in corso nel Kurdistan orientale e in Iran. “La liberazione delle donne e la democratizzazione dell’Iran, così come il motto ‘jin jiyan azadi’ (Donne, vita, libertà) sono stati ispirati dalle idee e dalla filosofia del leader curdo Abdullah Öcalan”.

Ha espresso le condoglianze per le persone uccise durante le proteste e ha chiesto una partecipazione collettiva alle loro cerimonie funebri.

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Lezioni kurde

Il 30⁰ festival internazionale della cultura kurda il 17 settembre a Landgraaf, Olanda, nel racconto di chi c’era

Gian Luigi Deiana, blog La bottega del Barbieri, 21 settembre 2022

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Il festival ha compiuto sabato 17 settembre il suo trentesimo appuntamento; celebrato per la prima volta in Germania nel 1992, anno dopo anno ha esteso sul corso delle cose la propria ragione originaria: nato come incontro di identità nel vasto mondo dell’emigrazione, è diventato nel tempo il luogo di intreccio della coscienza identitaria kurda con il processo storico che ha sconvolto negli anni tutto il vicino oriente, e il mondo kurdo in modo assolutamente particolare: senza tregua, dalla prima guerra del Golfo in Iraq fino alla crisi in Siria, attraverso la permanente sopraffazione turca e attraverso la tragica meteora dell’Isis; la vicenda politica del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, la formazione delle strutture di resistenza, e in modo particolare la persecuzione giudiziaria nei confronti di Abdullah Öcalan, negli anni hanno assunto quindi in seno al festival un rilievo assolutamente centrale.

La calendarizzazione del festival è speculare a quella del Newroz, il capodanno tradizionale che si celebra in corrispondenza dell’equinozio di primavera, e che in Europa è anticipato, da alcuni anni, con la Long March diretta da Lussemburgo a Strasburgo attraverso le istituzioni europee; il festival della cultura si colloca invece in corrispondenza dell’equinozio di autunno, quando tutte le attività, e in particolare i tempi di ritorno delle migliaia di famiglie di immigrati kurdi in centro Europa, riprendono nei luoghi di lavoro e nei luoghi di studio il loro corso.

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Ancora proteste delle ragazze afghane

Le ragazze afghane hanno protestato nelle strade del centro di Paktia contro la chiusura delle loro scuole

Rawa – 10 settembre 2022

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Studentesse della provincia afghana di Paktia hanno protestato contro la chiusura della loro scuola e hanno marciato nella zona.

“Le ragazze hanno protestato nelle strade del centro di Paktia per protestare contro la chiusura delle loro scuole. In precedenza, nella provincia alcune scuole femminili di grado superiore al 6° erano state riaperte su decisione degli anziani delle tribù e dei funzionari dell’istruzione locale, ma le scuole sono state chiuse di nuovo”, ha riferito Tolo News.

Recentemente diversi attivisti per i diritti umani e per l’istruzione hanno esortato con una lettera aperta i leader mondiali a esercitare pressioni diplomatiche sui talebani affinché riaprano le scuole secondarie per le ragazze nel Paese dilaniato dalla guerra dopo un anno di brutale regime dei talebani.

Dopo quasi 300 giorni da quando il loro sviluppo è stato bloccato, le ragazze e le donne vedono ancora compromesse le loro aspirazioni, hanno affermato gli attivisti, aggiungendo che se questa situazione persisterà i loro obiettivi e le loro speranze per il futuro ne soffriranno molto, ha riferito Khaama Press.

Nella lettera si esortano i leader mondiali, gli alleati regionali e le organizzazioni internazionali a intraprendere azioni severe nella direzione di promuovere e proteggere i diritti delle ragazze afghane, in particolare il diritto all’istruzione che è stato loro strappato dopo che il governo guidato dai talebani ha vietato l’istruzione per le ragazze delle classi superiori alla 6°.

I talebani hanno imposto restrizioni draconiane alle libertà di espressione, associazione, riunione e movimento di donne e ragazze.

La decisione dei talebani di vietare l’accesso a scuola alle studentesse al di sopra del sesto anno ha suscitato critiche diffuse a livello nazionale e internazionale. Inoltre, il regime talebano che ha preso il controllo di Kabul nell’agosto dello scorso anno ha ridotto i diritti e le libertà delle donne, che vedono la gran parte di loro esclusa dalla forza lavoro per la crisi economica e delle restrizioni.

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Ahmad Massud, leader della resistenza afghana: “Formerò un governo in esilio ma l’Occidente armi la resistenza ai talebani”

Repubblica.it Gianni Vernetti 15 settembre 2022

Nel pubblicare questo articolo come contributo alla conoscenza della realtà dell’Afghanistan  ricordiamo che le attiviste di RAWA hanno sempre sostenuto che non sono state le divisioni  etniche ad aver provocato nel Paese le guerre degli ultimi quarant’anni e la povertà attuale ma invece gli appetiti di potere delle forze interne e internazionali, che usano le differenze etniche per penetrare e aumentare il loro potere nell’area. Inoltre, puntare su una federazione che include esponenti di forze fondamentaliste che nulla hanno mai avuto di democratico, e sulle quali pesano gravi responsabilità per crimini commessi nel paese contro la popolazione e per aver  alimentato corruzione e illegalità all’ombra delle truppe di occupazione occidentali, non può sconfiggere i talebani, né tanto meno garantire un futuro di pace e di sviluppo all’Afghanistan.

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L’intervista al leader della guerriglia afghana

Il capo della guerriglia del Panshir a colloquio con Repubblica: “Ancora oggi le donne afghane protestano contro i talebani. Le bambine vogliono tornare a scuola Come ovunque nel mondo”

VIENNA — Incontro Ahmad Massud a Vienna poche ore prima dell’inizio della Conferenza a porte chiuse che radunerà per un paio di giorni nella capitale austriaca le varie forze che si oppongono al regime dei talebani.

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In Afghanistan la minaccia dei talebani arriva dove le donne dovrebbero essere al sicuro

Radiopopolare.it  Chiara Vitali 15 settembre 2022

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In Afghanistan le minacce dei talebani continuano ad arrivare anche nei luoghi dove le donne dovrebbero essere al sicuro. Due giorni fa, alcune dipendenti della missione Onu nel Paese sono state imprigionate e interrogate da alcuni uomini armati: è quanto riporta un esperto delle Nazioni Unite. Queste intimidazioni sono in netto contrasto con l’obbligo di garantire sicurezza a tutto il personale Onu in Afghanistan, previsto dal diritto internazionale.

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