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Autore: Anna Santarello

Voci soffocate nella gola

Da “Voci di donne”, rubrica di arte e cultura della diaspora afghana, riprendiamo questo lungo racconto di Fatema Qasim, da sempre migrante.

Fatema Qasim, blog Binario 15, 3 ottobre 2021

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– Ho detto piano!
– stella stellina
– vergognati e abbassa la voce!
– la notte si avvicina
– zitta, non parlare, non cantare, non hai il dritto, sei solo una femmina…

Corro nel corridoio, la luce va e viene, seguo la vocina di mia figlia che canta. O meglio, cantava prima che quella strana voce, prepotente e sconosciuta, le impedisse di farlo.
Mi fermo e grido: “amore di mamma dove sei?”. Nessuna risposta, Ricomincio a correre ma il corridoio sembra allungarsi ad ogni mio passo, comincio a sudare, a sentire il mio battito e sussurro di nuovo: “dove sei?”.

Improvvisamente davanti ai miei occhi appare un passeggino, comincio a tremare, respiro velocemente e mi avvicino lentamente. Lancio uno sguardo dentro il passeggino, un forte brivido…

Sono le due del mattino e dopo quell’incubo non riesco più a riaddormentarmi. Per prima cosa controllo i bambini, dormono come due angeli nei loro lettini. Poi mi preparo una camomilla che accompagni i miei pensieri. “Perché ho fatto quel brutto sogno?

Non ho nemmeno mangiato qualcosa di pesante!”. Prendo il cellulare, cerco di trovare un’interpretazione. Ad alcuni può sembrare sciocco, ma io credo nei sogni, credo che nessun evento in questo mondo sia irragionevole e che ci sia sempre una causa per tutte le cose; secondo me ogni accadimento intorno a noi può essere un segno. Non solo cose visibili e tangibili ma anche cose virtuali e trascendentali possono avere un significato. Questa volta, però, desideravo dal profondo del cuore che si trattasse solo di un sogno disturbato causato dai miei pensieri o, almeno, che non avesse un brutto significato. E forse è proprio così… Anche Google mi tranquillizza spiegando che alcuni sogni nascono dalle nostre preoccupazioni e dai pensieri avuti nei giorni precedenti e che, in realtà, non hanno un’interpretazione particolare. “Che Dio ti benedica Google! Forse hanno ragione, devo smettere di pensare troppo”.

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«I nostri reporter torturati? Solo l’inizio della fine dei media afghani»

Parla Zaki Daryaby, direttore del quotidiano simbolo «Etilaat Roz», per cui lavorano i due giornalisti seviziati, le cui foto hanno fatto il giro del mondo

Francesca Ghirardelli, Avvenire, 5 ottobre 2021

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Sarebbe solo una questione di tempo, ma il destino dei media afghani appare già segnato. Per serrare del tutto la morsa che ha già cominciato a stringersi attorno alla stampa libera, i taleban sono ora troppo impegnati. Sono chiamati su fronti più urgenti, da una parte avviare la gestione (e il finanziamento) di uno Stato al collasso, dall’altra contrastare i combattenti dell’Isis-K , primi indiziati per l’attentato di domenica a Kabul, all’esterno di una moschea dove si svolgeva il funerale della madre di uno dei loro uomini più in vista.
«È questione di mesi, forse di settimane, poi il controllo della stampa potrebbe essere completo» ci aveva detto al telefono da Kabul, durante il week end, Zaki Daryabi, direttore di Etilaat Roz, quotidiano simbolo per indipendenza e coraggio, campione anti-corruzione 2020 secondo Transparency International. Oggi le sue fosche previsioni appaiono ancora più verosimili e concrete, visto che nelle scorse ore il direttore ha dovuto lasciare il Paese per rifugiarsi in un luogo sicuro, dopo aver ricevuto minacce pericolosamente serie.
La sua testata, Etilaat Roz, è quella per cui lavorano i due giornalisti torturati a settembre (per sostenere il giornale ora a rischio di chiusura definitiva, ecco il link della raccolta appena lanciata onlinehttps://chuffed.org/project/support-free-press-in-afghanistan): le immagini dei due reporter arrestati dai taleban, con i segni delle frustate sulla pelle, hanno fatto il giro del mondo. Il direttore non lo dice, ma uno dei due è suo fratello. L’altro non si è ancora ripreso, ha perduto il 40 per cento della vista ad un occhio.

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Selay Ghaffar parla della lotta contro i talebani

In questa lunga intervista la portavoce del Partito della solidarietà afghano fa un po’ di chiarezza sulla rapida avanzata dei talebani nel paese e sul modo in cui la sinistra afghana si sta orientando contro la reazione e l’imperialismo.

Marcel Cartier, Selay Ghaffar, Green left, 30 settembre 2021

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Due giorni prima della caduta di Kabul in mano ai talebani mi stavo preparando per intervistare una delle attiviste femminili più importanti dell’Afghanistan. Ho sempre ammirato Selay Ghaffar per la sua capacità nel promuovere l’uguaglianza di genere e le politiche di giustizia sociale, ma anche per la sua risoluta opposizione all’occupazione del suo paese da parte degli Stati Uniti e della NATO, spesso giustificata con pretesti umanitari.

In qualità di portavoce del Partito della solidarietà afghano, di sinistra, Ghaffar era molto adatta a fare un po’ di chiarezza sulla rapida avanzata dei talebani nel paese e sul modo in cui la sinistra afghana si stesse orientando contro la reazione e l’imperialismo.

Circa un’ora prima del nostro colloquio Ghaffar mi ha inviato un messaggio di scuse dicendomi che avrebbe dovuto rimandare. “La situazione della sicurezza non è chiara”, scriveva. Da dove stavo,  era difficile immaginare che entro i successivi due giorni i talebani avrebbero presidiato Kabul senza che fosse sparato nemmeno un colpo.

Nelle settimane successive ho provato a contattare Ghaffar in diverse occasioni, ma senza ricevere risposta. Mi chiedevo se avesse deciso di rimanere in Afghanistan o se si fosse unita al gran numero di coloro che stavano cercando di lasciare il paese mentre i talebani si preparavano a rafforzare il loro potere. Mi preoccupavo per la sua sicurezza, ma speravo che avrei avuto sue notizie.

Finalmente la scorsa settimana ho ricevuto un suo messaggio che mi confermava che era al sicuro e disposta a concedermi l’intervista, anche se per la sua sicurezza non poteva dire dove si trovasse.

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La lotta delle donne afghane per la libertà e la democrazia non sarà mai un fallimento

Dichiarazione di RAWA sul 20° anniversario dell’occupazione dell’Afghanistan da parte di USA/NATO

Rawa, rawa.org – 7 ottobre 2021

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Dopo vent’anni di guerra, il massacro di decine e migliaia di innocenti e la consegna dell’Afghanistan ai loro tirapiedi talebani (assicurando loro 85 miliardi di dollari in armi ed equipaggiamento militare), gli Stati Uniti e la NATO hanno parlato di “fallimento strategico” in Afghanistan. Oggi il nostro paese si trova in una situazione ancor più catastrofica rispetto al 2001: è in preda a terrorismo, barbarie, traffici mafiosi di droga, ingerenza di paesi stranieri e a altre miserie devastanti, e sta affrontando il collasso economico, la povertà e l’esodo di massa dei suoi cittadini. Si aggiunge la condizione delle donne, che sotto l’oppressione medievale dei talebani è la cosa più dolorosa. Tuttavia, le coraggiose proteste delle donne a Kabul e in molte altre province nei primi giorni della presa del potere da parte dei talebani e la loro resistenza di fronte ai loro miliziani armati hanno dimostrato che questi ignoranti non saranno mai in grado di imprigionare le donne afghane nelle loro catene tiranniche come hanno fatto durante il loro precedente regime.

Quando gli Stati Uniti e la NATO hanno portato al potere i fanatici jehadisti, all’inizio della loro occupazione dell’Afghanistan, l’8 marzo 2002 l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA) dichiarò che l’Afghanistan si sarebbe trovato ad affrontare un nuovo periodo disastroso:

“Non si può combattere una banda di fondamentalisti sostenendone un’altra. Nella loro guerra ai talebani e ad al-Qaeda gli Stati Uniti hanno usato i jihadisti dell’“Alleanza del Nord”, fornendo armi e supporto ad alcuni famigerati signori della guerra. Così facendo, gli Stati Uniti stanno di fatto aiutando i peggiori nemici del nostro popolo e continuando la stessa politica tirannica contro il popolo e il destino dell’Afghanistan che le amministrazioni statunitensi hanno adottato negli ultimi due decenni. I talebani e al-Qaeda non possono essere sradicati solo con la forza militare e finanziaria. La guerra ai talebani e ad al-Qaeda non può essere combattuta solo sul fronte militare e finanziario, ma anche sul fronte ideologico. Fino a quando la mentalità dei talebani e di Osama & Co. avranno spazio, assisteremo inevitabilmente all’esplosione della loro barbarie, in Afghanistan e in altre parti del mondo.

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L’Unione europea di fronte alla sfida dei profughi afghani

Di fronte al dramma delle migliaia di persone in fuga dall’Afghanistan, l’Unione europea è apparsa irrigidita dal timore del “ripetersi dei movimenti migratori illegali incontrollati” avvenuti in passato

Alessia Di Pascale, ISMU, 28 settembre 2021

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La drammatica situazione in Afghanistan all’indomani del ritiro delle forze armate statunitensi e le toccanti immagini trasmesse in tutto il mondo, di persone in fuga da una situazione di rischio personale e grave limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali, soprattutto per le donne, hanno profondamente colpito l’opinione pubblica, generando molte immediate e istintive reazioni di solidarietà. Oltre 100.000 cittadini afghani a rischio, membri del personale locale delle missioni diplomatiche e dei contingenti militari, sono stati evacuati, attraverso ponti aerei organizzati da diversi Stati, tra cui l’Italia (quasi 5.000 persone), nell’arco di due settimane durante il mese di agosto. In questo quadro così concitato, di fronte al prevedibile aumento di persone in fuga dal regime dei Talebani, l’Unione europea è apparsa irrigidita dal timore del ripetersi della situazione occorsa nel 2015 ed intenzionata ad evitare nuovi arrivi di cittadini afghani (che già oggi rappresentano la seconda nazionalità, dopo i Siriani, di richiedenti asilo nell’UE).

Risoluta in tal senso, e altresì priva di qualsiasi espressione di supporto e solidarietà alla popolazione, è stata la prima reazione congiunta dei Ministri degli affari interni dell’UE, all’esito di una riunione straordinaria del Consiglio “giustizia e affari interni” tenutasi il 31 agosto per esaminare gli sviluppi della situazione, anche in riferimento “alle potenziali implicazioni per i settori della protezione internazionale, della migrazione e della sicurezza”. Il comunicato finale, nonostante i tentativi di smussarne i toni duri e diretti da parte dei ministri di alcuni Stati membri (in particolare Lussemburgo e Irlanda), lascia inequivocabilmente  trasparire la grave apprensione circa  “il ripetersi dei movimenti migratori illegali incontrollati su larga scala che si sono verificati in passato”. A conferma di un approccio già condiviso tra gli Stati membri nel corso della riunione del Consiglio europeo di giugno, ed incentrato sui processi di esternalizzazione, l’attenzione è stata rivolta ai paesi terzi, in particolare ai paesi vicini e di transito, e al rafforzamento del sostegno nei loro confronti, cosicché “le persone che ne hanno bisogno ricevano una protezione adeguata principalmente nella regione”. L’obiettivo, espresso, di tale collaborazione è disincentivare e prevenire la migrazione “illegale” dalla regione, rafforzando altresì la capacità di gestione delle frontiere e veicolando messaggi, tramite campagne di informazione, tese a “contrastare le narrazioni che incoraggino viaggi pericolosi e illegali verso l’Europa”. Più vaghi e ipotetici i richiami ai programmi di reinsediamento, ai quali su base volontaria, nell’ambito degli sforzi globali, “potrebbe essere fornito un sostegno”, dando la priorità alle persone vulnerabili, quali donne e bambini. Una “dichiarazione sulla situazione in Afghanistan” che è, quindi, essenzialmente incentrata sulle preoccupazioni europee. Ed infatti, senza perifrasi, si afferma che l ‘UE e i suoi stati membri, con il sostegno di Frontex, “restano determinati a proteggere efficacemente le frontiere esterne dell’UE e a impedire ingressi non autorizzati, nonché ad assistere gli Stati membri più colpiti”. Il Consiglio, almeno, riconosce la necessità di sostenere le persone che ne hanno bisogno e di offrire loro protezione adeguata, in linea con il diritto dell’UE e con gli obblighi internazionali, ma si tratta di un’affermazione la cui portata è assolutamente indefinita.

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AFGHANISTAN20: Il racconto di 20 anni di guerra dalla parte delle vittime

7 ottobre 2021: a vent’anni dal primo bombardamento in Afghanistan, un interessante dossier che ripercorre la storia di Emergency e dei suoi medici in questo Paese 

Emergency, blog, 7 ottobre 2021

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EMERGENCY è in Afghanistan dall’inizio della guerra.

Abbiamo vissuto i momenti peggiori del conflitto, abbiamo visto la guerra cambiare, abbiamo assistito a un vero e proprio scempio che ha privato il Paese di tutto. E intanto abbiamo curato le vittime di questo scempio e le curiamo ancora, sperando, molto presto, di non doverlo fare più.

La rapida presa di Kabul da parte dei talebani e l’orrore per la strage all’aeroporto del 26 agosto hanno di nuovo spinto l’Afghanistan in prima linea nelle aperture dei quotidiani e dei telegiornali di tutto il mondo. Eppure, quanto accaduto in questo mese e mezzo non è altro che l’ultimo, prevedibile capitolo di un conflitto sanguinoso che dura da decenni, in cui sono aumentate le vittime civili, le ferite si sono fatte più gravi e gli attacchi in grado di ferire o uccidere contemporaneamente un elevato numero di persone sono cresciuti esponenzialmente.

Dopo essere stato al centro del racconto mediatico negli ultimi due mesi, oggi purtroppo l’attenzione sull’Afghanistan si sta di nuovo spegnendo, proprio mentre il Paese rischia un collasso economico senza precedenti.

In occasione del 7 ottobre, giorno in cui vent’anni fa iniziarono i bombardamenti statunitensi sul Paese, abbiamo raccolto testimonianze in prima persona e analizzato i dati relativi a tutti i feriti di guerra ammessi nei nostri 3 ospedali e 44 Posti di primo soccorso in queste due decadi, ricostruendo i trend del conflitto, restituendo complessità a uno scenario spesso rappresentato attraverso grossolane semplificazioni.

Abbiamo raccontato quello di cui eravamo testimoni, sempre, ma in questo momento storico vogliamo farlo un’altra volta, ricostruendo tutto dall’inizio, per alzare di nuovo la voce e raccontare quello che è successo in questi 20 anni.

Il quadro che emerge è quello di un Paese in cui la guerra ha cambiato fronti e tattiche, ma ha sempre mantenuto una costante: le vittime civili.

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Afghanistan e LGBT, per cosa lottare (promesse inattuabili a parte)

Un argomento di cui i media mainstream non si occupano. Sebbene non recentissimo, questo articolo inquadra molto chiaramente la problematica delle persone LGBT in Afghanistan

Ginevra Campaini, Il Grande Colibrì, 30 agosto 2021

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All’improvviso l’Afghanistan è caduto sotto il potere dei talebani: l’Occidente è impegnato in un’eroica corsa contro il tempo per salvare le possibili vittime del movimento fondamentalista. Questo è quello che è successo negli ultimi giorni, almeno ad ascoltare tanti media mainstream italiani. La realtà è un bel po’ diversa. Il trionfo talebano, per esempio, è stato più rapido del previsto, ma tutt’altro che imprevisto: è il frutto di negoziati che andavano avanti in Qatar da tre anni e dell’annuncio dell’uscita delle truppe statunitensi dal suolo afgano. E quando sgomberi il campo non sei più un attore decisivo, né per il nemico né per l’alleato (per questo l’esercito afgano si è sciolto così in fretta). Sui grandi giornali internazionali l’esito di oggi era stato descritto già da tempo.

Parole, parole, parole…

Intanto il presidente statunitense Joe Biden, che in campagna elettorale aveva promesso un’America migliore, pioniera del rilancio della democrazia, rivendica la decisione di abbandonare l’Afghanistan, ma un po’ l’accolla a Donald Trump, dicendo di aver trovato un accordo già siglato da lui, e un po’ alla popolazione afgana. “Abbiamo speso più di mille miliardi in vent’anni e abbiamo addestrato ed equipaggiato più di 3 milioni di militari. I leader afgani devono unirsi – ha detto Biden – Migliaia di dipendenti americani sono stati uccisi o feriti. Ora [la popolazione afgana; ndr] deve combattere per se stessa, per la propria nazione“.

Parole “oltraggiose” e “ingiustificabili“, secondo Steve Coll: “La popolazione afgana, generazione dopo generazione, ha sofferto guerre senza fine e crisi umanitarie, una dopo l’altra, e gli Stati Uniti devono ricordare che questa non era una guerra civile che gli afgani hanno iniziato tra di loro e in cui il resto del mondo è stato risucchiato. Questa situazione è stata innescata da un’invasione esterna, inizialmente da parte dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, e da allora il paese è stato un campo di battaglia per le potenze regionali e globali che cercano la propria sicurezza con interventi militari in Afghanistan: lo hanno fatto gli USA dopo il 2001, la CIA negli anni ’80, il Pakistan sostenendo prima i mujaheddin e poi i talebani, l’ha fatto l’Iran coi suoi tirapiedi“. 

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