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Autore: CisdaETS

Il CISDA è con Emily!

CISDA, Comunicato

La vicesindaca di Bologna, Emily Clancy, è stata pesantemente attaccata sui social nei giorni scorsi, con insulti misogini e sessisti, per aver osato commentare una campagna pubblicitaria dell’associazione “Genitori sottratti”, che con manifesti su cui erano riportate frasi violente pronunciate dalle donne nei confronti degli uomini da cui si separano, mirava a ribaltare la campagna avviata dalla regione Emilia-Romagna contro la violenza di genere.

Questo il nostro messaggio di sostegno e vicinanza

COMUNICATO STAMPA

Il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) esprime la propria vicinanza e solidarietà alla vicesindaca di Bologna, Emily Clancy, aggredita verbalmente attraverso i social con insulti misogini e sessisti.

La vicesindaca, esercitando il proprio mandato, ha espresso un giudizio politico che condividiamo pienamente: ha denunciato la campagna pubblicitaria a favore dei “padri separati” dell’associazione Genitori Sottratti, sedicenti vittime di discriminazione in caso di separazione.

Evidentemente a corto di argomentazioni a favore delle proprie posizioni, che mirano ad occultare la gravità e l’incidenza della violenza domestica nel nostro Paese e la necessità di tutele legali, i sostenitori della campagna hanno confermato la bassezza e l’inconsistenza delle proprie convinzioni, insultando pesantemente la vicesindaca.

Chiediamo che vengano identificati i soggetti responsabili e vengano applicate le sanzioni previste dalla legge. Ma soprattutto, ci preoccupa l’arroganza delle forze politiche che, trincerandosi dietro un male inteso diritto alla libera espressione, sostengono associazioni che veicolano discorsi di odio contro le donne e tentano grottescamente di occultare lo squilibrio di potere che ancora si impone all’interno delle famiglie e nella società anche nel nostro “emancipato” Occidente.

L’impegno nel contrastare la violenza di genere in ogni luogo del pianeta ci impone di non sottovalutare ogni tentativo di intimidire e mettere a tacere le donne che si espongono nella difesa dei diritti di tutte.

Negazione delle donne, glorificazione della povertà e idealizzazione della vita rurale nel sermone del Mullah Hibatullah

Younus Negah, Zan Times, 7 aprile 2025
Durante il mese di Ramadan e l’Eid che segue, le discussioni su fame e povertà si intensificano. Religiosi e politici offrono conforto ai poveri mentre predicano ai ricchi. Parlano di come la fame purifichi l’anima e rafforzi la fede, e incoraggiano i benestanti a fare l’elemosina e a mostrare compassione.

Eppure, in questo mese, raramente i mullah dal pulpito – o i leader politici nelle società musulmane – parlano di equa distribuzione delle risorse, lotta allo sfruttamento o sforzi concreti per ridurre la povertà. Piuttosto, il messaggio dominante accetta la disuguaglianza come volontà di Dio

Nella retorica dei mullah, la povertà non ha alcuna connotazione negativa. Al contrario, è rappresentata come un vantaggio spirituale. Il termine faqir (povero) è spesso usato in modo intercambiabile con “mistico”.

Nell’Emirato dei Talebani – un’alleanza di mullah, sottoproletari, contrabbandieri e uomini d’affari – la povertà viene apertamente elogiata e il governo si dissocia da qualsiasi responsabilità per la sicurezza alimentare della popolazione. I leader talebani hanno ripetutamente affermato di non aver preso il potere per portare prosperità o benessere, spiegando che le persone devono chiedere a Dio il loro sostentamento di base e insistendo sul fatto che la quota di ciascuno è stata scritta all’alba dei tempi sulla tavola divina e che è dovere dei poveri essere pazienti e grati.

Eppure proprio questi mullah, personaggi di basso profilo e  contrabbandieri non contano su Dio per il proprio sostentamento. Invece, mettono le mani nelle tasche sia di chi ha fame, sia di chi non ce l’ha in tutto l’Afghanistan, estorcendo elemosine e tasse a venditori ambulanti, contadini, negozianti e commercianti. Pianificano il loro arricchimento, combattono e persino uccidono per ottenere quei fondi.

La competizione per la distribuzione del bilancio nazionale, i profitti derivanti dalle entrate minerarie, il controllo di redditizi uffici doganali e fiscali e l’accesso agli aiuti esteri palesi e occulti hanno portato potenti fazioni talebane, in particolare i campi del Mullah Hibatullah e della rete Haqqani, sull’orlo del conflitto aperto.

La misericordia dei ricchi e la preghiera dei poveri

Il peso della povertà della gente ha oscurato la gioia dell’Eid, persino durante il sermone del Mullah Hibatullah. Ha parlato a lungo ai poveri che si erano riuniti all’Eidgah per ascoltarlo e, attraverso loro, alla stragrande maggioranza degli affamati, di cui esige l’obbedienza incondizionata. Il suo messaggio era incentrato sulla virtù della preghiera e della pazienza tra i poveri.

Il mullah Hibatullah ha affermato che lo stesso Dio che ha creato le Sue creature provvede anche a loro, e che i poveri non dovrebbero lamentarsi o incolpare nessuno per la loro povertà. “Tizio e Caio non possono farci niente”, ha detto. Ma i “tizio e caio” a cui si riferisce sono proprio coloro che riscuotono le tasse religiose (usher) e i contributi economici dalla gente, mentre negano loro libertà, istruzione e lavoro. Se qualcuno non paga puntualmente l’usher o ritarda a dare da mangiare ai mullah e ai loro alleati, andrà incontro a una punizione severa, che non sarà rimandata al Giorno del giudizio.

Mullah Hibatullah ha sottolineato che sia la fame che l’abbondanza sono prove di Dio. I ricchi dovrebbero essere grati per ciò che hanno, e i poveri dovrebbero essere grati per la loro mancanza di sostentamento. Secondo lui, il rapporto tra musulmani ricchi e poveri dovrebbe basarsi sulla misericordia e sulla preghiera, come definito dalla legge islamica, : “I ricchi devono mostrare compassione verso i bisognosi e i poveri dovrebbero pregare per i ricchi ed essere contenti della loro condizione”.

Nella sua visione del mondo, la ricchezza è solo un dono divino. Nessuno può incrementarla o diminuirla, perché il sostentamento di ognuno è scritto nel suo destino. Ai suoi occhi, furto, saccheggio, sfruttamento, contrabbando e appropriazione indebita non sono le cause della povertà diffusa o dell’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. “Dio ha ordinato ogni cosa all’inizio dei tempi”, afferma.

Predicava che i poveri dovessero rimanere in silenzio e che fosse religiosamente illegittimo per loro protestare per la propria condizione. “Quando un bambino viene concepito nel grembo materno”, diceva, “Dio comanda all’angelo di scrivere il suo destino: se sarà ricco o povero, quanto sostentamento avrà e con quali mezzi lo guadagnerà”.

A suo avviso, i poveri non hanno il diritto di chiedersi perché altri ottengano la loro ricchezza attraverso furto, contrabbando, saccheggio o violenza – perché l’angelo, per ordine di Dio, lo ha scritto così fin dall’inizio. I poveri non dovrebbero chiedere al Mullah Hibatullah perché le sue spese d’ufficio nel secondo trimestre dell’ultimo anno fiscale siano ammontate a due miliardi di afghani – quasi il 6% dell’intero bilancio operativo del suo Emirato. Né dovrebbero chiedersi perché, sotto il suo governo, oltre l’80% della popolazione – secondo alcune stime, 28 milioni di persone – soffra di fame e abbia urgente bisogno di aiuti.

Secondo il Mullah Hibatullah, i poveri dell’Afghanistan devono unirsi ai comandanti talebani, ai sottoproletari loro alleati, ai contrabbandieri e ai saccheggiatori perché si trovano ad affrontare nemici ancora più grandi.

Jinn e umani: i nemici dei musulmani

Il giorno in cui il Mullah Hibatullah ha tenuto il suo sermone all’Eidgah di Kandahar, sui media è circolato un breve video. Mostrava diverse donne che gridavano aiuto mentre sedevano a terra lungo il sentiero che portava all’Eidgah.

Nell’Emirato dei Talebani, le donne sono trattate come jinn, esseri soprannaturali che devono esistere ma rimanere invisibili. Ci si aspetta che le donne siano presenti, obbedienti e fedeli, ma invisibili. Non devono essere viste pregare nelle moschee o partecipare alla vita religiosa pubblica come fanno gli uomini.

Per i talebani, le donne – come i jinn – possono essere buone o cattive. Eppure, che siano considerate buone o cattive, ci si aspetta comunque che rimangano nascoste. Proprio come Dio ha creato i jinn e li ha tenuti nascosti agli occhi umani, comandando loro di agire in amicizia o inimicizia nell’ombra, anche le donne devono vivere lontane dagli occhi degli uomini.

Nel sermone dell’Eid del Mullah Hibatullah, la presenza dei jinn era più evidente di quella delle donne. Invitò i credenti, poveri e ricchi, a unirsi, avvertendo che “tra i jinn e gli umani i nemici ” dei musulmani sono in agguato . Secondo lui, “le forze sataniche – sia jinn che umane” – sono unite e diffondono la discordia e la cospirazione nei paesi islamici.

Pertanto, ha esortato i musulmani a superare le loro divisioni personali e sociali e a prendere coscienza della minaccia. Povertà, disoccupazione, mancanza di istruzione e ingiustizie: queste, a suo avviso, non sono le vere preoccupazioni dei musulmani afghani, insistendo sulla necessità di forgiare l’unità contro i “jinn satanici e le forze umane”, minacce che superano tutte le altre.

Gli abitanti del villaggio sono amici, gli abitanti della città sono nemici

Negli ultimi quattro anni, il mullah Hibatullah non ha fatto alcuno sforzo per nascondere la sua ostilità verso la città e la vita urbana. Considera Kabul un covo di demoni – un luogo di peccato e corruzione – e ha fondato il suo Emirato a Kandahar, dove dominano costumi e codici rurali.

Sebbene nei suoi sermoni nomini jinn, diavoli, infedeli e occidentali come nemici, la lama dei suoi decreti e delle sue sentenze disumane si è abbattuta quasi esclusivamente sugli abitanti delle città. Lui e i suoi alleati hanno lavorato sistematicamente per trasformare le città afghane in villaggi.

Nel suo sermone per l’Eid, ha descritto la democrazia come “ignoranza velenosa” che è stata infine sradicata grazie ai “mujaheddin in prima linea” e alla “gente comune delle campagne”.

Ha dichiarato: “Se la jihad dovesse essere divisa, metà andrebbe ai combattenti nelle trincee e l’altra metà agli abitanti dei villaggi”. Secondo lui, gli abitanti dei villaggi hanno sostenuto la guerra contro le città e la democrazia offrendo le loro case, il cibo e persino i loro figli ai mujaheddin.

Ha poi continuato avvertendo che “gli infedeli e i sostenitori della democrazia” stanno cercando di trasformare ancora una volta l’Afghanistan in un campo di battaglia in fiamme, mirando a dividere “la gente comune” (il suo termine per i poveri abitanti dei villaggi) dall’Emirato.

Hibatullah Akhundzada, rivolgendosi alle comunità povere e rurali, ha detto: “Siete tutti sudditi dell’Emirato… e se mi vedete come vostro Imam… Unitevi… Obbedite ai miei ordini… La società ritroverà l’ordine”. E se non lo farete, “alla fine sarete coinvolti in guerre”.

Prestare attenzione a questi dettagli, come la formulazione di discorsi apparentemente ripetitivi, è essenziale per comprendere le posizioni del Mullah Hibatullah e di altri leader talebani e comprendere la situazione attuale del Paese. I Talebani presentano innumerevoli difetti, tra cui dipendenze straniere e radicati pregiudizi etnici e tribali, ma la caratteristica distintiva del gruppo è la sua arretratezza rurale.
I Talebani sono religiosi, rurali e sottoproletari che combattono contro la libertà, la democrazia, l’istruzione, la presenza sociale delle donne e tutti gli altri componenti della vita civile e democratica.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

L’UNAMA avverte: i talebani stanno rimodellando il sistema educativo afghano in stile madrasa

8AM Media, 11 aprile 2025

La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha pubblicato un rapporto completo che descrive in dettaglio gli impatti di vasta portata della legge talebana “Propagazione della Virtù e Prevenzione del Vizio”. Il rapporto, pubblicato giovedì 10 aprile, è il risultato di sei mesi di monitoraggio imparziale e osservazione sul campo quotidiana in tutto il Paese. Secondo l’UNAMA, dall’inizio dell’applicazione della legge, i talebani hanno intrapreso sforzi sempre più strutturati e organizzati per attuarla a livello nazionale.

Il rapporto rivela che comitati provinciali per l’applicazione della legge sono stati istituiti in 28 province afghane, con circa 3.300 agenti di polizia morale nominati e dotati di poteri speciali per far rispettare la legge. L’UNAMA ha sottolineato che l’attuazione della legge ha avuto ampie ripercussioni sociali ed economiche sia per gli uomini che per le donne, con effetti notevoli sulla vita pubblica, tra cui occupazione, sanità, istruzione e libertà di stampa.

L’UNAMA ha avvertito che le conseguenze dirette e indirette della legge sulla virtù e il vizio hanno ulteriormente aggravato l’attuale crisi economica in Afghanistan. Inoltre, la legge ha ostacolato la capacità delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative, sia locali che internazionali, di fornire aiuti e servizi alle popolazioni vulnerabili. Il rapporto ha inoltre documentato violazioni delle libertà personali e private, in particolare negli spazi pubblici e nelle attività economiche.

Uno dei risultati più preoccupanti del rapporto è la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Secondo l’UNAMA, questo cambiamento è stato accompagnato dalla graduale sostituzione di funzionari pubblici istruiti con studiosi religiosi filo-talebani nei ministeri. Allo stesso tempo, le minoranze etniche e religiose vengono sistematicamente escluse dalle strutture di potere e dalle opportunità economiche.

Il rapporto evidenzia inoltre che i Talebani hanno concentrato i loro sforzi di applicazione della legge nelle province settentrionali dell’Afghanistan, dove si ritiene che l’opposizione alla legge sia più probabile. I risultati dell’UNAMA indicano una tendenza più ampia al radicamento ideologico da parte dei Talebani, con implicazioni a lungo termine per la governance, l’istruzione e la società civile dell’Afghanistan.

Gender Apartheid: il GAP nel diritto internazionale

InsideOver, 12 aprile 2025, di Simona Losito

Apartheid di genere è un espressione sempre più utilizzata per descrivere l’oppressione sistematica che le donne subiscono in Paesi governati da regimi fondamentalisti. Tuttavia, a differenza di altri crimini riconosciuti dal diritto internazionale, non esiste ancora una convenzione specifica che definisca e sanzioni questa forma di discriminazione come crimine contro l’umanità. È quindi necessaria la creazione di un trattato che stabilisca standard internazionali per la giustizia di genere, riconoscendo ufficialmente il Gender Apartheid.

L’apartheid di genere, analogamente a quello razziale, si fonda su un sistema strutturato e sistematico di discriminazione, in cui una parte della popolazione, in questo caso donne ma anche la comunità Lgbtqia+, viene emarginata, privata dei propri diritti fondamentali e relegata a una posizione subordinata nella società. Si tratta di un meccanismo di potere che non si limita a episodi isolati di ingiustizia, ma si manifesta attraverso leggi, politiche e pratiche istituzionali che normalizzano la disuguaglianza e ne garantiscono la perpetuazione.

Esempi di apartheid di genere
Un chiaro esempio di apartheid di genere è rappresentato dall’Afghanistan, dove, ​con il ritorno al potere dei talebani dall’agosto 2021, le donne sono state soggette a una serie di restrizioni sempre più aggressive in particolare nei confronti delle donne. Le leggi draconiane imposte dal regime talebano, giustificate da un’interpretazione estremamente restrittiva della Sharia, hanno sistematicamente escluso le donne dalla vita pubblica, limitando drasticamente i loro diritti fondamentali.

Le donne sono ridotte a meri oggetti a disposizione degli uomini, senza libertà di cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, di indossare abiti diversi dal burqa, di frequentare scuole e università, di viaggiare e spostarsi liberamente senza la presenza di un uomo della famiglia, ma anche di frequentare luoghi come palestre, saloni di bellezza e parchi pubblici. Il concetto di apartheid di genere è stato formulato per la prima volta proprio dalle attiviste e femministe afghane per i diritti umani in risposta alla sistematica oppressione delle donne e delle ragazze imposta dai talebani negli anni Novanta. E, come sappiamo, l’incubo è tornato dopo l’agosto 2021.

Nel dibattito internazionale, l’attenzione si è concentrata molto anche sull’Iran, dove attiviste, giuriste e studiose sostengono che il regime della Repubblica Islamica attui una sistematica esclusione delle donne dalla piena cittadinanza, attraverso norme e regolamenti che limitano la loro libertà personale, i loro diritti civili e politici, nonché l’accesso all’istruzione, al lavoro e alla vita pubblica. Secondo le testimonianze dirette, la condizione delle donne in Iran non può essere interpretata semplicemente come una forma di discriminazione, ma rappresenta un vero e proprio regime di apartheid di genere, che dovrebbe essere riconosciuto come crimine secondo il diritto internazionale, al pari dell’apartheid razziale.

La proposta delle Nazioni Unite
La VI Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha esaminato il tema dei crimini contro l’umanità nella proposta di Convenzione per la redazione e la punizione dei crimini contro l’umanità, al cui interno verrà inserito il crimine di Gender Apartheid. Sebbene esista una convenzione sui crimini di guerra, le Convenzioni di Ginevra, che prevedono anche la protezione dei diritti delle donne in tempi di guerra, non esiste una convenzione analoga che disciplini i crimini contro l’umanità in tempi di pace.

Nel diritto penale internazionale, il crimine più vicino a descrivere le violazioni sistematiche dei diritti delle donne è la persecuzione di genere, riconosciuta dallo Statuto di Roma come crimine contro l’umanità. Questo reato si configura quando un gruppo è oggetto di attacchi mirati e reiterati, basati esclusivamente sulla propria identità di genere. Tuttavia, questo strumento giuridico risulta ancora insufficiente per descrivere e contrastare quei sistemi statali e ideologici che impongono una dominazione strutturale e sistematica fondata sul genere.

È in questo vuoto concettuale che si inserisce il dibattito sull’apartheid di genere, un termine che punta a evidenziare non solo la violenza o la discriminazione episodica, ma la presenza di interi sistemi legali, politici e culturali progettati per subordinare un genere rispetto a un altro. A differenza della persecuzione, l’apartheid implica un’intenzionalità politica, oltre che una visione del mondo imposta attraverso leggi, istituzioni, propaganda e pratiche sociali, spesso giustificate in nome della religione, della morale o della sicurezza.

La presentazione della campagna “Stop all’apartheid di genere in Afghanistan” al Parlamento italiano
Martedì 8 aprile sono stati presentati in Parlamento i risultati della campagna “Stop all’apartheid di genere in Afghanistan” portata avanti dal Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (Cisda). Da novembre 2024 il Cisda ha iniziato la campagna con una raccolta firme, ancora aperta, e che hanno presentato ufficialmente al Parlamento Italiano. Attualmente si contano più di 2mila firme ottenute da più di 80 associazioni.

La campagna mira proprio a colmare il vuoto giuridico, chiedendo che l’apartheid di genere venga riconosciuto nei trattati internazionali come crimine contro l’umanità, sullo stesso piano dell’apartheid razziale. Allo stesso tempo, punta al riconoscimento del sistema di apartheid di genere attuato in modo strutturale e sistematico in Afghanistan.

Si chiede alla comunità internazionale di adottare da subito misure di condanna per evitare qualsiasi forma di legittimazione del regime talebano, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani e degli obblighi internazionali. Lo Stato italiano ha sottoscritto, insieme a molti altri Paesi, diverse convenzioni internazionali a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne, come la convenzione Onu del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (Cedaw). “Questi atti internazionali pongono a carico dello Stato italiano obblighi a cui non può sottrarsi di fronte alle gravissime violazioni subite dalle donne a livello internazionale” sostiene fermamente il Cisda.

Belqis Roshan, senatrice del Parlamento afghano e attivista per i diritti delle donne costretta a lasciare il Paese dopo il ritorno dei Talebani, durante l’incontro in Parlamento ha sottolineato che, per quanto sia importante riconoscere i crimini perpetrati dal governo talebano nei confronti delle donne riconoscendo quindi l’esistenza di un’apartheid di genere, molti governi ancora sostengono l’Afghanistan e si pongono complici dei crimini commessi.

Lo stesso accade in altri contesti internazionali, come nel caso della Siria e del genocidio dei Palestinesi, dove il silenzio e il supporto a regimi oppressivi non fanno altro che perpetuare la palese violazione dei diritti umani.

“Stop apartheid di genere”, presentata la petizione per le donne afghane

Teleambiente, 9 aprile 2025, di Manuela Murgia

“Stop fondamentalismi, stop apartheid di genere”. La CISDA , Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, ha consegnato al governo italiano i risultati della petizione che chiede il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità, il non riconoscimento del regime talebano, il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche.
L’uguaglianza di genere è infatti, un diritto umano, sancito da diverse convenzioni internazionali. Diritto sistematicamente violato in Afghanistan a seguito del ritorno al potere dei talebani nel 2021 che ha di fatto relegato le donne in una situazione di apartheid. I Talebani avevano già governato il Paese dal 1996 al 2001 instaurando norme particolarmente punitive nei confronti delle donne, cancellate dalla società e private del diritto all’istruzione, a ricoprire cariche pubbliche, al lavoro, a guidare la macchina, a viaggiare e costrette a portare l’hijab in pubblico, solo per citare i più gravi. Non a caso l’Onu ha definito come un crimine contro l’umanità il trattamento che i talebani riservano alle donne.

Antonella Garofalo, attivista CISDA; ha spiegato le ragioni che hanno portato alla creazione della petizione: “Perché abbiamo iniziato una campagna che è partita a novembre e che sta avendo una serie di firme importanti di sostegno e che chiudiamo oggi con questa conferenza stampa alla Camera? Perché grazie all’aiuto di giuriste, in particolare della dottoressa Laura Guercio, abbiamo potuto stilare una proposta di inserimento del reato di apartheid di genere all’interno delle convenzioni internazionali che attualmente non lo prevedono. Questo perché riteniamo che l’Afghanistan sia un po’ il paese emblema di questo mantenimento della condizione della donna in una situazione di estrema schiavitù domestica che le priva di qualsiasi diritto fondamentale. Questa situazione delle donne afghane non è l’unico esempio. C’è anche i regimi fondamentalisti teocratici all’interno di molti paesi del mondo che mantengono la donna in una condizione di inferiorità. Per questo riteniamo che proporre a livello internazionale di ragionare su questa istituzione, di questo crimine, voglia dire dare voce a milioni di donne nel mondo, non solo in Afghanistan ma in molti altri paesi, che vivono adesso in questa condizione di estrema privazione di ogni diritto.”

CISDA ha come fondamento “la condivisione dei valori umani di ogni persona quali ne siano religione, origine, cultura e nazionalità; lo scopo prioritario è la promozione di iniziative di carattere politico-sociale sia a livello nazionale che internazionale, sulla condizione delle donne che si trovano in situazioni svantaggiate dal punto di vista familiare, economico, sociale e politico, con particolare riferimento alle donne afghane.”

Educazione vietata alle donne in Afghanistan. Un rapporto dell’Unesco

Tuttoscuola, 8 aprile 2025

Banned from education: a review of the right to education in Afghanistan” (“Escluse dall’educazione: una indagine sul diritto all’educazione in Afghanistan”) è il titolo di un aggiornato rapporto pubblicato nei giorni scorsi dall’Unesco e che getta nuova luce sul dramma delle donne afghane, e in particolare delle giovani in età scolare, alle quali – dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021 – è stato vietato di frequentare la scuola al di là di quella primaria, che dura 6 anni.

Le cifre sono impressionanti: dal 2021 al 2024 è stato impedito di continuare gli studi a un milione e mezzo di ragazze, mentre da una indagine censuale condotta dall’Unicef nel 2024 è risultato che anche una buona parte dei loro coetanei maschi è stata avviata al lavoro per far fronte alla grave crisi economica del Paese, spesso anche prima di completare la scuola primaria.

Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione de facto (così lo definisce il rapporto Unesco), le iscrizioni dei ragazzi sono diminuite da 4.092.658 (primaria) e 1.393.423 (secondaria) del 2021-22 a 3.791.447 (primaria) e 1.177.363 (secondaria) dell’anno 2023-24). Inoltre i ritardi nei pagamenti delle indennità per le persone con disabilità e delle pensioni per i dipendenti pubblici hanno limitato e limiteranno ulteriormente l’accesso all’istruzione, perché questi ritardi, creando difficoltà finanziarie alle famiglie, non consentono loro di sostenere la spesa per acquisire le risorse educative di base o pagare le tasse scolastiche.

A questo vero e proprio processo di descolarizzazione dell’Afghanistan concorre anche il peggioramento della qualità dell’insegnamento dovuto al fatto che, secondo testimonianze raccolte dai ricercatori dell’Unesco, alcuni insegnanti e amministratori recentemente assunti siano stati scelti in base alle loro “connessioni e affiliazioni con il Ministero dell’Istruzione de facto”, piuttosto che delle loro qualifiche o esperienze professionali. Inoltre, secondo diversi intervistati, anche gli stipendi degli insegnanti sono stati sostanzialmente ridotti. La presa del potere da parte dei talebani ha portato a una fortissima restrizione delle risorse assegnate al sistema educativo del Paese, compromettendo ulteriormente la qualità dell’istruzione, visto che già prima del loro ritorno al governo (2021) un numero considerevole di scuole pubbliche non disponeva di strutture e materiali adeguati, soprattutto nelle aree rurali. E a pagare il prezzo più alto sono, come sempre con i fondamentalisti islamici di scuola sciita, le donne, a partire da quelle in età scolare.

Contrordine: gli USA vogliono tornare in Afghanistan e riprendersi la base di Bagram

InsideOver, 8 aprile 2025, di Mauro Indelicato

Per Donald Trump il capitolo Afghanistan è tutt’altro che chiuso. Secondo l’attuale presidente Usa, Washington deve ritornare in possesso dei mezzi e delle attrezzature lasciate nel Paese dopo la fuga del 2021. Questo sottintende la possibilità di un dialogo, diretto o indiretto, con i talebani. Ossia con il movimento islamista che ha preso le redini del potere dopo l’addio statunitense. E che qualcosa si stia muovendo, lo si intuisce anche dalle indiscrezioni trapelate dall’Afghanistan nelle ultime ore. In particolare, il Governo Usa avrebbe trovato l’accordo per tornare a utilizzare la strategica base militare di Bagram.

L’importanza di Bagram
Per comprendere la portata dell’indiscrezione, occorre prima sottolineare la centralità della base militare in questione. In primo luogo, Bagram è un simbolo: è stata prima il simbolo della presenza Usa in Afghanistan e, successivamente, l’emblema del disimpegno di Washington quando i militari hanno iniziato a lasciare la base. L’importanza della struttura è data però dalla sua centralità strategica. Bagram è infatti situata poco più a nord di Kabul ed è collegata direttamente con la capitale afghana. Non solo, ma controllare la base vuol dire avere un hub militare e infrastrutturale vitale per esercitare influenza sia in Afghanistan che in tutta la regione centro-asiatica. Non è un caso se a Bagram, tra gli anni Settanta e Ottanta, prima ancora degli statunitensi sono stati presenti i sovietici durante il decennio di occupazione di Mosca. Infine, la base è importante anche perché non troppo lontana né dai confini con l’Iran e né da quelli con la Cina.

Le indiscrezioni sul rientro dei soldati Usa
È per questo che l’eventuale ritorno di mezzi e militari di Washington a Bagram avrebbe del clamoroso. Le prime indiscrezioni sono apparse nella giornata di lunedì sull’agenzia afghana Khaama Press. In diversi articoli, in particolare, si è fatto riferimento all’arrivo nella base di almeno un aereo C-17 con a bordo funzionari di alto rango statunitensi. Tra questi, anche uno dei vice direttori della Cia. La natura della missione effettuata dal velivolo non è stata chiarita ma, così come si legge sempre sull’agenzia afghana, il semplice atterraggio del C-17 rappresenta il segnale di importanti contatti diplomatici tra statunitensi e talebani. Altre fonti hanno però smentito l’arrivo dell’areo Usa a Bagram, evidenziando però che in effetti il 5 aprile scorso un C-17 ha effettivamente sorvolato il territorio afghano prima di dirigersi verso lo spazio aereo tagiko.

L’incontro negli Emirati Arabi Uniti
Ma a rilanciare l’indiscrezione legata a un possibile colloquio diretto tra rappresentanti di Washington e membri dell’emirato talebano, sono stati i giornalisti di Amu Tv. Si tratta di una tv afghana fondata dopo il rientro degli studenti coranici a Kabul, ma con sede in Virginia. Il network vanta contatti sia con funzionari Usa che con alti ufficiali talebani. E sarebbero stati proprio tre di loro a rivelare l’esistenza di un incontro avvenuto nei giorni scorsi negli Emirati Arabi Uniti. Ossia in uno dei pochi Paesi che riconosce il Governo talebano e che ha stabili contatti diplomatici con gli attuali padroni di Kabul.

Sfruttando la visita ad Abu Dhabi di Sirajuddin Haqqani, numero due nella gerarchia talebana, funzionari inviati dalla Casa Bianca avrebbero trovato un accordo per lo sfruttamento di Bagram. L’intesa prevedrebbe vantaggi per entrambe le parti in questione. I talebani infatti, riceverebbero soldi da parte degli Usa e vedrebbero parzialmente ridimensionato il proprio isolamento internazionale. Dal canto suo, Washington tornerebbe in possesso della base di Bagram. Una circostanza quest’ultima che avrebbe importanza soprattutto in chiave anti cinese. Alla base dell’iniziativa diplomatica infatti, ci sarebbero le preoccupazioni di Washington per la crescente influenza di Pechino in Afghanistan. Occorre comunque precisare che, per il momento, non ci sono state né conferme e né smentite ufficiali da parte dei diretti interessati.

 

A Roma la conferenza delle reti sociali e movimenti sulla questione curda: “Rompiamo il silenzio”

La Repubblica, 9 aprile 2025

L’11 e il 12 aprile al palazzo dei congressi di via dei Frentani si svolgerà la due giorni dedicata alla campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan e al suo progetto legato al Confederalismo democratico

Roma al centro della conferenza internazionale sulla questione curda. L’11 e il 12 aprile al palazzo dei congressi di via dei Frentani si svolgerà la due giorni dedicata alla campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan e al suo progetto legato al Confederalismo democratico: “Libertà per Öcalan – Una soluzione politica per la questione curda”. La conferenza è aperta a tutte le realtà sociali, movimenti, organizzazioni sindacali e politiche ma anche ai tanti intellettuali, artisti e giornalisti che hanno contribuito a rompere l’isolamento del popolo curdo. Nell’ambito della conferenza, ogni rete avrà la possibilità di condividere il proprio punto di vista e le proprie riflessioni e proposte per il futuro.”Negli ultimi anni, insieme abbiamo compiuto passi importanti nella costruzione di reti internazionali di solidarietà in tutta Europa e oltre, organizzando azioni, scrivendo lettere alle istituzioni chiave e portando davvero questo tema alla ribalta della politica internazionale e dell’opinione pubblica – spiega Yilmaz Orkan responsabile dell’Ufficio informazione Kurdistan Italia, UIKI-ONLUS – Dal 23 dicembre, ci sono stati diversi incontri con Abdullah Öcalan, nei quali egli ha sottolineato la soluzione della questione curda. Ora, per raggiungere tutti i nostri obiettivi, è necessario lavorare di più insieme. Dal suo inizio nell’ottobre 2023, la campagna è riuscita a riunire sindacati, movimenti sociali, avvocati, giuristi, partiti politici, funzionari eletti, artisti, intellettuali, attivisti, premi Nobel e milioni di curdi, costruendo reti di solidarietà a livello locale e internazionale. In questo modo, ha cercato di rompere l’isolamento di Ocalan e di rendere possibile una soluzione politica giusta e democratica alla secolare questione curda in Turchia, consentendo la sua partecipazione a un nuovo dialogo”.

Negli ultimi tre anni sono state tante le iniziative e le manifestazioni a Roma per accendere un faro sulla lotta di resistenza del popolo curdo. “La questione curda rimane la questione politica contemporanea più centrale del Medio Oriente, la sua risoluzione pacifica è quindi cruciale per la pace e la stabilità dell’intera regione. Inoltre, fornendo un approccio paradigmatico a molte delle crisi sociali e politiche più pressanti di oggi, le soluzioni di Öcalan servono come tabella di marcia per la stabilità e la coesistenza in Medio Oriente – aggiunge il responsabile dell’Ufficio informazione Kurdistan Italia – Nonostante le enormi difficoltà, affidandosi al paradigma del Confederalismo Democratico ideato da Öcalan, il popolo del Rojava ha dimostrato una straordinaria capacità di costruire una società inclusiva basata su principi di democrazia, uguaglianza di genere e giustizia sociale. Con la caduta del regime di Assad, questa esperienza potrebbe essere un modello positivo per la nuova Siria, ma è in pericolo, minacciata dalle politiche oppressive del regime turco e dai continui attacchi dei suoi mercenari”.

Al termine del primo giorno della conferenza, venerdi 11 aprile dalle 19,30, è prevista una serata culturale presso il Centro Socio-Culturale Ararat. Durante la serata saranno serviti piatti tipici della tradizione curda e italiana, in un clima di condivisione e convivialità. La serata sarà animata da un’esibizione di danza e dalla musica popolare napoletana del gruppo I Cumpari. SEGUI La Città che resiste

Programma 11 aprile

Yilmaz Orkan, Ufficio Informazione Kurdistan in Italia (UIKI Onlus)

• Salvatore Marra, Responsabile relazioni estere della Confederazione Generale Italiana dal Lavoro CGIL

• Massimiliano Smeriglio, Assessore alla Cultura del Comune di Roma: Saluti istituzionali per conto del Sindaco di Roma.

• Prof.ssa Kariane Westerheim, Messaggio dai Premi Nobel per la campagna

• Simon Dubbins, Network Internazionale Libertà per Öcalan e UNITE the Union

• Zübeyde Zümrüt, Portavoce della Campagna Libertà per Öcalan breve video sulla campagna

16:00 – 18:30 Panel I: Brevi dichiarazioni sulla campagna e sull’appello di Öcalan per la pace

Moderatori:

• Dott.ssa Gisela Penteker, IPPNW Germania

• Father Aris, Prete e membro di MIGRANTE, Filippine

Relatori:

• Zilan Diyar:TJK-E, risultati generali e sfide della campagna

• Nicola Fratoianni, deputato e segretario nazionale di Sinistra Italiana

• Emmanuel Fernandes, parlamentare e membro dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa

• Diana Urrea Herrera, deputata di EHBildu nei Paesi Baschi: l’impegno dei Paesi Baschi per la libertà di Öcalan

• Maurizio Acerbo, Segretario Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

• Mike Arnott, Segretario del Consiglio dei Sindacati di Dundee, ex Presidente del Congresso dei Sindacati Scozzesi (STUC): Importanza della solidarietà internazionale dei sindacati per la libertà di Öcalan.

• Keskin Bay?nd?r, Deputato del Partito DEM e Co-presidente del Partito delle Regioni Democratiche (DBP).

• Emily Clancy, Vicesindaca di Bologna

• Piero Bernocchi, Portavoce Confederazione COBAS

• Julian Aguirre, Secretaria de Relaciones Internacionales CTA Autonoma

19:30 Cena curda, performance di danza e musica popolare italiana dal vivo con I Cumpari

Venerdì 11 Aprile 2025

Centro Culturale Curdo, Ararat

Sabato 12 aprile

9:30 – 11:00 Panel II: 26 anni di sistema di isolamento ad Imral? come massimo banco di prova del diritto e della politica

Moderatori:

• Ögmunder Jonasson, ex Ministro della Giustizia d’Islanda e membro della Delegazione Imrali

• Serife Ceren Uysal, avvocata e Co-Segretaria Generale dell’ELDH

Relatori:

Serife Ceren Uysal avvocata e membro di MAF-DAD: Il Diritto alla Speranza e il Diritto Internazionale sotto il sistema di isolamento di Imrali

Faik Özgür Erol, Studio Legale Asrn: Istituzionalizzare lo stato di eccezione: il regime di isolamento di Imrali

11:00-11:20 Pausa

11:20-13:00 Panel III: Impatti locali, regionali e globali delle prospettive di pace e società democratica di Öcalan

Moderatori:

• Amedeo Ciaccheri, Presidente del Municipio VIII di Roma

• Consuelo Nùñez, Comitato della campagna nello Stato spagnolo

Relatori:

• Pervin Buldan, Depuatata del Partito DEM e membro della delegazione ad Imrali: la strategia di Öcalan di trasformare un regime oppressivo attraverso la forza della società democratica

• Idris Baluken, Membro del Team di Negoziazione di Imrali (2013-2015): esperienze dei colloqui di Imrali 2013-2015 e situazione attuale

• Ömer Öcalan, Deputato del Partito DEM: Impatto della strategia democratica di Öcalan sulla Turchia e sul Medio Oriente.

• Fouza Alyoussef, DAANES: Transizione democratica della Siria attraverso i successi del Rojava

• Idris Said, Portavoce del comitato Libertà per Öcalan, Siria del Nord-Est

Sabato 12 Aprile 2025

13:00-14:30 Pranzo

14:30-16:00 Forum I: Considerazioni, prospettive future e piani

Moderatori:

• Nilüfer Koç, membro del Consiglio del Congresso Nazionale del Kurdistan

• Michela Arricale, co-Presidente di CRED, avvocata

Contributi:

• Giovanni Russo Spena, portavoce Comitato italiano Il Tempo è Arrivato; Libertà per Öcalan

• Aynur Pasha, Giurista, comitato Libertà per Öcalan, Siria del Nord-Est

• Accademia della Modernità Democratica

• Solidarietà con il Kurdistan-Norvegia

• Domenico Mucignat, Retekurdistan

• Women in Exile

• Retejin

• Ms.Fernaz Attia Ahmed Farajallah Said, member of Nûn initiative for

Öcalan

• Movimento dei giovani

• Jineoloji

• Mujeres y la sexta

• Mr. Amidou Diamoutene, Union Luttes

Discussione generale con comitati, reti e associazioni

16:00-16:20 Pausa

Forum II: Considerazioni, prospettive future e piani

Moderatori:

• Nilüfer Koç, membro del Consiglio del Congresso Nazionale del Kurdistan

• Michela Arricale, Co-Presidente di CRED, avvocata

Attivista afghana respinta dal Regno Unito: il dramma di Mina e la sua lotta per la vita

Unita.TV, 6 aprile 2025, di Serena Fontana

Mina, attivista afghana per i diritti umani, affronta la respinta della sua richiesta d’asilo in Gran Bretagna, evidenziando le difficoltà dei rifugiati e le politiche restrittive del governo britannico.

La storia di Mina, un’attivista afghana per i diritti umani, mette in luce le difficoltà che molti rifugiati affrontano nel cercare protezione in paesi occidentali. Dopo aver collaborato con i governi occidentali, Mina ha dovuto fuggire in Gran Bretagna per sfuggire alla minaccia dei Talebani. Tuttavia, la sua richiesta d’asilo è stata respinta, lasciandola in uno stato di ansia e paura per la sua vita. Questo articolo esplora la sua esperienza e il contesto più ampio delle politiche di asilo nel Regno Unito.

La fuga da un regime oppressivo
Mina ha vissuto in Afghanistan in un contesto di crescente pericolo, dove la sua attività come attivista per i diritti delle donne la esponeva a gravi rischi. Collaborando con organizzazioni non governative, si è dedicata a progetti di formazione per donne, un impegno che l’ha costretta a vivere in un clima di costante paura. Ogni giorno, affrontava posti di blocco e minacce, consapevole che molti dei suoi colleghi erano scomparsi o perseguitati. La sua decisione di lasciare l’Afghanistan è stata dettata dalla necessità di salvaguardare la propria vita, ma il suo arrivo in Gran Bretagna ha portato a una realtà inaspettata e angosciante.

La richiesta d’asilo e la risposta del governo britannico
All’arrivo nel Regno Unito, Mina ha presentato una richiesta d’asilo, certa che le sue esperienze e il suo attivismo sarebbero stati riconosciuti come motivi validi per ricevere protezione. Tuttavia, il Ministero dell’Interno britannico ha respinto la sua domanda, sostenendo che non corresse alcun rischio in Afghanistan e che potesse tornare in sicurezza. Questa decisione ha lasciato Mina in uno stato di vulnerabilità, vivendo con il costante timore di un rimpatrio forzato. La sua situazione è diventata ancora più critica considerando le attuali condizioni in Afghanistan, dove i Talebani hanno intensificato la repressione nei confronti delle donne e delle organizzazioni che lavorano per i loro diritti.

Le reazioni legali e il contesto più ampio
L’avvocato di Mina ha definito la decisione del governo britannico “scioccante e sconvolgente”, evidenziando che le politiche di asilo dovrebbero tenere conto del contesto attuale in Afghanistan. Le organizzazioni non governative che collaborano con i governi occidentali sono generalmente ben accolte nel Regno Unito, specialmente quando si occupano di progetti per l’emancipazione femminile. Tuttavia, la realtà è che il numero di richieste di asilo accolte per i cittadini afghani è drasticamente diminuito. Secondo il quotidiano The Guardian, nel quarto trimestre del 2024, il tasso di concessione di asilo per gli afghani è sceso dal 98% dell’anno precedente al 36%.

La lotta continua per i diritti umani
La storia di Mina è emblematiche delle sfide che molti attivisti per i diritti umani affrontano oggi. In un contesto globale in cui le politiche di asilo stanno diventando sempre più restrittive, la sua esperienza mette in evidenza la necessità di una maggiore attenzione e protezione per coloro che rischiano la vita per difendere i diritti fondamentali. La situazione in Afghanistan continua a deteriorarsi, e le donne, in particolare, sono le più colpite da questa crisi. La lotta di Mina non è solo una questione personale, ma rappresenta una battaglia più ampia per la giustizia e la dignità umana, che richiede un’azione collettiva e una rinnovata sensibilità da parte delle nazioni che si considerano custodi dei diritti umani.

 

Afghanistan, due donne queer rischiano la morte dopo un tentativo di fuga verso l’Europa

gay.it Francesca Di Feo  1 aprile 2025

Di Maryam e Maeve si sono perse le tracce dal 20 marzo, giorno del loro arresto da parte dei talebani. Liberarle è una corsa contro il tempo.

Un biglietto aereo, l’illusione di un passaggio verso l’altrove, e poi il silenzio. Lo scorso 20 marzo, Maryam Ravish e Maeve Alcina Pieescu sono state fermate all’aeroporto internazionale di Kabul mentre tentavano di lasciare l’Afghanistan. Erano pronte a fuggire verso l’Iran, prima tappa di una rotta clandestina che le avrebbe condotte, forse, in un Paese europeo. Una destinazione che significava, semplicemente, poter vivere.

Maryam, lesbica, diciannove anni, e Maeve, ventitré, donna transgender, erano entrambe attiviste della rete sotterranea Roshaniya, nata per offrire rifugio alla comunità LGBTQIA+ afghana. I loro sogni si sono infranti sulla pista dell’aeroporto, dove gli agenti dell’intelligence talebana le hanno fermate, perquisite, arrestate. Da allora non si hanno più notizie certe. E mentre la comunità internazionale osserva con una colpevole prudenza, il tempo corre: le due giovani rischiano la pena di morte.

Quello che sta accadendo a Maryam e Maeve è l’ennesimo, tragico epilogo per chi, in Afghanistan, appartiene a una minoranza di genere o sessuale, dove vivere come persona queer significa sopravvivere ogni giorno a un sistema che trasforma l’identità in crimine, il desiderio in reato, la libertà in eresia.

Ed è proprio nell’invisibilità forzata che si consuma una delle più profonde violazioni dei diritti umani del nostro tempo: nessuna legge protegge chi ama fuori dalle norme, e la Sharia – interpretata secondo i canoni del fondamentalismo talebano – legittima lapidazioni, torture e sparizioni.

Afghanistan, dove sono Maryam e Maeve?

Secondo quanto ricostruito dalla rete Roshaniya e dalla Peter Tatchell Foundation, Maryam e Maeve si erano presentate all’aeroporto accompagnate da Parwen Hussaini, ventenne e compagna di Maryam, anche lei attivista. Solo Parwen è riuscita a salire sul volo diretto a Teheran. Le altre due, bloccate a un controllo, sono state costrette a consegnare i telefoni.

È bastata la presenza di contenuti legati alla comunità LGBTQIA+ – foto, chat, contatti – per far scattare l’arresto. Le testimonianze raccolte raccontano di percosse, umiliazioni e minacce. Da allora, il silenzio.

Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.

Anche la sorella di Maeve, Susan Battaglia, residente negli Stati Uniti, ha lanciato un appello pubblico: durante l’interrogatorio, la sorella avrebbe dichiarato di non credere più nella religione islamica. Un gesto che, in un Paese dove l’apostasia è punita con l’esecuzione, rischia di trasformarsi in una condanna irreversibile.

Maryam, dal canto suo, era già stata costretta dalla famiglia a un matrimonio eterosessuale. Il suo tentativo di fuga rappresentava un atto di autodeterminazione e di amore: voleva costruire una vita con Parwen, sposarsi in Europa, lontano da un contesto che le aveva negate come figlia, come donna, come persona.

Per questo, oggi, Roshaniya chiede con forza che la comunità internazionale esca dall’ambiguità diplomatica e agisca. “Chiediamo a tutte le organizzazioni per i diritti umani (in particolare Human Rights Watch e Amnesty International) e alle organizzazioni LGBTQ+ (in particolare OutRight International, ILGA Asia, Stonewall, Rainbow Railroad e Human Rights Campaign) di aiutarci a diffondere la notizia dell’arresto di Maryam e Maeve e a fare pressione sul regime talebano affinché rilasci queste due coraggiose attiviste afghane per i diritti umani LGBTQ+” afferma il fondatore dell’organizzazione, Nemat Sadat.

Afghanistan, la ferocia della norma

L’arresto di Maryam e Maeve non un rigurgito estemporaneo di fondamentalismo, ma la conseguenza diretta di un sistema teocratico che fa dell’annientamento delle soggettività queer una delle sue fondamenta. Con la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nell’agosto 2021, l’intera architettura dei diritti civili è crollata.

Ma non si tratta di una frattura improvvisa. La repressione delle diversità sessuali e di genere è radicata in decenni di ambiguità giuridica, violenza sociale e complicità politica. Se oggi la pena capitale per atti omosessuali è prevista e in alcuni casi applicata, è anche perché nessuna forza, né interna né esterna, ha mai lavorato seriamente per smantellare l’impalcatura culturale che la sostiene.

Il primo emirato talebano, tra il 1996 e il 2001, aveva già introdotto l’idea che la giustizia potesse passare per la lapidazione o l’impiccagione pubblica. Ma anche durante l’intervento occidentale, l’omosessualità non è mai stata depenalizzata. Le leggi sono rimaste vaghe, la violenza sistemica, l’omofobia strutturale. Le persone trans, in particolare, sono sempre rimaste fuori da ogni orizzonte normativo: invisibili per lo Stato, ipervisibili per la violenza familiare, religiosa e sociale.

Oggi, i rapporti di OutRight International, Human Rights Watch e Amnesty International parlano chiaro. Si moltiplicano le testimonianze di arresti arbitrari, sparizioni forzate, stupri correttivi, torture. Nel 2022, un giovane studente di medicina è stato ucciso a Kabul dopo essere stato accusato di omosessualità.

 

Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.

Le persone trans vengono fermate in strada, costrette a subire trattamenti religiosi coercitivi, espulse dalla famiglia e dalla vita pubblica. E se un tempo almeno l’attenzione internazionale garantiva una fragile rete di protezione per i difensori dei diritti umani, oggi quella stessa attenzione si è spenta. L’Afghanistan non è più una priorità diplomatica. Le sue persone queer, ancora meno.

Eppure, qualcosa si muove. A gennaio 2025, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’emissione di mandati di cattura per due leader talebani, accusandoli di crimini contro l’umanità, anche per la persecuzione delle persone LGBTQIA+. È un segnale, ma ancora troppo timido.

Nel raccontare queste storie, è però fondamentale evitare la trappola narrativa di chi riduce l’Afghanistan a una caricatura di oscurantismo, un deserto morale in cui l’unica luce sarebbe stata portata dagli eserciti stranieri. Non è così.

Se la condizione della comunità LGBTQIA+ è oggi tragica, lo è anche perché le forze occidentali, per vent’anni, hanno spesso preferito sostenere governi corrotti, stipulare accordi con i signori della guerra, appaltare la sicurezza a milizie private, piuttosto che investire in un vero processo di democratizzazione libero e auto determinato che partisse dal basso. La retorica liberale, disancorata dalla realtà sociale, si è scontrata con una struttura tribale e patriarcale che nessuno ha davvero mai aiutato a decostruire.

Il ritiro del 2021 è stato solo l’epilogo di una strategia miope, priva di ascolto e responsabilità. E, nel frattempo, a Kabul, due giovani donne queer aspettano. Un segnale, una voce, un gesto politico che non arrivi tardi come sempre.

 

 

 

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