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Autore: CisdaETS

I curdi e l’Occidente indifferente

ilmanifesto.itFrancesco Strazzari 19 settembre 2024

RIFUGIATI La questione curda è molto di più vicina e molto più grande di un “problema di separatismo della Turchia”, immagine a cui è spesso ridotta. La lotta dei curdi contro l’Isis ha molto da insegnare.

Quando i capi di stato stringono mani i curdi soffrono. Ed è all’ombra di minacce e uccisioni che prendono corpo le storie delle persone che arrivano alle nostre coste, come quella di Maysoon Majidi. Ma anche delle vite interrotte a Cutro, nel buio calato sul naufragio fantasma del 17 giugno.

Giorni di agonia, nessuna risposta alle richieste di soccorso, circa settanta vittime fra cui diversi bambini. Salme occultate ai media per risparmiare al governo un nuovo imbarazzo.
Per capire il flusso di rifugiati curdi che tentano disperatamente di approdare sulle coste della Calabria occorre unire i puntini e risalire all’origine del viaggio, ovvero alla forte pressione che Iran e Turchia esercitano sulle deboli istituzioni irachene, muovendosi con disinvoltura in una regione di cui controllano, a monte, le acque. Una pressione che si appoggia su compiacenti clientele politiche locali, con gli iraniani forti a Suleymania e i turchi che dettano legge a Erbil.

In primavera Erdogan si è recato a Baghdad a firmare accordi su infrastrutture e sicurezza, formalizzando la presenza militare di Ankara nel nord dell’Iraq. Il partner locale è il Partito Democratico del Kurdistan (Kdp) di Nechirvan Barzani, che ha le mani sul reddito petrolifero e ha aperto le porte agli alleati di Erdogan: mercenari islamisti, formazioni turcomanne e le forze reazionarie di Huda-Par, un tempo legate agli Hizbullah turchi. Il clan Barzani ha di fatto lasciato mano libera ai bombardamenti sulle formazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), che è stato bandito. Oltre a fare terra bruciata di vegetazione, la Turchia continua a bersagliare Makhmour, il campo che raccoglie rifugiati curdo-turchi fuggiti negli anni 90: giorni fa un drone ha colpito tre attiviste delle Madri della Pace durante una visita di funzionari Onu.

Davanti all’invasione dell’ISIS e alla fuga dei peshmerga nel 2014 i guerriglieri del PKK furono gli unici a schierarsi sul monte Sinjar a protezione degli Yezidi. Genocidio per genocidio, quando si parla di curdi nel nord iracheno la memoria corre alla guerra di sterminio di migliaia di donne e bambini con i gas ordinata da Saddam Hussein a fine anni Ottanta: un evento-spartiacque che negli anni a seguire giustificò la presenza americana e la costruzione dell’autonomia della regione. Il Kdp si è incaricato di tenere isolato il progetto di autogoverno dei curdi siriani (Rojava), che dopo i tradimenti di Trump e di Putin è oggi sostanzialmente confinato al Nord-Est del paese.

Sul versante iraniano e filo-iraniano, il presidente Pezeshkian ha fatto visita al suo omologo iracheno Abdul Latif Rashid, membro della Unione Patriotica del Kurdistan (Puk), nonché stoicamente rivale e complice del Kdp nel saccheggio delle risorse del paese.

Due anni fa, con il dilagare in Iran delle protese del movimento Jin Jiyan Azadi (Donna Vita Libertà) che seguì l’arresto e l’uccisione di Jina (Masha) Amini, l’Iran bombardò i campi iracheni dei fuoriusciti curdo-iraniani provenienti dal Rojhilat (la regione curda iraniana). Nel 2023 Iraq e Iran firmarono accordi che prevedevano che il confine dovesse essere liberato dell’attivismo attivismo politico curdo. Da allora i campi lungo il confine vengono chiusi e i rifugiati trasferiti nelle città del Kurdistan iracheno, dalle quali continuano ad arrivare notizie di azioni ostili iraniane.
Giorni fa due membri del Partito Democratico del Kurdistan Iranian (Kdpi), Behzad Khosravi and Shaho Ahmadzade, sarebbero stati consegnati all’Iran dalle autorità di Sulaymaniyah.

Oggi sulla stampa iraniana filtra la notizia secondo cui sarebbero in corso negoziati con le Nazioni unite per trasferire questi attivisti in un paese terzo. Uno schema che in qualche modo ricorda l’operazione attraverso la quale nel 2013, dopo che le autorità irachene avevano lasciato briglia sciolta alle milizie filo-iraniane, vennero trasferiti in un villaggio dell’Albania i Mujahiddin del Popolo (Mek) iraniani.

A seguito degli accordi fra Teheran e Bagdad, una serie di militanti curdo-iraniani sarebbero in attesa della decisione di Barzani circa l’estradizione in Iran, dove rischiano l’esecuzione. Destino simile, in barba alle Convenzioni di Ginevra, viene affrontato da quattro attivisti curdo-iraniani legati al movimento Donne Vita Libertà che la Turchia si appresta a consegnare in Iran. Giova ricordare come persino la Francia, dove i militanti curdi sono stati colpiti da spregiudicate azioni degli apparati di sicurezza turchi, abbia recentemente deportato attivisti curdi verso la Turchia.

Il 26 dicembre 1997 una nave battente bandiera turca, la Ararat, scaricò nelle acque di Badolato, Calabria, centinaia di rifugiati, molti dei quali curdi iracheni. I curdi li vedevi incamminarsi lungo la ferrovia, saltare sui treni per tentare la sorte verso il nord Europa. Altri si fermavano in Calabria.

Oggi la rotta mediterranea è diventata molto più pericolosa. La questione curda è molto di più vicina e molto più grande di un “problema di separatismo della Turchia”, immagine a cui è spesso ridotta. La lotta dei curdi contro l’Isis ha molto da insegnare. Sfregiata di tradimenti, manipolazioni e persecuzione, la storia dei curdi riflette anche nei momenti più bui i valori che le democrazie sbandierano come il proprio dna. Il silenzio e l’indifferenza sui loro naufragi e sulle nostre incarcerazioni è il riflesso della nostra viltà.

APPELLO PER LA LIBERTÀ DI MAYSOON MAJIDI

APPELLO PER LA LIBERTÀ DI MAYSOON MAJIDI e di tutte le persone private della loro libertà mentre erano in fuga per trovarla

Sono 9 mesi che l’attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi è detenuta con l’accusa di scafismo nelle carceri calabresi; a Castrovillari fino al 5 luglio, poi viene trasferita nel
carcere di Reggio Calabria.
In vista dell’udienza che si terrà il 18/9 a Crotone, rilanciamo questo appello alla mobilitazione e all’unione a tutte quelle realtà e a quelle singole persone che hanno a cuore la libertà propria e altrui.

Quello di Maysoon infatti non è un caso isolato, anzi è un caso emblematico della situazione attuale.

Oltre a Marjam Jamali, donna iraniana anch’essa detenuta – da fine ottobre 2023 – per scafismo che a fine giugno ha ottenuto i domiciliari in attesa di processo, centinaia di persone ogni anno vengono tratte in arresto con questa accusa e sono dunque in migliaia ad essere detenute ingiustamente dall’introduzione di questo reato (vedi art.12 del testo unico sull’immigrazione detto TUI o anche Legge Bossi-Fini).

Inoltre, da marzo 2023 il Decreto Cutro ha inasprito le pene per queste persone presunte scafiste, addossando loro la responsabilità della morte e della sofferenza delle persone passeggere.

Ad oggi, il governo ha grande interesse ad identificare in ogni barcone che arriva in Italia uno “scafista”, vero o presunto che sia, per poter sbandierare l’efficacia delle sue politiche contro l’immigrazione illegale. Poco importa se queste persone sono donne con figli minorenni a seguito come Marjam, artiste ed attiviste per i diritti delle donne come Maysoon o adolescenti impauriti a cui qualcuno ha messo in mano un timone. Ciò che
importa al potere è fare propaganda e pubblicare statistiche sul numero di persone arrestate per scafismo.

Con questo appello vogliamo quindi allargare e rinsaldare la rete di solidarietà creatasi intorno a Maysoon, fuggita per sottrarsi alla repressione del regime nel suo paese e finita nelle grinfie della repressione in Italia. La battaglia per la sua liberazione corrisponde a quella per la libertà di Marjam e di tutte le altre persone presunte scafiste in carcere in questo paese sempre più securitario, in cui le carceri sono già stracolme anche senza l’aggiunta di queste persone arrestate sulla base di un reato fittizio.

È importante infatti ribadire, oltre l’estraneità ai fatti loro contestati e dunque l’innocenza di Maysoon e Marjam, che siamo contro la colpevolizzazione delle persone che i barconi li hanno guidati davvero in quanto, nonostante i confini chiusi, rimane la necessità di lasciare il paese. Per le persone prive di disponibilità economiche, a volte diventa necessario offrirsi per la guida delle barche, in vista di una possibile via di salvezza. Queste persone in fuga, oppresse quando non perseguitate, per i Governi europei diventano “gli scafisti” e assunti come capro espiatorio pubblico.

Vogliamo la demolizione integrale del sistema-frontiera, della sua mentalità e delle sue modalità e, per questo, facciamo appello a una lotta per la libertà che sia generalizzata e concreta, fuori da pratiche mirate a individuare una persona realmente colpevole o ad
approfittare di un palco per mostrare la propria bandiera, mentre chi migra resta in galera, nei cpr, negli hotspot e negli altri centri di detenzione e tortura, in attesa di processo o di espulsione.

Rilanciamo la mobilitazione per l’abolizione del decreto Cutro e del reato di scafismo nel TUI, per la liberazione di Marjam e Maysoon e per la possibilità di accogliere degnamente in Italia chi arriva perché costretta dallo stato di necessità.

Sposando la causa di queste persone per la loro libertà e anche per la nostra, vi invitiamo a prendere parte al presidio presso il tribunale di Crotone, il 18 settembre dalle ore 11, dove si terrà l’udienza di Maysoon.

Comitato free Maysoon

Per info e adesioni scrivere a freemaysoonmajidi@tutamail.com

Mediterranea Saving Humans

Cidis Impresa Sociale

Liberaccoglienza ETS

Comitato Beni Comuni Acri

Federazione prov. Le Rifondazione Comunista Cosenza

Clinica legale migrazioni e asilo – Università di Roma tre

Associazione Yairaiha Ets

ARCI RED Cosenza

CSOA Angelina Cartella

Anarchici Calabresi

Mem. Med. Memoria Mediterranea

UDI Aps – Reggio Calabria

Free heval Talip

Comitato free Marjan Jamali

La Kasbah

Palermo solidale con il popolo curdo

Comitato di base No Muos

Assemblea No Guerra

Laboratorio Andrea Ballarò

Circolo Arci La Boje – Rovigo

Rete Kurdistan Polesine

Roberta Ferruti

Collettivo Addunati – Lamezia Terme

Elisabetta Della Corte

Carovane migranti

SpArrow

Jineolojî Calabria

Cesare Romagnino

Giordano Sivini, ordinario di sociologia politica in pensione

Domenico Gattuso, docente universitario

Non una di meno – Lamezia Terme

Delfina Donnici, educatrice

Catanesi solidali con il popolo curdo

Una città in comune – coalizione Diritti in comune – Consiglio
comunale di Pisa

Giuseppe Reitano

LasciateCIEntrare

Potere al popolo!

Unione Donne Italiane e Kurde

[Il CISDA ha inviato l’adesione all’Appello]

PAKISTAN. Rimpatri e abusi per i migranti afgani in fuga dai talebani

Pagine Esteri, 19 settembre 2024, di Claudio Avella

Pagine Esteri, 19 settembre 2024. Il 29 agosto il governo pakistano, attraverso il Ministro dell’Interno Moshin Raza Naqvi, ha dichiarato che presto verrà annunciata e pianificata una nuova ondata di rimpatri di migranti afgani. La dichiarazione è avvenuta durante un incontro con una delegazione delle Nazioni Unite con il rappresentante speciale per l’Afganistan Indrika Ratwatte.

Non è ancora seguito un annuncio ufficiale come avvenuto nel 2023, ma ormai da diversi mesi, almeno da marzo, il governo dichiara di voler iniziare una seconda fase di rimpatri. Durante la prima fase, lo scorso inverno, almeno 450.000 persone, in quattro mesi, hanno lasciato il Pakistan, dopo che il governo annunciò la deportazione di coloro che fossero privi di documenti.

Si stima che oggi siano più di 4 milioni gli afgani che vivono in Pakistan. Di questi solo 2,9 milioni sono in possesso di un documento valido: la Prova di Registrazione (POR), rilasciata dal governo e frutto di un accordo tra Pakistan e UNHCR del 2006, o la Carta per i cittadini afgani (ACC), frutto di un accordo con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM). Il Pakistan non ha mai firmato la Convenzione sui Rifugiati delle Nazioni Unite del 1951 e non ha, quindi, un sistema di asilo, per cui circa 500.000 persone sono rifugiati in transito, registrati presso l’UNHCR e in attesa di asilo presso un altro paese.

Dopo la caduta di Kabul nel 2021, circa 500.000 persone sono arrivate in maniera regolare, con un visto di ingresso o registrandosi all’arrivo, ma probabilmente ce ne sono almeno altre 300.000 irregolari.

Lo scorso anno l’operazione del governo aveva destato le attenzioni e gli allarmi di Amnesty International: arresti e detenzioni arbitrarie, separazione di famiglie, inclusi minori, donne e anziani. In almeno 7 dei 49 centri di detenzione o “centri di transito” AI denunciò la sospensione dei diritti legali delle persone detenute, come il diritto a un avvocato o a comunicare con le famiglie. A questo va aggiunto che questi rimpatri sono avvenuti in inverno, quando le condizioni in un paese privo di adeguate infrastrutture come l’Afganistan sono insostenibili. Amnesty denuncia anche che il rimpatrio di donne nell’Afghanistan dei Talebani le espone alla violazione dei diritti umani, quali quello all’educazione, al lavoro e alla libertà di movimento.

Anche le condizioni economiche dell’Afghanistan sono un motivo di fuga dal paese. Spiega a Pagine Esteri Liaqat Banori, avvocato per i rifugiati in Pakistan: “dopo l’annuncio del governo di voler rimpatriare le persone non regolari, quando sono iniziati gli arresti e le detenzioni molti sono tornati volontariamente, per evitare umiliazioni, ma una volta oltrepassata la frontiera hanno trovato condizioni non dignitose: mancanza di infrastrutture e mancanza di opportunità di lavoro. Non c’è certezza di quanti siano tornati volontariamente e quanti siano stati deportati.”

Spiega ancora Banori: “le molestie nei confronti dei rifugiati sono un fenomeno comune in Pakistan e tutti i rifugiati se ne lamentano. Molti rifugiati provvisti di POR o documenti regolari vengono arrestati o detenuti e molti sono stati erroneamente deportati. Non sappiamo questi quanti siano, pochi probabilmente, ma spiegano il livello di violazione di diritti umani nei confronti dei rifugiati in Pakistan.”

Anche chi oggi ha dei documenti validi non si sente al sicuro: la POR, infatti, continua ad essere una Spada di Damocle per i rifugiati, in quanto deve essere rinnovata di continuo dal governo. A luglio di quest’anno il governo ne ha rinnovato la validità per un altro anno.

D’altra parte, il piano del governo è chiaro, spiega Liaqat Banoori: una volta rimpatriati coloro che sono privi di documenti, in una successiva fase saranno rimpatriati coloro in possesso dell’ACC, infine coloro che sono in possesso della POR.

Shameen e Mukhtar (nomi di fantasia per proteggere il loro anonimato), raggiunti nella città vecchia di Peshawar, raccontano: “non possiamo dire apertamente alla gente che siamo afgani, soprattutto alle autorità, anche se siamo registrati regolarmente, perché abbiamo paura di essere deportati”.  Entrambi hanno lavorato, prima della caduta di Kabul, per organizzazioni statunitensi come carpentieri o trasportatori. Shameen è in attesa da tre anni di ottenere lo stato di rifugiato per il Canada. Dopo aver passato due anni a Karachi, si è trasferito a Peshawar per evitare il rischio di essere deportato insieme alla famiglia.

Le attese infinite per chi si trova nella condizione di rifugiato in transito sono estremamente comuni: Spasil Zazai, racconta a PagineEsteri una storia simile a quella raccontata da diverse altre persone intervistate in questi giorni. Spasil vive a Peshawar con tre delle sue quattro figlie; la quarta è fuggita in Polonia dopo aver ricevuto minacce di morte a causa della sua attività di attivista e poliziotta prima dell’arrivo dei Talebani al potere. Spasil ha divorziato dal marito, un uomo violento che oggi vive nell’Afganistan dei Talebani, ed è diventata un’attivista per i diritti delle donne. Dopo tre anni, la sua famiglia è ancora in attesa di ottenere asilo.

Anche la ricerca di un lavoro o di una casa dove vivere è estremamente difficile: molti datori di lavoro non vogliono assumere persone che potrebbero essere rimpatriate da un momento all’altro e i proprietari di case preferiscono evitare potenziali problemi con le autorità, affittando le proprie case a persone che potrebbero diventare irregolari.

Alcune fonti ritengono che le politiche del Pakistan di deportazione in massa dei rifugiati siano una leva strategica per fare pressione sul governo afgano, ogniqualvolta i gruppi talebani pakistani, appartenenti al Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP), incrementano la propria attività terroristica.

A farne le spese sono i rifugiati, la cui vita sembra un percorso a ostacoli senza mai fine. Pagine Esteri

Come l’Afghanistan è diventato il paradiso delle organizzazioni terroristiche

IARI Istituto Analisi Relazioni Internazionali, 19 settembre 2024 di Emiliano Di Loreto

A tre anni dal ritiro delle truppe NATO in Afghanistan, il Paese sembra essere diventato un importante punto di appoggio per al-Qaeda, il Tehrik-i-Talibani-Pakistani e lo Stato Islamico del Khorasan.

Sono passati ormai tre anni dal ritiro delle forze NATO in Afghanistan e dalla successiva presa di Kabul da parte del gruppo dei talebani. Dopo più di venti anni di guerra, la Coalizione a guida statunitense non ha potuto fare altro che riconoscere il fallimento della propria missione progettata per istituire una democrazia di tipo liberal-occidentale in un paese frammentato da divisioni etniche, tribali e tra clan.

Dopo un’iniziale fase di caos, caratterizzata da tentativi di migrazioni di massa ed epurazioni di componenti del vecchio apparato governativo, il gruppo dei talebani è riuscito ad insediare un nuovo governo sotto il nome di “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, non riconosciuto dalla comunità internazionale, e basato sulla Sharia, la legge islamica. Nonostante le promesse iniziali sottoscritte negli Accordi di Doha stipulati con Washington, i talebani non hanno stabilito nessun tipo di governo democratico, violandone così i termini.

In aggiunta, nelle condizioni per il ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan veniva menzionato l’impegno da parte dei talebani affinche il Paese non fungesse da base per eventuali formazioni terroristiche ostili agli Stati Uniti ed ai loro alleati. Nonostante ciò, ad oggi il paese costituirebbe un rifugio sicuro per almeno due organizzazioni di militanti.

La prima risulterebbe essere la ben nota al-Qaeda, la quale sembrerebbe godere di una posizione di favore all’interno dell’apparato governativo grazie ai propri legami con Sirajuddin Haqqani, attuale Ministro dell’Interno e figlio di Jalaluddin Haqqani (deceduto nel 2018), fondatore della cosiddetta “Rete Haqqani”. La Rete Haqqani, nata negli anni 70’ come movimento di insorti per destituire l’allora governo filo-sovietico e successivamente per combattere le truppe sovietiche, è un gruppo indipendente affiliato ai talebani, ed è noto per aver effettuato numerosi attacchi di alto profilo contro le forze della Coalizione in Afghanistan. La presenza stabile di al-Qaeda nel Paese sembrerebbe confermata dall’assassinio del proprio leader, al-Zawahiri,  avvenuto in un’abitazione nel pieno centro di Kabul nel 2022 ad opera di un drone statunitense. Stando ad alcune  fonti USA, al momento dell’uccisione al-Zawahiri si trovava in una casa di un alto esponente della Rete Haqqani.

Secondo un rapporto pubblicato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 13 febbraio 2023, al-Qaeda avrebbe individuato come successore Saif al-Adel, già ricercato dalle autorità statunitensi in relazione agli attentati alle ambasciate USA in Tanzania e Kenya del 1998. L’assenza di un annuncio ufficiale da parte di al-Qaeda circa il passaggio di leadership, lascerebbe pensare ad una tattica volta a mantenere un profilo basso da parte del gruppo circa la propria presenza in Afghanistan. Tuttavia, l’8 giugno 2024, lo stesso Adel ha rilasciato un comunicato, tramite l’agenzia di comunicazione del gruppo as-Sahab, in cui invitava tutti i militanti di al-Qaeda sparsi per il mondo a recarsi in Afghanistan per ricevere addestramento militare al fine di colpire Israele e i suoi partner occidentali.

La seconda organizzazione sembrerebbe essere il Tehrik-i-Talibani-pakistani (TTP). Il TTP è un’organizzazione ombrello, nata in Pakistan nel 2007 nella regione di South Waziristan, che racchiude sotto di sé diversi nuclei di militanti riunitisi con l’obiettivo di rovesciare il governo pakistano ed instaurare la sharia nel paese. Sin dall’inizio dell’operazione “Enduring freedom”, nel 2001, i gruppi hanno costantemente fornito supporto con armi e uomini ai talebani nelle loro operazioni di guerriglia contro le truppe USA e alleati.

Dal ritiro di quest’ultime, diversi nuclei del TTP sembrerebbero essersi spostati in territorio afghano in prossimità della linea di confine con il Pakistan, da dove condurrebbero attacchi coordinati contro le forze di sicurezza di Islamabad. Le stesse autorità pakistane, a fronte del crescente numero di attacchi, hanno più volte accusato i talebani di connivenza con il gruppo, conducendo altresì diversi raid aerei su presunte postazioni del TTP in Afghanistan. Le tensioni tra i due governi si sono negli ultimi tempi ulteriormente inasprite a causa del piano di rimpatrio dei migranti afghani irregolari iniziato da Islamabad nel marzo 2024, il quale ha causato un esodo con conseguente crisi umanitaria verso Kabul di oltre mezzo milione di persone.

L’ascesa dello Stato Islamico del Khorasan

Inoltre, seppur non supportato dai talebani e trovandosi, al contrario, in aperta lotta contro di loro, lo Stato Islamico ha recentemente incrementato le attività in Asia Centrale tramite la propria branca locale (Islamic State Khorasan Province o ISKP). ISKP risulta ufficialmente attivo nel Paese dal 2015, anno in cui rivendicò il suo primo attacco contro un posto di polizia nell’Afghanistan orientale (3 morti), e si ritiene essere attualmente guidato da Shahab al-Muhajir, un presunto ex comandante della rete Haqqani con una significativa esperienza militare alle spalle. Dal ritiro delle forze della Coalizione, il gruppo è riuscito ad ampliare in maniera significativa la propria rete e ad attirare numerosi nuovi militanti dai paesi circostanti come il Tajikistan, complice la mancanza di un apparato di sicurezza e di intelligence solido in grado di contrastarlo. Si è inoltre registrato negli ultimi mesi un incremento degli attacchi portati avanti dai cosiddetti lupi solitari in tutto il mondo, molto spesso affiliati o ispirati a ISKP.

Forecast

Nel breve-medio periodo, nonostante gli accordi di Doha e le pressioni della comunità internazionale, il paese continuerà probabilmente a costituire un terreno favorevole per le organizzazioni terroristiche.

In particolare, visti gli stretti rapporti con i talebani e la Rete Haqqani, risulta probabile un ulteriore incremento delle attività addestrative e di propaganda da parte di al-Qaeda. Un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di Gennaio 2024 riporta come il gruppo abbia recentemente aperto nuovi campi di addestramento e madrase (scuole coraniche) presumibilmente a tale scopo. Inoltre, considerando l’intensificarsi delle operazioni militari israeliane nei territori palestinesi e nel sud del Libano, l’appello recentemente lanciato dal presunto leader Al-Adel è suscettibile di attirare nuovi militanti da tutto il mondo. Sebbene, quindi, negli anni la minaccia rappresentata in occidente da parte di al-Qaeda si sia notevolmente ridimensionata, nuovi attacchi perpetrati da lupi solitari ispirati a tali ideologie o da cellule del gruppo non possono essere esclusi.

Per quanto riguarda il TTP, il gruppo continuerà probabilmente ad approfittare del supporto offerto dalla leadership talebana per perpetrare attacchi in Pakistan con l’obiettivo di rovesciare il governo ed instaurare un proprio emirato. Per tale motivo e per ragioni ideologiche, risulta al momento improbabile che il gruppo decida di spostare il focus delle proprie operazioni all’infuori del Pakistan.D’altro canto, visto il recente incremento nel numero di attacchi, lo Stato Islamico continuerà a rappresentare una minaccia globale. Il gruppo ha dimostrato, nonostante le sconfitte territoriali subite in Iraq e in Siria degli ultimi anni, di essere ancora in grado di ricostruire le proprie reti di militanti e di poter condurre attacchi di alto profilo, come dimostrato dai recenti attentati in Russia, Oman e Iran. L’instabilità e la mancanza di apparati securitari solidi in Afghanistan contribuiranno probabilmente ad accrescere l’influenza del gruppo nella regione e la propria capacità di ispirare potenziali nuovi lupi solitari in giro per il mondo

Afghanistan: perché Trump e Harris non parlano del disastro USA

Inside Over, 16 settembre 2024, di Samuel Botti

Il dibattito presidenziale tra Donald Trump e Kamala Harris ha spostato l’equilibrio elettorale per coloro che ancora non riuscivano a prendere una decisione. Tra le varie tematiche trattate però, una in particolare non è riuscita a ritagliarsi lo spazio necessario per fornire risposte esaustive: il ritiro delle truppe in Afghanistan.

Pochi giorni prima del duello, è stata pubblicata un’indagine repubblicana intitolata Willful Blindness, realizzata con l’obiettivo di attribuire all’amministrazione Biden la vera colpa di ciò che avvenne nel 2021, guidata dal presidente della Commissione Affari esteri della Camera, il texano Michael McCaul. «Biden e la sua vice hanno tratto in inganno e, in alcuni casi, mentito direttamente al popolo americano in ogni fase del ritiro», ha commentato McCaul, affermando che questo argomento non è altro che una «macchia» sull’amministrazione democratica.

Il rapporto di oltre 350 pagine è stato subito commentato negativamente dall’ala dem che, dopo aver pubblicato il proprio minority report sull’indagine durata 18 mesi, ha accusato i repubblicani di averli esclusi dall’inchiesta e di aver scelto la politica anziché la ricerca della verità. Inoltre, i democratici accusano l’amministrazione Trump di aver preso accordi direttamente con i talebani, passando sopra il Governo afghano, e di aver imposto una tempistica irrealistica, creando conseguenze inevitabili per coloro che avrebbero guidato la Casa Bianca successivamente.

Nonostante le accuse da entrambe le parti, la responsabilità del ritiro che ha condotto nuovamente il territorio dell’Afghanistan nelle mani dei terroristi è bipartisan.

Barack Obama e la forever war

La forever war, come viene definita negli States, cambiò volto con l’ascesa del democratico Barack Obama che, una volta insediatosi alla Casa Bianca nel 2009, promise di «distruggere, smantellare e sconfiggere la rete di Al Qaeda in Pakistan e Afghanistan, e impedire loro un ritorno futuro». Questa dichiarazione, pronunciata in un discorso il 27 marzo 2009, segnava il ritorno di un’importante presenza militare a Kabul. Infatti, nel 2010 si contavano all’incirca 100mila soldati statunitensi presenti sul territorio del dari e del pashtu. La svolta significativa arrivò il 2 maggio 2011, quando le truppe americane scovarono e uccisero il leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, nascosto ad Abottabad, in Pakistan.

La caccia grossa a Obama poteva dirsi conclusa, e così si decise di iniziare un moderato ritiro delle truppe dai territori, con l’obiettivo di instaurare relazioni diplomatiche e di cedere il controllo alle forze locali – addestrate dallo Zio Sam – entro il 2014, per poi lasciare definitivamente il paese nel 2016. Il piano fu realizzato a metà: le truppe americane terminarono formalmente le operazioni militari e trasferirono i compiti alle forze locali. Rimasero circa 10mila soldati con lo scopo di addestrare gli afghani e di combattere i “rimasugli” di Al Qaeda. Tuttavia, nel 2017, nell’ultimo anno del mandato Obama, le truppe Usa erano ancora lì.

C’erano Trump, Biden, e i talebani

La palla passò a Donald Trump, con l’istinto iniziale di ritirarsi dall’Afghanistan, tramutato dopo poco tempo nella decisione di continuare a combattere per evitare la creazione di un nuovo insediamento terroristico, subito dopo la partenza delle truppe.

The Donald e il suo staff iniziarono i negoziati direttamente con i talebani nel 2018, fino ad arrivare alla firma dell’Accordo di Doha il 29 febbraio 2020. Ancor prima di scoprire quali fossero le condizioni del negoziato, l’amministrazione Trump viene aspramente criticata per aver trattato direttamente con i talebani, escludendo il Governo afghano e di conseguenza indebolendo la sua già bastonata figura istituzionale. Le giustificazioni che arriveranno saranno che i talebani rifiutano categoricamente il Governo, soprattutto se si parla di inserirlo in un negoziato. Inoltre, il fine mandato e una possibile rielezione erano alle porte, e negoziare direttamente con i talebani avrebbe generato un intervento più rapido, evitando così la burocrazia governativa.

L’Accordo prevedeva un ritiro graduale delle truppe statunitensi e delle forze NATO entro 14 mesi dalla firma, con una riduzione iniziale da circa 13.000 a 8.600 soldati entro 135 giorni. Il ritiro completo doveva avvenire entro il 1° maggio 2021. Tuttavia, per mantenere la sicurezza su quanto stabilito, il tycoon chiese ai talebani di interrompere i legami terroristici con Al Qaeda, ridurre la violenza contro le forze afghane e americane durante il ritiro, e non permettere che l’Afghanistan fosse utilizzato come base per attacchi contro gli States e i suoi alleati. Purtroppo, la fiducia riposta nei loro confronti fu più di quanto ci si potesse aspettare. La condizione finale prevedeva uno scambio di prigionieri tra il governo afghano e i talebani, liberando 5000 talebani e 1000 governativi.

I piani cambiano il 20 gennaio 2021, quando Joe Biden diventa il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. L’amministrazione democratica decide di ritardare il ritiro delle truppe dal 1° maggio all’11 settembre, data scelta non a caso. Questo messaggio non piacque ai talebani, instaurando in loro la sfiducia nel Governo americano e la mancata collaborazione prevista dall’accordo. In quel momento erano presenti sul campo tra 2500 e 3500 soldati americani.

Nel luglio 2021, Biden annuncia il ritiro totale delle truppe entro il 31 agosto. Dopo un mese e mezzo, i talebani conquistano Kabul.

Tra evacuazioni di emergenza e caos dilagato all’aeroporto di Kabul, il 26 agosto un attentatore suicida dell’ISIS-K uccide 13 soldati americani e 170 afghani al cancello Abbey Gate.

Le truppe americane si ritirano ufficialmente il 30 agosto 2021.

La guerra in Afghanistan è un nodo contorto e mai districato, che probabilmente non vedrà mai la luce. Ciò che è certo, è che la colpa di quanto accaduto è una storia tutta americana, a prescindere dal partito.

Afghanistan, partono i lavori del gasdotto asiatico Tapi. Così i Talebani cercano di rafforzare la loro rete diplomatica

Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2024 di Davide Cancarini

Isolati dalla comunità internazionale anche a causa delle folli politiche domestiche messe in campo soprattutto nei confronti della popolazione femminile dell’Afghanistan, i Talebani stanno però portando avanti con successo una strategia di accreditamento regionale. L’ultimo episodio in ordine di tempo di quella che sembra una tendenza in fase di costante consolidamento, è la presunta ripartenza dei lavori relativamente al gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI).

Presunta perché di quest’opera, che dovrebbe far transitare il gas naturale turkmeno attraverso il territorio afgano fino a quello pachistano e indiano, si parla da almeno tre decenni. Con finora pochissimi passi avanti, anche a causa di tutta una serie di ostacoli finanziari, politici, logistici e di sicurezza. Nei giorni scorsi a Herat si è però tenuta con grande clamore la cerimonia di inizio dei lavori della sezione afgana del gasdotto – quella turkmena stando alle dichiarazioni ufficiali dovrebbe già essere stata completata.

Anche solo l’avvio della realizzazione del TAPI darebbe respiro all’economia afgana grazie alle ricadute occupazionali, senza parlare poi delle entrate che sarebbero garantite dal passaggio del gas turkmeno, stimate in circa 500 milioni di dollari all’anno. Va detto che il TAPI è da sempre stato circondato dallo scetticismo, non da ultimo a causa della difficoltà che emergerebbe di garantire la sicurezza dell’opera in un contesto interessato da continua instabilità come quello afgano.

Se si guarda però a quanto avvenuto a Herat allargando lo sguardo al suo significato politico, l’episodio è molto rilevante, soprattutto perché i Talebani negli ultimi mesi hanno implementato un grande sforzo diplomatico per accreditarsi come interlocutori credibili soprattutto verso i paesi della regione. Con un certo successo. Pochi giorni fa la repubblica centro asiatica del Kirghizistan ha rimosso il movimento fondamentalista dalla lista delle organizzazioni considerate terroristiche, una mossa che le autorità kirghise hanno cercato di tenere sottotraccia. Non così dal lato afgano, con il ministero degli Esteri di Kabul che si è affrettato a sottolineare la rilevanza della decisione di Bishkek sulla strada della, almeno nelle intenzioni dei Talebani, piena accettazione dell’Emirato Islamico da parte della comunità internazionale.

L’iniziativa del Kirghizistan segue a distanza di pochi mesi quella identica intrapresa dal Kazakistan, ancora più significativa perché quest’ultima è la repubblica centro asiatica di gran lunga più importante dal punto di vista economico e che gode del maggiore peso politico a livello globale. Astana aveva inserito i Talebani nella lista dei movimenti terroristici nel 2005. L’altro gigante dell’Asia Centrale, in questo caso dal punto di vista demografico, l’Uzbekistan, non ha per ora agito in tal senso.

Ma Tashkent a metà agosto ha mostrato di ritenere i Talebani un interlocutore da tenere in considerazione, inviando a Kabul il primo ministro uzbeco. Quella compiuta da Abdulla Aripov è stata la visita ufficiale di più alto grado in Afghanistan dall’agosto 2021, quando Kabul è stata riconquistata dal movimento guidato dal 1994 fino alla sua morte nel 2013 dal Mullah Omar.

C’è di più, perché alcuni paesi asiatici stanno allo stesso tempo accettando i rappresentanti diplomatici nominati dai Talebani. La Cina ha compiuto per prima questo passo, a gennaio di quest’anno, seguita poche settimane fa proprio dal Kazakistan e dagli Emirati Arabi Uniti. Anche la repubblica centro asiatica decisamente più ostile nei confronti dei signori di Kabul, il Tagikistan, sta operando piccole aperture: il regime tagico ha infatti inviato in Afghanistan il capo del Comitato di Stato per la sicurezza nazionale per farlo incontrare con ufficiali dell’intelligence afgana. Un episodio che, se fosse avvenuto tra due qualsiasi paesi confinanti, si sarebbe potuto considerare di routine, ma che riguardando le controparti tagica e afgana assume un significato molto rilevante.

Il filo rosso che si nota osservando la dinamica in atto è la crescente consapevolezza del fatto che i Talebani sono destinati a rimanere al potere a lungo e che quindi aprire un canale di dialogo è necessario. Ogni paese porta poi avanti la propria agenda rispetto all’Afghanistan: gli attori confinanti come l’Iran, il Pakistan o l’Uzbekistan, allo stesso tempo temono le potenziali ricadute interne dell’instabilità afgana e guardano con interesse alle potenzialità logistiche e commerciali.

Altri, come la Cina, mirano ad avere un peso politico e a sfruttare le risorse minerarie della repubblica asiatica. Quel che è certo è che i Talebani non perdono occasione per fare leva a livello politico e di propaganda sui successi diplomatici che ottengono con sempre maggiore frequenza. Una normalizzazione che guardando alla gestione della sfera sociale interna all’Afghanistan e alle ricadute per la popolazione locale non può che incutere timore.

 

KNK: Lunga vita alla Rivoluzione Jin-Jiyan-Azadî!

Rete Kurdistan Italia, 15 settembre 2024

Sono trascorsi due anni dalla Rivoluzione Jin-Jiyan-Azadî. Commemoriamo questo anniversario con lo spirito di lotta e resistenza nella persona dell’eroica donna curda Jîna Emînî e di tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per la libertà e l’uguaglianza. Inviamo anche i nostri saluti a tutti i combattenti per la libertà e alle orgogliose famiglie dei martiri.

Dal 2022, dopo il brutale assassinio di Jîna Emînî da parte delle forze del regime islamico dell’Iran, le donne di Rojhîlat – Kurdistan orientale e in tutto l’Iran hanno iniziato una grande rivolta. Le rivolte contro la pressione delle autorità della Repubblica islamica dell’Iran contro la persecuzione delle persone amanti della libertà sotto lo slogan “Jin-Jiyan-Azadî” erano naturali e intenzionali.

All’ombra del concetto di Jin-Jiyan-Azadî (Donne-Vita-Libertà), che è diventato un fenomeno globale e il cui marchio è entrato nelle pagine della storia, le donne del mondo si sono radunate attorno a questo slogan e si sono unite.

Oggi, in tutto il mondo, le donne stanno lottando e resistendo alle politiche di oppressione, repressione, disuguaglianza e schiavitù. Le donne stanno alzando la voce nella verità della filosofia di “Jin-Jiyan-Azadî”.

Il principio e la condizione della vittoria delle donne sotto questo slogan derivano dalla lotta secolare delle donne curde contro la mentalità fascista degli stati occupanti del Kurdistan. Il principio e la condizione della vittoria delle donne sotto questo slogan derivano dalla lotta secolare delle donne curde contro la mentalità fascista degli stati occupanti del Kurdistan.

Le donne del Kurdistan orientale e dell’Iran, che hanno esperienza di lotta contro la mentalità patriarcale e conservatrice, hanno continuato la loro resistenza e hanno dimostrato che, nonostante le pressioni e la politica di genocidio e persecuzione del regime conservatore, non si arrenderanno mai e lavoreranno per la libertà e l’uguaglianza.

I governanti e gli stati occupanti del Kurdistan hanno paura della forza e della volontà delle donne. Pertanto, più le donne, in particolare le donne curde, diventano forti e si organizzano, più il governo e lo Stato aumenteranno la loro politica di violenza contro di loro.

Il regime islamico dell’Iran è ben consapevole del potere della lotta delle donne! Imponendo pesanti punizioni e in particolare la pena di morte alle donne attiviste e combattenti come vendetta, vuole bloccare il cammino di questa resistenza e impedirla.

Ma né la politica di intimidazione né la pena di morte saranno un ostacolo alla lotta per la libertà e l’uguaglianza delle donne. Il governo non potrà mai sottomettere le donne e fermare il lavoro delle donne uccidendole e giustiziandole. Pertanto, la lotta delle donne in molte parti del mondo sta andando avanti oggi con grande volontà e coraggio e la luce della loro lotta sta diventando sempre più luminosa.

Come Congresso Nazionale del Kurdistan – KNK, invitiamo le donne curde del Kurdistan e tutte le donne all’estero a unirsi allo spirito onorevole della rivoluzione “Jin-Jiyan-Azadî” e a portare la fiaccola per una più grande lotta collettiva.

Invitiamo tutte le organizzazioni internazionali, le istituzioni democratiche e i movimenti femminili a prendere posizione contro la politica di annientamento, omicidio e tortura delle donne curde e dei combattenti per la libertà.

Commissione delle Donne del Congresso Nazionale del Kurdistan – KNK

14.09.2024

Promuovere l’assunzione di responsabilità per gli abusi in Afghanistan

In occasione dell’apertura della 57° Sessione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, HRW e altre 90 organizzazioni chiedono l’istituzione di un nuovo Organismo indipendente che sia autorizzato a indagare sui crimini internazionali passati e in corso

HRW, 9 settembre 2024

Il  Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe creare urgentemente un organismo indipendente per perseguire l’accertamento delle responsabilità di tutti i responsabili di gravi abusi, passati e presenti, in  Afghanistan , ha affermato oggi Human Rights Watch.

Da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan nell’agosto 2021, la situazione umanitaria e dei diritti umani del paese è precipitata gravemente. Le politiche repressive dei talebani hanno preso di mira in modo sproporzionato donne e ragazze, rendendo l’Afghanistan la crisi dei diritti delle donne più grave al mondo.

“I talebani hanno sistematicamente violato i diritti fondamentali in Afghanistan impunemente”, ha affermato  Fereshta Abbasi , ricercatrice afghana presso Human Rights Watch. “Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe creare un meccanismo dedicato per raccogliere e preservare le prove degli abusi e supportare gli sforzi di responsabilizzazione, come è stato fatto in molte altre situazioni”.

L’Afghanistan è ora l’unico paese in cui alle ragazze è vietato ricevere un’istruzione oltre la sesta elementare e alle donne è vietato frequentare l’università. Le autorità talebane hanno inoltre impedito alle donne di svolgere molte forme di impiego, hanno limitato la loro libertà di movimento e imposto severe limitazioni alla loro vita pubblica, tra cui praticare sport, visitare parchi e cantare in pubblico.

I talebani hanno anche fortemente limitato la libertà di espressione e dei media. I giornalisti sono stati sottoposti a minacce, detenzioni arbitrarie e torture, creando un clima di paura che scoraggia l’informazione indipendente. Le autorità talebane hanno minacciato, aggredito e arbitrariamente detenuto  persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender .

La situazione umanitaria in Afghanistan resta disastrosa:  23 milioni di persone soffrono la fame mentre il Paese è alle prese con una crisi economica e una povertà in peggioramento.

Nel 2021, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha nominato un relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, un mandato fondamentale che dovrebbe essere rinnovato a causa del continuo deterioramento della situazione.

Una coalizione di 90 gruppi per i diritti umani afghani e internazionali, tra cui Human Rights Watch,  ha rinnovato il suo appello chiedendo che l’Afghanistan assuma le proprie responsabilità , tra cui l’istituzione da parte del Consiglio per i diritti umani di un ulteriore e complementare meccanismo indipendente dedicato per indagare sugli abusi passati e in corso e affrontare decenni di impunità. Questo meccanismo dovrebbe essere abilitato a indagare, conservare le prove e identificare i responsabili degli abusi, comprese le diffuse e continue violazioni dei diritti umani da parte dei Talebani nei confronti di donne e ragazze.

“Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dovrebbe creare un meccanismo di responsabilità indipendente per sostenere i diritti degli afghani alla giustizia e al risarcimento per gli abusi che hanno subito per decenni senza ottenere riparazione,“, ha affermato Abbasi.

“Non ci arrenderemo all’oppressione”

Freshta Ghani, Zan Times, 13 settembre 2024

Un gruppo di donne è sceso in piazza a Kabul per protestare contro il regime talebano la mattina di mercoledì 11 settembre. Questa è stata la prima manifestazione di piazza da quando i talebani hanno introdotto il loro nuovo decreto oppressivo contro le donne, che vieta loro di mostrare il volto e la voce negli spazi pubblici.
Nei video inviati a Zan Times da una fonte interna al movimento di protesta, si può vedere un gruppo di donne nell’area di Dasht-e-Barchi a Kabul marciare e cantare “Istruzione, lavoro, libertà” e “Abbasso i talebani”.

L’atmosfera soffocante di paura e repressione generata dal regime talebano ha reso estremamente difficile organizzare proteste. Una delle partecipanti alla protesta racconta a Zan Times: “Abbiamo organizzato questa protesta nonostante fossimo estremamente preoccupate e impaurite. Ogni volta che sentivamo un veicolo dietro di noi, pensavamo che i talebani fossero qui per arrestarci”.

I talebani le hanno tolto il lavoro e la vita, ha spiegato una manifestante di 26 anni, che aveva studiato economia. “Per non pensare alla prigione e farmi coraggio, ho cercato di pensare alle donne afghane, a come la loro situazione peggiora ogni giorno e a come i talebani impongono loro leggi più severe”, aggiunge.

Spiega che la protesta è stata organizzata dal Movement of Women for Historical Change, un gruppo impegnato a continuare la lotta contro i talebani: “Continueremo la nostra lotta e non ci arrenderemo all’oppressione o alla prigione”.
Un’altra partecipante ha inviato un messaggio a Zan Times: “Oggi è andata bene, ma sfortunatamente c’erano poche partecipanti. Tutte erano terrorizzate che gli agenti talebani potessero nascondersi nelle strade”.
Roqia Saee, un’attivista per i diritti delle donne che è stata arrestata e imprigionata due volte dopo le proteste di strada a Kabul, ora lavora con un gruppo di esiliati ed è in contatto con le organizzatrici. In un’intervista con Zan Times spiega come hanno cercato di organizzare la protesta in modo da evitare arresti: “Cinque persone sono state incaricate di monitorare qualsiasi segno dei talebani, 15 donne hanno partecipato alla protesta e una persona ha registrato il video”.
Aggiunge che si stavano preparando per la protesta da diversi giorni, ma hanno capito che devono ancora affrontare delle sfide: “Abbiamo trascorso circa tre giorni a cercare qualcuno che stampasse slogan e striscioni. Nessuno era disposto ad aiutarci. Hanno detto che avevano paura e non potevano correre il rischio. Il terzo giorno, abbiamo finalmente trovato qualcuno che ha accettato di stampare solo gli slogan”.

 

La conferenza in Albania

Lo stesso giorno della protesta a Kabul, 120 donne afghane in Albania hanno iniziato una conferenza di tre giorni per stilare una “roadmap per il futuro dell’Afghanistan”.
Nella sessione di apertura, una delle organizzatrici della conferenza, Fawzia Koofi, che era membro del Parlamento afghano, ha affermato che l’evento intendeva fornire uno spazio per dare forma “alla visione per le donne nel futuro dell’Afghanistan”.
Alcune delle donne che avevano marciato per protestare contro i talebani in Afghanistan hanno partecipato a questa conferenza. Si sono alzate e hanno scandito, “Riconoscere i talebani è un tradimento delle donne” e “Riconoscere l’Afghanistan è un apartheid di genere” durante un discorso di Rina Amiri, l’inviata speciale degli Stati Uniti per le donne e i diritti umani in Afghanistan. “Quando abbiamo saputo che la signora Amiri avrebbe partecipato, abbiamo alzato la voce per chiedere che l’apartheid di genere fosse riconosciuto”, spiega Masouda Kohistani, una delle donne manifestanti.

Aggiunge che la loro richiesta principale è che il mondo interrompa gli aiuti internazionali all’Afghanistan, poiché ritengono che questi fondi sostengano indirettamente i talebani: “La maggior parte di questi aiuti va a rafforzare ed espandere il terrorismo. Abbiamo visto che i talebani non distribuiscono gli aiuti a chi ne ha bisogno, ma li incanalano invece verso la loro base, usandoli per costruire scuole e centri religiosi che producono terroristi”.
Negli ultimi tre anni, i talebani hanno di fatto chiuso le donne e le ragazze nelle loro case, hanno chiuso le scuole per le ragazze sopra la sesta elementare, hanno impedito alle ragazze e alle donne di entrare nelle università, negli uffici, nei mercati, nei bagni, nelle palestre, nei parchi e nei viaggi e ora hanno persino vietato alle voci delle donne di essere ascoltate in pubblico.
Ciò che le donne stanno sopportando sotto il regime talebano è una palese oppressione e un livello senza precedenti di discriminazione di genere, che è stato descritto come “crimine contro l’umanità”. Purtroppo la comunità internazionale e le Nazioni Unite, impegnate in altre priorità politiche, hanno scelto di tollerare e compiacere i talebani e di chiudere un occhio sui loro crimini e sull’apartheid di genere.

Come l’11 settembre ha cambiato – e non ha cambiato – l’Afghanistan

Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno apparentemente cambiato la traiettoria della storia dell’Afghanistan. Ma oggi il paese è tornato per molti aspetti allo status quo ante, fatta eccezione per le migliaia di vite perse in guerra

Freshta Jalalzai, The Diplomat, 11 settembre 2024

L’11 settembre vivevo a Kabul, la capitale dell’Afghanistan. 

Il nostro quartiere nella parte orientale di Kabul, Microryan, sorgeva come una reliquia dimenticata: un complesso residenziale grigio e anonimo di cinque piani, costruito durante l’invasione sovietica. 

Nel 2001, i talebani controllavano circa il 90 percento dell’Afghanistan , con le aree rimanenti, principalmente a nord, tenute dall’Alleanza del Nord, una coalizione di forze anti-talebane, in particolare nelle regioni settentrionali come la valle del Panjshir. L’Alleanza del Nord era composta principalmente dai resti delle fazioni dei mujaheddin che avevano combattuto contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ’80. Tuttavia, dopo il crollo del regime filo-comunista nell’aprile 1992, scatenarono una devastante guerra civile che durò dal 1992 al 1996.

La guerra civile aveva ridotto Kabul in cenere. Le finestre rotte durante i combattimenti erano state rattoppate con la plastica e i muri degli appartamenti bruciati erano rimasti anneriti dal fuoco, crivellati di proiettili, un ricordo inquietante della violenza che aveva devastato l’antica capitale.

Nel 1996, dopo la presa del potere da parte dei talebani e la fuga dei mujaheddin, l’Afghanistan scivolò dal caos della guerra civile, dalla crudeltà dei signori della guerra e dall’anarchia al malessere della povertà, dell’isolamento e delle malattie.

All’epoca, solo gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan e l’Arabia Saudita riconoscevano il governo talebano. Questo abbandono lasciò noi, il popolo afghano, sanzionati e quasi tagliati fuori dal resto del mondo, mentre le autorità talebane erano incontrollate e irresponsabili. Vivendo a Kabul a quel tempo, sembrava che, per il resto del mondo, non esistessimo. Avremmo potuto morire di fame se non fosse stato per l’aiuto quotidiano di cinque pagnotte di pane da parte di un’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite, la nostra unica ancora di salvezza in quei tempi disperati.

Non c’erano praticamente posti di lavoro, le autorità talebane riuscivano a malapena a pagare gli stipendi mensili dei dipendenti pubblici e le agenzie umanitarie internazionali avevano operazioni limitate nel Paese.

L’acqua potabile pulita scarseggiava. Ogni pochi giorni, ci mettevamo in fila presso le vecchie condutture idriche dell’era sovietica che correvano nei seminterrati per raccogliere quella che percepivamo come acqua pulita, conservandola in pentole e barili per farla durare fino alla successiva opportunità.

Per stare al caldo, abbiamo posizionato un piccolo forno portatile a carbone al centro del nostro soggiorno, usandolo anche per cucinare. Era tragicamente comune che le persone morissero per il fumo del carbone dovuto all’avvelenamento da monossido di carbonio. Una delle nostre vicine, ad esempio, ha messo a dormire il figlio di 4 anni in una stanza riscaldata da un forno a carbone. Nel giro di poche ore, le sue grida hanno echeggiato in tutto l’edificio: suo figlio era morto. In un altro straziante incidente, un’intera famiglia è stata trovata morta, vittime dello stesso killer silenzioso. Nonostante queste tragedie, le persone hanno continuato a bruciare carbone, il combustibile più economico disponibile, nelle loro case, disperate per stare al caldo durante i rigidi inverni.

L’istruzione era diventata estranea alle ragazze afghane. Alle donne era vietato lavorare. Quindi, le famiglie si riversavano nei paesi vicini, principalmente Iran e Pakistan, mentre quelle rimaste erano di fatto intrappolate in una città devastata dalla povertà, dalle malattie e dalla siccità.

Durante il loro primo governo, i talebani proibirono anche la televisione, la musica e tutte le forme di arti visive. Ma la mia famiglia aveva una vecchia radio Sony ICF-7601 quasi rotta, un modello degli anni ’80 del marchio giapponese che i miei genitori forse avevano comprato in un mercatino delle pulci a Kabul.

La radio era tenuta insieme al centro da una fascia di plastica per evitare che cadesse a pezzi. Mio padre la tirava fuori con cura dalla custodia di stoffa che mia madre aveva cucito per proteggerla dalla polvere, appoggiandola delicatamente sul bordo del tavolo del soggiorno per accendere il notiziario della BBC in pashto. Ascoltava a bassa voce, perché non volevamo attirare attenzioni indesiderate sulla nostra casa.

Quella radio era il nostro unico collegamento con il mondo esterno.

I miei genitori si inginocchiavano davanti alla radio verso le 20:00, ora di Kabul, quando iniziava la trasmissione. Ripensandoci, direi che era una programmazione di mezz’ora, dopo la quale i miei genitori ci davano la loro analisi degli eventi della giornata. Era il riassunto della nostra vita quotidiana. Andavamo a letto subito dopo per risparmiare l’olio nella lanterna.

 

Dopo l’11 settembre

Fu durante questo rituale notturno che la mia famiglia venne a conoscenza degli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti.

Mio padre era via, e fu mia madre a seguire la routine. Quella notte, spense la radio e ci disse: “È successo qualcosa di enorme”. Non ne comprendemmo la portata, ma era chiaro che mia madre era molto preoccupata.

Il breve riassunto di mia madre – “L’America è stata attaccata. Persone innocenti sono state uccise. Qualcosa di brutto sta per accadere” – era un duro riflesso della nostra impotenza.

Ma eravamo troppo deboli, troppo distanti, troppo impoveriti per pensare oltre. Il nome dell’Afghanistan veniva fuori man mano che le notizie si sviluppavano, ma era un sollievo che nessuno degli aggressori o dei diretti interessati fosse afghano. “Erano tutti arabi”, disse mia madre.

Tuttavia, Osama Bin Laden, l’orchestratore saudita degli attacchi dell’11 settembre, e il capo di al-Qaida si nascondevano in Afghanistan, e gli Stati Uniti chiesero ai talebani di consegnarlo. La leadership talebana rifiutò.

Ci è voluto quasi un mese per comprendere appieno le conseguenze di quel rifiuto.

Il 7 ottobre 2001, mentre gli Stati Uniti avviavano la loro campagna militare in Afghanistan, l’allora presidente George W. Bush si rivolse alla nazione . Dichiarò: “Il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America e dei nostri alleati. Mentre colpiamo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli uomini, alle donne e ai bambini affamati e sofferenti dell’Afghanistan”.

Bush ha inquadrato l’invasione come una duplice missione: combattere il terrorismo e portare la libertà al popolo afghano sotto il dominio dei talebani. La coalizione guidata dagli Stati Uniti ha invaso l’Afghanistan e ha promesso di liberarci, costruire una democrazia e stabilire un governo in nostro nome.

I soldati della coalizione entrarono a Kabul il 12 novembre 2001, durante la fase iniziale della campagna militare volta a smantellare al-Qaida e a rimuovere i talebani dal potere. Il nostro vicino, un uomo anziano che chiamavamo Baba, portò dei fiori ai soldati. Era forse la prima volta che un anziano afghano accoglieva un invasore straniero.

All’improvviso, abbiamo avuto una nuova libertà. I ​​ragazzi ballavano per le strade del nostro quartiere e le auto sparavano musica a tutto volume con i finestrini abbassati, lasciando che il suono echeggiasse nei nostri cupi dintorni. Le scuole riaprirono immediatamente e tutte le ragazze furono esortate a tornare a lezione. Anche le università ripresero.

Era come se una nuova vita fosse stata insufflata nei cuori e nelle anime delle persone. Le famiglie che erano fuggite in Pakistan e Iran iniziarono a tornare. Kabul si sentì come se una grande ondata si fosse abbattuta su di loro, trasformando ogni cosa.

Siamo stati presumibilmente salvati, con i talebani dipinti come nostri nemici e il nuovo governo afghano che l’Occidente ha presentato come i nostri salvatori.

 

Una democrazia subito finita

Sfortunatamente, la nostra democrazia è perita fin dall’inizio, quando gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno scelto i nostri aguzzini per portarci una vita migliore. La maggior parte delle figure introdotte nel nuovo governo erano le stesse persone che avevano inflitto la guerra civile al popolo afghano solo pochi anni prima.

Questi individui venivano ora presentati come nuove, raffinate alternative, ma noi li vedevamo come semplici versioni riconfezionate dei criminali di guerra e degli abusatori dei diritti umani che un tempo erano stati noti per atrocità come lo scuoiamento vivo delle persone, lo stupro e gli omicidi di massa. Ora venivano esibiti come paladini dei diritti umani. Dopo essere saliti al potere, la loro campagna di brutalità sugli indifesi è iniziata fin dall’inizio, con stupri sistematici , torture e uccisioni per vendetta nelle aree rurali.

Abbiamo riposto la nostra speranza in Hamid Karzai, un uomo con un passato nella Jihad contro l’invasione sovietica ma nessun coinvolgimento personale nella guerra civile o nella guida di milizie o nello spaccio di droga. Tuttavia, la realtà ha presto dissipato l’illusione di una tabula rasa.

Un uomo solo non poteva rendere giustizia a una nazione così profondamente segnata, gravata da potenti signori della guerra e da una comunità internazionale che interferiva pesantemente negli affari interni del paese. Karzai si lamentò, accusando gli Stati Uniti di agire come una “potenza coloniale”.

Nei due decenni successivi, migliaia di civili innocenti furono massacrati. Le cifre riportate di 70.000 morti tra militari e poliziotti afghani, insieme alle 46.319 vittime civili stimate dall’United States Institute of Peace, iniziano a illustrare l’enormità della perdita. La campagna per conquistare i cuori e le menti degli afghani fu dura. Arresti, imprigionamenti, incursioni notturne e bombardamenti furono così indiscriminati che molti abitanti dei villaggi afghani estranei ai talebani furono presi nel fuoco incrociato e alienati. Matrimoni, funerali, scuole e moschee furono bombardati.

Le statistiche ufficiali sulle vittime, sia militari che civili, sono solo un accenno alla vera portata del conflitto. Lentamente ma costantemente, l’aria a Kabul è cambiata. La città puzzava di esplosioni, gomma bruciata e sangue. Per una crudele ironia, durante il bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz da parte delle forze statunitensi, una delle 42 persone uccise era il nipote del nostro vicino Baba, l’uomo che aveva accolto i soldati stranieri con dei fiori.

Le conseguenze della guerra vanno oltre l’immediata sofferenza umana, fino a gravi danni ambientali. Ad esempio, uno studio del 2017 ha rivelato livelli allarmanti di sostanze tossiche nell’acqua afghana, tra cui arsenico, boro e fluoro, gravi inquinanti con gravi implicazioni per la salute.

Nel mezzo di questa crisi ambientale e umanitaria, vale la pena notare che Osama Bin Laden è stato infine scoperto mentre viveva in Pakistan, a breve distanza dal suo potente quartier generale militare.

 

La guerra più lunga

La campagna statunitense per diffondere la democrazia in Afghanistan si è rapidamente trasformata nella guerra più lunga del paese. Circa 2.459 militari statunitensi sono stati uccisi e 20.769 sono rimasti feriti durante il conflitto, che si è protratto dall’ottobre 2001 all’agosto 2021.

Dopo una guerra durata due decenni, il gruppo ha firmato l’Accordo di Doha con gli Stati Uniti nel febbraio 2020, un documento incentrato principalmente sul ritiro delle truppe e sull’impegno dei talebani a impedire che l’Afghanistan diventasse un rifugio per i terroristi. Ancora una volta, il popolo afghano è stato dimenticato e i talebani sono tornati al potere.

In base all’accordo, l’ultimo soldato statunitense ha lasciato l’Afghanistan il 30 agosto 2021.

I talebani affermano di proteggere l’Afghanistan dai terroristi stranieri, forse avendo imparato dalle lezioni del passato. Ma il 31 luglio 2022, il leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri, uno dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti, è stato ucciso in un attacco con drone a Kabul. Sembra improbabile che potesse vivere nella capitale dell’Afghanistan senza un certo livello di cooperazione da parte di chi detiene il potere. I talebani affermano anche di combattere la branca locale dello Stato islamico, segnalando frequentemente arresti e imboscate contro gli agenti dell’IS in tutto il paese. Ma gli attacchi terroristici transfrontalieri rimangono una delle principali preoccupazioni per i vicini dell’Afghanistan.

Sebbene l’accordo di Doha non affrontasse esplicitamente i diritti umani, in particolare i diritti delle donne, delineava il processo per i negoziati intra-afghani volti a raggiungere un accordo politico. Ma in realtà, il ritiro degli Stati Uniti ha lasciato l’Afghanistan in una posizione precaria, di nuovo sotto il controllo dei talebani, con un governo che non ha alcun riconoscimento formale dal mondo esterno. Per coloro che vivevano a Kabul nel 2001, la situazione è tristemente familiare.

Andando avanti, è fondamentale che gli Stati Uniti stiano dalla parte del popolo afghano e sostengano una soluzione negoziata, anziché riporre ancora una volta la propria fiducia in coloro che hanno ripetutamente deluso gli afghani. Non si dovrebbe più interagire con noti violatori dei diritti umani, signori della guerra e leader delle milizie come attori legittimi. Negli ultimi due decenni, queste persone hanno fatto ciò che sapevano fare meglio: abusare del potere, sottrarre denaro dei contribuenti americani destinato al popolo afghano e intaccare la legge, l’ordine e la giustizia in Afghanistan. Quando Kabul cadde, la maggior parte di loro scappò all’estero per vivere vite lussuose , lasciandosi alle spalle una popolazione affamata.

Nel corso degli anni, migliaia di afghani hanno svolto un ruolo cruciale nel supportare la missione statunitense durante la guerra al terrorismo, stando al fianco delle forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti in prima linea. Hanno rischiato la vita e innumerevoli altri hanno pagato il prezzo più alto, credendo nella promessa di un Afghanistan più stabile e sicuro. Eppure, molti afghani ora affrontano un futuro incerto, sentendosi abbandonati mentre il mondo si allontana dopo il ritiro degli Stati Uniti. Oltre 40 milioni di afghani si sentono bloccati nell’isolamento, di fronte a un futuro incerto.

Anche per altri aspetti, l’Afghanistan è tornato a essere dove si trovava 23 anni fa: alle donne vengono negate le libertà più basilari, il governo non è riconosciuto e milioni di ragazze, come me, vengono private dell’istruzione, rischiano la fame e l’isolamento. La loro ultima speranza è riposta nella comunità internazionale.

Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno causato la morte di migliaia di innocenti negli Stati Uniti. Hanno anche lasciato un segno indelebile nella storia dell’Afghanistan, rimodellando innumerevoli vite, inclusa la mia. Eppure, 23 anni dopo, milioni di afghani sono di nuovo in una situazione di stallo, presi tra incertezza e isolamento.

Ripensando alla vita che un tempo vivevo in quel piccolo appartamento al piano terra riscaldato dal carbone a Kabul, dove il mondo entrava solo attraverso i sussurri crepitanti di una radio rotta e l’acqua gocciolava debolmente da tubi sovietici dimenticati, sono colpito dall’eco crudele della storia.

La stessa paura, fame e isolamento che hanno plasmato la mia vita allora, gettano di nuovo le loro ombre sulle vite di milioni di ragazze afghane oggi. Ci siamo aggrappate alla speranza allora, proprio come fanno queste ragazze ora, ma la speranza, senza azione, è una fiamma fragile, che tremola nell’oscurità, finché non viene soffocata dalla disperazione. Il mondo, in particolare gli Stati Uniti, non deve permettere che l’Afghanistan scompaia di nuovo in quell’oscurità.