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Autore: CisdaETS

I residenti di Kunar segnalano la lentezza degli aiuti

I residenti della provincia di Kunar dicono che gli aiuti di emergenza non sono ancora arrivati a molti dei sopravvissuti al terremoto che ha colpito l’Afghanistan orientale, lasciando le famiglie senza cibo né assistenza medica

Yasin Shayan, Amu TV, 2 settembre 2025

Domenica sera un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito Kunar, uccidendo più di 1.400 persone e ferendone oltre 3.100, secondo i funzionari talebani. Almeno 5.400 case sono state distrutte. A Nangarhar, Laghman e Nuristan ci sono state meno vittime, mentre a Panjshir ci sono stati solo danni materiali.

I sopravvissuti nel distretto di Nurgal e a Mazar Dara hanno detto di non aver ricevuto né pane né assistenza sanitaria da quando il terremoto ha distrutto i villaggi domenica notte. “Non abbiamo né cibo né dottori. Nessuno ci ha dato una mano”, ha detto ad Amu una persona sopravvissuta. Un’altra ha detto che sono arrivati veicoli dei talebani e personale di alcune organizzazioni, “ma non è arrivato nemmeno un aereo con gli aiuti, anche se ci sono molti posti dove atterrare”.

I residenti locali hanno detto che le strade bloccate hanno reso impossibile il trasporto dei corpi, quindi le famiglie hanno dovuto portare i morti a seppellire a piedi. “Tutte le strade sono chiuse. Il governo non ha i mezzi per aiutare qui. Anche solo per spostare i corpi, la gente fa fatica”, ha detto un uomo.

Gli ospedali di Kunar rimangono sovraffollati. Testimoni oculari hanno descritto sepolture di massa e hanno riferito che i bambini senza casa sono stati costretti a dormire all’aperto. I sopravvissuti devono inoltre affrontare difficoltà dovute alla mancanza di medici donne, che ha lasciato molte donne ferite senza cure.

Amnesty International ha dichiarato che le restrizioni dei Talebani – tra cui il divieto per le donne di lavorare – hanno ostacolato i gruppi di aiuto. L’organizzazione per i diritti ha chiesto ai Talebani di eliminare le barriere burocratiche, assicurare l’accesso umanitario e garantire che i soccorsi siano forniti senza discriminazioni.

“I Talebani devono rispondere alle esigenze delle comunità colpite e garantire che gli sforzi di ricerca e di soccorso siano condotti senza discriminazioni”, ha dichiarato Amnesty, sollecitando misure speciali per proteggere i gruppi vulnerabili, soprattutto donne e ragazze.

Le Nazioni Unite hanno promesso 5 milioni di dollari dal loro fondo di emergenza per i sopravvissuti, ma hanno avvertito che gli attuali finanziamenti umanitari sono insufficienti. La Gran Bretagna ha impegnato oltre 1,3 milioni di dollari in aiuti, mentre l’Iran ha consegnato 80 tonnellate di farina e olio da cucina. L’inviato iraniano Alireza Bikdeli si è recato a Kunar martedì per supervisionare la distribuzione degli aiuti.

 

La carenza di medici donne aggrava la tragedia del terremoto: le politiche dei talebani lasciano le donne senza assistenza

Avizha Khorshid, 8AM Media, 2 settembre 2025

Ieri sera, le province di Kunar e Nangarhar sono state colpite da un terremoto mortale. I talebani hanno dichiarato che 800 persone hanno perso la vita e 2.500 sono rimaste ferite nell’incidente. Tuttavia, fonti locali affermano che la carenza di medico donna nei centri sanitari di queste due province ha impedito alle vittime del terremoto di ricevere cure urgenti e di accedere ai servizi sanitari di emergenza. Le fonti affermano che le donne ferite, a causa della mancanza di personale sanitario donna, sono costrette ad attendere ore o che le loro cure subiscono ritardi. Fonti locali avvertono che se non si interviene con urgenza per aumentare la capacità dei centri sanitari e la presenza di medico donna, la situazione peggiorerà.

Diverse vittime del terremoto e fonti locali, intervistate dall’Hasht-e Subh Daily, affermano che i dati sulle vittime forniti vanno oltre quanto riportato dai media. Secondo loro, donne e ragazze sono in condizioni peggiori e necessitano di assistenza medica urgente.

Zamir Sardarkhel, uno degli abitanti del distretto di Kunar, afferma che le donne e le ragazze ferite dal terremoto versano in condizioni più difficili e che, con l’aumento del numero di feriti, la carenza di personale medico si fa sentire in modo significativo. Ritiene che le statistiche fornite dai media siano errate e sottolinea che, in base alla situazione attuale, il numero di vittime e feriti è superiore a quanto riportato e che queste cifre sono in continuo aumento.

Sardarkhel afferma: “La maggior parte delle vittime e dei feriti sono donne e bambini, e gli ospedali stanno affrontando una grave carenza di personale femminile. Inoltre, il numero attuale non soddisfa i bisogni”. E continua: “Chiediamo alle organizzazioni umanitarie di intervenire il prima possibile, perché le vittime vivono nelle peggiori condizioni e hanno urgente bisogno di cibo, medicine, cure e riparo. Le statistiche di morti e feriti aumentano di momento in momento”.

Inoltre, un’altra fonte che ha chiesto l’anonimato nel rapporto afferma: “Un gran numero di donne e bambini colpiti dal terremoto sono stati trasferiti nei centri sanitari nei distretti di Kunar e Nangarhar; ma sfortunatamente, la carenza di medico donna ha causato seri problemi nell’assistenza a questo gruppo vulnerabile“. Avverte che se non vengono prese misure urgenti per aumentare la capacità dei centri sanitari e la presenza di medico donna, la situazione potrebbe peggiorare.

Questa fonte aggiunge: “Questa è una società afghana in cui un uomo non può toccare o curare una donna. Molte donne sono state costrette ad aspettare ore per ricevere assistenza medica e, in alcuni casi, l’assistenza è stata ritardata a causa dell’assenza di medico donna. Questo problema fa aumentare il numero di vittime e molte donne perdono la vita”.

In precedenza, il Ministero della Salute Pubblica dei Talebani aveva anche confermato che alcune province orientali del Paese stavano affrontando una carenza di medico donna. Le vittime del mortale terremoto di Kunar lamentano la carenza di medico e personale sanitario, mentre i Talebani hanno chiuso le università, in particolare gli istituti di formazione medica, a ragazze e donne in Afghanistan negli ultimi quattro anni, compresi i corsi di ostetricia, infermieristica e tecnologia medica.

Le donne e le ragazze vittime del mortale terremoto di Kunar e Nangarhar soffrono per la carenza di medico e personale sanitario donna e lottano contro la morte, mentre Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, nelle sue ultime dichiarazioni ha definito la questione dell’istruzione femminile “minore”; questa decisione ha messo a rischio di morte e distruzione la vita di centinaia di donne e ragazze.

In precedenza, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) aveva lanciato l’allarme: la carenza di personale sanitario qualificato e la mancanza di strutture sanitarie mettono a serio rischio la vita di un gran numero di cittadine.

Iran, il grande esodo dei rifugiati afghani

L’Iran espelle milioni di rifugiati verso un Paese in ginocchio, senza risorse e aiuti. Intersos: arrivano in un Paese che non conoscono più, un trauma anche culturale

Francesca Mannocchi, La Stampa, 1 settembre 2025

A.R. è il primo a scendere dal camioncino che ha trasportato la sua famiglia da Islam Qala, sul confine tra Afghanistan e Iran, a Herat. È il primo a scendere e il più anziano, viaggia con la moglie, tre dei suoi quattro figli e i nipoti. Uno dei figli è rimasto in un centro medico di confine con la moglie che stava per partorire e non avrebbe potuto affrontare altre ore di viaggio. Si erano tutti trasferiti in Iran quattro anni fa, dopo la caduta di Kabul. Hanno cercato un lavoro, un alloggio, e ricominciato una vita lontani da casa. Una vita da esuli.

Una vita faticosa e piena di restrizioni, ma tollerabile. Almeno fino a giugno, quando è scoppiata la guerra tra Israele e Iran. Da allora, dice A.R., i pericoli e i divieti, la paura e gli abusi, sono diventati intollerabili. Non potevano camminare liberamente, non riuscivano a trovare un pezzo di pane per i bambini. Non riuscivano a trovare un ospedale dove far partorire le donne.

Un giorno degli uomini hanno bussato alla sua porta, lo hanno bendato e portato in una caserma, non saprebbe dire dove né se la base militare fosse ufficiale o meno, quello che sa è che le persone che lo hanno prelevato lo hanno accusato di essere una spia del Mossad, i servizi segreti israeliani, e che gli hanno detto di pagare o andare via, perché per gli afgani nel Paese non c’era più posto. Lui ha negato, dopo tre giorni è riuscito a tornare dalla sua famiglia e ha detto loro che era arrivato il momento di tornare in Afghanistan.

E così hanno lasciato tutto e sono partiti di nuovo, percorrendo la strada in direzione inversa a quattro anni fa. A.R. sa che la sua famiglia in Afghanistan non ha futuro. Se ne avessero avuto uno, dice, quattro anni fa non sarebbero fuggiti.

Oggi hanno un terreno a Laghman ma non hanno una casa, hanno braccia per lavorare ma non hanno lavoro, hanno bocche da sfamare ma non hanno cibo.

Due milioni di ritorno dall’Iran

Al valico di frontiera di Islam Qala oggi arrivano dalle cinque alle seimila persone al giorno, a giugno ne arrivavano anche trentamila. Le organizzazioni umanitarie stimano che con le nuove limitazioni e le nuove scadenze imposte dall’Iran, nei prossimi mesi altre cinquecentomila persone potrebbero riversarsi qui. La sabbia e la polvere coprono tutto, le persone e i carretti che trascinano. Arrivano donne, uomini, bambini, in uno spazio troppo affollato per le esigenze sanitarie a cui deve far fronte. Gli operatori umanitari di Intersos dicono che i sistemi sanitari locali non sono attrezzati per gestire situazione e che è necessario un intervento strutturale per far fronte alla crisi dei fondi per gli aiuti destinati all’Afghanistan.

Il governo talebano de facto, riconosciuto solo dalla Russia come governo legittimo dell’Afghanistan, è alle prese con il collasso economico e una crisi umanitaria aggravata dalle sanzioni occidentali e dai tagli draconiani agli aiuti decisi dall’amministrazione Trump a febbraio di quest’anno.

«Assistiamo a una vera e propria emergenza, con milioni di persone che arrivano bisognose di cure sanitarie, sia fisiche che psicologiche, e di supporto economico per poter accedere a beni essenziali come cibo, acqua e alloggio – dice una operatrice umanitaria di Intersos – Molti di loro tornano in un Paese che non conoscono e oltre all’impatto della fuga e degli sfollamenti devono far fronte a uno choc culturale. È fondamentale intervenire tempestivamente, offrendo anche supporto per il recupero della documentazione e per l’accesso a servizi vitali».

Secondo i dati delle Nazioni Unite, quasi due milioni di afgani sono scappati o sono stati deportati dall’Iran da gennaio, dopo la stretta del governo sui rifugiati ritenuti irregolari. Mezzo milione di persone ha attraversato il confine soltanto a giugno, in concomitanza con la guerra tra Israele e Iran. Numeri giganteschi, che rendono quella in corso al confine di Islam-Qala una delle peggiori crisi di sfollati dell’ultimo decennio.

La presenza di afgani in Iran è antica, per quarant’anni il Paese ha offerto riparo a milioni di persone che scappavano dalle continue guerre e dalla povertà, tanto che la diaspora afgana ha raggiunto numeri impressionanti. Secondo le istituzioni iraniane, il Paese ospita dai 4 ai 6 milioni di persone, la stragrande maggioranza dei quali proviene dall’Afghanistan. Numeri che rendono l’Iran il paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo.

Dopo l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, l’Iran aveva accolto milioni di afghani, concedendo loro lo status di rifugiato e dando quindi l’accesso ai servizi.

Ma dagli anni Novanta le politiche sono cambiate e la solidarietà si è trasformata in contenimento. Le frontiere che erano aperte sono state chiuse e i servizi limitati.

Limitati i luoghi in cui potevano vivere (10 province su 31) e anche i lavori che potevano fare, solo quelli pesanti e poco qualificati, gli afgani da decenni hanno difficoltà a acquistare una tessera telefonica o ottenere documenti per regolarizzare la loro posizione nel Paese, il che rende quasi impossibile l’accesso all’istruzione o all’assistenza sanitaria.

Già a marzo il governo di Teheran aveva annunciato una stretta sui rifugiati, fissando per l’estate la scadenza per le “partenze volontarie”, ma dopo la guerra di giugno la repressione si è rafforzata, sono aumentati i posti di blocco, gli arresti, le espulsioni.

L’Iran si giustifica sostenendo che le nuove politiche siano una risposta alla crisi economica, acuita dalla guerra, e siccome nell’effetto domino delle crisi c’è sempre qualcuno a cui va attribuita la colpa, il capro espiatorio in questo caso sono stati i rifugiati afgani, accusati di approfittare degli aiuti, rubare il lavoro e in ogni caso non più benvenuti. Nelle due settimane successive al conflitto con Israele, sono state circa 700 le persone arrestate perché accusate di essere spie e sabotatori al soldo di Tel Aviv, proprio come A.R.

Oggi tornano in un Paese piegato dalla crisi economica, in cui non c’è lavoro, non ci sono case per tutti, non c’è assistenza sanitaria, in cui metà dei quaranta milioni di abitanti ha bisogno di sostegno economico e aiuti umanitari per sopravvivere. Un Paese uscito dai radar dell’attenzione globale e in cui gli appelli delle organizzazioni umanitarie per gli aiuti sono largamente sottofinanziati: quest’anno solo un quinto delle necessità umanitarie è stato finanziato.

Il transito verso un futuro incerto

S.R. ha 27 anni, è appena arrivato al centro di transito di Herat con sua moglie e il loro bambino. Ha 14 giorni. Quando hanno ricevuto il foglio di espulsione S.R. ha chiesto di poter aspettare che sua moglie partorisse, che passasse almeno un po’ di tempo dopo la nascita del bambino. Ma le istituzioni iraniane non ne hanno voluto sapere, così una settimana dopo la nascita di suo figlio i tre si sono messi in viaggio da Teheran, e sono arrivati prima al confine e poi a Herat.

Erano andati via non tanto per il ritorno dei talebani al potere, ma perché non avevano da mangiare, non avevano niente.

S.R. dice che era scappato perché troppe sere andava a dormire senza aver messo in bocca nemmeno un pezzo di pane, e che oggi tornano, non hanno cibo, ma hanno una bocca in più. Dice così «non ci interessano le regole che dovremo seguire, abbiamo tre stomaci vuoti e non abbiamo pane».

Quando arrivano al punto di transito, a Herat, i volti sono diversi, il viaggio dal confine a Herat ha reso tutti più consapevoli, tutti più preoccupati.

Passata la furia dell’attraversamento, le ore sotto i tendoni, le file per i primi documenti, il successivo punto di approdo è un centro di smistamento a Herat. La struttura può ospitare solo 700 persone al giorno, sono divise in tende, spazi per famiglie, o stanze con letti di ferro. Salvo casi eccezionali, gli afgani che arrivano qui possono restare una notte, il tempo di riposare, ricaricare i telefoni, ricevere una piccola somma di denaro che possa garantire loro lo spostamento dal centro e un eventuale ritorno nelle zone d’origine. Il resto è una storia che comincia da zero una volta varcata la soglia del cancello. Una volta tornati, molti si ritrovano in province prive anche dei servizi più basilari, costringendo migliaia di persone a trasferirsi in tendopoli improvvisate o insediamenti informali. Molti arrivano senza più documenti d’identità, rendendo ancora più difficile l’accesso agli aiuti.

È dopo che i rifugiati hanno varcato la soglia del centro di transito che si sente di più la carenza di assistenza, lì che serve più aiuto, è che Intersos, supportata dai finanziamenti dell’Unione Europea, opera con le cliniche mobili fornendo assistenza sanitaria, sia per la malnutrizione che per le donne incinte, sia come supporto per la protezione umanitaria che per quello psicologico.

Molte delle bambine e giovani donne che arrivano al valico di frontiera non hanno mai messo piede in Afghanistan, figlie di rifugiati delle guerre di decenni fa, nate in Iran, oggi tornano in un Paese che non conoscono, e che non hanno mai visto.

Indossano scarpe da ginnastica, i jeans stretti, le camicie alla moda.

Le bambine hanno ciocche di capelli colorate, i brillantini sulle magliette, le madri insegnano loro a indossare l’hijab, le bambine ridono, scherzano, ballano trascinando i veli, ancora inconsapevoli delle regole che dovranno rispettare.

A.R. è originario di Mazar-i-Sharif, ha lasciato l’Afghanistan con i suoi genitori quando era bambino. Prima Mashdad, poi Teheran. Ha iniziato a studiare lì, poi ha lasciato la scuola perché i suoi genitori avevano bisogno che lavorasse e ha cominciato a lavorare come carpentiere.

A Teharan ha conosciuto sua moglie S., anche la sua famiglia è di origine afgana ma lei del Paese non ha praticamente ricordi. S. ha una lunga treccia che le cade sulla spalla, e che il velo copre a malapena, una camicia chiara le copre il ventre e le gambe su cui è seduto il loro bambino di un anno e mezzo. In Iran aveva molta libertà, camminava da sola, lavorava come sarta per aiutare A.R. a pagare l’affitto della stanza in cui vivevano.

Oggi ad attenderla ci sono le regole dell’Emirato Islamico. Non potrà più passeggiare sola, né lavorare. A.R. dice che nessuno dei due aveva scelta, e che questo rientro rappresenta la fine della vita, sia per lui che per sua moglie, che è pronto a rinunciare al suo futuro, perché non aveva alternative, ma che non può rassegnarsi al fatto che i suoi figli non lo abbiano i suoi figli.

Afghanistan, oltre 1.400 le vittime del terremoto: portiamo a valle i corpi a spalla

Questa è una testimonianza di attivisti accorsi nell’area colpita. «I massi caduti bloccano le vie di accesso. È difficilissimo portare aiuto, mancano cibo e tende: aiutateci». Anche le associazioni di donne afghane che il CISDA sostiene si stanno mobilitando per portare aiuto e ci hanno richiesto un sostegno economico, cui abbiamo già cominciato a rispondere

Francesca Ghirardelli, Avvenire, 2 settembre 2025

Uno dei peggiori terremoti che la storia recente dell’Afghanistan ricordi: almeno 1.411 vittime, 8mila feriti. Vastissime aree dell’est del Paese sono isolate e difficilissime da raggiungere a causa del montagne e del tempo inclemente. Il governo dell’Emirato islamico ha fatto appello agli aiuti internazionali.

«Finora abbiamo trasportato una trentina di corpi, diciannove erano di bambini», ha raccontato oggi pomeriggio ad Avvenire Matiullah Shahab, attivista afghano per i diritti umani. Insieme a un gruppo di amici è partito all’alba ed è arrivato attorno alle 7 del mattino nella lunga valle di Devagal, provincia di Kunar, a nord est di Jalalabad. È lì che questo nuovo terremoto ha colpito con maggiore violenza l’Afghanistan. Per tutta la giornata hanno portato a spalla i feriti e i morti, camminando per tre ore lungo quello che resta della strada a picco sulle pendici della valle, tra blocchi di pietra dei costoni franati e distese di sassi impossibili da superare in auto. In un video che mostra online, si vedono gruppi di quattro o cinque soccorritori a sorreggere ciascun khat, le brandine di legno usate di solito per dormire, adesso caricate dei cadaveri coperti da teli e lenzuoli.

Procedono incerte, dondolando sul ciglio della scarpata. «Sentiamo ancora le scosse, le montagne tremano», ha aggiunto l’attivista, fra un messaggio e l’altro via Whatsapp, quando la connessione è buona. Con difficoltà è riuscito a raggiungere il villaggio di Andarlachak Tangi, nel distretto di Sawki. «Almeno duecento persone sono morte qui. Grandi massi sono caduti sulle strade. Le montagne sono venute giù, i detriti sono caduti sulle vie d’accesso. È difficile fare arrivare gli aiuti». Le tre auto del suo gruppo sono bloccate a valle. A piedi portano giù i corpi, li caricano a bordo, poi fanno la spola verso l’ospedale più vicino, quello di Asadabad, capoluogo della provincia di Kunar, ventisei chilometri più in là. «Le squadre di soccorso sono arrivate nella zona. Ci sono i medici della Mezzaluna Rossa afghana (Arcs)», conferma l’attivista. «Poi qui c’è il personale di Ong nazionali come la Afghan Paramount Welfare & Development Organization (Apwdo) e la Afghan Youth Services Organization (Ayso). Sul posto, ho visto anche auto delle Nazioni Unite». Nel corso della giornata diverse organizzazioni e in particolare ospedali privati hanno fornito assistenza medica direttamente sul posto, come HealthNet e il Rokhan Hospital. «Molte abitazioni sono distrutte, ora non possiamo accedervi per cercare superstiti, è troppo pericoloso».

Invia però foto di case sventrate e muri crollati. Oltre al trasferimento dei cadaveri, lui e il suo gruppo di sei amici e volontari hanno cercato di prestare soccorso ai feriti distribuendo acqua e bevande fresche. «La popolazione qui è affamata e in cattive condizioni». Chiediamo se le autorità locali dei taleban si stiano dimostrando in grado di gestire l’emergenza e di coordinare gli aiuti. «No, non sembra affatto, ma ci stanno provando», risponde. L’altra notte, quando il sisma è cominciato, l’attivista si trovava a casa sua.

«Abito qui nella provincia di Kunar. Stavo dormendo. È la prima volta in vita mia che assisto a un terremoto così intenso. Ho due figli, si sono spaventati, sono rimasti scioccati. Malgrado sia stata una scossa molto forte, però, la nostra casa è salva. Anche il nostro quartiere è ancora in piedi». In serata, quando fa buio, Matiullah Shahab torna dalla sua famiglia. Chi resta nelle aree terremotate, passa la notte all’aperto. «Le tende lassù non sono ancora disponibili», conclude.

 

Un forte terremoto ha colpito l’Afghanistan orientale: oltre 800 morti

Il devastante terremoto dell’1 settembre 2025 ha colpito più gravemente nelle province di Kunar e Nangarhar, dove i centri sanitari sono alle prese con una grave carenza di medico donna che mette a rischio la salute di donne e bambini che sono la maggior parte delle vittime, riferisce  8AM Media. I residenti hanno lanciato un appello urgente ai talebani affinché consentano alle dottoresse di recarsi nelle zone colpite per fornire cure salvavita, evidenziando l’urgente necessità di un supporto medico specifico per genere

Haq Nawaz Khan, Rick NoackE Grace Moon, The Washington Post,  1 settembre 2025

Almeno 812 persone sono morte e più di 2.800 sono rimaste ferite dopo che un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito l’Afghanistan orientale, ha dichiarato lunedì il governo guidato dai talebani, citando dati preliminari.

Secondo l’US Geological Survey, il terremoto ha colpito domenica notte a circa 27 chilometri dalla città orientale di Jalalabad. Danni e vittime sono stati segnalati nella provincia di Nangahar, che comprende Jalalabad, così come nelle vicine province di Konar e Laghman; il sisma è stato avvertito in tutta la regione, compresi il vicino Pakistan e Kabul, la capitale afghana.

“Sono in corso le operazioni di soccorso e di salvataggio”, ha affermato Abdul Ghani Musamim, portavoce del governatore della provincia orientale di Konar, dove sembra essersi verificata la maggior parte delle perdite.

Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali non hanno pubblicato immediatamente stime sul numero di vittime e sull’entità dei danni. Durante i passati disastri naturali in Afghanistan, le cifre fornite dal governo talebano erano talvolta significativamente superiori a quelle finali fornite dalle Nazioni Unite.

Lunedì, le autorità afghane hanno trasportato i sopravvissuti feriti all’aeroporto di Jalalabad, dove sono stati trasferiti negli ospedali regionali. Le autorità di Kabul hanno dichiarato che il governo ha dispiegato tutti gli operatori della protezione civile, il personale medico e militare disponibili nella zona colpita dal terremoto.

Interi villaggi distrutti

I testimoni hanno descritto interi villaggi distrutti dal terremoto di domenica.

Sharifullah Sharafat, residente nel distretto di Chawkay, nella provincia di Konar, ha dichiarato di essere sopravvissuto per un pelo al terremoto di domenica. “Molte case del nostro villaggio sono crollate”, ha dichiarato Sharafat in un’intervista telefonica.

“Non ci sono parole per descrivere le urla che abbiamo sentito”, ha detto, aggiungendo che molte vittime nel villaggio non sono ancora state recuperate. La mancanza di elettricità e le frane causate dal terremoto hanno rallentato le operazioni di soccorso, ha aggiunto.

Mawlawi Sanaullah, residente di Konar, ha trovato la sua casa crollata e molti familiari sepolti sotto le macerie. “Mio figlio non c’è più”, ha detto Sanaullah, trattenendo le lacrime, in un’intervista alla televisione statale RTA.

Lunedì mattina le autorità hanno dichiarato che stanno ancora lavorando per stabilire un contatto con alcuni dei villaggi che si teme siano stati colpiti.

L’Afghanistan è stato spesso colpito da terremoti mortali, compresi quelli del 2022 e del 2023. Più di 1.000 persone sono morte in ciascuno di questi disastri. “Quest’ultimo terremoto rischia di eclissare l’entità dei bisogni umanitari causati dai terremoti di Herat del 2023 “, ha dichiarato Sherine Ibrahim, direttrice per l’Afghanistan dell’International Rescue Committee.

Negli ultimi 12 mesi, mentre i donatori internazionali tagliavano i budget per gli aiuti, gli operatori umanitari avevano lanciato l’allarme sul peggioramento della crisi sanitaria in Afghanistan. Il colpo più duro è stato il taglio di quasi tutti i progetti umanitari ed economici finanziati dagli Stati Uniti all’inizio di quest’anno , che rappresentavano oltre il 40% di tutti gli aiuti esteri.

“Questo terremoto colpisce un Paese che sta già affrontando la mancanza di sostegno globale per una grave crisi umanitaria”, ha dichiarato Graham Davison, direttore per l’Afghanistan dell’organizzazione umanitaria CARE, in una nota. “Quasi metà della popolazione afghana – 23 milioni di persone – dipende già dagli aiuti umanitari, eppure il Piano di risposta umanitaria è finanziato solo per il 28%”.

Il governo guidato dai talebani sta lottando per rifornire cliniche e ospedali, e il Programma alimentare mondiale ha dichiarato di poter sostenere solo 1 milione dei 10 milioni di afghani che hanno urgente bisogno di assistenza alimentare.

L’Afghanistan e il problema dei matrimoni precoci

laredazione.netSilvia Cegalin 28 Agosto 2025

Mariam, attivista di Rawa, ha raccontato alla Redazione come i talebani usino la religione come arma contro il popolo e le donne.

Il 27 Giugno 2025 nella provincia di Helmand un uomo di 45 anni ha sposato una bambina di 6 anni come sua terza moglie, comunica il sito informativo di Rawa citando fonti locali di Helmand. Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo più anziano “in cambio di denaro”.

Una storia che si tinge di contorni ancora più oscuri, quando si viene a scoprire che i funzionari talebani locali per salvaguardare la loro “immagine” di moderazione hanno consigliato all’uomo di attendere che la bambina compisse l’età di 9 anni prima di portarla a casa sua e poter avere così rapporti intimi.

All’incirca un mese prima, domenica 4 Maggio, nel distretto di Taywara, nella provincia di Ghor, informa sempre Rawa citando Rukhshana Media: una giovane donna è morta dopo essersi data fuoco per sfuggire a un probabile matrimonio forzato. Quel giorno, Abida (questo il nome della donna) doveva essere presumibilmente prelevata dal comandante Haji Mohammad Rahmani e condotta al villaggio di Darzab Nili a Taywara dal fratello del comandante, Mohammad Azim. Le fonti comunicano che all’arrivo in città, Mohammad Rahmani ha rivendicato che Abida era stata promessa sposa a suo fratello quando aveva due anni, mentre il padre e il fratello di Abida hanno negato che ciò fosse vero e sono stati arrestati. Abida si sarebbe data fuoco all’interno della casa mentre alcune delle forze del comandante erano all’esterno. Nessuna indagine ufficiale è stata avviata, e sia il comandante che suo fratello non sono stati interrogati e nemmeno trattenuti.

Matrimoni precoci: la religione usata come arma contro il popolo

«L’Afghanistan è una società fortemente feudale e dominata dagli uomini e in cui le donne, che vivono in una condizione di segregazione e sofferenza, sono costrette a subire continue e orribili violazioni dei propri diritti. Una di queste forme è il matrimonio infantile. In Afghanistan questa pratica da quando i talebani hanno preso il potere nel 2021 è aumentata ed è stata resa legale».

Sono queste le prime cose che mi dice Mariam, un’attivista di Rawa – Revolutionary Association of the Women of Afghanistan* con cui riesco a parlare grazie a un incontro video organizzato in Agosto da CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane (in particolare da Graziella Mascheroni e Gabriella Gagliardo), e a cui chiedo di raccontarmi la vicenda della bimba di 6 anni data in sposa a un 45enne e in più generale del fenomeno delle spose bambine.

«L’unica legge in vigore nel paese è la sharìa, interpretata dai talebani nella sua forma più rigida. Da quando i talebani sono tornati al potere alle bambine al di sopra dei 12 anni è stato vietato studiare, molte famiglie inoltre stanno affrontando gravi pressioni finanziarie a causa della crisi economica. A causa di queste problematiche in alcuni casi le famiglie non trovano altra soluzione se non quella di dare le loro figlie in sposa in età molto giovane. Questa pratica era più comune nei villaggi dell’Afghanistan, nelle zone rurali. Ma dalla chiusura delle scuole, dai cambiamenti nella vita degli afghani negli ultimi 4 anni, purtroppo questo fenomeno si è diffuso anche nelle grandi città come Kabul.

Nella nostra società le donne non sono protette, soprattutto in giovane età. Le ragazze adolescenti sono viste come un peso per la famiglia. Attualmente l’unico dovere che purtroppo la società odierna attribuisce e consente alle donne è quella di sposarsi il prima possibile, di avere figli e di mandare avanti la famiglia; per questo in molte famiglie credono che il matrimonio sia una sorta di protezione per le donne. Si pensa che sposarsi il prima possibile serva a scongiurare una vita in povertà e a evitare che le giovani siano rapite dai talebani. In molti casi, negli ultimi 4 anni, infatti le famiglie hanno subito pressioni da parte dei talebani e dei loro comandanti: quest’ultimi pretendono che le famiglie concedano loro le figlie nubili, e spesso le rapiscono usando la forza delle armi. I talebani cercano ragazze nubili per sposarle come seconde, terze o persino quarte mogli.

E poi, come ti ho accennato all’inizio, la grave crisi economica porta le famiglie a fare scelte drastiche, come può essere il caso di quella bambina di 6 anni data in sposa a un 45enne probabilmente a causa di un accordo economico. Ad esempio se una famiglia è indebitata con un’altra famiglia e non può fornire denaro, una soluzione per estinguere il debito è cedere una parte dei propri beni, il che può significare anche dare la propria figlia. E sfortunatamente, anche questo caso della bimba di 6 anni era tale che, considerando tutti i fatti che ho menzionato, la famiglia è stata costretta a cedere la loro bambina molto piccola».

Come ho scritto nell’introduzione questa terribile storia si tinge di contorni ancora più oscuri, quando si scopre che i funzionari talebani locali per salvaguardare la loro “immagine” di moderazione hanno consigliato all’uomo di attendere che la bambina compisse l’età di 9 anni prima di portarla a casa sua e poter avere così rapporti intimi.

Aisha (Āʾisha), figlia di Abu Bakr – primo califfo dell’Islam, è stata la terza moglie del profeta Maometto. Secondo molteplici fonti, tra cui la Sunnah e, una delle sei maggiori raccolte di Hadīth della tradizione orale sunnita, la Sahih Bukhari (volume 5, libro 58, numero 234.), Aisha è stata data in sposa a Maometto all’età di sei anni, mentre il matrimonio si sarebbe consumato con il compimento dei 9 anni.

«La religione viene usata come arma contro il nostro popolo» riferisce Mariam. «La mancanza di istruzione e il divieto alle ragazze di studiare gioca un ruolo importante nel radicare saldamente la religione nella nostra vita quotidiana, nelle nostre culture, nelle nostre tradizioni e in tutti gli altri aspetti della nostra vita. Quindi, solo con l’affermazione di un sistema laico, le pesanti ombre della religione che oscurano la nostra vita quotidiana saranno cacciate. Noi di Rawa rispettiamo le convinzioni religiose di qualsiasi individuo, ma riteniamo sia un errore farne una questione di opinione politica e strumento legislativo che influisca sulle scelte personali, ugualmente siamo anche contrari ad ogni discriminazione religiosa».

«Il matrimonio infantile, in particolare il matrimonio forzato di ragazze con uomini molto più anziani o di mezza età, rimane una delle forme più pervasive e culturalmente radicate di violenza di genere in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei talebani questa pratica è aumentata drammaticamente, alimentata dalle politiche ultra-patriarcali del regime, dal crollo delle protezioni legali e dalla crescente disperazione economica affrontata dalle famiglie. La normalizzazione di tali unioni coercitive con il pretesto della tradizione non solo spoglia le ragazze della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il dominio dei talebani» si legge in un articolo pubblicato su Rawa News.

A causa della forte censura presente nel Paese è difficilissimo ottenere dati attendibili su questo fenomeno. Va comunque ricordato che nei matrimoni precoci influisce, come riferito da Mariam, significativamente la situazione economica della famiglia.

Nel rapporto pubblicato l’’11 Giugno 2025, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, ha fatto luce sulla drammatica situazione del Paese, con particolare attenzione all’accesso alla giustizia e alla protezione delle donne e delle ragazze sotto il regime talebano. Come ampiamente riferito dal Relatore Speciale, i talebani hanno intenzionalmente e gravemente privato donne e ragazze dei loro diritti fondamentali, configurando un crimine contro l’umanità di persecuzione basata sul genere, condizione che può essere definita come apartheid di genere.

Quando in una scuola segreta si è salvata una ragazza da un matrimonio forzato

Una funzione essenziale la svolgono le scuole segrete. Da quando in Afghanistan sono ritornati al potere i talebani le bambine al di sopra dei 12 anni, dunque dal 7° grado scolastico, non possono più studiare.

Per questo Rawa, con il sostegno di Cisda e di altre organizzazioni presenti sul territorio, per poter offrire sostegno e istruzione alle ragazze hanno in questi anni organizzato piccoli gruppi di ragazze che si ritrovano a casa di insegnanti per studiare. Per evitare di essere scoperte queste alunne portano con sé dei libri religiosi, così se i talebani entrano nelle case, le bambine mostrano quelli spiegando che si sono riunite per pregare e studiare il Corano.

«Il nostro maggior problema è la sicurezza» asserisce Mariam.

«Purtroppo non possiamo formare classi numerose. Non possiamo costruire centri per le donne, ma soprattutto non possiamo gestire progetti nei territori in cui i talebani sono molto forti, ovvero nelle piccole province rurali. Nelle grandi città invece, potendo offrire maggiori misure di sicurezza, si svolgono gran parte dei nostri corsi clandestini tenuti a domicilio. Questi corsi (che durano 2/3 ore e 5 volte a settimana) si svolgono all’interno delle case degli insegnanti, ovviamente insegnanti che conosciamo o riteniamo siano affidabili, e loro si dimostrano sempre molto creativi nell’ampliare le loro reti senza trasformare la loro casa in una scuola ufficiale. Il numero medio è molto basso. In alcune zone sono anche 50-60 le persone che richiedono di poter frequentare le scuole segrete, ma purtroppo per motivi di sicurezza non possiamo permetterglielo. Quindi dobbiamo creare più classi in diverse regioni e non possiamo nemmeno scegliere 2 o 3 case troppo vicine, perché se succede qualcosa a una casa degli insegnanti o ad una delle nostre classi segrete, questo potrebbe influire e compromettere la segretezza delle altre. Quindi dobbiamo stare attente a mantenere la distanza tra le nostre classi e ad avere una sorta di copertura, come ad esempio lettura e studio del Corano, ma anche corsi di sartoria che sono permessi dai talebani».

Le scuole segrete svolgono anche funzione di supporto per queste giovani donne che si trovano, come le loro madri, costrette all’isolamento e alla segregazione. È proprio Mariam che racconta due episodi con esito positivo avvenute nelle scuole segrete.

«A Kabul una delle ragazze che frequentava uno dei nostri corsi clandestini ad un certo punto ha smesso di venire. Quando le compagne non l’hanno più vista hanno provato a capire il motivo della sua assenza. Una volta scoperto che era il fratello a non permetterle di partecipare ai corsi, un folto gruppo di 10-12 compagne di classe si è unito per convincere il fratello. E sai qual è stato il risultato? Ci riuscirono. Gli studenti ottennero così il consenso dei membri maschi della famiglia della ragazza con l’accordo di prelevarla ed accompagnarla a casa prima e dopo le lezioni in modo che non fosse mai sola. L’azione di questa piccola classe ha permesso ad una ragazza di continuare a studiare e a rimanere in contatto con le coetanee, evitando così l’isolamento; è inoltre un segnale che le nostre classi oltre che istruire creano tra le bambine un legame, legame che anche nelle difficoltà le permette di restare unite, oltre renderle più forti e coraggiose. La politica di Rawa non è solo quella di fornire lezioni di matematica e alfabetizzazione, ma anche di dare alle ragazze l’opportunità di essere ascoltate. Parlare con loro di cosa soffrono, che tipo di discriminazione subiscono all’interno della loro famiglia…»

Un altro caso riguarda come la frequentazione di una scuola segreta abbia impedito un matrimonio precoce.

«Una delle nostre studentesse di Jalalabad doveva sposarsi in giovane età, lei era contraria e voleva continuare a venire alle lezioni organizzate da Rawa. Così l’insegnante è andata a parlare con i membri maschi della famiglia e ha riferito che la ragazza non era pronta per questa proposta di matrimonio. Fortunatamente la famiglia ha accettato. All’interno dei nostri corsi e scuole segrete abbiamo molti di questi piccoli esempi di successi e di miglioramento della vita delle donne, e ciò ci dà molto coraggio per proseguire con le nostre attività.

Perché per quanto la notte possa essere buia, l’alba arriva sempre».

*Organizzazione sociopolitica indipendente che dal 1977 si occupa della tutela dei diritti delle donne afghane. Meena Keshwar Kamal, la sua fondatrice, fu uccisa nel febbraio del 1987 da agenti del Khad (il braccio afgano del Kgb) durante l’occupazione sovietica, tuttavia la sua lotta per le donne si è cristallizzata e continua tutt’ora tra le donne afghane, sebbene con modalità diverse.

 

 

EZIDI: UN POPOLO IN LOTTA

labottegadelbarbieri.org  Redazione 28 agosto 2025

Un libro prezioso anche per sostenere l’ospedale di DULHA, nel distretto di Shengal.

«EZIDI – Storia e cultura di un popolo in lotta contro il suo genocidio» è pensato e scritto da Carla Gagliardini, dirigente dell’ANPI di Alessandria e attivista dell’Associazione «Verso il Kurdistan», impegnata da anni in progetti di cooperazione con la società civile nel distretto di Shengal, dove vive la popolazione ezida che tante volte abbiamo incontrato.

Il libro racconta la storia e la cultura di questo popolo che oggi prova a rialzarsi dall’ultimo tentativo di genocidio – il 74° ferman – che ha subìto nel 2014 per mano dello Stato Islamico.

Ci parla della società ezida del distretto di Shengal (Sinjar, in arabo),regione situata nel governatorato di Ninive, nell’Iraq nord occidentale, al confine con la Siria e ad un passo dalla Turchia. Tratta in modo specifico di quella parte del popolo ezida che ha dato vita all’Amministrazione Autonoma di Shengal, forma di autogoverno basata sui princìpi del confederalismo democratico, di cui il leader kurdo, Abdullah Ocalan, è l’ispiratore.

La domanda di fondo che accompagna le 244 pagine del libro è se l’onda del genocidio – che ha colpito la comunità ezida innescata il 3 agosto 2014 dall’aggressione dello Stato Islamico al distretto – si sia esaurita alla fine del 2017 con la caduta dell’Isis in Iraq, oppure prosegua attraverso altri attori regionali e per altre vie. Il popolo ezida continua ad essere al centro di interessi geostrategici che ancora oggi ne minacciano l’esistenza?

E’ importante – come l’Autonomia ci ha ripetutamente chiesto – che i parlamenti e i governi d’Europa e del mondo, a partire da quelli italiani, riconoscano il genocidio ezida come già fatto dall’ONU, dalla Comunità europea, dai parlamenti di Germania, Paesi Bassi, Belgio, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Portogallo, Irlanda, Armenia, Francia, Australia, Governo regionale del Kurdistan iracheno, Scozia perché questo rappresenterebbe un’assunzione di responsabilità verso una comunità che, se lasciata sola, corre rischi gravissimi per la sua sopravvivenza.

Tutti i proventi derivanti dalla vendita di questo libro saranno destinati a finanziare il progetto dell’associazione «Verso il Kurdistan» finalizzato alla costruzione dell’ospedale di DULHA, nel distretto di Shengal.

Per l’acquisto del libro – costo di copertina euro 18.00 senza spese aggiuntive di spedizione -si prega di contattare l’Associazione ai seguenti numeri telefonici e all’email versoilkurdistan@gmail.com

Ecco il nostro IBAN per il versamento in conto corrente:

IT17 Q030 6909 6061 0000 0111 185

intestato ad Associazione Verso il Kurdistan Odv

causale: libro Ezidi

Invitiamo a contattarci per la presentazione del libro …ovunque ci sarà richiesto.

Associazione «Verso il Kurdistan» – Alessandria

 

Cancellazione delle materie universitarie in Afghanistan: continua la repressione ideologica

amu.tv  Mohammad Salim Mateen*  27 agosto 2025

Nel 2023, il leader talebano Hibatullah Akhundzada ordinò la formazione di una commissione per rivedere e aggiornare il curriculum universitario afghano. Questa commissione, composta da oltre 50 membri – principalmente esponenti del clero e individui allineati con l’ideologia talebana – fu incaricata di valutare e riformare le materie accademiche. Il risultato: 18 materie furono completamente eliminate e altre 201 furono etichettate come “problematiche” e ritenute che si potevano insegnare solo dopo revisioni e sostituzione dei materiali didattici. Questa azione riecheggia il primo regime talebano (1996-2001), quando molte discipline di scienze sociali furono cancellate dalle università e iniziò una lunga campagna per “islamizzare” l’istruzione.

Le materie eliminate appartengono principalmente a giurisprudenza, scienze politiche, sociologia, filosofia, pubblica amministrazione e politica e studi di genere. Tra le materie più importanti figurano diritto costituzionale, sociologia delle donne, governance e politiche pubbliche, diritti umani e democrazia, religioni comparate, filosofia morale e argomenti relativi alle molestie sessuali. Secondo i talebani, queste materie sono state eliminate per allinearle alla Sharia e per impedire contenuti che ritengono contrari alle politiche dell’Emirato Islamico. Le altre 201 materie rimangono sotto esame e saranno ammesse solo se riviste per adattarle al quadro ideologico del regime.

Diversi fattori spiegano questa mossa. In primo luogo, eliminando i corsi fondamentali di scienze umane e sociali, i Talebani mirano a modellare il sistema educativo attorno ai loro principi ideologici e a impedire l’insegnamento di concetti o prospettive in conflitto con la loro visione del mondo. In secondo luogo, ciò facilita un maggiore controllo sull’opinione pubblica. Eliminando discipline fondamentali e sostituendole con contenuti ideologicamente orientati, le università diventano centri di riproduzione del pensiero allineato al regime, sopprimendo l’emergere di un pensiero indipendente. In terzo luogo, indebolire la società civile e le istituzioni per i diritti umani sembra essere un obiettivo strategico. Limitando l’istruzione in questi ambiti, i Talebani rafforzano il loro regime autoritario e reprimono il potenziale dissenso.

Le conseguenze sono di vasta portata. L’eliminazione di materie chiave dalle scienze sociali e umanistiche riduce la capacità delle università di formare pensatori indipendenti e critici. Istituzioni che dovrebbero essere spazi di ricerca e libera indagine si trasformano in veicoli di propagazione ideologica. Ciò mina la qualità dell’istruzione e della ricerca, limita l’uguaglianza di genere e ostacola lo sviluppo sociale e culturale. L’eliminazione di corsi come la sociologia femminile e gli studi di genere non solo ignora i diritti delle donne, ma rischia anche di consolidare una disuguaglianza strutturale a lungo termine nella società afghana.

Questa tendenza ricorda l’Iran post-rivoluzionario del 1979, quando le università furono chiuse e i programmi di studio furono reindirizzati verso contenuti islamici. I funzionari iraniani, tra cui l’Ayatollah Khamenei, lanciarono ripetutamente l’allarme contro un'”invasione culturale” da parte dell’Occidente e contro l’influenza dannosa delle discipline umanistiche e sociali. Le preoccupazioni dei Talebani in Afghanistan rispecchiano da vicino quelle della Repubblica Islamica: entrambi i regimi percepiscono queste discipline come un modo per promuovere il pensiero indipendente e critico, che considerano una minaccia al loro controllo ideologico.

La revisione dei programmi di studio e l’eliminazione di materie fondamentali avranno effetti a lungo termine sullo sviluppo sociale e culturale dell’Afghanistan. Da un lato, queste azioni impediscono agli studenti di acquisire competenze di analisi critica, ricerca indipendente e impegno civico. Dall’altro, limitano l’accesso alla conoscenza in settori come i diritti umani, la società civile, la governance e la politica, minando la qualità dell’istruzione e isolando l’Afghanistan dagli scambi accademici e culturali globali. Ciò potrebbe ridurre la competitività dei laureati universitari afghani sia a livello regionale che internazionale.

In definitiva, l’eliminazione di 18 materie e la revisione di altre 201 riflettono la strategia continua dei Talebani di rimodellare le università in linea con i loro obiettivi ideologici. Questi cambiamenti non sono semplici adattamenti curriculari: rappresentano un tentativo di riscrivere l’identità culturale e sociale dell’Afghanistan. La storia dimostra che tali restrizioni hanno ampie implicazioni per la libertà accademica, i diritti umani, lo sviluppo sociale e la capacità di un Paese di interagire con il resto del mondo. Invece di fungere da centri di conoscenza e pensiero critico, le università stanno diventando strumenti di imposizione ideologica e di controllo mentale pubblico. In queste condizioni, il futuro dell’istruzione superiore in Afghanistan si trova ad affrontare profonde sfide sociali, culturali e politiche.

*Mohammad Salim Mateen è un ex docente universitario con una laurea magistrale in sociologia conseguita a Teheran. Ha lasciato il mondo accademico dopo il ritorno al potere dei Talebani e attualmente vive in un Paese europeo.

Le opinioni espresse in questo editoriale sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Amu TV

Il piede oltre il chador della madre: la resistenza delle donne afghane

articolo21.org Daniela Meneghini 24 agosto 2025

Sono passati quattro anni dal 15 agosto 2021 quando i Talebani sono ritornati al potere in Afganistan. La loro prima azione è stata la sospensione della Costituzione e la messa in atto di politiche restrittive che hanno provocato la contrazione dei diritti umani. Prime vittime di queste restrizioni sono state le donne e le ragazze, a cui è stato vietato l’accesso all’istruzione, è stata preclusa la partecipazione alla vita pubblica, impedita la possibilità di viaggiare da sole, soppresse le loro libertà fondamentali.
In questi anni l’Afganistan ha dovuto affrontare una crisi umanitaria e socio-economica che ha stremato le fasce più deboli e fragili della popolazione, ridotta ad una povertà estrema. A queste condizioni di estrema vulnerabilità si sono aggiunti gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici con fenomeni estremi provocati da inondazioni, terremoti e altro.
Sul piano politico, con il ritorno dei Talebani al potere, ha acquistato sempre più potere il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, mentre è stato smantellato il Ministero per gli Affari femminili. Il risultato di tutto ciò è un controllo capillare e violento sulla società civile e in particolare sulle donne.
Negli ultimi tempi, i Talebani hanno intensificato il controllo e la repressione sulle donne, con quella che è stata definita «l’apartheid di genere», con decine di donne arrestate per «violazione dell’hijab». Non solo, attraverso le reti clandestine delle donne appartenenti alle associazioni afghane, arrivano racconti e notizie allarmanti di arresti arbitrari di numerose donne da parte della “polizia morale”, donne trattenute senza assistenza legale, senza contatti con i familiari, senza assistenza medica.
Sono azioni vessatorie che nulla hanno a che fare con le scelte religiose, bensì esprimono il predominio patriarcale maschile per mettere a tacere e cancellare le donne dalla società civile. Criminalizzandole per il loro modo di vestire non conforme alla hijab, i Talebani intendono sancire con la forza che le donne non appartengono alla sfera pubblica pertanto devono restare segregate (murate vive) dentro le pareti domestiche. Un sistematico smantellamento dei diritti delle donne che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre i nove anni d’età, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento.
Come già abbiamo avuto modo di scrivere in questa rubrica quattro anni fa (vd. Dalle parte delle donne afgane, agosto 2021), è importante tenere aperti i riflettori e tenere viva l’attenzione sulle condizioni di vita delle donne afgane. Lo facciamo attraverso il contributo di Daniela Meneghini che ha curato un’iniziativa editoriale per dare voce alle donne dell’Afganistan.
Daniela Meneghini è docente di lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo gli studi in Italia (Venezia e Napoli) e in Iran (Teheran e Mashhad), ha svolto ricerche sulla lirica persiana classica anche in prospettiva comparativistica. Al contempo si è interessata di letteratura contemporanea dell’Iran e dell’Afghanistan, e ha approfondito questioni di traduzione come fenomeno complesso di recezione. Insegnando da oltre trent’anni nei corsi di lingua persiana, ha collaborato con diversi progetti di glottodidattica e pubblicato con la collega P. Orsatti una nuova grammatica della lingua persiana (Corso di lingua persiana, Hoepli 2012). Ha pubblicato libri e articoli scientifici, curato traduzioni di opere persiane, sia classiche (Khosrow e Shirin di Nezami Ganjavi, XII sec.) che contemporanee (due libri di Hushang Moradi Kermani) e realizzato con A. Martoni il commentario di un manoscritto persiano del XVII secolo conservato alla fondazione Cini di Venezia (Panj ganj. I Cinque Tesori di Neẓāmi Ganjavi della Fondazione Giorgio Cini, Mandragora 2022). Negli ultimi due anni si è dedicata alla cura della traduzione in italiano di trentasei testimonianze di attiviste afghane (Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Mimesis-Jouvance 2024), cercando di mantenere viva l’attenzione di lettori e studenti sulla questione dell’«apartheid di genere» in Afghanistan. Attualmente sta lavorando alla traduzione del Makhzan al-asrar (Lo scrigno dei segreti), il poema filosofico del quintetto di Nezami Ganjavi. (A.C.)

 

Il piede oltre il chador della madre: la resistenza delle donne afghane

di Daniela Meneghini

La storia dell’Afghanistan è una storia di enorme complessità in cui la questione femminile emerge in modo drammatico, ignorata o strumentalizzata con le finalità più varie e diversi gradi di opportunismo. Questo numero di agosto – «Dalla parte di lei» – va a coincidere, con soli pochi giorni di ritardo, con il quarto anniversario della presa di Kabul da parte dei talebani; era il 15 agosto 2021 e si apriva un nuovo capitolo nella storia delle donne afghane.
Le immagini della presa di Kabul, del terrore dilagante, non solo nella capitale ma in tutte le città del territorio afghano su cui i talebani riprendono il controllo (solo la regione del Panjshir resisterà ancora per qualche settimana), e della tragica corsa all’aeroporto per coloro che temevano le ritorsioni del nuovo regime, sono ancora vivide nella mente di chi voglia ricordare. A quelle scene di grande effetto mediatico seguì tuttavia uno sfilacciarsi dell’attenzione da parte dei media, contemporaneamente all’affermarsi, laggiù, di norme e di leggi funzionali a una rinnovata apartheid di genere nei confronti delle donne, di tutte le età. I primissimi provvedimenti del nuovo governo, infatti, andarono a colpire i diritti delle donne e delle bambine con una velocità che dice molto sulla visione del mondo e della politica che da quel momento avrebbe caratterizzato il nuovo potere. Il ministero per gli Affari femminili istituito durante il ventennio di occupazione Nato si trasforma nel Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio che assume il compito di redimere la società, dopo i vent’anni di occupazione occidentale e dunque di presunta perdita dei valori dell’islam e della cultura tradizionale afghana. Tale ‘purificazione’ passa innanzitutto per la volontà di controllare le donne, i loro diritti, la loro libertà: le bambine non potranno studiare oltre la scuola elementare (9 anni); le donne non potranno più lavorare, né uscire di casa o viaggiare senza essere accompagnate da un mahram (padre, fratello, figlio o marito); non potranno frequentare parchi, palestre, nessuno spazio pubblico; la loro voce non dovrà essere udita al di fuori delle mura domestiche, i loro passi dovranno essere silenziosi (sono interdetti i tacchi) e le loro figure non dovranno essere neppure intraviste dalle finestre di casa che – secondo una norma recente – devono essere murate; verrà nuovamente abbassata l’età del matrimonio per le ragazze e l’accesso alle cure mediche subordinato alla volontà dei familiari maschi. Le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali di queste leggi non sono facilmente immaginabili, ma le ripercussioni dell’esclusione di metà della popolazione dalla vita economica e civile del paese non sembra interessare il nuovo governo che persegue la sua strada per sradicare, con ancora maggior acribia rispetto al primo emirato (1996-2001), la presunta corruzione morale portata dall’occupazione occidentale, così come era stato più o meno pretestuosamente quarant’anni prima, dopo l’invasione sovietica del paese (1979-1989), cui aveva fatto seguito una sanguinosa guerra civile tra mujaheddin e talebani.
Ma nei vent’anni (2001-2021) che hanno preceduto l’instaurarsi del secondo emirato dei talebani, benché in modo contraddittorio (spesso con la legge che permette e la famiglia che proibisce) e a costo di enormi sacrifici personali, molte donne afghane – tra insicurezza materiale, attentati continui, guerra di occupazione e guerra civile – avevano avuto la possibilità di studiare, di andare all’università, di trovare un lavoro, di veder riconosciuti, almeno dalla legge, alcuni diritti fondamentali. Molte donne che sono cresciute in quel ventennio, che sono arrivate ‘istruite’ alla ri-presa del potere da parte dei fondamentalisti pashtun, non tacciono, non subiscono in silenzio, non si arrendono alla paura e neppure alla tortura. Abbiamo una straordinaria testimonianza di questa resistenza attiva delle donne afghane in un volume in lingua dari (una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan insieme al pashtu) pubblicato nel giugno del 2023 in Danimarca da Zainab Entezar e Asef Soltanzadeh dal titolo: Azadi seda-ye zanane darad (La libertà ha voce femminile). Zainab Entezar, giovane regista e scrittrice afghana (nata nel 1994), mentre era ricercata dalla polizia e dunque in latitanza a causa dei video che girava durante le proteste, ha raccolto testi autografi e interviste, affidandone poi la redazione e la pubblicazione a uno scrittore e intellettuale afghano esule in Europa, Mohammad Asef Soltanzadeh, per non rischiare che questa pagina di storia andasse perduta. Il loro libro contiene trentasei testimonianze di attiviste afghane, raccolte fra l’agosto del 2021 e la primavera del 2022, momento in cui i talebani riescono a soffocare con la violenza fisica, il carcere, le ritorsioni e le minacce alle famiglie, le proteste pubbliche delle donne, organizzate lungo i viali e sulle piazze delle maggiori città del paese: Kabul, Herat, Mazar-e Sharif, Farah…

Il volume, la cui prima traduzione è in lingua italiana col titolo Fuorché il silenzio: trentasei voci di donne afghane (Milano, Mimesis – Jouvance, 2024), documenta dunque la resistenza delle donne al ri-affermarsi sulle loro vite della politica di segregazione e di persecuzione (apartheid di genere) dei talebani. Dopo l’evacuazione definitiva dell’esercito statunitense e degli alleati, dopo la farsa degli accordi di Doha, in cui la garanzia da parte talebana di non dare spazio sul proprio territorio ad organizzazioni terroristiche fa accettare a un ipocrita occidente l’ennesima cancellazione dei diritti delle donne, le donne afghane si vedono per l’ennesima volta tradite e ridotte in una condizione inaccettabile, vittime della logica puramente mercantile dei rapporti internazionali. Ma allungano il piede fuori dal chador delle loro madri e non accettano di tornare mute.
Le attiviste afghane, quelle che hanno manifestato dentro i confini del loro paese, sono donne il cui nome non dice nulla: non hanno vinto premi e non sono ascese alle cronache internazionali, non sono state deputate o giudici nei precedenti governi, né leader della diaspora afghana buone da intervistare in ogni occasione; ma sono donne che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, esponendosi consapevolmente in nome di una vera integrità morale alle violente conseguenze che le loro proteste comportavano. Il carcere, le torture, le confessioni forzate, le intimidazioni: nulla è stato loro risparmiato. Di alcune di loro si sono perse le tracce dopo l’arresto, di altre sappiamo che sono rifugiate in Pakistan, in Iran, o che hanno avuto rifugio politico in Germania, in Francia o in Canada; altre ancora continuano a restare nel loro paese, vivendo nella paura ma senza arrendersi. Tutte cercano di restare in vita – in una condizione che sia degna di questo nome – con margini sempre più esigui di azione e con rischi enormi: facendo scuola in casa, organizzando circoli di lettura e scuole online, scambiandosi libri, cercando spiragli di visibilità per non essere dimenticate, per denunciare la loro condizione, per essere ascoltate. Tutto, fuorché il silenzio.
Le storie delle donne afghane, soprattutto quando si attinge direttamente alla loro voce senza il filtro di interpretazioni stereotipate, non colpiscono solo per l’enorme fatica che raccontano ovvero di essere donne in un contesto patriarcale e violento, ma soprattutto perché esprimono una grandissima forza nel lottare per la propria emancipazione e indipendenza, testimoniano una speranza incrollabile dettata da condizioni disperate, e un senso di responsabilità verso il futuro che vogliono (e che si impegnano perché di fatto sia) diverso dal passato, per le prossime generazioni, per le loro figlie e i loro figli. Incarnano una determinazione che va oltre le loro esistenze.
Le testimonianze che leggiamo di queste giovani attiviste (con età comprese fra i 25 e i 40 anni) riferiscono di estrazioni sociali, di condizioni economiche e di contesti culturali diversi. L’Afghanistan è un paese molto complesso anche dal punto di vista etnico – pashtun, hazara, tajiki, uzbeki, baluchi, ecc – e religioso – sunniti i pashtun, sciiti gli hazara, presenza di minoranze indù e sikh … – e diverse dunque sono anche le storie (emigrazione, compromissione con il regime, resistenza armata, discriminazioni e ingiustizie) e la mentalità delle famiglie che le donne hanno alle spalle: alcune famiglie più aperte sostengono le loro richieste di libertà, altre invece cercano di imporre e mantenere, anche con la violenza, un modello patriarcale di subordinazione. Non c’è un riferimento omologante: quando le ascoltiamo davvero, le loro storie sono sempre diverse e impredicibili. Ciò che le unisce e che al contempo le rende uniche – perché unico è il contesto in cui si muovono – è la condivisa ricerca della libertà e l’impossibilità di sottrarsi alla lotta per ottenerla.
Quando parlano di sé, le donne afghane partono quasi sempre dalla prima infanzia perché già quella è stata per loro una fase difficile in un paese dove per oltre quarant’anni si è cresciuti con la guerra, la violenza e la paura, e dove la nascita di una bambina spesso è vissuta come una disgrazia. Non va dimenticato che dal 1973 l’Afghanistan non conosce una pace duratura, ha vissuto continui conflitti politici, etnici, religiosi e antimperialistici. Su tale sfondo, che le precede nel tempo ma le condiziona pesantemente nel presente, le donne afghane raccontano le loro storie dure, continuamente ostacolate da una mentalità maschilista (familiare e sociale) che nega loro il diritto a una soggettività libera; esse narrano, però, anche la forza di opporsi con ogni mezzo a quegli ostacoli e poi a un arretramento di quanto guadagnato fino al 2021, pur nella lucida consapevolezza della solitudine in cui si muovono.
Oggi, molte donne afghane sentono l’impossibilità di ritornare a vivere in una condizione che le neghi come esseri umani, che le riporti ad essere solamente figlia di, sorella di, madre di, moglie di, perfino nipote di…; sentono la responsabilità verso le proprie famiglie ma soprattutto verso le generazioni a venire. Se si pensa alle continue restrizioni imposte dai talebani, tra cui la inaccettabile impossibilità di essere curate da altre donne visto che è stato negato alle ragazze il diritto di accedere a studi superiori e dunque di diventare dottoresse, infermiere, ostetriche, in un paese che vede il più alto tasso di mortalità per parto; se si pensa alla segregazione sempre più stretta e al conseguente annientamento psicologico (l’Afghanistan è uno dei paesi col tasso più alto di suicidi fra le donne e di depressione fra le ragazze), la forza che le donne devono esercitare per non soccombere è titanica. Non tutte la possiedono, ma chi la possiede prende per mano le altre e cerca di fare la propria parte. Le donne consapevoli si preparano a rispondere alle domande che in un futuro non lontano verranno loro rivolte: “Perché voi donne di quei giorni avete sopportato condizioni simili? Se non l’aveste fatto la nostra condizione attuale non sarebbe tanto drammatica!”. E rispondono: “Non vogliamo che le nostre figlie siano in catene. Noi stesse non vogliamo rimanere in catene. Non accusiamo le generazioni di donne che hanno tollerato le limitazioni imposte […]. Parliamo solo per noi stesse. Ci ribelliamo a queste leggi e non tolleriamo alcuna forma di oppressione. Faremo tutto ciò che riterremo giusto fare contro i talebani” (Marziya Mohammadi p.84).
“Quando pensiamo alla libertà e al benessere delle generazioni future, credetemi, le minacce e le persecuzioni che i talebani mettono in atto quando protestiamo, perdono del tutto il loro potere. La nostra lotta è buona e giusta perché con questa lotta otterremo la libertà, il bene più prezioso” (Nayera Kohestani, p. 142).
“La paura mi era estranea. Solo all’inizio, a Herat, per un momento la paura di lasciare orfane le mie figlie era stata una mia preoccupazione, ma poi mi ero detta che migliaia di bambini vivono senza madre. Ciò che ha importanza è il percorso della nostra vita, ed io avevo scelto il mio” (Shima Sediqi, p.111).
Analogamente a molti altri contesti attuali, sapere della condizione delle donne afghane porta a un senso di impotenza verso un destino su cui chi detiene il potere ha totale arbitrio. Eppure, prendere contatto con le ingiustizie e le discriminazioni quotidiane che costellano la loro vita, ascoltare le loro voci ha un senso. Ha un senso non dimenticare ciò che denunciano, ovvero la radice che si nutre di ignoranza, di tradizione e di una interpretazione distorta della religione a rafforzare un potere patriarcale che vuole tenerle in una condizione di totale subordinazione e inferiorità. Vedere (e ammirare) la loro paziente e incrollabile determinazione a studiare, anche di fronte a veti familiari, a matrimoni precoci, al disprezzo e alla prevaricazione vissute nelle scuole prevalentemente maschili, ha un senso. Queste voci di lotta disperata e di lucida consapevolezza vanno ascoltate e tenute nella mente e nel cuore: sono la parte migliore dell’umanità, sono la dimostrazione che il vero bene, che è bene per tutti, ha la forza di spingerci oltre noi stesse.
Queste donne non sperano in qualcosa dall’esterno perché hanno sperimentato il tradimento del loro stesso governo, che si è arreso senza combattere ai talebani e i cui vertici si sono messi al sicuro; hanno subito il tradimento internazionale che per interesse politico ed economico sta accettando a poco a poco i talebani come interlocutori (la Cina per prima ad accoglierne una rappresentanza diplomatica e la Russia poche settimane fa a riconoscerne il governo); conoscono anche il tradimento di donne all’estero che pretendono di essere le rappresentanti delle proteste e che invece si muovono per dimostrare che il governo talebano non è poi così orribile (Colloqui di Oslo). “Abbiamo la certezza di essere sole in questa lotta: tale comprensione e certezza sono il nostro punto di forza; dunque, non ci preoccupa il silenzio del mondo riguardo ai talebani” (Lina Ahmadi p.37).
La loro speranza sta nella potenza dei loro gesti, quelli grandiosi: “Divenne famosa nell’arco di una notte, per il celebre gesto che compì mentre leggeva la dichiarazione finale dopo una marcia di protesta delle donne: un talebano le aveva puntato la canna del fucile sulla spalla per impedirle di leggere; lei l’aveva spinta indietro con la mano, e aveva continuato la sua lettura” (Rokhshana Rizaei, p.401), e quelli minimi che riescono ad agire ora: “Ora ho cambiato metodo di lotta. Ho creato una specie di scuola domestica dove faccio lezione alle bambine e alle ragazze. Insegno che non è giusto che le scuole chiudano loro la porta in faccia. Imparano che i loro diritti sono pari a quelli degli uomini e che nell’emirato dei talebani non vengono rispettati i diritti della gente e i diritti umani in generale. Ho organizzato anche dei gruppi di lettura. Ci riuniamo fra noi donne, e leggiamo libri, ne discutiamo e li commentiamo. Le strade per raggiungere il nostro obiettivo, la libertà, sono tante” (Shiba Raufi, p.428).
Racconta Sabira Amini: “È questo che hanno fatto le manifestanti: hanno avuto l’intelligenza di capire che restare a casa a piangere per i diritti e le libertà perdute non era una soluzione per questa situazione drammatica. Non era neppure il momento di avere pazienza e sopportare, perché non appartenevano alla generazione delle loro madri e nonne. Pensavamo anche alle donne delle generazioni future: non dovevano trovarsi in un inferno chiamato vita, come la generazione delle loro madri” (p.323).
Dice Rokhshana Rizaei: “… per me era inaccettabile rimanere reclusa e impotente. Ero dalla parte della ragione. Lo sono tutte le persone oppresse da questa società e nel mondo” (p.411).
Con coraggiosa coerenza, le attiviste si espongono col loro nome e molte con la foto dei loro volti, per mostrarci che esistono e chiederci di far sentire la loro voce:
…Ecco, c’è un modo di guardare che è un esercizio della cura, dell’attenzione, e io credo che raccontare la vita di un’altra […] abbia a che fare con questo gesto. È come dire: “Guarda che non si dimentichi”, “Guarda che non passi senza contare nulla”, “Guarda che una vita non finisce con la morte, che non finisce quando finisce” (N. Fusini, Hannah e le altre, Torino 2013, p.143).

Afghanistan, la crisi dimenticata: l’umanità perduta nei silenzi di Kabul

Lo sciopero delle donne- Post su Facebook, 24 agosto 2025

Afghanistan, donne e bambine vivono schiave dei Talebani. La crisi dimenticata: l’umanità perduta nei silenzi di Kabul tra fame, violenza e cure impossibili. Le promesse di libertà e di miglioramento dell’Occidente non si sono mai realizzate.

Articolo da La Stampa di Francesca Mannocchi

Dalle otto di mattina, ogni mattina, la zona riservata alle donne della struttura sanitaria di Intersos in Uruzgan, si riempie ora dopo ora, burqa dopo burqa. Le donne arrivano camminando sul letto del fiume dove l’acqua ha lasciato posto ai sassi e ai greggi in pascolo, tengono i figli in braccio o per mano, li accudiscono e si fanno accudire perché senza un marham, un guardiano, non possono uscire di casa.
Il loro guardiano può avere anche UN ANNO, PURCHÉ SIA MASCHIO, purché sia di famiglia.
Così, in questa realtà ribaltata in cui chi accudisce dipende da chi è accudito, i bambini diventano uomini troppo presto e le bambine troppo presto vengono violate.
Nella sala d’aspetto si riconoscono subito, si riconoscono dai burqa un po’ più chiari, o po’ meno lisi, dalla silhouette minuta, e poi, quando parlano, dalla voce che è l’unica traccia di infanzia che resta nella loro vita a respingere un destino segnato.
Sadi ha tredici anni, è arrivata alla clinica con sua madre Badam dopo aver camminato per due ore sotto il sole d’agosto. Sadi non sa né leggere né scrivere, una scuola non l’ha vista mai. Ha fatto una vita povera di pastorizia e raccolto finché è stata coi suoi genitori e fa lo stesso dopo che l’hanno data in sposa. Mostra il suo viso per pochi secondi. Gli occhi di un verde acceso sull’espressione di chi, suo malgrado, ha già conosciuto troppo. Dal burqa escono solo le mani, irrequiete, mani che non hanno mai stretto un giocattolo perché Sadi dice che un giocattolo non l’ha mai avuto. Le sarebbe tanto piaciuto studiare, ma qui funziona così, la vita non si sceglie.
La vita si subisce e si sopporta.
Tarin Kot è il centro urbano principale dell’area, è una zona aspra, ruvida, vicino non c’è nulla, la prima città è Kandahar, e dista più di cento chilometri. A nord le montagne, ripide, brulle, e al di là delle montagne una distesa di grotte e sentieri. Tarin Kot e tutta la provincia hanno sempre avuto un’importanza simbolica per i Talebani, è una zona dominata da alcuni dei gruppi etnici Pashtun più intransigenti del Paese, è qui che si è trasferito con la sua famiglia il fondatore del gruppo, il Mullah Omar durante l’occupazione sovietica negli anni’80. Uruzgan è stata la prima provincia a cadere nelle mani dei talebani nel 1994, è da qui che sono partite le spinte insurrezionali contro gli americani e gli alleati.
Un tempo qui c’era Campo Holland, c’erano le truppe olandesi, c’erano gli australiani, dovevano stanare e combattere i Talebani, poi addestrare i soldati e poliziotti locali e intraprendere progetti di miglioramento urbano.
L’operazione si chiamava ancora “Enduring Freedom”. Ma è durata poco, sia la storia dei progetti di miglioramento della vita dei civili, sia la (presunta) libertà duratura.
Camp Holland, dice la gente, era molto curato, circondato da alti muri di protezione, vari posti di blocco, barriere anti esplosione. I Talebani evitavano lo scontro diretto preferendo le imboscate. O gli attacchi suicidi, o le mine.
La gente moriva, i soldati pure. Così nel 2014 le forze Nato sono state drasticamente ridotte, le truppe afgane si sono indebolite sempre di più sotto l’assalto dei miliziani, molte hanno abbandonato le posizioni per mancanza di munizioni e molte altre per mancanza di motivazione, il resto è la storia di una guerra persa e finita male nell’agosto del 2021.
E guardando i posti, guardandoli da vicino, si capisce perché la guerra ha fallito, perché l’insurrezione non solo non è stata sconfitta ma alla fine ha avuto la meglio. I soldati di base qui chiamavano la provincia “l’ultima frontiera”. I militari statunitensi e alleati provavano a conquistare un pezzo di quest’area e i miliziani si nascondevano sulle montagne e nelle valli.
I lavori di “miglioramento” delle infrastrutture, della ricostruzione, dello sviluppo non sono davvero mai iniziati, le organizzazioni umanitarie non potevano lavorare perché non c’erano le condizioni di sicurezza necessarie per farlo.
Muhubullah, che è un pastore, ha 34 anni, quando ne aveva 20 è saltato su una mina e ha le caviglie ricucite male dopo decine di operazioni, vive in una casa di fango e fieno, dice che certo oggi non può lavorare e non sa come sfamare la moglie e i tre figli, ma almeno c’è sicurezza. Nessuno spara, nessuno muore più di guerra.
Però in Afghanistan oggi si muore di fame.
Anche Bib vive in una casa di fango e fieno in Uruzgan, senza acqua corrente e con la poca elettricità che forniscono gli altrettanto pochi pannelli solari. È una donna senza tempo, come tante qui non sa la sua età. Presume di essere stata data in sposa quando ne aveva dodici, ma potevano essere uno in più o uno in meno. Non importa. Quello che importa è che il marito è anziano, oggi più di quanto non lo fosse già quando la sua famiglia gliel’ha ceduta in sposa, solo che ora hanno sei figli, quattro femmine e due maschi e lei non sa come sfamarli.
Intersos, grazie ai fondi dei programmi dell’Unione Europea che ancora resistono, le ha fornito una macchina da cucire, con cui prova a fare reddito, realizzando dei vestiti che tiene appesi in una delle stanze dove dormono i figli.
Sono tutti intorno a lei, i maschi e le femmine. I primi sorridono, le seconde no. Una, la più grande, di undici anni, è seduta all’angolo della stanza, il più vicino alla porta, e guarda all’esterno, come se volesse scappare. Verso dove è difficile immaginarlo, visto che nessuno di questi bambini ha visto altro se non il letto del fiume poco distante per andare a prendere l’acqua, e i più fortunati la scuola.
Per lei, per Amira, la scuola finisce l’anno prossimo. Così vogliono le nuove leggi talebane per tutto l’Afghanistan. Anche se qui, in fondo, le cose non sono cambiate, né sui burqa indossati dalle donne in strada, né sull’istruzione delle bambine.
Quando il ministero dell’Istruzione del governo sostenuto dall’Occidente magnificava progressi a livello nazionale, nelle aree rurali e nelle province contese tra governo e talebani, le ragazze non studiavano nemmeno prima.
Secondo un rapporto Unicef dell’inverno 2020, pochi mesi prima della caduta di Kabul, il 90% delle ragazze in Uruzgan non andava a scuola. Sua madre dice che Amira è la più intelligente dei figli, la più dotata.
Ma Amira, come le sorelle di nove e otto anni, è già stata promessa in sposa. Sono circa 500 dollari a figlia, dice Bib, e servono, perché altrimenti è difficile sfamare gli altri. A maggior ragione ora, dopo i tagli decisi da Trump a febbraio e la drastica riduzione degli aiuti del resto del mondo che, attento a crisi che sembrano più urgenti, ha dimenticato l’Afghanistan e la sua gente.
Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo, quattro anni fa, il Paese è sull’orlo del collasso economico.
Sulle prime gli aiuti umanitari hanno colmato l’emergenza. Poi, all’inizio dell’anno, il presidente americano Donald Trump ha bloccato gli aiuti e le conseguenze qui sono state immediate e paralizzanti.
Da febbraio, oltre l’80% dei programmi Usaid è stato cancellato e mentre il Paese è alle prese con nuove epidemie di morbillo, malaria e poliomielite, la riduzione degli aiuti ha fatto sì che si interrompessero anche le campagne di vaccinazione.
L’impatto si sente ovunque, certo, ma qui fa più rumore. Un suono che però l’Occidente sembra non sentire, tappandosi le orecchie perché pesa ancora troppo il fallimento della ventennale guerra che ha riconsegnato il Paese ai nemici di un tempo, e perché con quei nemici che però ora amministrano il Paese, l’Occidente ha scelto di non parlare.
Il dilemma, per i governi, è semplice e crudele: aiutare la popolazione in Afghanistan significa, volenti o nolenti, passare attraverso i talebani. Non si può portare cibo, cure, acqua o istruzione senza il loro permesso. Quindi o si collabora con loro per salvare vite, rischiando di legittimare un regime o si rifiuta di collaborare per non sporcarsi le mani (peraltro già abbondantemente sporcate dalla guerra) condannando milioni di persone alla fame.
In mezzo, ci sono le Ong e le agenzie umanitarie, costrette a muoversi in equilibrio tra principio e necessità.
È in posti come l’Uruzgan che si capiscono le contraddizioni di una guerra come questa. Dove contraddizione è una parola che non calza con la realtà. Servirebbe paradosso, se non fosse un paradosso tragico.
Oggi le zone che fino a quattro anni fa non potevano essere raggiunte da nessuna organizzazione umanitaria, teatro di insurrezioni e contro insurrezioni, sono accessibili. Alla gente e alle organizzazioni umanitarie. È così che ha aperto questa clinica, così che le donne possono finalmente curarsi, e i bambini curare la malnutrizione, e provare a sopravvivere alla fame.
Jan Gula ha 17 anni, un figlio di tre, una di un anno e mezzo ed è di nuovo incinta. È quasi l’una, è seduta in una stanza della clinica di Intersos perché l’esterno è asfissiante e non si tiene in piedi. Ha camminato quasi tre ore per arrivare, fare una visita prenatale e far controllare il peso della figlia più piccola, malnutrita come quasi tutti gli altri bambini in attesa di essere visitati e dovrà camminare altre tre ore per tornare a casa. L’alternativa è raggiungere l’ospedale di Tarin Kot, che è troppo lontano, e qui quasi nessuno ha un mezzo di trasporto, oppure non curarsi. Anche lei alza il burqa solo per dare il tempo di far capire che non mente, che sotto quel pesante telo blu che copre il suo corpo e la sua libertà fino a poco tempo fa c’era una bambina, che come le altre a tredici anni è stata data in sposa. Poi ricopre il volto e il corpo, si tocca la pancia e dice «sono infelice».
Due parole appuntite, chiodi nel silenzio della stanza, monito nel silenzio del mondo che l’ha abbandonata.

Nella foto
Uruzgan, a sinistra Bin (con il burqa a destra) e i suoi figli nella propria casa nel villaggio di Sarkum.