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Autore: CisdaETS

L’apartheid di genere non merita il boicottaggio sportivo?

Oliver Marrone, The Teleghaph, 25 febbraio 2025

L’aparthied di genere non viene considerato altrettanto grave dell’apartheid di razza: il boicottaggio sportivo che è stato deciso a suo tempo contro il razzismo in Sudafrica non viene adottato contro la segregazione delle donne in Afghanistan. E il cricket maschile continua la sua corsa facendo finta di niente

“Quello che sta accadendo in Afghanistan”, ha dichiarato Richard Thompson, presidente dell’England and Wales Cricket Board, ‘è a dir poco un apartheid di genere’.

Una parola agghiacciante: apartheid. E storicamente è stata una chiamata alle armi: i 21 anni di esilio del Sudafrica dal cricket internazionale hanno costituito probabilmente il boicottaggio più efficace nella storia dello sport. Se la segregazione razziale sistematica di una nazione ha rappresentato una linea rossa non negoziabile, la schiavitù medievale delle donne di un’altra nazione ha prodotto solo vuota retorica. Infatti, dopo l’indignazione per l’oscena misoginia dei Talebani e la riprovazione per il divieto imposto alle donne dai fanatici al potere di cantare o persino di leggere ad alta voce, l’Inghilterra disputerà una partita del Champions Trophy contro l’Afghanistan a Lahore come se si trattasse di uno spettacolo secondario. Non potrebbe esserci disonore più grande.

Non mi fa piacere dirlo, ma questa partita si sta svolgendo esclusivamente a causa della codardia degli uomini. Negli organi di governo del cricket, a prevalenza maschile, gli uomini non hanno la minima idea dell’orrore di cui sono vittime le donne afghane e sono naturalmente portati a considerarlo un ostacolo allo svolgimento di un torneo maschile. Anche quando tutti e tre gli avversari dell’Afghanistan nella fase a gironi – Inghilterra, Australia e Sudafrica – hanno condannato inequivocabilmente i Talebani, non hanno ancora il coraggio di rifiutarsi di giocare. Anche quando l’Afghanistan viola palesemente lo statuto dell’International Cricket Council non schierando una squadra femminile, l’unica risposta degli uomini al comando è quella di mettersi le mani sulle orecchie e sperare che le proteste si plachino.

Una coraggiosa resistenza

Ma questa è una questione in cui la protesta non verrà soffocata. Mentre alle donne afghane viene proibito qualsiasi tipo di espressione pubblica, c’è chi altrove parla coraggiosamente per loro. Oggi, alle 16:00, davanti ai cancelli del Lord’s, molti si riuniranno per protestare contro la BCE, rea di aver permesso lo svolgimento della partita a Lahore. Uno di loro è Arzo Parsi, nato a Kabul, che, dopo aver lasciato il suo Paese quando i Talebani presero il potere nel 1997, si è dato come missione quella di sottolineare la complicità del cricket nell’imbiancare quel regime infernale. Un’altra è Jean Hatchet, l’attivista femminista che ha fatto pressione sulla BCE affinché cambiasse idea, ricevendo solo il messaggio che, nonostante la situazione “straziante”, non sarebbe stata contemplata alcuna azione unilaterale.

Anche questi manifestanti si espongono a notevoli rischi personali. Di recente, quando ha sventolato un cartello con la scritta “Let Us Exist” fuori dal Parlamento, Parsi ha dovuto affrontare un uomo che brandiva una bandiera afghana e le gridava insulti sessisti in faccia. Hatchet spiega di aver subito minacce violente che l’hanno spinta a chiedere alla polizia di garantire la sicurezza dell’evento di oggi. Uno degli oratori previsti per la protesta era Natiq Malikzada, giornalista e critico di spicco dei Talebani. La settimana scorsa è stato accoltellato nella sua casa di Londra, riportando ferite al petto, alla spalla e alla mano.

“È piuttosto spaventoso, ma per noi si tratta di dimostrare alle donne afghane che non vengono ignorate e che il cricket non è più importante delle loro vite”, afferma Hatchet. “La BCE non sembra pensarla così. Anche quando le atrocità dei Talebani contro le donne sono così numerose da far pensare: “Cosa altro possono sopportare?”. Quindi, questa è la nostra occasione per dire: “Sì, possiamo vederti. E possiamo scegliere di non giocare con voi a questo maledetto cricket”. La situazione è cruenta. Le donne vengono lapidate e picchiate, gli abusi domestici sono diffusi. Il sangue è sui muri delle loro case. Ma a questi uomini non importa. Continueranno a giocare a cricket”.

I soldi guidano le decisioni

C’è poi il fatto che il Champions Trophy sarebbe stato un momento logico per un boicottaggio. Si tratta di un evento che non viene disputato da otto anni, che coinvolge solo otto squadre e ha un prestigio relativamente scarso nel calendario sovraffollato del cricket. Quale migliore piattaforma, quindi, per i Paesi che non nutrono rispetto per i Talebani, per dare seguito ai loro presunti principi con un’azione che sarebbe stata ascoltata in tutto il mondo? Purtroppo, però, è proprio qui che scatta l’ipocrisia. L’anno scorso, Richard Gould, amministratore delegato della BCE, ha annunciato che non sarebbero state programmate serie bilaterali tra Inghilterra e Afghanistan finché alle donne afghane non fosse stato permesso di praticare sport. Ma nove mesi dopo, un Champions Trophy li mette faccia a faccia e tutte le convinzioni morali volano fuori dalla finestra.

Lo stesso vale per l’Australia. Dal ripristino del dominio talebano nel 2021, si sono rifiutati di giocare contro l’Afghanistan tre volte, rinunciando a un Test, a tre partite Internazionali di un giorno e a una serie T20 che avrebbe dovuto svolgersi negli Emirati Arabi Uniti l’anno scorso. Se l’idea di scendere in campo è stata inconcepibile in tutte queste occasioni, perché non dovrebbe essere così anche per la Coppa del Mondo o il Champions Trophy?

Il denaro è la sgradevole risposta. Il Champions Trophy può avere un cachet discutibile, ma l’incentivo finanziario è innegabile: ogni squadra incassa 110.000 sterline semplicemente per essersi presentata e i vincitori finali possono guadagnare 1,77 milioni di sterline. Quindi, pur riconoscendo che la BCE ha donato 100.000 sterline al Global Refugee Fund per aiutare le giocatrici di cricket afghane in esilio, per lo più in Australia, quanto è credibile la sua affermazione di essere “affranta” dalla condizione delle donne sottoposte alla violenza dei talebani? “È evidente che non lo sono”, afferma Hatchet. “I loro cuori sono stati messi in vendita. Sia la BCE che l’ICC avrebbero potuto fare ciò che andava fatto per le donne. E hanno scelto, indipendentemente ma tutti e due, di non farlo”.

Un’ulteriore, ineludibile dimensione di questo dibattito è rappresentata dall’India. È l’India a detenere il dominio quasi totale sul cricket a livello globale, come dimostra l’accordo per i diritti mediatici per sette anni di eventi ICC del valore sbalorditivo di 2,4 miliardi di sterline, circa 115 volte l’equivalente accordo britannico con Sky Sports. Ed è l’India che ha esplicitamente cercato di riparare le relazioni con l’Afghanistan, con il segretario agli Esteri, Vikram Misri, che si è spinto fino a incontrare la controparte talebana a Dubai il mese scorso. In questo contesto, è inconcepibile che l’India approvi qualsiasi richiesta di estromettere l’Afghanistan da un torneo sportivo. Al contrario, è più probabile che il partito di governo indiano Bharatiya Janata, guidato da Narendra Modi, consideri le obiezioni sollevate dall’Inghilterra e dall’Australia come un’opportunità per affermare la propria posizione.

L’Inghilterra è troppo arrendevole

In Inghilterra, perlomeno, c’era una manifesta volontà politica di fare la cosa giusta. Solo sei settimane fa, oltre 160 parlamentari hanno firmato una lettera in cui si chiedeva alla BCE di boicottare la partita in Afghanistan in segno di protesta per la “spaventosa oppressione delle donne e delle ragazze e la rimozione dei loro diritti che continua senza sosta” da parte dei Talebani. Il messaggio diceva che l’organo di governo nazionale non poteva restare inattivo mentre si stava svolgendo una “insidiosa distopia”. Eppure, è proprio quello che si è verificato. Dopo aver scritto la lettera, la laburista Tonia Antoniazzi ha mantenuto, a suo merito, la linea di fermezza. Tuttavia, con il passare del tempo, il sostegno iniziale si è affievolito e molti politici hanno deciso che questa è una causa troppo spinosa da portare avanti. Ad oggi, David Lammy, ministro degli Esteri, non ha rilasciato dichiarazioni.

I giocatori di cricket inglesi si trovano a giocare contro una squadra che utilizza l’immagine di un regime tra i più riprovevoli del pianeta. Dimenticate l’idea che la squadra afghana, allenata dall’ex battitore numero 3 inglese Jonathan Trott, esista in qualche modo come entità distinta dai Talebani. Lo scorso agosto, diversi giocatori di alto livello, tra cui Rashid Khan, sono stati fotografati mentre prendevano il tè con Anas Haqqani, un alto funzionario talebano. Mentre in principio la loro ascesa dalle devastazioni della guerra poteva essere incorniciata come una storia emozionante, la realtà è cambiata. Ora hanno uno scopo più sinistro, fornendo una foglia di fico di legittimità a spietati persecutori di donne.

Si percepisce che l’Inghilterra questa volta è a disagio nell’essere associata all’Afghanistan. Alla vigilia della partita, hanno deciso di non affrontare il tema. L’unico commento degno di nota è stato quello di Joe Root, che ha dichiarato: “È chiaro che ci sono cose laggiù che sono difficili da sentire e da leggere, ma il cricket è una fonte di gioia per tante persone”. E per le donne? Quando nel 2021 l’Afghanistan ha raggiunto le semifinali della Coppa del Mondo T20 ci sono stati festeggiamenti di giubilo in ogni grande città. Tuttavia, tutti i partecipanti a queste feste erano uomini. Le donne, come in ogni altra sfera della loro vita sotto il regime talebano, erano state completamente cancellate.

L’Inghilterra non dovrebbe avere alcuna parte in tutto questo. Non stiamo parlando di qualche fugace preoccupazione internazionale, ma della distruzione totale delle libertà di 14 milioni di donne a cui è vietato cucinare vicino alla propria finestra o ricevere un’istruzione superiore alla scuola primaria. Nello sport esiste il fenomeno dell’imperativo morale. È stato applicato al Sudafrica, ma è stato ignorato per l’Afghanistan, come se i dirigenti del cricket avessero deciso che le donne non sono abbastanza importanti da meritare un boicottaggio. E ora, allo Stadio Gheddafi di Lahore, si è giunti al macabro epilogo: un giorno di vergogna senza precedenti.

I Talebani respingono la Corte Penale Internazionale

Anirudh Sharma, Jurist News, 22 febbraio 2025

I talebani rifiutano la giurisdizione della CPI e dichiarano nulla l’adesione allo Statuto di Roma del 2003

Giovedì i Talebani hanno annunciato che l’Afghanistan non riconoscerà più la giurisdizione della Corte penale internazionale (CPI), in quanto, a loro dire, l’adesione del Paese allo Statuto di Roma del 2003 sarebbe da considerarsi legalmente nulla, dopo che il mese scorso il procuratore della CPI, Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto per il leader supremo dei Talebani, Hibatullah Akhundzada, e per il Presidente della Corte suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani.

I Talebani hanno accusato la Corte penale internazionale di parzialità politica e di non aver ritenuto gli occupanti stranieri responsabili delle atrocità commesse durante la campagna militare condotta dagli Stati Uniti in Afghanistan dal 2001 al 2021. Il gruppo ha inoltre sottolineato che le principali potenze globali, tra cui gli Stati Uniti, non sono firmatarie dello Statuto di Roma, affermando che è “ingiustificato che una nazione come l’Afghanistan, che ha storicamente sopportato l’occupazione straniera e la sottomissione coloniale, sia vincolata dalla sua giurisdizione”.

L’Afghanistan ha firmato lo Statuto di Roma nel 2003 sotto un governo sostenuto dall’Occidente, consentendo così alla CPI di perseguire i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che si verificano nel territorio afghano. Tuttavia, i talebani, che hanno estromesso il governo precedente e preso il potere nell’agosto 2021, hanno dichiarato che tale decisione è ora priva di qualsiasi sostegno legale. ” In quanto entità che sostiene i valori religiosi e nazionali del popolo afghano nel quadro della Sharia islamica, l’Emirato islamico dell’Afghanistan non riconosce alcun obbligo nei confronti dello Statuto di Roma o dell’istituzione denominata “Corte penale internazionale” “, hanno affermato i talebani.

“In numerosi Paesi, tra cui l’Afghanistan, milioni di civili innocenti, soprattutto donne e bambini, hanno subito oppressioni e atti di violenza. Tuttavia, questo ‘tribunale’ ha clamorosamente fallito nell’affrontare queste gravi ingiustizie”, ha dichiarato il vice portavoce dei Talebani, Hamdullah Fitrat.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha citato l’azione penale contro le donne, le ragazze e le persone LGBTQ+ afghane come elemento centrale dei mandati di arresto emessi nei confronti dei principali esponenti talebani. La persecuzione basata sul genere viola l’articolo 7 (1) (h) dello Statuto di Roma ed è considerata un crimine contro l’umanità. Secondo quanto riportato dall’UNESCO nell’agosto 2022, almeno 1,4 milioni di ragazze afghane non hanno ricevuto l’istruzione secondaria sotto il governo talebano.

L’amministrazione talebana respinge queste affermazioni, sostenendo che il suo governo è in linea con gli insegnamenti radicati nei comandi divini. “Ogni decreto che emette è basato sulla consultazione con gli studiosi e deriva dal Corano e dagli Hadith [detti del profeta dell’Islam] e rappresenta i comandi di Allah”, ha dichiarato il portavoce del governo.

Sebbene il governo talebano abbia ritirato la sua adesione allo Statuto di Roma, la CPI mantiene la giurisdizione sui crimini commessi prima del ritiro, secondo quanto stabilito dall’articolo 127 dello Statuto di Roma.

 

Turchia. Liberare Ocalan per costruire la pace

Carla Gagliardini, volerelaluna, 25 febbraio 2025

La persecuzione dello Stato turco verso i leader politici curdi del DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli) continua in Turchia, come i bombardamenti turchi in Rojava, regione siriana governata dalla DAANES (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est), a guida curda, che hanno già fatto molte vittime tra i civili.

La via dei colloqui tra Ankara e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che si è aperta a dicembre per porre fine al conflitto che va avanti da cinquant’anni sembra però ancora aperta. Rimane tuttavia il quesito sul perché Erdogan invece di alleggerire la tensione la alimenti. Vuole forse indebolire il più possibile Ocalan per dover cedere molto poco sul tavolo delle trattative, che riguardano anche il Rojava, a maggior ragione oggi in una Siria dove la Turchia sta giocando una partita da protagonista?

Un tentativo per raggiungere un accordo era già stato fatto nel 2013 ma era poi naufragato nel 2015, nel pieno dell’attacco sferrato dall’ISIS in Siria contro le comunità del Rojava, in maggioranza curde. Ankara aveva favorito l’ingresso dei foreign fighters che andavano a ingrossare le fila degli jihadisti, suscitando la reazione dei curdi in Turchia che avevano dato origine a manifestazioni di protesta contro il governo, il quale aveva reagito con arresti di massa, imprigionando soprattutto le leadership curde e mettendo così una pietra sul processo di pace.

Ankara riprova a piegare quei curdi che in Turchia hanno scelto la via del confederalismo democratico, forma di governo basata su una democrazia radicale che si ispira alle idee di Ocalan, e che amministrano secondo questo modello le città e le province conquistate attraverso il voto nelle urne. Ma non sono solo i curdi a finire nel tritatutto. L’intera opposizione a Erdogan sta pagando un caro prezzo. Il 21 gennaio scorso sono stati arrestati due sindaci del distretto di Istanbul del CHP (Partito Popolare Repubblicano) con l’accusa di avere legami con organizzazioni terroristiche, oltre al rappresentante dei giovani del partito, rilasciato poco dopo. LReuters ha scritto che «le autorità turche hanno intensificato le indagini e le detenzioni di esponenti dell’opposizione: solo lunedì si sono verificate tre azioni di questo tipo, sollevando preoccupazioni circa una crescente repressione del dissenso contro il Governo (https://www.reuters.com/world/middle-east/turkeys-opposition-faces-barrage-arrests-investigations-2025-01-21/). Martedì 11 febbraio la testata giornalistica ANF News ha dato la notizia che il co-sindaco di Van e membro del DEM, Abdullah Zeydan, è stato nuovamente processato dall’Alta Corte Penale di Diyarbakır con l’accusa di aver “aiutato un’organizzazione illegale”, reato per il quale aveva già scontato in passato una pena detentiva (https://anfenglishmobile.com/news/van-co-mayor-zeydan-sentenced-to-3-years-and-9-months-in-prison-77886). L’Avvocato di Zeydan, Mehmet Emin Aktar, ha puntato il dito contro la Corte accusandola di non aver garantito il giusto processo al suo assistito e di aver impedito alla difesa di svolgere il proprio lavoro. Alla fine dell’udienza il Co-sindaco è stato condannato a 3 anni e 9 mesi di detenzione. Zeydan non si è presentato in udienza e, dopo che la notizia ha iniziato a circolare, la popolazione di Van è ancora una volta scesa in strada in sua difesa, così come aveva già fatto dopo le elezioni di marzo dell’anno scorso, quando dopo la vittoria il governo aveva provato a rimuovere il neo eletto Co-sindaco, dovendo poi desistere. Ma Zeydan era ancora finito sotto il mirino della Corte Suprema della Turchia che il 4 dicembre gli aveva notificato la revisione della decisione dell’Alta Corte Penale di Diyarbakir la quale gli aveva restituito i diritti elettorali per potersi candidare alle elezioni dmarzo 2024 (https://volerelaluna.it/mondo/2025/01/08/erdogan-e-i-curdi-tra-caute-aperture-e-repressione-permanente/). Zeydan è già stato rimosso dal suo incarico e sostituito con il governatore del Distretto, Ozan Balci. La veglia davanti al Palazzo municipale di Van continua e lo scontro con il Governo si fa più intenso. Si sono sollevati infatti anche i giovani in altri distretti, erigendo barricate e rispondendo agli attacchi della polizia turca con lanci di molotov e pietre. I partiti di sinistra sono scesi domenica 16 febbraio in piazza per dichiarare la propria solidarietà al co-sindaco Zeydan e per denunciare la repressione crescente nel Paese nei confronti dell’opposizione.

Precedentemente, mercoledì 12 febbraio, sempre ANF News aveva fatto sapere che otto persone erano state arrestate con la doppia accusa di “partecipare ad attività organizzative illegali all’interno dei confini di Ankara” e di portare avanti la propaganda via social media a favore di un’organizzazione illegale (https://anfenglishmobile.com/kurdistan/resistance-in-van-continues-77899). Tra queste si trova anche la parlamentare del DEM Pakize Sinemillioğlu.

In Turchia la persecuzione politica degli oppositori è una costante e le patrie galere strabordano di politici, intellettuali, artisti, professionisti e militanti di organizzazioni che hanno reagito al dispotismo del potere che governa il Paese. Persino le istituzioni europee hanno più volte lanciato l’allarme chiedendo alla Turchia di porre fine agli arresti arbitrari e alla violazione dei diritti fondamentali e dei detenuti.

L’avvio del processo di pace chiesto dal partito di ultradestra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) e appoggiato dall’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdogan sembra molto tortuoso perché è instancabile la repressione che Ankara continua a esercitare sul DEM e nel Rojava. Il Governo turco ha però la possibilità di dimostrare che la sua intenzione di portare a buon fine le trattative è reale e non un tranello. Lo può fare con la liberazione di Ocalan, aprendo le porte della cella dove da più di venticinque anni è rinchiuso, permettendogli così di portare avanti i negoziati da uomo e politico libero. Certo è che un Abdullah Ocalan libero con il suo carisma e la sua capacità di guidare il suo popolo non può che intimorire Ankara.

La Commissione Europea deve fare tutto quanto in suo potere per fermare l’aggressione militare turca nel Nord e nell‘Est della Siria

retekurdistan.it   14 febbraio 2025

 

EUROPEAN WATER MOVEMENT

Lettera aperta dell’European Water Movement ad Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, a Jessika Roswall, Commissario europeo per l’ambiente, la resilienza idrica e un’economia circolare e competitiva, e a Dubravka Šuica, Commissario Europeo per il Mediterraneo

L‘European Water Movement (EWM) e i suoi membri, assieme all’European Ecology Movement for Kurdistan (Tev-Eko), chiedono con urgenza alla Commissione Europea di porre fine al suo colpevole silenzio a fronte del dramma umanitario ed ecologico attualmente in corso nel Nord e nell’Est della Siria prodotto dall’aggressione militare turca diretta contro la popolazione civile a prevalenza curda e contro la diga di Tişrin sul fiume Eufrate.

La Turchia usa da anni l’acqua come arma contro i curdi turchi, siriani ed iracheni

Oltre ad usare l’acqua come arma contro i curdi e i loro alleati in Siria, la Turchia sta anche conducendo una guerra con l’acqua, non dichiarata ufficialmente, in bacini transfrontalieri (Eufrate, Tigri), per imporre la propria egemonia politica sui paesi coinvolti della Siria e dell‘Iraq.

Gli ambientalisti Tev-Eko, molti dei quali sono membri della diaspora curda in Europa, hanno documentato queste pratiche di lunga data da parte della Turchia (vedi la dichiarazione di Tev-Eko).

Nel corso dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (UE), il governo turco ha sostenuto di aver adattato la propria politica sull’acqua a quella della UE. La politica UE sull’acqua include una gestione concordata dei bacini idrici, una solidarietà tra i territori a monte e a valle, una equa distribuzione dell’acqua fra i suoi diversi utilizzi, la protezione degli ambienti acquatici, ecc. Ma la Turchia non adotta affatto questa politica sull’acqua, piuttosto fa il contrario. L’EWM è pertanto sorpreso dal fatto che la Commissione Europea non abbia mai fatto alcun commento nei confronti della Turchia, neanche dopo il bombardamento della diga di Tişrin. La diga di Tişrin assicura l‘acqua per la fornitura di acqua potabile, per l’irrigazione agricola e per la produzione elettrica, tutti fattori essenziali per la vita di centinaia di migliaia di persone. Come spiega Tev-Eko, la sua distruzione causerebbe incalcolabili conseguenze sociali ed ambientali, minacciando le vite delle future generazioni e degli ecosistemi in una vasta area a valle.

La politica migratoria della UE è contraria ai diritti umani e inefficace nello sradicare il terrorismo islamico in Europa

Fin dal 2016 l’Unione Europea ha finanziato la Turchia affinché impedisse ai siriani in fuga dal regime di Hafez Al Assad di trovare rifugio in Europa. In cambio la UE ha chiuso gli occhi sui crimini di guerra contro i curdi nel Kurdistan Turco, dove nel 2016 diverse città, tra cui Cizre, Sirnak e Nusaybin, sono state distrutte e mezzo milione di persone sono state sfollate e dove, a partire dal passaggio sotto il controllo turco nel 2018, sono state perpetrate le atrocità da parte delle milizie islamiste del Syrian National Army (SNA) sulla popolazione, impossibilitata a fuggire dalla regione di Afrin, a prevalenza di popolazione curda. Come si è visto, ciò non ha impedito gli attacchi islamisti in Europa.

La stessa situazione, anche peggiore, può verificarsi di nuovo con l’attacco dell’esercito turco con I propri alleati della SNA contro la regione dell’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria. La conquista da parte dell’esercito turco e dei propri alleati della SNA di questa regione governata da un regime democratico porterà alla morte di migliaia di civili, alla cacciata di centinaia di migliaia di persone e alla liberazione dei prigionieri di Daesh (Stato Islamico), molti dei quali in possesso di passaporto europeo.

La Commissione Europea deve agire in conformità ai valori dell’Unione Europea

La Commissione Europea, la cui Presidente ha di recente riaffermato solennemente i valori sostenuti dall’Unione Europea, ha il dovere di metterli in pratica in qualunque momento. Attualmente questi valori europei sono apertamente violati dalla Turchia nel Nord e nell’Est della Siria, e, in un futuro non troppo lontano, ciò porterà drammatiche conseguenze anche negli Stati Membri della UE. Chiediamo pertanto con urgenza alla Commissione Europea di fare tutto quanto in suo potere per fermare l’aggressione militare turca in Siria.

European water movment

In Afghanistan: è apartheid di genere contro le donne

laredazione.net  

Per aiutare le donne afghane CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane ha lanciato la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”.

Senza volto. Senza voce. Senza volto e senza voce sono le donne afghane. Costrette a stare segregate nelle loro case con finestre oscurate, in Afghanistan è in atto un apartheid di genere. Con apartheid di genere si intende un sistema istituzionalizzato di dominazione e oppressione, che relega in modo sistematico le donne a una condizione di inferiorità e privazione dei diritti fondamentali. Le donne afghane sono seppellite vive tra le mura domestiche e lasciate sole nel divieto di lavorare, istruirsi e condurre una vita, sia privata che sociale, dignitosa e umana.

Con il ritorno dei talebani in Afghanistan, nell’Agosto del 2021, le donne, neanche troppo progressivamente, sono state private dei loro diritti fondamentali; obbligate a subire una costante repressione, la loro esistenza si è ridotta quasi alla funzione del respiro e della procreazione.

Le donne afghane e i diritti negati

I divieti che i talebani hanno inflitto alle donne sono moltissimi: non possono cantare e far sentire la loro voce, devono indossare il burqa, non possono frequentare luoghi pubblici, non possono guidare, non possono lavorare, non possono viaggiare da sole oltre la distanza di 72 chilometri e per questo devono essere accompagnate da un mahram (membro della famiglia di sesso maschile). I recenti decreti hanno invece stabilito il divieto di iscriversi e frequentare gli studi negli istituti medici, mentre quello introdotto nel Dicembre 2024 proibisce alle donne di farsi vedere all’interno delle loro case: nelle nuove costruzioni verranno quindi vietate le finestre che si affacciano su strade pubbliche e in quelle vecchie le finestre saranno oscurate.

Anche la condizione delle bambine è preoccupante: dopo i 12 anni è infatti vietato loro qualsiasi forma di istruzione. Esattamente come le loro madri sono costrette in casa, perché se uscissero da sole rischierebbero di essere rapite dai talebani per darle in sposa ai loro uomini. L’Afghanistan è uno di quei paesi in cui i matrimoni precoci (la famigerata pratica delle spose bambine) e forzati sono legittimati. Matrimoni che spesso, ma non solo, coinvolge le famiglie povere che vendono una delle loro figlie per sostenere materialmente gli altri componenti della famiglia; ovviamente queste pratiche hanno delle forti ripercussioni psicologiche sulle giovani afghane. Un reportage della BBC di Giugno 2023 (ripreso anche dal dossier di Cisda I diritti negati delle donne afghane pubblicato nel settembre 2023), parla di una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”: «Voglio solo che qualcuno ascolti la mia voce. Soffro e non sono l’unica. La maggior parte delle ragazze della mia classe ha avuto pensieri suicidi. Soffriamo tutte di depressione e ansia. Non abbiamo speranza», sono le parole di una giovane studentessa universitaria che ha tentato il suicidio dopo che il talebani hanno impedito alle ragazze di frequentare l’università.

Afghan Witness a proposito di questo tema ha rilevato che: «Ci sono stati almeno 195 casi di suicidio in Afghanistan dall’aprile 2022. I casi di suicidio in Afghanistan sembrano aumentare ogni anno, probabilmente a causa dell’escalation della crisi economica, della disoccupazione, della violenza domestica, dei matrimoni forzati, dei disturbi mentali, restrizioni dei talebani, violenze e violazioni dei diritti umani ad essa connesse». Dati, questi, che però appaiono sommari proprio per la forte censura presente nel Paese, è molto probabile quindi che i casi di suicidio siano molti di più e registrati come incidenti o morti naturali.

A peggiorare la condizione delle donne e delle ragazze afghane è anche il fatto che all’interno del contesto famigliare non è raro che subiscano violenza proprio da parte di quei mariti che sono state obbligate a sposare: una violenza domestica che nella società afghana – misogina, conservatrice e patriarcale – è giustificata e tollerata. La situazione non cambia di molto nel caso in cui una donna sposata subisca molestie o violenza sessuale da parte di un uomo che non sia suo marito: anche in questo caso la colpa ricadrà sulla donna, in quanto è la donna che detiene “l’onore familiare”, d’altronde l’unica legge in vigore nel paese è la sharìa, interpretata dai talebani nella sua forma più rigida.

Situazione attuale dell’Afghanistan

L’Afghanistan è un paese estremamente carente non solo dal punto di vista dei diritti umani, ma anche dal lato economico: non c’è lavoro e c’è povertà; gli uomini infatti (gli unici che possono lavorare) sono costretti a emigrare nei paesi vicini o nelle aree urbane lasciando così le donne da sole e impossibilitate a muoversi. Oltre questo aspetto però si aggiungono pure calamità naturali frequenti, come inondazioni e siccità che rendono l’Afghanistan un territorio critico. Nonostante questo, tuttavia, resistono in maniera coraggiosa associazioni di donne laiche e femministe, come ad esempio Rawa, organizzazione sociopolitica indipendente che dal 1977 si occupa della tutela dei diritti delle donne afghane. Meena Keshwar Kamal, la sua fondatrice, fu uccisa nel febbraio del 1987 da agenti del Khad (il braccio afgano del Kgb) durante l’occupazione sovietica, tuttavia la sua lotta per le donne si è cristallizzata e continua tutt’ora tra le donne afghane, sebbene con modalità diverse.

CISDA – coordinamento italiano sostegno donne afghane, è un’associazione che collabora con Rawa. Le donne del Cisda sono attive nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 1999. Le loro finalità si collocano nell’ambito della solidarietà sociale, della formazione, della promozione della cultura, della tutela dei diritti civili e dei diritti delle donne in Italia e all’estero. Per sostenere queste finalità, il Cisda promuove la raccolta fondi a sostegno di progetti in Afghanistan come scuole segrete per bambine, ragazze e donne, corsi di cucito per aiutare l’autonomia lavorativa femminile, unità mobile sanitaria, coltivazione di zafferano da parte di una cooperativa femminile e tanti altri. A proposito vale la pena descrivere le scuole segrete: piccoli gruppi di ragazze che si riuniscono in un’abitazione privata (spesso quella di un’insegnante) per studiare e imparare quelle materie che a scuola erano loro vietate, tipo le scienze, la matematica e l’inglese. Per evitare di essere scoperte in queste case sono presenti molti libri religiosi da tenere a portata di mano in caso i talebani dovessero fare irruzione nell’abitazione e controllare cosa stanno facendo le donne; a quel punto le ragazze fingeranno di essere in un gruppo di preghiera. Molto problematico appare il tema della sanità. A causa dell’impossibilità per le donne a viaggiare, e quindi di curarsi o semplicemente per farsi dei controlli, è stata creata un’unità sanitaria mobile che si reca nei villaggi per offrire assistenza alle donne e alle ragazze. Va precisato che l’unità mobile funziona per le visite e conferimento di medicinali. Le donne che dovranno operarsi ma non possono viaggiare saranno private del diritto alla salute.

La campagna del Cisda: Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere

Prosegue la Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere del Cisda avviata il 10 Dicembre 2024 in occasione della Giornata mondiale per i diritti umani. Chiedo alla Presidente del Cisda, Graziella Mascheroni, di parlarmi di questa campagna.

Graziella Mascheroni: la campagna si pone ambiziosi, ma fondamentali obiettivi:

Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e della sua sistematica applicazione in Afghanistan.
Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano –
Sostegno alle forze afghane anti-fondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti – Contestualmente è importante che alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica.
Cisda tramite questa campagna propone:

Sottoscrivere la Petizione “STOP FONDAMENTALISMI-STOP APARTHEID DI GENERE” collegandoti al sito del Cisda.
Far approvare nei vari Consigli comunali la mozione
Sostenere a tutti i livelli istituzionali la Campagna
I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e anti-fondamentaliste anche in Afghanistan.

Il regime fondamentalista dei talebani è responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui LGBTQI+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne come traduzione pratica della legge divina (sharia).

L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, è stato un Paese che ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale. Questi drammatici eventi, comuni a molti paesi, hanno generato decenni di guerre che hanno provocato migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate – il brodo di coltura del terrorismo e del fondamentalismo.

 

La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

altraeconomia.it 17 febbraio 2025

Il procuratore capo della Cpi Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il commento del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente.

Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

Dialogo con Ankara, le linee rosse curde per il disarmo

 

Il Manifesto, 16 febbraio 2025, di Tiziano Saccucci

Kurdistan In attesa dell’appello-video del leader Ocalan al Pkk, il partito Dem in missione nel Kurdistan in Iraq. Poca fiducia dei combattenti nelle promesse turche

 

 

A meno che non ci sia una seria opposizione e un intervento golpista, sembra che Reber Apo (il leader Öcalan) darà inizio a un nuovo processo di cambiamento, trasformazione e ricostruzione per tutti», si legge in un comunicato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) in occasione del 15 febbraio, ventiseiesimo anniversario della cattura di Abdullah Öcalan.

«Il nostro popolo lo definisce “il giorno nero”, Reber Apo quest’anno vuole trasformare questo giorno nero in un giorno bianco», ha detto Murat Karayılan, comandante delle Forze di difesa del Popolo (Hpg) legate al Pkk, in un’intervista al canale curdo SterkTV.

DA TEMPO, infatti, circolano voci su un’imminente appello di Öcalan al Pkk affinché questo si impegni in un nuovo processo di pace che porti al disarmo dell’organizzazione, cogliendo l’opportunità aperta a ottobre dal leader nazionalista turco Devlet Bahçeli in parlamento.

L’appello, probabilmente in video, era atteso per proprio per il 15 febbraio ma potrebbe essere rimandato. Ad accennarlo è stata Tülay Hatimogulları, co-presidente del Partito per l’uguaglianza e la democrazia dei popoli (Dem), rispondendo alle domande di alcuni giornalisti al margine di una sessione del parlamento turco. Il ritardo è probabilmente dovuto a una visita di Dem nella Regione del Kurdistan in Iraq, programmata nel fine settimana per incontrare i leader delle due principali famiglie che controllano la regione semiautonoma, Barzani e Talabani.

«La società è pronta, la politica è pronta, l’opposizione è pronta, ma è ovvio che il governo non è pronto. Dovrebbero annunciare le loro tabelle di marcia per un processo di pace. Per cominciare, l’isolamento del signor Öcalan dovrebbe essere revocato», ha dichiarato Hatimogulları.

«I processi del 1993, 1995, 1998 e, più di recente, i colloqui di Oslo tra il 2013 e il 2015, hanno gettato le basi per una soluzione. La questione può essere risolta senza guerra», ha dichiarato il membro del Comitato centrale del Pkk Nedim Seven all’agenzia curda Firat News, confermando tuttavia lo scetticismo del partito sulle reali intenzioni di Ankara: «Sfortunatamente, lo stato turco e i suoi rappresentanti hanno utilizzato questi processi per i propri interessi di potere e hanno agito non per risolvere un problema vecchio di un secolo, ma per mantenere il proprio potere».

ANCHE KARAYıLAN ha criticato l’approccio di Ankara: «Recep Tayyip Erdogan dice di sostenere l’appello di Bahçeli, eppure in Rojava dal confine fino a Tabqa passando per Jarabulus c’è un fronte di guerra e contro i curdi lo stato turco sta usando tutte le possibili tecniche».

Nella stessa occasione, il comandante Hpg ha chiarito le condizioni per il disarmo: «Siamo un movimento con migliaia di combattenti, non sono combattenti per soldi che fanno il loro lavoro e se ne tornano a casa. Combattono per un’idea, per ciò in cui credono. Se la persona che ha creato quell’ideologia, il leader Apo, non parla con questi compagni direttamente, se fa solo una chiamata via video, come possono convincersi a lasciare le armi?».

Secondo Karayılan un messaggio da parte di Öcalan sarebbe «senza dubbio un inizio molto importante» ma non sufficiente se non seguito da un cessate il fuoco bilaterale: «Oggi a Zap, i soldati dello stato turco e i nostri compagni stanno combattendo a 200 metri di distanza, come potrei andare a dirgli di deporre le armi?».

IL PASSAGGIO successivo, linea rossa più volte esplicitata da Karayılan e Seven, dovrebbe essere il rilascio di Öcalan, così che possa discutere il disarmo direttamente con i militanti del partito, magari in un congresso. «Non siamo amanti delle armi, siamo amanti della libertà e della democrazia, della vita equa – ha concluso il comandante della guerriglia – Se queste condizioni si realizzeranno non ci sarà senza dubbio più bisogno delle armi».

Il Tribunale permanente dei popoli riunito a Bruxelles: il giudizio sui crimini della Turchia in Rojava

CGIL Lombardia, Europa Mondo News, 13 febbraio 2025

La sessione di quest’anno del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), che ha avuto luogo il 5 e 6 febbraio 2025 presso la Vrije Universiteit di Bruxelles, ha esaminato i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani commessi dallo Stato turco contro la popolazione curda nella regione del Rojava (Nord ed Est della Siria) dal 2018 a oggi.

Con la partecipazione di procuratori dell’accusa e giudici, sono state esaminate prove, ascoltate testimonianze dirette e analizzati report di attivisti per i diritti umani. Tra gli enti sostenitori, il Centro per la Ricerca e la Protezione dei Diritti delle Donne, il Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK) e l’Associazione Internazionale degli Avvocati Democratici (IADL). Inoltre, tra le delegazioni internazionali, hanno partecipato alla sessione anche Francesca Baruffaldi e Giuseppe Augurusa dell’area politiche internazionali della Cgil Lombardia, portando il proprio supporto e il proprio impegno per il rispetto dei diritti umani, nel contesto internazionale ma anche italiano.

Nelle stesse giornate, infatti, anche in Italia si è alzata l’attenzione sulla questione curda con l’occasione della svolta giudiziaria sul caso di Maysoon Majidi, attivista curda iraniana liberata dopo dieci mesi di detenzione con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una scarcerazione accolta con grande soddisfazione, soprattutto da tutti i soggetti difensori dei diritti umani che hanno sempre sostenuto la sua innocenza. Maysoon Majidi, dichiarava infatti di essere una migrante come gli altri, e durante la detenzione aveva anche intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro la sua incarcerazione. Si definisce infatti una «perseguitata politica, né scafista né una migrante economica, ma scappata dall’Iran per sfuggire alle persecuzioni del regime. Trentasette organizzazioni hanno accertato che ho collaborato in tutti questi anni con loro».

Crimini documentati e accuse al governo turco
La sessione del Tribunale ha quindi trattato nella prima giornata i temi dello sfollamento forzato della popolazione e dell’ingegneria etnica in Afrin. Pratiche che, insieme ai bombardamenti indiscriminati, alle torture dei civili sfollati a Tel Rifat e alla distruzione delle infrastrutture essenziali, hanno portato all’accusa rivolta allo stato turco di crimini contro l’umanità. La seconda giornata, invece, ha approfondito la pratica dei femminicidi e degli stupri mirati come strategia di attacco alla forte presenza delle donne nel confederalismo democratico curdo, e strumenti di sostituzione etnica come l’uso di droni contro i civili per provocare lo sfollamento, la detenzione arbitraria nei cosiddetti “carceri segreti” e la cancellazione culturale e storica.

L’investigatore della squadra dell’accusa, Anni Pues, docente di diritto internazionale presso l’Università di Glasgow, ha presentato infatti una relazione dal titolo “Stupro e violenza sessuale nelle carceri segrete – metodi di tortura e guerra”. Tra tutti, il caso di Nadia Hassan Suleiman e Lonjin Abdo è stato illustrato come emblematico per le accuse di detenzione arbitraria, tortura, stupro e sparizione forzata. Questi atti esercitati dalla Turchia, ha dichiarato Pues, sono considerati crimini di guerra ai sensi del diritto internazionale consuetudinario. Nadia Hassan Suleiman e Lonjin Abdo, secondo l’accusa e le prove rilevate, sono state infatti sequestrate dalle autorità turche tra il 2 agosto 2018 e il dicembre 2020, detenute in condizioni disumane, torturate e violentate.

“Stiamo difendendo la coscienza collettiva, non stiamo solo difendendo il popolo curdo” ha affermato nella sua arringa finale una delle rappresentanti dell’accusa, “il Rojava è una storia di resistenza e le donne stanno combattendo per tutte le donne nel mondo.”

L’investigatore della squadra di persecuzione Socrates Tziazas ha poi illustrato il fenomeno della cancellazione culturale e storica, consultando il professor Odisseas Christou riguardo alla distruzione di siti archeologici come il Tempio di Ain Dara, distrutto dai bombardamenti turchi nel 2018. Afrin, ha sottolineato Tziazas, è una delle regioni con il più alto numero di siti archeologici e storici saccheggiati o distrutti dall’operazione militare turca “Ramo d’Ulivo” iniziata nel 2018.

“In Siria – afferma Tziazas – i droni turchi hanno bombardato la storia della civiltà, cercando di cancellarne anche le tracce. Oltre ad uccidere donne, bambini e uomini, oltre a distruggere le loro case, l’esercito siriano complice delle forze di occupazione turca bombarda la storia dell’umanità, perché non deve rimanere traccia di questi popoli, come se non fossero mai esistiti. E i ruderi vengono trasformati in uno scenario di guerra e di esercitazioni militari, dove ogni pietra antica affonda nella storia e si macchia di sangue.”

Dal punto di vista giuridico, l’avvocato ha spiegato come questo rientri nella fattispecie di un crimine contro l’umanità e un crimine di guerra. Con l’aggiunta di una fattispecie di reato internazionale ancora più mirata: l’ecocidio. Il degrado dell’habitat ambientale, distrutto di proposito, è catalogabile infatti come un crimine contro la popolazione locale.

Un altro episodio drammatico esposto dall’investigatore Rengin Ergol è il caso del bombardamento della scuola di Shemoka. Il 18 agosto 2022, un attacco aereo ha colpito una scuola civile dell’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale (AANES), causando la morte di diversi studenti e ferendo molti altri. I sopravvissuti hanno denunciato i fatti attraverso videomessaggi, evidenziando la mancanza di aiuti da parte delle organizzazioni internazionali.

L’ultimo caso esaminato dal Tribunale riguarda il bombardamento della Simav Printing House a Qamishlo, avvenuto il 25 dicembre 2023. Secondo l’investigatore Florian Bohsung, l’attacco ha ucciso sette civili e causato ingenti danni alla tipografia. Il Ministero della Difesa turco ha dichiarato che l’operazione mirava a obiettivi terroristici legati al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ma le prove raccolte dimostrano che le vittime non avevano alcuna affiliazione politica o militare.

Testimonianze dirette e analisi delle prove
Durante il Tribunale, numerosi testimoni hanno fornito racconti diretti. Ibrahim Sheho ha descritto la situazione in Afrin dopo l’occupazione turca, mentre Hoshang Hasan ha testimoniato sugli attacchi contro i giornalisti e la repressione della libertà di stampa. Avin Suwed, Co-Presidente del Consiglio Esecutivo dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est, ha infine parlato delle conseguenze politiche e sociali dell’occupazione turca.

La strategia di sfollamenti forzati e ingegneria etnica nelle aree di Afrin, Ras al-Ayn e Tel Abyad è stata evidenziata come una pratica sistematica, così come la violenza di genere e i femminicidi mirati volti a indebolire il ruolo sociale delle donne. La distruzione delle infrastrutture mediche, energetiche e di rifornimento idrico sono armi puntate contro la popolazione civile siriano-curda. L’obiettivo di tutte queste pratiche è lo sfollamento definitivo dell’area, per una sostituzione etnica con popolazioni turcomanne e di lingua araba.

“Con gli occhi lucidi abbiamo assistito in diretta al racconto della storia recente di una parte del mondo che è vicinissima ai nostri confini, ma troppo spesso incompresa o ignorata” commenta Francesca Baruffaldi, dell’area politiche internazionali CGIL Lombardia.

Il verdetto del Tribunale
I risultati principali delle udienze del Tribunale hanno rivelato che dall’occupazione turca di Afrin nel 2018, oltre 300.000 persone sono state sfollate con la forza, e la popolazione curda ad Afrin è crollata da oltre il 90% ad appena il 25%. Le prove includono testimonianze di bombardamenti indiscriminati che hanno causato vittime tra i civili, in particolare tra i bambini, e la distruzione di infrastrutture vitali, portando a gravi crisi umanitarie, tra cui la mancanza di accesso all’acqua potabile e all’assistenza sanitaria.

Nella loro dichiarazione, i giudici hanno criticato la giustificazione della Turchia delle sue operazioni militari come autodifesa contro il terrorismo, affermando che l’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale (DAANES) rappresenta un modello di democrazia, coesistenza etnica e uguaglianza di genere che il governo turco cerca di smantellare.

Il verdetto del Tribunale, letto il 6 febbraio 2025, ha ribadito la responsabilità del governo turco per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, sottolineando la necessità di un’azione internazionale immediata per fermare la violenza e garantire giustizia al popolo curdo. Le prove indicano infatti lo Stato turco e i suoi alti funzionari come i principali responsabili del terrore contro le popolazioni civili, piuttosto che i combattenti curdi che si sono opposti attivamente all’ISIS. La decisione del Tribunale rappresenta un’importante denuncia pubblica, contribuendo a documentare le violazioni e a sensibilizzare la comunità internazionale sulla gravità della situazione in Rojava.

Per Giuseppe Augurusa, presente alla sessione insieme a Francesca Baruffaldi, “la storia sembra tornare indietro, ma finché potremo, lotteremo per i diritti degli oppressi contro gli oppressori. Come sindacalisti che da sempre lottano per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, crediamo che questi siano inscindibili dai diritti umani e civili di ogni popolo. La lotta per l’autodeterminazione del popolo curdo, schiacciato come minoranza dalla Turchia e non solo, riecheggia purtroppo il genocidio in Palestina. Un tragico filo conduttore che si dipana in questa fase storica, in cui le teorie negazioniste e le destre estreme stanno prendendo piede anche nelle democrazie più antiche del mondo.”

Donne Insieme: nuova petizione del Cisda per le donne in Afghanistan

Casale News, 14 febbraio 2025

Sabato 15 febbraio, dalle 9.30 alle 18, presidio e letture per bambini in Piazza Mazzini

Il Collettivo Donne Insieme, che da qualche anno segue con assiduità le vicende dell’Afghanistan ed in particolare della condizione delle donne, si ripresenta con un presidio in piazza Mazzini sabato 15 febbraio dalle 9.30 alle 18 per promuovere la nuova petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere e per raccogliere fondi per il finanziamento dei progetti di sostegno già avviati negli anni scorsi.

In questi ultimi mesi il governo talebano ha aggiunto nuovi provvedimenti restrittivi delle possibilità di vita delle donne (le libertà e i diritti sono già del tutto negati, ora si può soltanto parlare di condizioni di sopravvivenza): è stato introdotto il divieto di aprire le finestre o addirittura l’ordine di murarle (sì, proprio così) per impedire alle donne di vedere cortili, cucine, pozzi dei vicini e altri luoghi frequentati da altre donne; è stato chiuso il corso di studi Ostetricia e medicina, per cui le donne non avranno più la possibilità di essere curate, non potendo in futuro rivolgersi a medici donna.

A fronte di questa situazione, un lungo elenco di paesi ha preso una decisa posizione di condanna del governo talebano, rivolgendosi alla Corte Internazionale di Giustizia e/o alla Corte Penale Internazionale: proprio quest’ultima ha richiesto un mandato di arresto internazionale per il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada e suoi collaboratori. Altri paesi invece, Europa inclusa, hanno accettato il confronto diplomatico diretto col governo fondamentalista, accogliendo le condizioni poste da quest’ultimo (escludere la presenza femminile dai negoziati ed escludere dai temi affrontati proprio la condizione delle donne)

La persecuzione sistematica delle donne da parte dei fondamentalisti talebani ha spinto il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne –afghane, con cui Donne Insieme collabora) a promuovere una petizione al Governo Italiano affinché sostenga alcune azioni e se ne faccia promotore presso le istituzioni internazionali:

– Riconosca l’apartheid di genere” come crimine contro l’umanità (si riferisce a violazioni sistematiche e istituzionalizzate contro le donne)

– Non venga dato riconoscimento di alcun tipo al regime fondamentalista talebano

– Venga dato invece sostegno e supporto alle voci democratiche antifondamentaliste che ancora resistono all’interno del Paese

Il presidio di Donne Insieme è finalizzato a raccogliere adesioni a questa petizione, ad informare sulla situazione delle donne e sulle azioni promosse a vari livelli.

Uno spazio sarà dedicato ai bambini, che potranno ascoltare la lettura di fiabe afghane dalle 10,30 alle 11,30.

La petizione Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di genere si trova qui

Si può aderire come Associazione scrivendo a rete@cisda.it

Difendiamo il Rojava, manifestazioni a Roma e Milano

Pressenza, 10 febbraio 2025, di L’Ideota

Il 15 febbraio 2025, a Roma e Milano, manifestiamo per chiedere la libertà di Abdullah Öcalan, segregato dal 1999 nelle prigioni turche.

Öcalan ha influenzato una rivoluzione che mette al centro l’emancipazione delle donne, ispirata all’ecologia sociale e al municipalismo libertario dell’intellettuale americano Murray Bookchin.

Il 15 febbraio scendiamo in piazza per sostenere il Rojava e la sua rivoluzione fragile, imperfetta e precaria, messa a rischio dalla guerra. Una rivoluzione minacciata dagli attacchi indiscriminati di Erdogan.

Incontriamoci per far uscire questo tema dal cono d’ombra, perché quella del Rojava è una popolazione che è stata tradita troppo volte.

Tradita da chi evita di informarsi sui fatti del mondo.

Tradita da un Occidente che si ricorda del Rojava solo quando mette in agenda la lotta contro l’ISIS.

Tradita da un Occidente che fornisce armi alla Turchia, un Paese Nato, per consentire a Erdogan di compiere i suoi massacri.

Tradita da un Occidente che si riempie la bocca di “valori occidentali” e “superiorità morale” mentre fa guerre imperialiste e volta le spalle a un esperimento di società autogestita, egualitaria, femminista ed ecologista.

Tradita dai campisti rossobruni che considerano “radical chic” qualsiasi battaglia ecologista, femminista e antiautoritaria.

Tradita da chi non capisce che si può (e si dovrebbe, in un mondo ideale) essere contro tutte le ingiustizie, contro tutte le forme di capitalismo, contro l’imperialismo occidentale, contro l’imperialismo dei BRICS, dalla parte di chi si ribella alle teocrazie. Perché “il nemico del mio nemico è mio amico” è una logica assurda che ha fatto troppi danni.

Tradita dagli stalinisti che disprezzano l’esperimento del Rojava perché non possono piantare la loro bandiera su questa esperienza di emancipazione collettiva.

Tradita da Assad, dagli Stati Uniti, dall’Europa, dall’Italia, dalla Russia, dall’ONU, dai BRICS.

Tradita dai padroni delle piazze virtuali che spesso censurano chi affronta questo tema.

Tradita dal silenzio (rotto raramente) di radio, televisioni, giornali e intellettuali.

Tradita da chi non rinuncia a muri e confini.

Tradita dal benaltrismo, da chi ha passato gli ultimi anni a dirci “ci sono questioni più urgenti”, “ora non è il momento”, “magari un’altra volta”.

Tradita da chi sogna rivoluzioni e non si rende conto che proprio ora, davanti ai nostri occhi, è in corso una rivoluzione fragile e precaria che rischia di essere spazzata via anche a causa del disinteresse.

Il confederalismo democratico del Rojava è stato tradito troppe volte.

Questa volta cerchiamo di essere una moltitudine, perché i post su Facebook non faranno mai la differenza.

Il 15 febbraio è il 26esimo anniversario della cattura di Öcalan.

Quel giorno incontriamoci per manifestare:

A Milano, Largo Cairoli, ore 14.30;
A Roma, Piazzale Ugo La Malfa, ore 14.30.