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Tag: Afghanistan

Le ONG che impiegano donne afghane saranno chiuse

Le Nazioni Unite hanno affermato che lo spazio per le donne in Afghanistan si è ridotto drasticamente negli ultimi due anni

The Associated Press, Rawa, 4 gennaio 2024

I talebani affermano che chiuderanno tutti i gruppi non governativi nazionali e stranieri in Afghanistan che impiegano donne, si tratta dell’ultima repressione dei diritti delle donne da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021.

L’annuncio arriva due anni dopo che avevano chiesto alle ONG di sospendere l’impiego di donne afghane, presumibilmente perché non indossavano correttamente il velo islamico.

In una lettera pubblicata domenica sera, il Ministero dell’Economia ha avvertito che il mancato rispetto dell’ultima ordinanza avrebbe comportato per le ONG la perdita della licenza per operare in Afghanistan.

Le NU chiedono l’annullamento delle restrizioni

Le Nazioni Unite hanno affermato che negli ultimi due anni lo spazio riservato alle donne in Afghanistan si è ridotto drasticamente e hanno ribadito il loro appello ai talebani affinché annullino le restrizioni.

“Questo ha un impatto reale su come possiamo fornire assistenza umanitaria salvavita a tutte le persone in Afghanistan”, ha affermato la portavoce associata delle Nazioni Unite Florencia Soto Nino-Martinez. “E ovviamente siamo molto preoccupati dal fatto che stiamo parlando di un paese in cui metà della popolazione è privata dei propri diritti e vive in povertà, e molti di loro, non solo le donne, stanno affrontando una crisi umanitaria”.

Il Ministero dell’Economia ha affermato di essere responsabile della registrazione, del coordinamento, della guida e della supervisione di tutte le attività svolte dalle organizzazioni nazionali e straniere.

Secondo la lettera, il governo ha nuovamente ordinato la sospensione di tutti i lavori femminili nelle istituzioni non controllate dai talebani.

“In caso di mancata collaborazione, tutte le attività di tale istituzione saranno annullate e verrà annullata anche la licenza di attività di tale istituzione, concessa dal ministero.”

È l’ultimo tentativo dei talebani di controllare o intervenire nelle attività delle ONG.

All’inizio di questo mese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appreso che a un numero crescente di operatrici umanitarie afghane è stato impedito di svolgere il proprio lavoro, nonostante gli aiuti umanitari restino essenziali.

Secondo Tom Fletcher, alto funzionario delle Nazioni Unite, è aumentata anche la percentuale di organizzazioni umanitarie che segnalano che il loro personale, femminile o maschile, è stato fermato dalla polizia morale dei talebani.

I talebani negano di impedire alle agenzie umanitarie di svolgere il loro lavoro o di interferire con le loro attività.

Hanno già escluso le donne da molti lavori e dalla maggior parte degli spazi pubblici, escludendole anche dall’istruzione oltre la sesta elementare.

Da un divieto all’altro

In un altro decreto, il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha ordinato che gli edifici non debbano avere finestre che diano su luoghi in cui una donna potrebbe sedersi o stare in piedi.

Secondo un decreto composto da quattro clausole pubblicato su X sabato sera, l’ordinanza si applica sia ai nuovi edifici che a quelli esistenti.

Anche le Nazioni Unite hanno chiesto l’abolizione di questa restrizione, ha affermato Soto Nino-Martinez.

Il decreto affermava che le finestre non dovevano affacciarsi o guardare in aree come cortili o cucine. Quando una finestra guarda in uno spazio del genere, la persona responsabile di quella proprietà deve trovare un modo per oscurare questa vista per “rimuovere il danno”, installando un muro, una recinzione o una zanzariera.

I comuni e le altre autorità devono supervisionare la costruzione di nuovi edifici per evitare di installare finestre che si affacciano su proprietà residenziali o al di sopra di esse, aggiunge il decreto.

Un portavoce del Ministero dello sviluppo urbano e dell’edilizia abitativa non ha voluto commentare le istruzioni di Akhundzada.

 

 

I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere delle donne

Per esempio quelle che danno su cucine o cortili: è l’ennesima misura adottata in Afghanistan per rendere la loro vita ancora più difficile e isolata

Il Post, 30 dicembre 2024

Sabato 28 dicembre il regime dei talebani che governa in Afghanistan dal 2021 ha emanato un decreto che vieta di costruire, nei nuovi edifici, finestre che si affaccino su stanze e ambienti altrui dove potrebbero esserci delle donne. «Vedere le donne che lavorano in cucina, nei cortili o nei pozzi mentre raccolgono l’acqua, potrebbe indurre ad atti impuri», si legge nel decreto.

È soltanto l’ultima di una serie di regole imposte negli ultimi anni per limitare la vita sociale, l’indipendenza e l’autonomia delle donne, che secondo l’interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice praticata dai talebani godono di molti meno diritti rispetto agli uomini.

Il decreto è stato emesso dal leader del regime afghano, Hibatullah Akhundzada, ed è stato annunciato su X dal suo portavoce Zabihullah Mujahid. Dal testo del decreto emerge una visione profondamente stereotipata e discriminatoria delle donne, che secondo i talebani appartengono agli ambienti della casa tradizionalmente associati alla cura e all’accudimento della famiglia: la cucina, appunto, e altri luoghi dove si può reperire e preparare del cibo per la famiglia.

L’indicazione del decreto non si limita agli edifici di nuova costruzione, ma anche a quelli già esistenti. Se una stanza ha già una finestra che si affaccia su una cucina o un cortile il proprietario dell’edificio è obbligato a trovare un modo per «evitare danni», per esempio installando un muro o qualcosa che schermi la vista. La norma renderà la vita delle donne ancora più separata da quella degli uomini, in una condizione ormai permanente di subalternità.

I talebani stanno applicando norme simili a quelle che emanarono durante il loro primo regime, dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne furono negati moltissimi diritti. Quando ripresero il potere, nel 2021, cercarono di presentarsi come un gruppo moderato e aperto, che avrebbe trattato le donne in maniera diversa rispetto agli anni precedenti.

Già nei mesi successivi tuttavia divenne chiaro che non sarebbe stato così. Tra le altre cose, negli ultimi tre anni i talebani hanno chiuso le scuole secondarie femminili (l’equivalente di medie e superiori italiane), hanno proibito alle donne di accedere all’università, e hanno vietato l’accesso a parrucchieri e saloni di bellezza.

Lo scorso agosto hanno approvato la prima legge emanata dal ministero per la Prevenzione dei vizi e la Promozione delle virtù, creato per promuovere il rispetto di un’interpretazione estremamente rigida della dottrina islamica. La legge, divisa in 35 articoli, stabilisce per esempio che le donne non possano cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è qualcosa di intimo e deve rimanere privata. La legge vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di avere incontri di qualsiasi tipo con uomini che non siano loro parenti.

Due giorni dopo l’emanazione del decreto sulle finestre, inoltre, il regime ha annunciato che chiuderà le associazioni e le ong afghane e straniere che impiegano delle donne. Già nel 2022 i talebani avevano emanato un divieto simile, che però di fatto non era stato applicato.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

Una petizione e una raccolta firme del Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane chiede al nostro governo e all’Onu di riconoscere un nuovo crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. Intanto è il Parlamento su iniziativa di Laura Boldrini ad accogliere la proposta. Mentre Kabul lancia un ultimatum alle Ong contro l’impiego di personale femminile. Per abbattere le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane

ANPI, Redazione, 7 gennaio 2025

Se ne parla da anni, con un nulla di fatto. Ma le donne sono determinate quando si tratta di affermare la loro dignità e la richiesta di rispetto e parità. Perché se la strada del riscatto di genere è lunga e tortuosa, la storia delle battaglie dei movimenti femminili lo è altrettanto, e ha temprato lotta dopo lotta.

Cos’è l’apartheid di genere

L’iniziativa è internazionale, volta a sensibilizzare e ottenere “il riconoscimento legale di qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, stabilisce, mantiene o perpetua il dominio di un genere sull’altro attraverso la segregazione, l’oppressione o la discriminazione”. Questo il significato di “apartheid di genere” elaborato da giuriste del Cisda, il Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane.

Una nuova fattispecie di reato, dunque, diverso da quello di discriminazione razziale come definito nello Statuto di Roma che, entrato in vigore nel 2002, ha istituito la Corte penale internazionale. Un delitto non ancora previsto dai trattati globali, permettendo così impunità giuridica a chi, realtà statuali o gruppi organizzati, viola i diritti umani con angherie sessuali, stupro, negazione dei diritti riproduttivi, sia delle donne sia della comunità Lgbtqi+.

Come sottolinea la campagna lanciata dal Cisda esiste una stretta relazione tra l’apartheid di genere e tutti i fondamentalismi. Perché il tema non riguarda unicamente alcune rigide interpretazioni dei precetti islamici o le posizioni estreme dei movimenti cristiani antiabortisti, e nemmeno solo la religione. Abita dovunque, precisa l’associazione, prevalga con la forza e la violenza l’idea che tra sfera pubblica – fedeltà a un credo o a una visione politica – e vita civile non ci possa essere distinzione.

La campagna del Cisda, a cui tra le altre associazioni ha subito aderito l’Anpi con il Coordinamento Donne, è stata lanciata, o meglio rilanciata lo scorso 10 dicembre, Giornata mondiale per i diritti umani, in vista del Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità in elaborazione alle Nazioni Unite. Le negoziazioni vere e proprie saranno avviate nel 2028 e 2029, quindi per l’iter necessario a stabilire accordi internazionali il tempo stringe.

L’etimologia della parola apartheid deriva dalla lingua afrikaans dei coloni bianchi nell’Africa meridionale, ma il termine è ormai utilizzato a livello globale per indicare una forma di dominio sistematico di una categoria, sia etnica sia di genere sull’altra. Proprio come in Afghanistan, dove alle donne è vietato perfino parlare in pubblico.

Si tratta anche di assumersi una responsabilità storica e politica: Paesi e potenze mondiali dove la laicità è un valore condiviso, pur di garantire “la loro egemonia coloniale hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti, generando decenni di guerre con migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate”. Così con i talebani e così dopo il crollo del regime di Assad in Siria, arrivando al paradosso di sentir definire “ribelli” i paramilitari dell’impronunciabile Al Qaeda, ora dipinta in Occidente come democratica e liberatrice.

Il dibattito a Montecitorio

Pochi giorni fa, l’Italia grazie a una mozione presentata da Laura Boldrini in Commissione Esteri a Montecitorio (presieduta da Giulio Tremonti, che con la “cultura non mangia, ricordate”?), ha accolto all’unanimità la proposta di introdurre nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu il reato di “segregazione di genere”.

In un’oretta di dibattito, dove la Lega avrebbe voluto che “genere” si riferisse “esclusivamente ai due sessi, maschile e femminile, escludendo la tutela della comunità Lgbtqi+, e altri rappresentanti della maggioranza di governo (per esempio Forza Italia) si siano opposti ad adottare il termine “apartheid”, nonostante in sede di Parlamento europeo lo scorso settembre avessero votato favorevolmente, il risultato è stato tuttavia raggiunto. Frutto di mediazione lessicale, il vocabolo “segregazione” proposto dal Pd ha messo tutti d’accordo.

Ben disposto anche il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli (arrivato agli onori delle cronache una manciata di giorni fa per aver affermato che “Il tratto distintivo più profondo del fascismo era uno spirito straordinario di libertà”). Conclusione: nonostante la riformulazione non corrisponda esattamente agli obiettivi prefissati “L’Italia sosterrà l’introduzione del reato di ‘segregazione di genere’ nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu”.

Resta essenziale quindi, politicamente ed eticamente, sostenere la campagna del Cisda. Perché bisogna salvare vite umane in Afghanistan, Iran, Arabia Saudita, Yemen, dovunque l’essere donna è in sé fonte di “persecuzione di Stato”.

CLICCA QUI PER FIRMARE

Per sottoscrivere la petizione “STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE” si può cliccare direttamente al link https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere. Sulla pagina online del Cisda inoltre è disponibile utile materiale informativo https://www.cisda.it/wp-content/uploads/2024/12/Press-Kit.zip

L’associazione chiede inoltre al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania, Paesi Bassi, e appoggiata da altri 22 Stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale (dove devono rispondere gli Stati) per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW, il primo e finora il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne), di cui l’Afghanistan è firmatario.

Cisda inoltre chiede che Palazzo Chigi supporti l’attività di Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico di sottoporre alla Corte Penale Internazionale (che si occupa dei crimini commessi da persone in carne e ossa) per ulteriori indagini le continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

La capacità di lotta delle donne è straordinaria

Le donne di tutto il mondo possiedono una straordinaria capacità di fare tesoro delle lotte di altre donne, indipendentemente dai confini nazionali. Questa solidarietà femminile trascende le divisioni politiche, culturali e geografiche, creando una rete globale di supporto e resistenza.

La storia propone esempi. Già nell’antica Grecia, donne come Saffo e Aspasia hanno cercato di sfidare le norme patriarcali della loro epoca. Durante la Rivoluzione Francese, le femmes parigine marciarono su Versailles per chiedere pane e giustizia, un atto di coraggio che ispirò future generazioni di attiviste. Allo stesso modo, le suffragette britanniche all’inizio del XX secolo lottarono instancabilmente per il diritto di voto, influenzando movimenti simili in tutto il mondo.

Durante la Resistenza italiana le donne hanno svolto un ruolo fondamentale, non solo nella lotta contro l’occupazione nazifascista ma anche nella costruzione di una rete di solidarietà che ha superato i confini nazionali. Come corriere, infermiere e combattenti, le donne italiane hanno mostrato una straordinaria determinazione. La loro lotta non si è limitata al contesto locale; ha infatti ispirato e ricevuto sostegno da donne in tutto il mondo, creando un legame di solidarietà internazionale.

In tempi più recenti, abbiamo assistito a un incremento della solidarietà femminile internazionale.

Il movimento delle donne curde ha svolto un ruolo cruciale nella difesa e liberazione dall’Isis della regione autonoma del Rojava in Siria. Il loro motto “Jin, Jiyan, Azadî” (Donna, Vita, Libertà) è migrato in Iran dopo l’uccisione da parte della polizia morale iraniana di Masha Amini per sfidare le restrizioni imposte dal regime, con il movimento “Donna, Vita, Libertà”. Un grido che ha visto milioni di donne, da Teheran a New York, unirsi per chiedere cambiamenti significativi.

L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala, dal 19 dicembre scorso detenuta nel carcere di Evin, periferia della capitale, fa riflettere. Non sono state formulate precise accuse formali, solo uno scarno comunicato dell’agenzia statale Irna: “La cittadina italiana è arrivata in Iran il 13 dicembre con un visto giornalistico ed è stata arrestata il 19 per aver violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran”. Seppur si sospetta che la vicenda possa essere una rappresaglia per l’arresto in Italia di un ingegnere iraniano, il caso evidenzia le difficoltà e le sfide che le donne giornaliste affrontano in Paesi dove i diritti umani sono costantemente violati.

Le donne afghane, sotto il regime talebano, trovano nella comunità internazionale una voce che amplifica le loro richieste di diritti fondamentali. E Kabul continua con il pugno di ferro. In una lettera pubblicata qualche giorno fa su X (il social di Musk) il ministero dell’Economia del Paese ha minacciato la chiusura di tutte le ONG che impiegano donne afghane, minacciando di sospendere le attività e revocare le licenze alle organizzazioni umanitarie che lavorano nel Paese nei progetti di sviluppo e di aiuto.

Le guerre sono le più acerrime nemiche dei diritti delle donne. Le donne di Gaza stanno affrontando da quindici mesi una realtà devastante, segnata da sofferenze inimmaginabili. L’aggressione targata Netanyau ha causato nella Striscia la morte di oltre 41.600 persone e ne ha ferite 96.000, la maggior parte donne e bambini. La mancanza di accesso a servizi essenziali come ospedali, acqua e cibo aggrava ulteriormente la situazione. Molte donne incinte e in fase di allattamento affrontano sfide critiche per accedere alle cure prenatali e postnatali.

Un altro esempio di lotte comuni dei nostri tempi è quello delle donne migranti, che spesso affrontano discriminazioni e violenze. In risposta, organizzazioni femminili in diversi Paesi hanno creato reti di supporto per offrire assistenza e protezione, dimostrando che la forza della solidarietà può superare le barriere più ostili.

La capacità di fare patrimonio delle battaglie di altre donne è una delle più grandi risorse del movimento femminista. È un richiamo potente alla giustizia e all’uguaglianza, unito dalla convinzione che i diritti delle donne non possono essere limitati da confini nazionali. La lotta di una donna in un angolo del mondo è la lotta di tutte le donne, ovunque esse siano.

Abbattiamo le mura del silenzio, ridiamo voce alle donne afghane.

La lotta contro l’apartheid di genere è una battaglia cruciale per i diritti umani non solo delle donne, nel XXI secolo è di tutte e tutti.

 

CISDA – Stop Fondamentalismi. Stop Apartheid di genere

Giovanna Cardarelli, ANPI Oggi e Domani, dicembre 2024

Dopo quasi tre mesi è terminato il lungo periodo in Italia di Shakiba, militante di Rawa (Associazione Rivoluzionaria Donne Afghane), sostenuta da Cisda dal lontano 1999

La sua presenza in molteplici iniziative sul territorio, con ampia partecipazione ovunque, è stata molto preziosa per poter ascoltare dalla sua voce come vivono le donne in questo momento in Afghanistan ma soprattutto come le attiviste di Rawa, che sono rimaste nel paese, hanno deciso di continuare la lotta politica e di resistenza al regime talebano misogino e fondamentalista.

Sentire dalla sua voce cosa significa lottare e resistere, anche dalla clandestinità, in quel paese è stato molto importante; manifestare è molto pericoloso ma le donne non si fermano, per tutte loro può voler dire essere arrestate, torturate e a volte anche uccise come già successo.

Le costrizioni che i talebani hanno imposto alle donne sono molteplici; non possono studiare, non possono lavorare, non possono uscire sole ma devono essere accompagnate da un uomo, non possono far sentire la loro voce, le donne indigenti arrestate per aver mendicato in base alle nuove e draconiane leggi dei talebani hanno parlato di stupri e percosse “brutali” subite durante la detenzione; insomma qualsiasi cosa è loro preclusa, vivono in un regime di apartheid dimenticate un po’ da tutti ma non da chi vuole fare affari con i talebani a scapito dei diritti umani e riconoscendo così di fatto quel regime

Il paese vive una forte crisi umanitaria, non c’è lavoro, non ci sono soldi, si vive in uno stato di miseria, le inondazioni di quest’autunno hanno aggravato la situazione di interi villaggi che, governate da talebani, non hanno ricevuto aiuti.

Noi continuiamo a sostenerle sia politicamente che con progetti che loro stesse hanno avviato; attraverso raccolte fondi e progetti riusciamo ad inviare danaro per le loro attività, dalle scuole segrete per ragazze e donne, a piccoli shelter ecc. Aggiornamenti su tutto questo su www.cisda.it

Ora che Shakiba è tornata in Afghanistan spetta a noi di Cisda continuare ad essere la loro voce e tenere alta l’attenzione sulle condizione di apartheid che stanno vivendo le donne in quel paese

Cosa abbiamo fatto in questo ultimo periodo
Con la rete di associazioni con la quale collaboriamo in Italia e in Europa, abbiamo lanciato una campagna “STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE” che vuole spingere il nostro Governo – in quanto membro delle Nazioni Unite e di Istituzioni Internazionali – a prendere posizione contro il governo di fatto dei Talebani e a sostenere la proposta di codificazione del reato di Gender Apartheid nei Trattati Internazionali.

Come prima azione della Campagna abbiamo avviato una PETIZIONE in occasione della giornata mondiale per i diritti umani: potete firmarla direttamente sul sito Cisda, sia individualmente che come Associazione, Enti, Partiti ecc. aiutandoci a sostenerla e a diffonderla.

Il CISDA, in collaborazione con alcune giuriste, ha inoltre redatto e inviato una “proposta di codificazione del reato di “apartheid di genere” come contributo della società civile ai lavori in corso della Sesta Commissione giuridica dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per un recepimento nella Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità in fase di discussione da parte dell’ONU.

Il divieto dei talebani di studiare medicina scatena le proteste delle donne in tutte le province

Il nuovo divieto imposto dai talebani pone fine all’istruzione medica per le donne, sollevando allarme sul futuro dell’assistenza sanitaria per le donne afghane

Afghan Witness, CIR, 20 dicembre 2024

Il 2 dicembre 2024, giornalisti e agenzie di stampa afghane hanno riferito che il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada aveva emanato un nuovo decreto che proibiva alle donne di iscriversi e frequentare studi negli istituti medici. Secondo i media afghani , la decisione è stata annunciata dal ministro della Salute pubblica dei talebani in un incontro con i responsabili degli istituti sanitari di Kabul. Questa nuova misura proibirà alle donne di studiare ostetricia, protesi dentarie, infermieristica, scienze di laboratorio, tra le altre materie.

Cronologia delle restrizioni all’istruzione delle donne e delle ragazze
La decisione segue una serie di restrizioni all’istruzione di donne e ragazze. A marzo 2022, le autorità di fatto hanno vietato alle ragazze di studiare oltre la sesta elementare (circa 11 anni). A dicembre 2022, la decisione è stata estesa a un divieto nazionale per le donne di iscriversi e studiare nelle università. A dicembre 2023, le autorità talebane hanno chiuso vari istituti privati, nonostante la mancanza di una decisione ufficiale in merito. A febbraio 2024, i talebani hanno proclamato che alle laureate sarebbe stato consentito di presentare domanda per studiare in istituti medici pubblici in 11 province . Tuttavia, tale risoluzione è stata annullata nell’annuncio più recente.
Secondo fonti di AW a Kabul, l’unica forma di istruzione laica rimasta disponibile per le ragazze oltre la sesta elementare nella capitale sono i corsi di lingua inglese offerti da centri privati ​​a un costo elevato. Questo è probabilmente il caso di altre aree urbane, lasciando donne e ragazze provenienti da famiglie più povere o da aree rurali senza accesso a nessuna forma di istruzione laica.

Reazioni delle organizzazioni internazionali
In seguito alla decisione, Médecins Sans Frontières (MSF, Medici Senza Frontiere) ha rilasciato una dichiarazione sul proprio sito web. L’organizzazione, che gestisce progetti in sette province in cui più della metà dei suoi dipendenti sono donne, ha affermato che “non c’è un numero sufficiente di operatrici sanitarie nel paese” e che “le nuove limitazioni limiteranno ulteriormente l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità e porranno seri pericoli alla sua disponibilità in futuro”.
Il 9 dicembre 2024, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha rilasciato un comunicato stampa in cui si riferiva alla nuova misura come a un “divieto draconiano”. L’OHCHR ha sottolineato che, poiché attualmente solo le donne sono autorizzate a fornire assistenza medica a ragazze e donne in Afghanistan, la nuova misura “porterà a inutili sofferenze, malattie e forse morti di donne e bambini afghani, ora e nelle generazioni future, il che potrebbe equivalere a femminicidio”.
Le proteste delle donne in risposta all’annuncio
La decisione di vietare alle donne di proseguire gli studi nel settore sanitario è stata accolta con proteste in tutto il Paese. A Badakhshan Kabul , Kapisa e Takhar , decine di studentesse si sono radunate dentro e fuori i loro istituti scolastici per protestare.
A Herat, le donne si sono radunate fuori dal complesso del governatore talebano, tenendo cartelli con la scritta “L’istruzione è un nostro diritto”, “La scienza è un nostro diritto” e “Cerca la conoscenza dalla culla alla tomba” (un detto popolare in dari). Il gruppo di donne che protestavano è stato sfidato da presunti membri talebani di Herat che sono stati visti parlare con il gruppo, tuttavia, AW non è stato in grado di tradurre ciò che è stato detto tra loro. Secondo Afghanistan International, che ha condiviso il video, “i combattenti talebani hanno cercato di interrompere la protesta delle donne”.
La maggior parte delle donne ha scelto di protestare al chiuso, la maggior parte in luoghi non divulgati e con il volto coperto. AW ha identificato cinque gruppi organizzati guidati da donne che protestavano al chiuso. Tutti i gruppi sono stati creati tra il 2021 e il 2023 e sono stati attivi da allora, come si vede nella Tabella 1 di seguito.

 Reazione dei gruppi di opposizione armata
Oltre ai gruppi di donne, anche un gruppo di resistenza armata avrebbe agito per rappresaglia contro le nuove restrizioni. Il 3 dicembre 2024, l’Afghan Freedom Front (AFF) ha condiviso un video che mostrava presumibilmente un attacco contro veicoli talebani. Secondo la dichiarazione dell’AFF, l’esplosione aveva come obiettivo un convoglio talebano diretto all’ospedale Khair Khana da 102 posti letto a Kabul per allontanare con la forza le tirocinanti infermiere e ostetriche dai locali.
Non è la prima volta che AW registra che l’AFF rivendica un attacco a sostegno delle donne: nel gennaio 2024, durante gli arresti in corso di donne e ragazze da parte di membri talebani con l’accusa di abbigliamento inadeguato, l’AFF ha preso di mira anche un convoglio di veicoli talebani nel quartiere Khair Khana di Kabul.

Osservazioni
L’amministrazione de facto dei talebani ha gradualmente imposto restrizioni sempre più severe all’accesso all’istruzione per donne e ragazze da quando hanno preso il potere nell’agosto 2021. Fino a poco tempo fa, alle donne era ancora consentito formarsi per diventare operatrici di supporto sanitario. Tuttavia, la decisione più recente del dicembre 2024 impedisce di fatto alle donne di iscriversi e studiare negli istituti sanitari in tutto il paese.
Con il nuovo divieto in vigore, le ragazze oltre la sesta elementare non hanno accesso all’istruzione laica nel paese, ad eccezione dei corsi di inglese offerti da istituti privati, probabilmente disponibili solo nelle grandi città. Per la maggior parte delle donne e delle ragazze afghane, gli istituti religiosi rappresentano ora l’unica opzione per l’istruzione.

 

GRUPPI CHE HANNO PROTESTATO – PRIMA E ULTIMA LORO PROTESTA

Women’s Movement Toward FreedomMarzo 2023Dicembre 2024
Network for Women’s Political Participation in Afghanistan Settembre 2021Dicembre 2024
Association of Resilient Women of AfghanistanDicembre 2022Dicembre 2024
Purple Saturdays MovementDicembre 2022 Dicembre 2024
Spontaneous Movement of Afghanistan’s Women ProtestersSettembre 2021Dicembre 2024

Emirato islamico afghano, il fantasma dell’infiltrazione

agoravox.it   Enrico Campofreda  17 dicembre 2024

La morte di kaka* Khalil, ministro dei Rifugiati presso l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, è un colpo che il nipote Sirajuddin, a sua volta ministro dell’Interno fa fatica a digerire. Primo: per una ragione di casato. Haqqani è un nome che incute rispetto e terrore sia nelle focose province di provenienza (Khyber Pakhtunkhwa) e stanzialità (Waziristan), sia nella stessa Kabul conquistata sul campo dai suoi manipoli di fiducia prima d’insediarsi nei dicasteri. Secondo: per le modalità dell’eliminazione. L’attentato suicida era una specialità di famiglia ricercata e predicata da Jalaluddin, fratello della vittima e padre dell’attuale ministro dell’Interno. Dopo essere stato mujaheddin nella guerra antisovietica, sostenuto e premiato anche da Ronald Regan, ed essersi fatto le ossa nei sanguinosissimi anni di lotta fra Signori della Guerra, Haqqani senior già flirtava coi qaedisti ed era vicino a Osama bin Laden. Durante il primo Emirato talebano (1996-2001) aprì il suo gruppo, che prende il nome dalla storica madrasa del deobandismo Darool Uloom Haqqania, a una collaborazione coi taliban. Ma nella maggiore Shura, quella di Quetta, non erano ben visti, tanto che nella fase d’insurrezione contro l’Enduring Freedom  statunitense e la successiva Isaf Mission della Nato (2001-2014) gli Haqqani compivano azioni in proprio, tramite  attentati, suicidi o con auto-bomba. Ecco, dunque, il nervo scoperto dell’erede più illustre del jihadismo del clan, quel Sirajuddin che dal 2015 ha ricucito i rapporti con Quetta e col capo turbante dell’epoca Mohammad Mansur. Durato poco alla guida talebana, perché freddato da un drone americano mentre si spostava lungo l’asse del confine dell’Afgh-Pakistan, dove la protezione dell’Intelligence di Islamabad serviva più per armamenti e finanziamenti che per copertura bellica. Sirajuddin, invece, aveva protezioni migliori e con lui tutti i parenti prossimi, capaci d’autoprodurre vigilanza di terra, affidando quella dal cielo ad Allah. Comunque finora gli era andata benone, visto che dal 2017, quando nelle province afghane impazzava il confronto-scontro con l’Isil-Khorasan che insidiava i taliban per il controllo del territorio, di morti ammazzati ce n’erano un tot al giorno. In genere smembrati da esplosivo.

 La concorrenza dello Stato Islamico, che dal Daesh siro-iracheno trasferiva certa operatività più a Levante, si basava sul reclutamento dei  combattenti talib, pagati con la stessa moneta: petrodollari sauditi ed emiratini. L’arruolamento sembrò tramontare nei mesi della discesa verso Kabul nella primavera 2021. La vittoria talebana produceva migliori opportunità per chi si trovava in quelle file e più che per la quiete pandemica, la conflittualità fondamentalista interna all’Afghanistan appariva spenta nel primo anno di governo sotto la guida del mullah Akhunzada. Lo scorrere del tempo mostra il contrario. Soprattutto perché un certo reclutamento ideologico e dogmatico prosegue, spostando il proprio asse in territori già noti come il poroso confine afghano-pakistano, ma pesca nuove risorse nel separatismo beluco e nel fanatismo uzbeko. Attentati vari compiuti nell’ultimo biennio fra Turchia, Russia, Iran vedono in azione miliziani di quella provenienza geografica accorpati nei manipoli dell’Isis-K. Con l’uccisione di Khalil Rahman Haqqani, il nucleo storico del clan subisce un’inattesa scudisciata all’immagine e al peso tribale interno al regime talebano. Di cui il ministro Sirajuddin non riesce a garantire più un controllo securitario, come fosse un qualsiasi lacché del traballante esecutivo  Ghani. La deflagrazione avvenuta a pochi passi dall’obiettivo, senza che i guardiani avessero posto un filtro, potrebbe provenire da un elemento infiltrato nel sistema di sicurezza talebano, scorno ancora maggiore. Ma c’è pure l’ipotesi d’una faida di fazione. Lo zio Khalil, nonostante i trascorsi di rigidità dottrinaria, s’era impuntato contro le restrizioni governative all’istruzione femminile. Che nelle ultime settimane hanno tracimato anche sul fronte lavorativo, negando quelle poche mansioni concesse finora alle donne come l’assistenza sanitaria. Fosse appunto una faida, ancor più l’Isis-K potrebbe infilarsi nella faglia talebana, ampliata da contrasti di potere oltreché da dogmi.

* zio, usato anche come attributo di rispetto per uomini adulti

 

Sahra Mani. Il sacrificio delle donne afghane nel silenzio del mondo

altraeconomia.it 12 dicembre 2024

 

Con il film “Bread & Roses”, prodotto da Jennifer Lawrence e la Nobel per la Pace Malala Yousafzai, la regista racconta la resistenza delle attiviste dopo la presa di Kabul dei Talebani nell’agosto 2021. Tre anni e mezzo dopo la situazione è disastrosa. Le immagini, girate in prima persona dalle protagoniste, raccontano il coraggio e la sofferenza di vivere sotto il regime. “Un apartheid di genere”, denuncia Mani. Un caotico mercato di Kabul, lo strombazzare delle auto che schivano le bancarelle, una donna con un vestito colorato che cammina tra le strade della capitale dell’Afghanistan recitando una poesia. “Mia madre crede che i sogni rivelino il futuro: per vanificare un incubo bisogna raccontarlo alla pioggia. Dopo la festa di fidanzamento ho sognato la Moschea blu, la gente che pregava e faceva vita normale. All’improvviso cadde un fulmine: i panettieri portavano il pane nelle bare e cominciavano a piovere sassi. Quando mi svegliai condivisi il mio sogno con la pioggia”.

Improvvisamente i colori si spengono e arriva il buio lasciando spazio alla marcia dei Talebani, la loro riconquista di metà agosto 2021. La struggente scena che apre il film “Bread & Roses” (disponibile da fine novembre su AppleTv), racchiude l’incubo che da quel giorno vivono nel Paese migliaia di donne e del prezzo che sono disposte a pagare per far sentire la loro voce.

Quella voce che la regista di origini afghane Sahra Mani ha deciso di far conoscere al mondo, per denunciare l’orrore del regime. Non trattiene le lacrime spiegando i molteplici significati del titolo. “Il pane perché le famiglie sono costrette a vendere i loro figli per acquistarlo -spiega- la rosa perché per me rappresenta la dignità. Quella perduta da queste persone nell’assoluto silenzio del mondo”. Che quelle potentissime immagini riprese in prima persona dalle protagoniste del film che rischiano quotidianamente la loro vita vogliono rompere.

Mani, le sue sono lacrime di rabbia?
SM Crollo al pensiero che queste storie siano dimenticate e ignorate dal mondo. Conosco tante donne che sono morte, altre che sono sparite e di cui non si sa più nulla, altre che hanno venduto loro figlio per sopravvivere. Sono storie vere.

Nel 2019 usciva nelle sale “A thousands girls like me” con cui raccontava l’inefficacia del sistema giudiziario afghano nel tutelare le donne. Si sarebbe mai immaginata che le cose potessero peggiorare così tanto nel giro di quattro anni?
SM No, non avrei mai pensato che i Talebani sarebbero tornati. Credevo che un giorno, forse, si sarebbe raggiunto un accordo e avremmo dovuto rinunciare a parte dei nostri diritti. Oggi siamo in guerra. Bombardano le città, le scuole femminili, vengono uccise le donne incinta, i neonati, chi semplicemente partecipa alle celebrazioni di un matrimonio. Quello che succede è di una gravità inaudita.

Com’è nato questo film?
SM
Con la caduta di Kabul ho deciso che dovevo fare qualcosa sapendo che le donne sarebbero state coloro che avrebbero pagato il prezzo più alto. E così è stato. Hanno perso il lavoro ma allo stesso tempo per molte famiglie erano l’unica forma di sostentamento. La povertà e la necessità di scendere in piazza per rivendicare il diritto di esistere sono diventate sfide quotidiane. In quel periodo ho cominciato a lavorare con alcune Ong per sostenere le loro battaglie e ho iniziato ad entrare in contatto con un numero sempre più alto di donne che, attraverso i video, mi raccontavano la difficoltà del loro essere attiviste in un sistema di oppressione. Mano a mano, ricevendone sempre di più, ho capito che hanno cominciato a fidarsi di me come film-maker e allo stesso tempo mi chiedevano implicitamente di fare qualcosa. L’interesse di Jennifer Lawrence è stata la svolta. Anche se proporre “Bread & Roses” non è stato facile.

Perché?
SM Da ormai otto anni stavo lavorando su un altro film e avevo presentato il progetto al Festival di Venezia per una coproduzione. Raccontava l’unica scuola di musica esistente in Afghanistan a Kabul: avevo tanto materiale ed era quasi tutto pronto. Proporre “Bread & Roses” era una scelta estremamente difficile: non ero sicura di reggere emotivamente e soprattutto significava non poter tornare più nel mio Paese a pubblicazione avvenuta. Mi sono resa conto che, però, era l’unica scelta possibile. Perché poteva essere il modo più concreto per aiutare le lotte delle attiviste e farle conoscere al mondo.

La qualità delle riprese e delle immagini è altissima, nonostante siano scene di vita quotidiana spesso riprese di nascosto.
SM Riuscirci è stato molto complicato. Dopo aver costruito una squadra sul campo con dei cameramen professionisti, un uomo e una donna, e poi piano piano abbiamo insegnato alle protagoniste a filmare la loro vita. Io mi sono trasferita per un anno e mezzo al confine con l’Afghanistan e da lì ho coordinato l’équipe che era sparsa un po’ in tutto il mondo, dal Pakistan alla Svezia, dalla Francia fino agli Stati Uniti. Ma l’elemento logistico era tutto sommato il più semplice se paragonato alla fatica emotiva. Avevo a che fare tutti i giorni con storie di perdita, resilienza, speranza, sofferenza ma soprattutto esistenze in bilico. A volte le attiviste sparivano per giorni, mesi, settimane e noi perdevamo traccia di loro.

Zahra Mohammadi fin da subito organizza la resistenza, Sharifa, ex dipendente del governo, è costretta a nascondersi in casa mentre Taranom è costretta a fuggire in Pakistan. Che cosa accomuna le tre protagoniste?
SM
Tutte sono giovani e talentuose, con idee moderne. Rappresentano coloro che potevano costruire il futuro del Paese ma vengono costrette a stare nelle loro case, che da tre anni e mezzo sono diventate prigioni. All’inizio i Talebani hanno tolto l’accesso all’educazione, poi il lavoro, poi l’impossibilità di uscire senza accompagnatore. Ma anche pregare, piuttosto che cantare da dietro una porta per richiamare l’attenzione di chi è fuori. Il regime vuole fare il deserto per poter radicalizzare il più alto numero possibile di giovani e una madre acculturata è l’ostacolo più grande che si possa avere. E non è un caso che oltre a colpire gli ospedali in cui le donne partoriscono limitano anche l’accesso alle facoltà di ostetricia e infermieristica che è cruciale per il tema della maternità. Da tre anni e mezzo abbiamo avuto solidarietà dal mondo ma ora serve di più. A partire dal codificare il “gender apartheid” come crimine contro l’umanità: quello sta succedendo in Afghanistan.

Invece i Talebani sono stati invitati a Doha a sedersi al tavolo con i membri delle Nazioni Unite. Che cosa ne pensa?
SM
Non concepisco neanche come sia possibile che un terrorista possa prendere un volo e sedersi al tavolo delle trattative. Chi sta decidendo di lasciare a un gruppo terroristico un pezzo del mondo? Qual è la motivazione politica che sta dietro a tutti questi giochi sporchi? E le donne, le donne dell’Afghanistan stanno pagando un prezzo altissimo. Al giorno d’oggi, sono presenti in casa ma senza alcuna attività sociale, politica ed economica, senza alcun diritto umano di base. Sono passati tre anni e mezzo e penso che sia sufficiente.

Grazie alla storia di Taranom, per sei mesi confinata in Pakistan in un centro per rifugiati che somiglia di più a una prigione, si conosce anche il tragico limbo di chi è in attesa di un visto.
SM
Tante delle persone che hanno collaborato con me sono ferme in Iran e in Pakistan. Aspettano una chiamata che non arriva mai. Molti Paesi hanno fermato le evacuazioni nonostante in tantissimi continuino a rischiare la vita, soprattutto chi vive ancora in Afghanistan ed è particolarmente esposto, come attivisti, artisti e registi che sono considerati dei criminali dal regime. Il mondo è giustamente impegnato su tante altre orribili “questioni” ma questo non rende la situazione in Afghanistan meno grave. Eppure dovrebbe interessare a tutti.

Perché?
SM
Lasciare il Paese in mano ai terroristi significa decidere sul futuro di tutti. Oggi il mio Paese paga il prezzo più alto, non possiamo escludere che domani sia il mondo intero a farlo per non aver fatto nulla.

Le reazioni alla morte di Khalil Haqqani: una vittima nel “gioco dei troni” tra l’Emiro e il Califfo

Mentre i Talebani impongono ai media la definizione di “martire” ad Haqqani ucciso in un attentato suicida, molti gioiscono per la fine di questo ufficiale talebano terrorista che ha provocato migliaia di morti innocenti

Amin Kawa, 8AM Media, 14 dicembre 2024

Khalil Ur-Rahman Haqqani, ministro talebano per i rifugiati e il rimpatrio e membro di spicco della Rete Haqqani, è stato ucciso in un attacco suicida nell’edificio del ministero a Kabul. Era l’unico ministro talebano armato e partecipava a tutte le riunioni ufficiali e non ufficiali con una pistola alla mano. Alcuni alti funzionari del precedente governo hanno definito la sua morte come “martirio”, ma un gran numero di cittadini ha criticato questa definizione accogliendo con favore la morte di Haqqani, accusato di aver guidato i battaglioni suicidi della Rete per oltre 20 anni, e affermando che ha portato un po’ di conforto alle famiglie delle vittime. Tuttavia il Ministero dell’Informazione e della Cultura talebano ha chiesto ai media nazionali di usare il termine “martirio” invece di “morte” nei loro resoconti, spingendo media a modificare le notizie pubblicate.

Alcuni cittadini hanno collegato l’uccisione di Haqqani alle divisioni interne ai Talebani, ritenendola parte della lotta per il potere tra Hibatullah Akhundzada e Sirajuddin Haqqani.

Negli ultimi due decenni la Rete Haqqani è stata responsabile di numerosi attacchi suicidi a Kabul e in altre province che hanno causato centinaia di vittime, tra cui donne e bambini. Da quando ha conquistato l’Afghanistan, la rete ha spesso glorificato i suoi battaglioni suicidi e ha fornito terreni e risorse governative alle loro famiglie. Mercoledì 11 dicembre 2024 lo zio di Sirajuddin Haqqani, membro anziano noto come il “Califfo degli attentatori suicidi”, è stato ucciso in un attacco suicida nella sede del ministero, mentre stava partecipando a una sessione formale, armato come sempre nelle riunioni ufficiali per la sua diffidenza verso le guardie del corpo.

Alcune ore dopo l’attacco, i Talebani hanno diffuso sui social media un’immagine del kamikaze, affermando che durante la sessione l’attentatore aveva fatto esplodere la sua carica esplosiva.

in un attacco “brutale” dell’ISIS…

Reazioni alla morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

L’uccisione di questo alto funzionario talebano ha scatenato le reazioni di diversi attivisti politici e di alti funzionari dei precedenti governi afghani. Alcuni hanno accolto con favore la sua morte, attribuendo alla Rete Haqqani la responsabilità dei numerosi attacchi suicidi che hanno causato migliaia di vittime in Afghanistan, ritenendo la morte di Haqqani una giusta punizione.

L’ex presidente afghano Hamid Karzai, invece, ne ha condannato l’uccisione definendolo un “martire” membro di un’importante famiglia jihadista afghana e sottolineando il suo ruolo nella lotta contro l’ex Unione Sovietica.

Allo stesso modo, anche esponenti politici come l’ex presidente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale Abdullah Abdullah, il leader jihadista Hamed Gilani, l’ex ministro delle Finanze Omar Zakhilwal, l’ex membro del Parlamento Jafar Mahdavi e molti altri hanno descritto la morte di Haqqani come “martirio” e condannato l’incidente.

D’altra parte, Zahir Aghbar, ambasciatore dell’Afghanistan in Tagikistan, ha cancellato un messaggio che aveva pubblicato per condannare l’uccisione di Khalil Ur-Rahman Haqqani. Nel suo messaggio originale, Aghbar aveva definito l’attacco un “atto terroristico”. Dopo aver cancellato il post, ha scritto: “I Talebani stanno raccogliendo ciò che hanno seminato”.

Nel frattempo, Ishaq Dar, ministro degli Esteri del Pakistan, ha espresso il suo shock per l’uccisione del ministro per i Rifugiati e il rimpatrio dei Talebani. Ha dichiarato che il Pakistan condanna inequivocabilmente il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

Contemporaneamente, alcuni utenti dei social media hanno attribuito la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani a divergenze interne ai Talebani, suggerendo che la Rete Haqqani non fosse d’accordo con le direttive emanate da Hibatullah Akhundzada, la Guida suprema dei Talebani, prevedendo che altre figure talebane potrebbero essere uccise in dispute interne, viste le lotte di potere in atto all’interno dei Talebani, in particolare per il controllo della Rete Haqqani, che dispone di ingenti risorse finanziarie e di stretti legami con gruppi terroristici internazionali.

Ali Sajad Mawlaee, un giornalista, ha scritto: “Il gioco dei troni: Emiro 1, Califfo 0”.

Mohammad Haleem Fidai, ex governatore della provincia di Logar, ha scritto su X (ex Twitter): “Sembra che questa azione sia stata istruita direttamente dal Mullah Hibatullah o, almeno, che sia stata eseguita con la sua consultazione e il suo accordo”. Con questo atto, Hibatullah cerca di inviare un chiaro messaggio: non solo ha il potere di neutralizzare, ma anche di eliminare fisicamente la Rete Haqqani a livello politico”.

Accoglienza ed espressione di soddisfazione per la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani

Alcuni sui social media hanno ricordato le vittime degli attacchi suicidi compiuti dalla Rete Haqqani e hanno espresso soddisfazione per la sua morte. Condividendo le immagini delle vittime degli attacchi suicidi di cui la Rete Haqqani ha rivendicato la responsabilità, hanno dichiarato di provare sollievo per la morte di questo ufficiale talebano.

Shahid Farhosh, ex giornalista, ha condiviso un biglietto di Zubair Hatami, cameraman televisivo rimasto vittima di un attacco suicida, e ha scritto di lui: “Dopo nove anni, oggi sono molto felice. Sapete perché? Perché proprio in questo giorno, il giorno in cui hanno versato il nostro sangue e ti hanno portato via da noi, ho ricevuto la notizia della morte di uno dei tuoi assassini più sanguinari”… Kalimullah Hamsukhan, un attivista politico, ha scritto: “Inshallah, il dolore raggiungerà le vostre case, una per una e voi ne siete stati la causa. Migliaia di cittadini innocenti della nostra patria sono stati vittime della vostra brama di paradiso, di vergini e di giovani ragazzi. Capite come ci si sente ora? L’attentatore era un kamikaze e lo chiamate martire eroico?”.

Hasamuddin Anwari, un altro utente di Facebook, ha scritto: “Zio Khalil è andato in paradiso; che tali partenze portino benedizioni. Ha tolto la vita a migliaia di persone e ne ha rese milioni di altre senzatetto. Ha rovinato la vita di quattro donne (la sua quarta moglie era una ragazza di 21 anni). Ha insegnato la vergognosa cultura degli attentati suicidi ai poveri e ignoranti bambini dell’Est. Ora è caduto nella trappola di questa maledetta cultura e se n’è andato per sempre”.

Ma chi era Khalil Ur-Rahman Haqqani?

Nato nel 1966 nella provincia di Paktia, nell’Afghanistan orientale, Khalil Ur-Rahman Haqqani è stato un importante membro della Rete Haqqani. Era lo zio di Sirajuddin Haqqani, ministro degli Interni dei Talebani nonché membro di spicco della Rete Haqqani. Dopo la caduta del primo regime talebano, Haqqani fu arrestato in un’operazione congiunta condotta da Stati Uniti e Pakistan. Fu rilasciato dopo quattro anni in cambio della liberazione di 350 soldati pakistani nella regione del Waziristan meridionale, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Dopo la conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, è stato nominato ministro per i rifugiati e il rimpatrio dei Talebani, carica che ha ricoperto fino alla sua morte.

Gli Stati Uniti avevano fissato una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque lo avesse catturato durante la loro presenza in Afghanistan, inserendo la Rete Haqqani nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere. Secondo quanto riportato dal sito federale “Ricompense per la giustizia”, Khalil Ur-Rahman Haqqani forniva “supporto logistico ai membri dei Talebani nella provincia di Logar, in Afghanistan, dal 2010”. Nel febbraio 2011, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti lo ha designato come “terrorista globale specialmente designato” e gli ha imposto sanzioni, dichiarando “reato” qualsiasi rapporto finanziario con lui.

In precedenza, Mohammad Dawood Muzammil, governatore talebano di Balkh e comandante del gruppo, è stato ucciso in un attacco suicida a Balkh, per il quale l’ISIS ha rivendicato la responsabilità. Al momento della stesura di questo rapporto, nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’attacco a Khalil Ur-Rahman Haqqani.

Numerosi e partecipati gli incontri della militante di RAWA in Italia

Si è concluso pochi giorni fa il lungo giro in Italia (con una puntata in Svizzera) di conferenze di Shakiba, militante di RAWA

CISDA, 2 dicembre 2024

Una visita che aspettavamo con impazienza quella di Shakiba, anche se per queste compagne ottenere un visto Shengen è sempre più complicato: l’ambasciata italiana più vicina è a Islamabad, in Pakistan; il visto pakistano ha un costo elevato e il viaggio per raggiungere il Pakistan, per una donna, è molto rischioso.

Ma per il CISDA, che lavora a fianco di queste compagne dal 1999, potere incontrare (e anche abbracciare) una testimone diretta della situazione e della resistenza in Afghanistan, dove i talebani stanno cancellando ogni diritto umano per le donne, è imprescindibile. E per queste compagne coraggiose e determinate avere la possibilità di “toccare con mano” la solidarietà che viene loro testimoniata nei numerosi incontri organizzati in varie città è fonte di vita e di speranza.

Due passi avanti e 30 indietro

“Ogni volta che facciamo due passi avanti nella conquista dei nostri diritti veniamo sbattute indietro di 30 passi” ci dice Shakiba al nostro primo incontro. “In Afghanistan resistere comporta il rischio di essere arrestate, torturate e anche uccise; ma non vogliamo abbandonare la nostra gente al suo destino, è nostro dovere restare per continuare a dare una speranza.”

La situazione è sempre più tragica e insostenibile per la popolazione afghana, in particolare per le donne:

  • le donne non possono lavorare, uscire di casa da sole, studiare oltre la sesta classe, mostrare il loro volto in pubblico o far sentire la loro voce; subiscono una delle forme più estreme di apartheid di genere. Molte delle donne che sono scese in piazza per protestare sono state arrestate, incarcerate, torturate e minacciate;
  • il disastro economico è intollerabile: non c’è lavoro e oltre il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. È normale che, date le condizioni di povertà, i maschi siano incentivati ad arruolarsi in qualche milizia per avere uno stipendio e riuscire così a sfamare la famiglia;
  • per avere un futuro moltissimi giovani cercano di scappare dal paese e percorrono le pericolosissime vie migratorie: Iran, Turchia e poi mar Mediterraneo, in mano a scafisti e trafficanti di esseri umani senza scrupoli;
  • nel paese sono state aperte 17.000 madrase, scuole coraniche, che in buona parte hanno sostituito le scuole statali e in cui i giovani studenti vengono indottrinati al fondamentalismo.

Nel frattempo, i talebani hanno ricevuto, solo dagli USA, 40 milioni di dollari ogni settimana e stanno svendendo tutte le ricchezze del paese (minerali rari, pietre preziose ecc.) per mantenere il loro potere.

Gli USA e i loro alleati occidentali in tutti questi anni hanno contribuito alla crescita, grazie a milioni di dollari e di armi, di gruppi di fondamentalisti di ogni tipo. Il risultato è che oggi in Afghanistan, oltre ai talebani, sono presenti ISIS, signori della guerra di diverse etnie, al Qaeda… che opprimono la popolazione afghana (le donne in particolare) da circa 40 anni.

Gli intensi incontri di Shakiba

Dimenticate dai media, dimenticate dai governi, dimenticate dalle organizzazioni internazionali, le donne afghane hanno sempre meno possibilità di far sentire la propria voce, per questo la serie di incontri organizzati da CISDA per la militante di RAWA è doppiamente importante.

Un giro di incontri molto ricco e partecipato: a Bologna RAWA ha ricevuto il Premio internazionale Daniele Po, promosso dalle associazioni Le case degli angeli di Daniele e Strade. Oltre alla cerimonia di premiazione, svoltasi nella Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio di Bologna, Shakiba ha presenziato a circa 15 incontri pubblici che hanno coinvolto organizzazioni della società civile, ragazzi delle scuole con i loro insegnanti, attivisti e attiviste. Tra questi, molto significativo è stato l’incontro online con le commissioni pari opportunità della città metropolitana di Bologna, di Cento e di Pieve di Cento.

Belluno è stata accolta dall’associazione Insieme si può, che da anni, insieme a CISDA, sostiene attivamente i progetti di RAWA e organizza eventi e iniziative nel Nord-Est.

Piacenza le Donne in Nero, da sempre sostenitrici della resistenza delle donne afghane, hanno organizzato un partecipatissimo dibattito pubblico con cena di solidarietà.

Roma Shakiba ha partecipato, al festival Sabir, all’incontro internazionale Voci di lotta e di resistenza dell’Iran e dell’Afghanistan organizzato da ARCI, e ha incontrato le donne del comitato italiano di Jineoloji (un collettivo di donne che si organizza e lavora con il movimento delle donne curde), le donne dell’ANPI provinciale e un gruppo di parlamentari che l’hanno ricevuta alla Camera dei Deputati. Sempre a Roma Donne di Classe e Sinistra anticapitalista hanno organizzato un evento molto partecipato con cena di sottoscrizione.

Piadena è stato organizzato un dibattito pubblico nell’ambito del Festival dei diritti umani di Emmaus e un incontro con 80 ragazzi di 4 classi di terza media.

Va sottolineato che in tutti gli incontri con gli studenti e le studentesse delle scuole e delle università Shakiba ha dimostrato una straordinaria empatia e capacità di dialogo, suscitando grande curiosità e partecipazione.

La Casa delle donne di Torino ha organizzato un dibattito con raccolta fondi di solidarietà.

Lugano Shakiba ha incontrato la professoressa Jolanta Drzewiecka e il professor Villeneuve Jean-Patrick, dell’Institute of Communication and Public Policy (Università della Svizzera italiana), con i quali ha parlato parlare della situazione afghana e delle attività di RAWA a cui è seguito un partecipatissimo incontro con gli studenti dell’università e un’intervista con dei giornalisti del “Corriere del Ticino”.

Infine ha incontrato online la Rete di Coalizione euro-afghana per la Democrazia e la Laicità, per raccontare la difficile situazione delle donne resistenti in Afghanistan e discutere delle possibili azioni di supporto politico che il CISDA e le altre associazioni italiane possono dare loro.

Afghanistan deferito alla Corte Penale Internazionale

La Corte penale internazionale (CPI) ha ricevuto un deferimento formale da sei Stati parte (Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico) che sollecitano l’avvio di indagini sui crimini contro donne e ragazze in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, ha annunciato giovedì il procuratore della CPI Karim AA Khan KC

Siyar Sirat,  AMU Tv, 29 novembre 2024

Nel loro deferimento, le nazioni hanno espresso profonda preoccupazione per il deterioramento delle condizioni dei diritti umani in Afghanistan, in particolare per quanto riguarda donne e ragazze, e hanno chiesto che questi presunti crimini fossero esaminati nell’ambito dell’indagine in corso della CPI sulla situazione nel paese.

“Ciò riflette l’impegno più ampio del mio ufficio nel perseguire l’accertamento delle responsabilità per i crimini di genere, incluso il crimine contro l’umanità della persecuzione per motivi di genere”, ha affermato Khan in una dichiarazione.

L’indagine della CPI sull’Afghanistan è stata autorizzata per la prima volta a marzo 2020, dopo anni di esame preliminare sui presunti crimini commessi nella regione dal 1° maggio 2003. L’indagine si è ampliata per includere accuse di discriminazione sistematica e persecuzione di donne e ragazze, crimini legati al conflitto armato e reati commessi sul territorio di altri stati membri della CPI.

L’indagine ha subito dei ritardi a seguito delle sfide del precedente governo afghano, ma è stata ripresa nell’ottobre 2022. Khan ha sottolineato che da allora l’ufficio del procuratore ha compiuto “progressi molto considerevoli” nelle indagini sui crimini di genere e ha espresso fiducia che risultati tangibili saranno annunciati presto.

Sebbene i dettagli specifici dell’indagine rimangano riservati, Khan ha elogiato il deferimento come un’importante dimostrazione di determinazione internazionale nell’affrontare le atrocità in Afghanistan. Ha inoltre sottolineato la necessità di cooperazione e risorse da parte degli stati membri della CPI per garantire la responsabilità.

“Plaudo al coraggio e alla determinazione di tutti coloro che ci hanno sostenuto e continuano a collaborare con noi nella conduzione di questa indagine”, ha affermato Khan.

L’attenzione della CPI sulla persecuzione di genere è in linea con la sua più ampia missione di affrontare i crimini ai sensi dello Statuto di Roma, che consente agli Stati membri di deferire casi in cui sembrano essere stati commessi crimini di competenza della CPI, si legge nella dichiarazione.

La dichiarazione è stata rilasciata in vista della riunione dell’Assemblea degli Stati parte della CPI della prossima settimana, durante la quale gli Stati membri dovrebbero discutere delle indagini in corso e delle risorse necessarie per gli sforzi di accertamento delle responsabilità.