Skip to main content

Tag: Siria

Per la libertà di Ocalan e per una soluzione politica in Kurdistan

Renato Franzitta, Pressenza Italia, 29 aprile 2025

L’appello del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan del 27 febbraio per “la pace e una società democratica” rappresenta il nono tentativo di cessate il fuoco unilaterale da parte curda, in questo modo il PKK ha dato un ulteriore tangibile segno dell’impegno da parte curda per la pace e la democrazia.

Già nel 2015 la trattativa per la pace sembrava fosse arrivata ad un punto significativo e che la liberazione di Öcalan potesse essere imminente. Ciò che accadde dopo le elezioni del giugno 2015, quando il partito HDP ottenne 13,12% e conquistò 80 seggi al Parlamento di Ankara, è sotto gli occhi di tutti: una violenta e sanguinosa ondata bellica scatenata dal regime di Erdogan contro le popolazioni curde in Turchia, Siria e Iraq del nord.

La feroce campagna turca

Interi villaggi distrutti, quartieri storici delle città curde rasi al suolo, migliaia di arresti fra curdi sospettati di essere membri del PKK e fra i militanti del partito HDP, fra cui il segretario nazionale Demirtas, centinaia di morti.

L’offensiva turca contro il movimento democratico curdo fu estesa oltre i confini della Turchia, con una feroce campagna che ha investito il Rojava rivoluzionario, iniziata con l’attacco ad Afrin e a tutta la Siria del Nord e dell’Est. Le formazioni jihadiste eterodirette da Ankara operarono una crudele pulizia etnica nei territori occidentali del Rojava espellendone le popolazioni stanziali.

Sebbene i colloqui con il regime di Ankara continuino, la condizione minima per la deposizione delle armi da parte delle milizie popolari curde ha come presupposto irrinunciabile la possibilità di indire il Congresso straordinario del PKK con la presenza fisica del suo leader storico Abdullah Öcalan e la liberazione di tutti i detenuti politici, compreso il leader dell’HDP Selahattin Demirtaş.

Attualmente non si registra una reale risposta del governo turco all’appello di Öcalan e al cessate il fuoco unilaterale del PKK. Di contro assistiamo alla deriva autoritaria del governo turco che si evidenzia con un’ondata di arresti di sindaci, giornalisti, avvocati e attivisti per la pace in tutta la Turchia.

L’arresto il 19 marzo 2025 del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu – volto di spicco del Partito Popolare Repubblicano e candidato in pectore del CHP alle elezioni presidenziali turche del 2028 dopo la vittoria alle primarie del partito kemalista – con l’accusa di corruzione, estorsione, riciclaggio di denaro, turbativa d’asta e collaborazione con il PKK, ha reso ancora più evidente la svolta sicuritaria del governo di Ankara. Questo sviluppo alimenta una profonda sfiducia nei confronti delle dichiarazioni politiche che parlano dell’inizio di un periodo di pace.

Inoltre, l’esercito turco continua ad attaccare le posizioni delle forze guerrigliere del PKK, e sono riemerse accuse sull’uso di armi chimiche.

Mentre il PKK propone il cessate il fuoco su tutti i fronti, il governo di Erdogan, dopo la dissoluzione del regime siriano degli Assad, spinge le milizie jihadiste del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA) contro i territori controllati dall’Autorità Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est (DAANES).

L’SNA, foraggiato e diretto dalla Turchia, partendo dal distretto di Idlib, distretto da anni nelle mani dei jihadisti, già dal dicembre scorso ha intrapreso un massiccio attacco contro i territori autonomi della Siria del Nord e dell’Est spingendosi dal Nord Ovest siriano fino alle sponde dell’Eufrate.

Pieno appoggio alle milizie popolari

Le Forze Democratiche Siriane (SDF), guidate dalle Unità di Protezione Popolare (YPG), hanno fermato lungo le sponde dell’Eufrate l’offensiva delle SNA, diretta alla conquista di Kobane, città simbolo della resistenza ai tagliagole jihadisti dell’ISIS.

Per difendere le conquiste rivoluzionarie del Confederalismo Democratico la popolazione della Siria del Nord e dell’Est si è sollevata dando pieno appoggio alle milizie popolari rivoluzionarie. A difendere la diga di Teshrin sono giunte migliaia di persone, famiglie intere che hanno offerto i propri corpi per respingere l’orda reazionaria del SNA. Tantissimi i morti sotto i bombardamenti, ma l’avanzata delle milizie jihadiste filoturche è stata fermata. La diga di Teshrin sull’Eufrate è divenuta il nuovo simbolo della resistenza in Rojava.

L’alleanza fra le varie componenti della società siriana (curdi, arabi, armeni, assiri, turkmeni e circassi, sunniti, sciiti, alawiti, cristiani, drusi, ezidi e altri siriani) realizzata in Siria del Nord e dell’Est si sta consolidando. L’iniziale simpatia di alcuni combattenti arabi delle SDF a Raqqa e a Deir ez-Zor (località a maggioranza araba) verso l’attuale governo a guida HTS si è presto esaurita dopo le dichiarazioni jihadiste di Ahmed al-Sharah in vista della riscrittura della carta costituzionale e dopo i massacri contro le popolazioni alawite nella Siria dell’ovest.

Poco dopo aver rovesciato il regime di Assad, il governo apertamente sunnita di al-Sharaa aveva pubblicamente garantito la libertà di culto alle minoranze religiose del Paese, ma nonostante questa dichiarazione dagli apparenti contorni pacifisti, gli scontri tra le forze di sicurezza di Damasco e gli alawiti (di osservanza sciita) hanno portato a massacri indiscriminati anche di civili. Più di 1.400 i civili sono stati uccisi, inclusi centinaia di giustiziati dalle forze di sicurezza siriane concentrate soprattutto nelle provincie di Latakia e Tartus, nell’ovest della Siria.

Sfruttando le debolezze del l’attuale regime di Damasco il DAANES ha stretto contatti con la comunità drusa, con la comunità alawita e con varie comunità arabe in tutta la Siria.

In questo quadro è stato deciso di istituire accademie al di fuori della Siria del nord e dell’Est per diffondere i principi del Confederalismo Democratico e per costruire una nuova Siria democratica, confederale e rispettosa di tutte le etnie presenti. Su richiesta delle donne delle varie zone del Paese si stanno costruendo corpi delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne) per l’autodifesa, specialmente dopo l’impostazione islamista e autoritaria della nuova Siria a guida HTS.

Mentre si accoglie in modo positivo l’appello di Öcalan del 27 febbraio per la pace, si sottolinea che fino a quando non ci saranno garanzie valide per il rispetto delle conquiste del Confederalismo Democratico, per il rispetto delle minoranze religiose ed etniche, per il rispetto delle donne in Siria le milizie popolari SDF e YPG non deporranno le armi e che le YPJ non disarmeranno in nessun caso, essendo essenziali per la difesa delle donne.

Siria. La riduzione in schiavitù delle donne rapite

Ovunque il fondamentalismo porta alla schiavitù delle donne

The Cradle, La bottega del Barbieri, 29 aprile 2025

Nella Siria post-Assad, il Rapimento di Massa e la Riduzione in Schiavitù Sessuale delle donne Alawite sotto il Regime di Sharaa (al-Julani) rispecchiano le più oscure atrocità dell’ISIS, eppure incontrano il silenzio globale.

Da dicembre, quando l’ex affiliata di al-Qaeda, Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ha rovesciato il governo di Bashar al-Assad, la Siria ha assistito a un’agghiacciante ondata di misteriosi rapimenti di giovani donne, prevalentemente appartenenti alla comunità Alawita.
Continuano a emergere prove che queste donne, principalmente appartenenti alla componente religiosa Alawita, siano state rapite e condotte a vivere come schiave sessuali nel Governatorato di Idlib, tradizionale roccaforte di HTS, da fazioni armate affiliate al nuovo governo siriano.
Incredibilmente, il rapimento di massa e la riduzione in schiavitù di donne Alawite, ora perpetrati da fazioni affiliate a HTS, rispecchiano la Riduzione in Schiavitù di migliaia di donne Yazide da parte dell’ISIS durante il Genocidio del 2014 a Sinjar, in Iraq.

L’ATTIVISTA CHE HA DENUNCIATO

In un post di Facebook ora cancellato, Hiba Ezzedeen, un’attivista siriana di Idlib, ha descritto il suo incontro con una donna che ritiene sia stata catturata e portata nel Governatorato come schiava sessuale durante l’ondata di massacri perpetrati dalle fazioni affiliate al governo e dalle forze di sicurezza contro gli Alawiti nelle zone costiere del Paese il 7 marzo.

“Durante la mia ultima visita a Idlib, ero in un posto con mio fratello quando ho visto un uomo che conoscevo con una donna che non avevo mai incontrato prima”, ha spiegato Hiba.” Quest’uomo si era sposato diverse volte in precedenza e si ritiene che attualmente abbia tre mogli. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stato l’aspetto della donna: in particolare, era chiaro che non sapesse indossare correttamente l’hijab e il suo velo era indossato in modo disordinato”.

Dopo ulteriori indagini, Ezzedeen ha appreso che la donna proveniva dalle zone costiere dove si sono verificati i massacri del 7 marzo, in cui sono stati uccisi oltre 1.600 civili Alawiti.
“Quest’uomo l’aveva portata al villaggio e l’aveva sposata, senza ulteriori dettagli disponibili. Nessuno sapeva cosa le fosse successo o come fosse arrivata lì, e naturalmente la giovane donna aveva troppa paura di parlare”, ha aggiunto Ezzedeen.
Poiché la situazione le sembrava così strana e allarmante, ha iniziato a chiedere a tutti quelli che conosceva, “ribelli, fazioni, attivisti per i diritti umani”, informazioni sul rapimento di donne Alawite dalla costa.
“Purtroppo, molti hanno confermato che ciò è effettivamente accaduto, e non solo da una fazione. In base a quanto affermato dagli amici, le accuse puntano a fazioni dell’Esercito Nazionale e ad alcuni combattenti stranieri, con motivazioni diverse”, ha riferito.
Le nuove forze di sicurezza siriane guidate da HTS hanno incorporato gruppi estremisti armati, tra cui Uiguri del Partito Islamico del Turkestan e turcomanni siriani appartenenti a fazioni dell’Esercito Nazionale Siriano, sostenuto dai servizi segreti turchi, fin dalla loro ascesa al potere a Damasco.
Diversi comandanti dell’Esercito Nazionale Siriano ed estremisti stranieri sono stati nominati a posizioni di vertice nel Ministero della Difesa siriano.
Mentre le unità della Sicurezza Generale, dominate da HTS, hanno partecipato ai massacri del 7 marzo in molte zone, si ritiene che ex fazioni dell’Esercito Nazionale Siriano e di combattenti stranieri abbiano guidato la campagna. I militanti sono andati porta a porta nei villaggi e nei quartieri Alawiti, giustiziando tutti gli uomini in età militare che hanno trovato, saccheggiando case e, a volte, uccidendo donne, bambini e anziani.
Ezzedeen ha concluso il suo post affermando: “Questa è una questione seria che non può essere ignorata. Il governo deve rivelare immediatamente la sorte di queste donne e rilasciarle”.
Invece di indagare sulla questione e cercare di salvare le donne prigioniere, il Governatore di Idlib nominato da HTS ha emesso un ordine di arresto per Ezzedeen, sostenendo che avesse “insultato l’hijab”.
La coraggiosa rivelazione di Ezzedeen ha fatto luce sul destino di molte giovani donne appartenenti a comunità minoritarie, misteriosamente scomparse negli ultimi mesi, dopo che il Presidente Ahmad al-Sharaa e HTS avevano rovesciato Assad e preso il potere a Damasco.

UN MODELLO DI RAPIMENTI

In uno dei primi casi, una giovane donna Drusa del sobborgo di Jaramana a Damasco, Karolis Nahla, è scomparsa la mattina del 2 febbraio 2024, mentre si recava all’università nella zona di Mezzeh. Il caso era singolare perché non fu richiesto alcun riscatto e non si seppe più nulla di lei.

Col tempo, iniziarono a trapelare informazioni secondo cui giovani donne come Karolis venivano rapite e portate a Idlib come schiave, come infine confermato da Hiba Ezzedeen.
Il 21 marzo, Bushra Yassin Mufarraj, madre Alawita di due figli, è scomparsa dalla stazione degli autobus di Jableh. Suo marito ha poi pubblicato un video di appello in cui affermava che era stata rapita e portata a Idlib.
“Mia moglie è stata rapita a Idlib. C’è qualcosa di più crudele al mondo che possa accadere a un uomo? Che sua moglie e la madre dei suoi figli si trovi in tali circostanze”, ha dichiarato in un video di appello pubblicato sui social media dieci giorni dopo.
La scomparsa di Bushra è stata seguita da un’ondata di rapimenti nei giorni e nelle settimane successive. L’Agenzia Curda Jinha ha riferito il 25 marzo, citando fonti locali, che più di 100 persone sono state rapite da gruppi armati nelle regioni costiere della Siria nelle 48 ore precedenti, tra cui molte donne.

Il 5 aprile, la ventunenne Katia Jihad Qarqat è scomparsa. L’ultimo contatto con lei è avvenuto alle 9:40 del mattino presso la farmacia del circolo Bahra a Jdeidat Artouz, nella campagna di Damasco. La sua famiglia ha implorato che chiunque l’avesse vista o avesse informazioni su di lei li contattasse.

L’8 aprile, la diciassettenne Sima Suleiman Hasno è scomparsa alle 11:00 del mattino dopo aver lasciato la sua scuola nel villaggio di Qardaha, nella campagna di Latakia. Sima è stata rilasciata quattro giorni dopo a Damasco, dove è stata riconsegnata alla zia da membri del governo siriano guidato da HTS.
I filmati di sorveglianza dei negozi vicino al luogo del rapimento sono circolati ampiamente sui social media, scatenando un’ondata di indignazione.
L’11 aprile, alle 16:00, si è persa la comunicazione con la ventiduenne Raneem Ghazi Zarifa nella campagna di Hama, nella città di Masyaf.
“Siamo estremamente preoccupati per lei. Chiediamo a chiunque abbia informazioni su di lei, anche minime, di contattarci immediatamente”, ha dichiarato la sua famiglia in un post sui social media.
Il 14 aprile, Batoul Arif Hassan, una giovane donna sposata con un bambino di tre anni di Safita, è scomparsa dopo aver fatto visita ai familiari nel villaggio di Bahouzi. I contatti con lei si sono interrotti intorno alle 16:00 mentre viaggiava su un minibus pubblico sulla strada Homs-Safita. La sua famiglia ha chiesto in un post sui social media a chiunque avesse informazioni sulla sua posizione di contattare telefonicamente suo fratello.
La mattina del 16 aprile, Aya Talal Qassem, 23 anni, è stata rapita dopo aver lasciato la sua casa nella città costiera di Tartous. Tre giorni dopo, il rapitore di Aya l’ha liberata e l’ha condotta a Tartous, sull’autostrada per Homs, solo per essere arrestata dalla Procura Generale guidata da HTS.
La madre di Aya ha pubblicato un video sui social media in cui spiegava che alla sua famiglia non era permesso stare con lei durante la detenzione e che suo padre era stato arrestato perché aveva insistito per vederla. La madre ha affermato che la Procura Generale ha cercato di costringere Aya a testimoniare, affermando che non era stata rapita, ma che era fuggita con un amante. La madre ha aggiunto di essere stata costretta a raccontare una simile storia nonostante la presenza di tagli e ferite sanguinanti sul suo corpo. Un video è stato pubblicato in Rete nel momento del suo emozionante ritorno a casa, tra familiari e parenti che l’attendevano con ansia.

Il 21 aprile, Nour Kamal Khodr, 26 anni, è stata rapita insieme alle sue due figlie, Naya Maher Qaidban di 5 anni e Masa Maher Qaidban di 3.
Nour e le sue figlie hanno lasciato la loro casa nel villaggio di Al-Mashrafa, nella zona rurale di Homs, a mezzogiorno, dirigendosi verso l’abitazione di un vicino. Testimoni hanno visto un gruppo mascherato affiliato alla Sicurezza Generale guidata da HTS rapirle, caricarle su un veicolo contrassegnato con l’emblema del gruppo prima di darsi alla fuga.

ECHI DI SINJAR

Entro il 17 aprile, l’emittente irachena Al-Daraj ha riportato la notizia di dieci rapimenti confermati di donne Alawite nelle regioni costiere. Secondo una sopravvissuta, pseudonimo Rahab, è stata rapita in pieno giorno e tenuta chiusa a chiave in una stanza con un’altra donna.
Una donna che ha parlato con Al-Daraj con lo pseudonimo Rahab è stata rilasciata dopo che i rapitori avrebbero temuto un’irruzione della Sicurezza Generale. Ha dichiarato di essere stata rapita in pieno giorno e tenuta in una stanza con un’altra donna, affermando:
“Ci hanno torturato e picchiato. Non ci era permesso parlarci, ma ho sentito l’accento dei rapitori. Uno aveva un accento straniero e l’altro un accento locale di Idlib. Lo sapevo perché ci insultavano perché eravamo Alawite”.
L’altra donna, trattenuta con lei, pseudonimo Basma, rimane prigioniera. È stata costretta a chiamare la sua famiglia per dire loro che stava “bene” e per rassicurarli che “non avrebbero dovuto pubblicare nulla” sul suo rapimento.
Al-Daraj ha anche documentato il caso di una ragazza di 18 anni, anch’essa rapita in pieno giorno, nelle campagne di una città costiera in Siria.
La sua famiglia ha poi ricevuto un messaggio di testo che la intimava di rimanere in silenzio sul suo rapimento, altrimenti sarebbe stata riconsegnata morta. La ragazza ha poi inviato alla famiglia una registrazione vocale da un numero di telefono registrato in Costa d’Avorio, dicendo che stava bene e che non sapeva dove fosse stata portata.
I media iracheni hanno paragonato questi casi al Genocidio degli Yazidi perpetrato dall’ISIS a Sinjar. Oltre 6.400 Yazidi sono stati ridotti in Schiavitù dall’ISIS nel 2014.
Migliaia di loro sono stati trafficati in Siria e Turchia, venduti come Schiavi domestici o sessuali, o addestrati per il combattimento. Molti risultano ancora dispersi.

HTS: LA CONTINUITÀ IDEOLOGICA DELL’ISIS

Che donne Alawite stiano ora comparendo a Idlib non sorprende, data la discendenza ideologica di HTS.
HTS, che ha conquistato Idlib nel 2015 con missili TOW forniti dalla CIA, condivide la stessa visione Genocida dell’ISIS.
È stata fondata dall’ISIS e guidata da Sharaa, allora noto come Abu Mohammad al-Julani, inviato in Siria nel 2011 dal defunto “Califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi per fondare il Fronte Al-Nusra, precursore di HTS.

Nel 2014, l’analista siriano Sam Heller descrisse quindi i religiosi di Al-Nusra come promotori di un “fanatismo tossico, persino Genocida” nei confronti degli Alawiti, basato sugli insegnamenti dello studioso islamico medievale Ibn Taymiyyah.
Sebbene HTS e ISIS si siano scontrati nel 2014, i loro legami sono durati. Quando Al-Baghdadi fu ucciso nel 2019, si nascondeva a Barisha, appena fuori Sarmada, controllata da HTS. All’epoca, anche numerosi Yazidi ridotti in Schiavitù si trovavano a Idlib.
Il quotidiano The Guardian lo ha confermato, citando Abdullah Shrem, un soccorritore Yazida, e Alexander Hug della Commissione Internazionale per le Persone Scomparse, i quali hanno affermato che le persone scomparse venivano spesso trattenute “in aree al di fuori del controllo governativo”.
Nel 2019, Ali Hussein, uno Yazida di Dohuk, raccontò alla giornalista della Radio Pubblica Nazionale Jane Arraf del suo tentativo di comprare la libertà di una bambina Yazida di 11 anni, rapita dall’ISIS ma “venduta a un emiro di un’organizzazione affiliata ad Al-Qaeda in Siria, Jabhat Al-Nusra, e non più vergine”.
“Vi avevo detto 45.000 dollari (40.000 euro) fin dall’inizio. So quanto pagano a Raqqa. Vi avevo detto che in Turchia avrebbero pagato 60.000 o 70.000 dollari (53.000 – 62.000 euro) e le avrebbero asportato gli organi. Ma non voglio farlo”, minacciò il contatto dell’ISIS durante la trattativa.
Reuters ha riportato il salvataggio di un giovane Yazida, Rojin, catturato e ridotto in schiavitù dall’ISIS insieme al fratello nel 2014. A 13 anni, Rojin fu portato nel campo Curdo di Al-Hol, nella Siria Orientale. Fu trattenuto lì insieme a migliaia di famiglie e sostenitori dell’ISIS dopo la sconfitta finale dell’organizzazione nella città di confine siriana di Baghouz nel 2019.
Il combattente saudita dell’ISIS che aveva acquistato Rojin organizzò poi il suo trasporto clandestino da Al-Hol a Idlib. Fu liberato cinque anni dopo, nel novembre 2024, mentre HTS preparava il suo assalto lampo ad Aleppo.
Reuters ha riferito che in un altro caso, un Yazida di 21 anni di nome Adnan Zandenan ricevette un messaggio su Facebook da un fratello minore che presumeva morto, ma che era stato anch’egli portato clandestinamente a Idlib.
“Mi tremavano le mani. Pensavo che uno dei miei amici mi stesse prendendo in giro”, ha ricordato Zandenan. Tuttavia, l’euforia di Zandenan si è rapidamente trasformata in disperazione quando suo fratello, ormai diciottenne e profondamente indottrinato dall’ideologia Salafita-Jihadista, si è rifiutato di lasciare Idlib e tornare nella comunità Yazida di Sinjar.

IL CALIFFATO RICONFEZIONATO

Nel dicembre 2024, appena un giorno dopo l’ingresso di HTS di Jolani a Damasco per rovesciare Assad, il giornale curdo iracheno Rudaw riferì che una donna Yazida di 29 anni era stata salvata dalla schiavitù a Idlib, affermando che molte donne Yazide erano state salvate dal campo di Al-Hol, gestito dai Curdi.

Tuttavia, altre “sono state trovate in zone della Siria controllate dai ribelli di HTS o da gruppi armati sostenuti dalla Turchia (Esercito Nazionale Siriano), e alcune sono state localizzate in Paesi terzi”, aggiunse.
Nei giorni successivi alla caduta di Assad, folle esultanti si riversarono nelle piazze cittadine, intonando canti a sostegno di al-Julani, ora ribattezzato Ahmad al-Sharaa.
Eppure, mentre i diplomatici occidentali si affrettavano a incontrare il nuovo sovrano, il significato della sua “libertà” divenne rapidamente chiaro. I rapimenti di donne Alawite, che rispecchiano la tragedia Yazida, hanno dimostrato che al-Julani aveva semplicemente riconfezionato il modello ISIS.
Con la scusa della liberazione, un brutale sistema di violenza fanatica, schiavitù e stupri è stato scatenato contro coloro che ora erano sotto il suo controllo.
In risposta al crescente negazionismo, l’esperto di genocidio Matthew Barber ha messo in guardia contro lo stesso schema che ha caratterizzato i primi giorni del genocidio Yazida: incredulità, rifiuto e derisione, finché la verità non si è rivelata ben peggiore.
“Nessuno credeva che potesse accadere. Persino analisti e giornalisti occidentali non credevano alle nostre affermazioni”, ha detto Barber. “La realtà era persino peggiore di quello che affermavamo”.
Il silenzio delle vittime non è volontario, è forzato. E mentre questa campagna di terrore di genere continua, la domanda rimane: per quanto tempo il mondo distoglierà lo sguardo?

Traduzione: La Zona Grigia.

Siria ultimo sangue

Enrico Campofreda dal Blog 12 marzo 2025

Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi. Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi.

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra. Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.

Siria, accordo tra governo e curdi: il Rojava tra speranze e insidie

dinamopress.it carla-gagliardini 14 marzo 2025

Il collasso del regime di Assad e la formazione di un nuovo governo di origine jihadista e sotto protezione turca apre nuovi problemi per il Rojava. Il recente accordo tattico fra la nuova amministrazione centrale e le Sdf curde promette il riconoscimento dei diritti di quel popolo ma persistono molte difficoltà, vista anche l’intolleranza del nuovo regime verso gli alawiti

In un Medio Oriente in fiamme la situazione del Rojava, regione nel nord-est della Siria dove da più di un decennio governa la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est) a guida curda, è davvero complicata. L’Amministrazione Autonoma è difesa dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane), accusate dalla Turchia di essere una propaggine del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Così Ankara bombarda da sempre quelle terre e ciclicamente lancia delle campagne militari con le quali intensifica la sua azione. L’ultima è quella partita lo scorso novembre quando da Idlib, roccaforte dell’organizzazione Hts (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziata dalla Turchia, si è scatenata l’offensiva delle forze di opposizione arabe sunnite contro l’allora presidente Bashar al-Assad.

Mentre l’Hts procedeva spedita verso Damasco, caduta a dicembre senza sostanziale resistenza, le Sna (Esercito Nazionale Siriano), milizie al soldo di Ankara, costituite prevalentemente da foreign fighters, ricevevano gli ordini di penetrare nel Rojava. Il tentativo dell’operazione militare era di conquistare del territorio per allargare la zona cuscinetto, già esistente, al confine tra Turchia e Rojava e infrangere il sogno delle popolazioni di quelle zone che da anni praticano il confederalismo democratico, secondo il paradigma politico di Abdullah Ocalan.

I nuovi padroni della Siria, sbrigativamente rinominati ribelli dalle cancellerie occidentali, sebbene fino alla fuga di Assad fossero considerati spietati jihadisti formatisi nelle fila di al-Qaeda e dell’Isis, come il loro leader Ahmed al-Shaara, attuale presidente della Siria, si sono presentati al mondo con la faccia candida di chi vuole un paese pacificato, inclusivo, rispettoso di culture, lingue, tradizioni e religioni diverse. L’obiettivo chiaro di queste dichiarazioni è dare rassicurazioni e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali che affliggono la Siria e la sua popolazione. Senza esitazioni, i leader europei sono volati a Damasco e tra strette di mano e raccomandazioni paterne e materne hanno riaperto le ambasciate.

La taglia statunitense sulla testa di al-Shaara è stata rimossa e la gara a intervistarlo è stata vinta dalla BBC con un colloquio di oltre mezz’ora nel quale il neo-presidente siriano con fare pacato ha rassicurato il mondo delle buone intenzioni del suo governo. Alle domande spinose, come ad esempio quale sarà la politica rispetto alle donne, ha risposto rimandando tutto al futuro parlamento e dichiarando che sarà la legge a determinare le regole. Davvero vago e poco rassicurante, visti i precedenti delle organizzazioni a cui è stato affiliato. Non può essere dimenticato infatti quanto accaduto alle donne ezide rapite dall’Isis in Iraq, vendute come schiave in appositi “mercati” allestiti a Mosul, a Raqqa e persino su piattaforme on-line.

Per quello che riguarda invece il Rojava, sin dalla vittoria contro Assad, che per la verità nessuno ha difeso, nemmeno l’alleato russo, al-Shaara è stato chiaro e ha mantenuto la linea: nessuna regione autonoma e ogni formazione militare dovrà entrare nel corpo militare siriano. Insomma, sembra che alla Daanes e alle Sdf non venga fatta nessuna concessione, nonostante i proclami di una Siria inclusiva.

Le Sdf, attraverso i propri comandi, hanno cercato da subito un dialogo con al-Shaara, consapevoli del crinale scosceso su cui il Rojava si trova. Infatti le Sna, con attacchi da terra e il supporto della Turchia dai cieli, hanno conquistato a novembre la città strategica di Mambij e hanno iniziato ad attaccare la diga di Tishreen, sperando di espugnare successivamente la città simbolo della resistenza del Rojava contro l’Isis, ossia Kobane. A disturbare ci sono poi persino le cellule dell’Isis che, approfittando della situazione ancora instabile in Siria, conducono azioni militari contro le Sdf.

Dall’avvio dell’offensiva contro Assad, è cambiata la guida dell’amministrazione statunitense e alla Casa Bianca siede adesso Donald Trump, considerato oggi più che mai un alleato inaffidabile da parte di tutti. Ma le Sdf conoscono molto bene questo tratto del suo “carattere” perché, pur essendo gli Usa loro alleati, nel 2019, una volta sconfitto l’Isis in Siria, Trump ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi ben sapendo che ciò avrebbe comportato un attacco turco contro il Rojava, cosa prontamente avvenuta.

La partita aperta in Siria, dove anche la Russia e Israele sono parte del gioco, trasforma il paese in un terreno davvero periglioso, metaforicamente (e non solo!) minato.

Per questo le Sdf hanno ritenuto necessario il dialogo con i nuovi capi di Damasco. A renderlo ancor più necessario è stato l’appello del leader curdo Ocalan che lo scorso 27 febbraio, accogliendo l’invito al dialogo per porre fine al conflitto tra Stato turco e movimento di liberazione curdo lanciato a ottobre dal presidente del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), partito di ultra-destra islamista, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, ha chiesto a tutti di deporre le armi e al Pkk di avviare anche un congresso per decidere dello scioglimento del partito, dichiarando la sua ragion d’essere esaurita.

Il Comandante Generale delle Sdf, Mazlum Abdi, aveva immediatamente replicato che il negoziato in corso in Turchia riguardava solo quel paese e non la Siria ma che si aspettava risvolti positivi anche per il Rojava.

Lunedì 10 marzo è arrivata la notizia che al-Shaara e Abdi hanno siglato un accordo in più punti che deve trovare attuazione entro la fine dell’anno. Il portavoce del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) Salih Muslim, in un’intervista rilasciata a ANF News ha commentato gli otto punti del documento in modo positivo, sostenendo che la rivoluzione del Rojava si è consolidata e oggi la regione può dire di aver acquisito uno status che gli permette di essere un partner all’interno dello stato siriano.

Nel complesso l’accordo prevede: il riconoscimento di tutti i popoli a partecipare al nuovo processo politico e a lavorare dentro le istituzioni; il popolo curdo è considerato parte integrante della Siria e dunque gli sono garantiti il diritto di cittadinanza, negato sotto Assad padre e figlio, e i diritti costituzionali; l’impegno a lavorare per un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano, ciò significa secondo Salih Muslim che le Sna e gli attacchi turchi in Rojava verranno combattuti insieme dall’esercito siriano e dalle Sdf; il ritorno dei rifugiati siriani nelle loro terre e nelle loro case, quindi sempre secondo Muslim il territorio siriano verrà liberato della presenza turca che ha occupato dei territori; la lotta congiunta contro dichiarazioni e comportamenti volti a alimentare l’odio e a dividere il paese in fazioni; l’assorbimento da parte delle forze armate siriane delle organizzazioni civili e militari del nord-est della Siria, ossia del Rojava, oltre all’integrazione nello Stato dei valichi di frontiera, degli aeroporti e dei giacimenti di petrolio e gas; la lotta congiunta contro i gruppi legati al regime di Assad.

Questi ultimi due punti sono di particolare rilevanza. Con le immagini terrificanti che corrono sui social delle violenze senza freni delle milizie Hts nei confronti degli alawiti, sostenitori di Assad, è importante che le Sdf facciano prevalere l’approccio non vendicativo, sostenendo la necessità di un esercito teso alla sola difesa, come il confederalismo democratico insegna. A maggior ragione adesso che inizierà il loro processo di integrazione all’interno del corpo militare nazionale.

PROBLEMI E AMBIGUITÀ CHE RESTANO

Nell’accordo manca però ogni riferimento a cosa accadrà della Daanes, che con i suoi giacimenti di petrolio e gas, la cui amministrazione e redistribuzione delle risorse fiscali sarà oggetto di successive intese, fa gola al governo centrale.

Secondo il paradigma del confederalismo democratico l’Autonomia per sostenersi deve avere delle forze di autodifesa, che nel Rojava sono rappresentate proprio dalle Sdf. Cosa succederà una volta che le Sdf diventeranno parte del corpo militare nazionale? Ma soprattutto, cosa si sono detti al-Shaara e Abdi rispetto al destino della Daanes, avendo due posizioni così radicalmente diverse sull’idea di Stato?

Non bisogna dimenticarsi che nella conferenza convocata dal presidente siriano per confrontarsi con politici e società civile sul futuro della Siria, tenutasi il 25 febbraio scorso, né la Daanes né le Sdf sono state invitate e in due dei punti scritti sul documento finale è stato detto chiaramente che nella nuova Siria non c’è lo spazio per organizzazioni militari fuori dall’alveo statale e neppure per regioni autonome.

Come riuscirà o potrà convivere il confederalismo democratico, che è già una pratica reale nel Rojava, con la Siria degli jihadisti dell’Hts è difficile da vedere con nitidezza oggi.

È una partita molto tattica quella che si gioca, certamente costretta dagli eventi politici e militari in rapido mutamento che il Medio Oriente sta vivendo. La regione siriana è ancora una volta dentro fino al collo in questo turbine di violenza, speranze e timori per il futuro.

Nella foto Mazlum Ebdî, comandante in capo delle Forze siriane democratiche. Immagine di Zana Omer – VOAIsis

 

Il governo siriano ha detto di aver raggiunto un accordo con i principali gruppi curdi

ilpost.it 10 marzo 2025

Prevede che vengano integrati nelle istituzioni politiche e militari siriane: le informazioni certe però sono ancora poche

I principali gruppi della comunità curda sono riuniti nelle Forze democratiche siriane (SDF), un’organizzazione militare e politica che include varie milizie come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda, e altri gruppi locali. Da sei anni amministrano autonomamente circa un terzo del territorio siriano, nel nord-est del paese, dopo aver sconfitto in quell’area lo Stato Islamico con il sostegno degli Stati Uniti.

Le informazioni certe sul contenuto dell’accordo sono ancora poche e le Forze democratiche siriane non l’hanno ancora commentato pubblicamente. Le uniche disponibili sono contenute in un comunicato della presidenza siriana pubblicato dall’agenzia di stampa statale siriana SANA, in cui si legge che l’accordo integrerebbe «tutte le istituzioni civili e militari nel nord-est della Siria nell’amministrazione dello stato siriano, compresi i varchi di frontiera, gli aeroporti e i giacimenti di petrolio e gas». Non è ancora chiaro però quale sarebbe l’esatto status del territorio oggi controllato dalle SDF.

L’accordo inoltre riconoscerebbe la comunità curda come «parte integrante dello stato siriano, che le garantisce i diritti di cittadinanza e costituzionali». La nuova Costituzione siriana deve essere ancora redatta, ma per decenni il regime di Bashar al Assad ha negato ai curdi moltissimi diritti, fra cui l’insegnamento e l’uso della loro lingua e qualsiasi forma di autonomia amministrativa.

Le Forze democratiche siriane erano il più importante fra i gruppi siriani che ancora non si erano aggiunti ufficialmente alle trattative sulla transizione politica del paese. Lo scorso dicembre non avevano preso parte all’accordo di sciogliersi e confluire in un unico esercito insieme agli altri gruppi armati che avevano contribuito a rovesciare il regime di Assad. Poche settimane fa, a fine febbraio, non avevano partecipato all’incontro organizzato dal governo ad interim nell’ex palazzo di Assad per ascoltare le varie raccomandazioni sulla direzione che dovrebbe prendere il paese.

A dicembre i curdi siriani avevano approfittato della ritirata dell’esercito di Assad durante la fine del regime per conquistare nuovi territori, ma erano stati parallelamente attaccati con una campagna di bombardamenti dalla Turchia, che li considera un pericolo per la propria sicurezza nazionale, e dall’Esercito nazionale siriano, una milizia controllata dal governo turco.

 

 

Perché Erdogan è interessato a una pace con i curdi del PKK

Il Post, 3 marzo 2025

La storica richiesta di Abdullah Öcalan al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) di abbandonare la lotta armata, sciogliersi e avviare un processo di pace è legata anche a un cambio di atteggiamento da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che potrebbe avvantaggiarsi da un riavvicinamento con i curdi. Da un lato la distensione potrebbe facilitare l’approvazione di una riforma costituzionale che permetterebbe a Erdogan di restare al potere oltre la fine del suo secondo mandato, nel 2028. Dall’altro la fine delle ostilità con il PKK potrebbe indebolire o condizionare anche i curdi siriani, contro cui la Turchia combatte da tempo.

Da oltre quarant’anni il PKK, fondato proprio da Öcalan, combatte una guerra contro lo stato turco per ottenere maggiore autonomia politica e sociale per la popolazione curda in Turchia. Gli ultimi negoziati erano falliti nel 2015, e in quell’occasione il governo turco aveva attaccato duramente i curdi, sia con l’esercito sia attraverso un’intensa repressione politica.

Da qualche mese Erdogan ha però cambiato approccio. Non si è espresso direttamente sulla questione, ma ha usato la stampa e alcuni alleati di governo per far capire di essere pronto a negoziare.

Tra i vari motivi alla base di questo cambio potrebbe esserci il tentativo di garantirsi il sostegno del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), un partito filocurdo da tempo considerato dalla maggioranza di governo un’espressione politica del PKK. Lo scorso ottobre il leader del partito di estrema destra Movimento Nazionalista (MHP) Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, aveva prima allacciato rapporti con DEM, poi proposto una grazia a Öcalan se il PKK avesse deciso di abbandonare la lotta armata e sciogliersi. Le iniziative di Bahceli non erano personali, ma riflettevano il nuovo approccio del governo.

Il riavvicinamento è dovuto in parte a ragioni di opportunismo politico. I voti di DEM servirebbero a Erdogan per approvare un progetto di riforma costituzionale che gli permetterebbe di restare al potere anche dopo il 2028, quando scadrà il suo secondo e ultimo mandato presidenziale. Per approvarla servono almeno due terzi dei voti: DEM ha 57 seggi in parlamento, sui 600 totali (la maggioranza che sostiene Erdogan ne ha 324, 7 seggi sono vacanti, altri voti potrebbero arrivare da partiti più piccoli o parlamentari indipendenti).

DEM persegue per via democratica gli stessi obiettivi del PKK: riconoscimento costituzionale dell’identità curda, insegnamento della lingua curda nelle scuole e maggiore autonomia per la regione. Sono richieste avanzate da anni, ma che il governo ha sempre respinto. Non è chiaro al momento quanto Erdogan sia disposto a concedere, anche sul tema della scarcerazione dei prigionieri politici e dell’amnistia per i guerriglieri del PKK.

Negli ultimi dieci anni il partito e i suoi esponenti sono stati sottoposti a varie misure repressive: 150 sindaci curdi sono stati rimossi e decine di attivisti e politici sono stati incarcerati. Per esempio Selahattin Demirtaş, ex co-presidente di DEM che fu anche candidato alla presidenza, è in prigione dal 2016.

La fine delle ostilità con i curdi della Turchia potrebbe anche avere ripercussioni sui curdi siriani, che controllano la regione del Rojava, nel nord-est della Siria e vicino al confine con la Turchia.

L’appello di Öcalan per l’avvio di un processo di pace non è stato rivolto ai curdi siriani (la Siria non è mai nominata nel messaggio), ma in questi anni molti esponenti del PKK sono confluiti nelle Forze democratiche siriane (SDF), l’esercito che contiene al suo interno sia i principali gruppi armati curdi della Siria (come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda) sia altre milizie locali. L’attuale comandante in capo delle SDF, Mazloum Kobane (nome di guerra di Mazloum Abdi), ha fatto parte del PKK ed è stato a lungo il principale collaboratore di Abdullah Öcalan. Agli occhi della Turchia, non c’è differenza tra il PKK e le SDF.

In questi anni l’esercito turco e le milizie filoturche hanno combattuto contro le SDF. Il governo turco ritiene che fare la pace con il PKK potrebbe depotenziare anche i curdi siriani, che in passato sono stati sostenuti dagli Stati Uniti principalmente per combattere l’ISIS nella regione, ma che oggi sono molto più isolati.

Il progetto di Erdogan, ambizioso e ancora in una fase iniziale, è quindi quello di smettere di fare la guerra ai gruppi curdi per consolidare ulteriormente il proprio potere nel paese. Allo stesso tempo, il presidente turco vorrebbe che l’influenza della Turchia sulla regione circostante si estendesse.

Turchia. Liberare Ocalan per costruire la pace

Carla Gagliardini, volerelaluna, 25 febbraio 2025

La persecuzione dello Stato turco verso i leader politici curdi del DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli) continua in Turchia, come i bombardamenti turchi in Rojava, regione siriana governata dalla DAANES (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est), a guida curda, che hanno già fatto molte vittime tra i civili.

La via dei colloqui tra Ankara e Abdullah Ocalan, leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che si è aperta a dicembre per porre fine al conflitto che va avanti da cinquant’anni sembra però ancora aperta. Rimane tuttavia il quesito sul perché Erdogan invece di alleggerire la tensione la alimenti. Vuole forse indebolire il più possibile Ocalan per dover cedere molto poco sul tavolo delle trattative, che riguardano anche il Rojava, a maggior ragione oggi in una Siria dove la Turchia sta giocando una partita da protagonista?

Un tentativo per raggiungere un accordo era già stato fatto nel 2013 ma era poi naufragato nel 2015, nel pieno dell’attacco sferrato dall’ISIS in Siria contro le comunità del Rojava, in maggioranza curde. Ankara aveva favorito l’ingresso dei foreign fighters che andavano a ingrossare le fila degli jihadisti, suscitando la reazione dei curdi in Turchia che avevano dato origine a manifestazioni di protesta contro il governo, il quale aveva reagito con arresti di massa, imprigionando soprattutto le leadership curde e mettendo così una pietra sul processo di pace.

Ankara riprova a piegare quei curdi che in Turchia hanno scelto la via del confederalismo democratico, forma di governo basata su una democrazia radicale che si ispira alle idee di Ocalan, e che amministrano secondo questo modello le città e le province conquistate attraverso il voto nelle urne. Ma non sono solo i curdi a finire nel tritatutto. L’intera opposizione a Erdogan sta pagando un caro prezzo. Il 21 gennaio scorso sono stati arrestati due sindaci del distretto di Istanbul del CHP (Partito Popolare Repubblicano) con l’accusa di avere legami con organizzazioni terroristiche, oltre al rappresentante dei giovani del partito, rilasciato poco dopo. LReuters ha scritto che «le autorità turche hanno intensificato le indagini e le detenzioni di esponenti dell’opposizione: solo lunedì si sono verificate tre azioni di questo tipo, sollevando preoccupazioni circa una crescente repressione del dissenso contro il Governo (https://www.reuters.com/world/middle-east/turkeys-opposition-faces-barrage-arrests-investigations-2025-01-21/). Martedì 11 febbraio la testata giornalistica ANF News ha dato la notizia che il co-sindaco di Van e membro del DEM, Abdullah Zeydan, è stato nuovamente processato dall’Alta Corte Penale di Diyarbakır con l’accusa di aver “aiutato un’organizzazione illegale”, reato per il quale aveva già scontato in passato una pena detentiva (https://anfenglishmobile.com/news/van-co-mayor-zeydan-sentenced-to-3-years-and-9-months-in-prison-77886). L’Avvocato di Zeydan, Mehmet Emin Aktar, ha puntato il dito contro la Corte accusandola di non aver garantito il giusto processo al suo assistito e di aver impedito alla difesa di svolgere il proprio lavoro. Alla fine dell’udienza il Co-sindaco è stato condannato a 3 anni e 9 mesi di detenzione. Zeydan non si è presentato in udienza e, dopo che la notizia ha iniziato a circolare, la popolazione di Van è ancora una volta scesa in strada in sua difesa, così come aveva già fatto dopo le elezioni di marzo dell’anno scorso, quando dopo la vittoria il governo aveva provato a rimuovere il neo eletto Co-sindaco, dovendo poi desistere. Ma Zeydan era ancora finito sotto il mirino della Corte Suprema della Turchia che il 4 dicembre gli aveva notificato la revisione della decisione dell’Alta Corte Penale di Diyarbakir la quale gli aveva restituito i diritti elettorali per potersi candidare alle elezioni dmarzo 2024 (https://volerelaluna.it/mondo/2025/01/08/erdogan-e-i-curdi-tra-caute-aperture-e-repressione-permanente/). Zeydan è già stato rimosso dal suo incarico e sostituito con il governatore del Distretto, Ozan Balci. La veglia davanti al Palazzo municipale di Van continua e lo scontro con il Governo si fa più intenso. Si sono sollevati infatti anche i giovani in altri distretti, erigendo barricate e rispondendo agli attacchi della polizia turca con lanci di molotov e pietre. I partiti di sinistra sono scesi domenica 16 febbraio in piazza per dichiarare la propria solidarietà al co-sindaco Zeydan e per denunciare la repressione crescente nel Paese nei confronti dell’opposizione.

Precedentemente, mercoledì 12 febbraio, sempre ANF News aveva fatto sapere che otto persone erano state arrestate con la doppia accusa di “partecipare ad attività organizzative illegali all’interno dei confini di Ankara” e di portare avanti la propaganda via social media a favore di un’organizzazione illegale (https://anfenglishmobile.com/kurdistan/resistance-in-van-continues-77899). Tra queste si trova anche la parlamentare del DEM Pakize Sinemillioğlu.

In Turchia la persecuzione politica degli oppositori è una costante e le patrie galere strabordano di politici, intellettuali, artisti, professionisti e militanti di organizzazioni che hanno reagito al dispotismo del potere che governa il Paese. Persino le istituzioni europee hanno più volte lanciato l’allarme chiedendo alla Turchia di porre fine agli arresti arbitrari e alla violazione dei diritti fondamentali e dei detenuti.

L’avvio del processo di pace chiesto dal partito di ultradestra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) e appoggiato dall’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdogan sembra molto tortuoso perché è instancabile la repressione che Ankara continua a esercitare sul DEM e nel Rojava. Il Governo turco ha però la possibilità di dimostrare che la sua intenzione di portare a buon fine le trattative è reale e non un tranello. Lo può fare con la liberazione di Ocalan, aprendo le porte della cella dove da più di venticinque anni è rinchiuso, permettendogli così di portare avanti i negoziati da uomo e politico libero. Certo è che un Abdullah Ocalan libero con il suo carisma e la sua capacità di guidare il suo popolo non può che intimorire Ankara.

Il Rojava e la difesa della diga di Tishrin

Laura Schrader, volere la luna, 22 gennaio 2025
È notte sulla diga di Tishrin. La donna che stringe il microfono indossa un scialle e il velo bianco delle madri dei martiri. Si chiama Eysha, i suoi quattro figli sono caduti nella guerra di resistenza kurda. «Promettiamo di difendere la diga!» grida. «Promettiamo! Promettiamo! Promettiamo!» le rispondono in coro centinaia di persone facendo il segno di vittoria.

La diga di Tishrin

Dal 7 gennaio un flusso gigantesco di veicoli dalla città di Kobane e dai villaggi di Darik, Girko Lege, Kocerat, Berav arriva sul ponte della diga di Tishrin. Migliaia di persone la presidiano giorno e notte. Donne e uomini di ogni età e professione, ragazze e ragazzi, perfino bebè di pochi mesi in braccio alle mamme. Si intonano canti e slogan, si tengono comizi, si danza l’hayal, il ballo di gruppo emblema di identità (e i vecchi sono quelli che ricamano passi con particolare maestria). Sul ponte sopra la diga sono sorti banchetti di cibo e bevande. Il via vai è incessante nonostante gli attacchi di bombardieri e droni dell’aviazione turca. Tra le almeno dieci vittime, un noto attore di teatro, la co-presidente del partito PYD di Qamishli e entrambi i genitori di una bambina di pochi mesi. Oltre 20 i feriti. Mentre dalle sue sponde si levano i lampi di fuoco e i fumi densi delle bombe l’Eufrate scorre azzurro e silenzioso tra basse colline brulle. La diga di Tishrin è alta 40 metri, il suo bacino idrico è lungo 60 km. Fornisce acqua a milioni di persone nel Rojava, il Nord Est della Siria. Un suo collasso sotto le bombe dell’aviazione turca provocherebbe ingentissimi danni ecologici e condizionerebbe la vita anche delle future generazioni.

Dal 7 gennaio Ankara per mezzo del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA) cerca di valicare la diga, nodo strategico per superare l’Eufrate e arrivare a Kobane. L’Esercito Nazionale Siriano, formato, armato e pagato da Ankara, è forte di 70 mila uomini, jihadisti di ogni genere ed ex tagliagole dell’Isis provenienti da tutto il mondo: sono presenti 40 diverse nazionalità. Operatori e giornalisti della televisione e della radio del Rojava lavorano giorno e notte per trasmetterci le immagini del presidio: i bombardamenti, le schegge che esplodono sopra le loro teste, i soccorsi ai feriti, il trasporto dei morti, le auto distrutte… È importante informare.

Kobane, la preda più ambita

La città martire di Kobane è il simbolo della vittoria contro l’Isis delle Forze Siriane Democratiche (SDF) a guida kurda; l’Isis era sostenuto apertamente dalla Turchia (e per conto di Ankara aveva compiuto le sanguinose stragi contro il partito filo kurdo HDP del 2015 e 2016). Distrutta nel corso dell’assedio del califfato nero e rapidamente ricostruita, Kobane esibisce al centro della sua piazza principale la statua di una donna con ali d’angelo che indossa la divisa delle combattenti kurde, dedicata alla Vittoria delle Donne. Per il suo valore simbolico Kobane è la preda più ambita di Ankara, che non ha mai digerito la vittoria kurda. Da tempo l’aviazione turca bombarda sistematicamente le infrastrutture vitali della città e dei villaggi nei dintorni. In seguito alla caduta di Damasco per mano del gruppo HTS di Al Jolani (terrorista per Europa, Usa e Onu) e di altri cosiddetti ribelli siriani, Ankara ha affidato all’Esercito Nazionale Siriano il compito di distruggere Kobane. Le operazioni sono iniziate l’8 dicembre. Contro SNA combattono efficacemente le Forze Siriane Democratiche (SDF) sostenute dagli Stati Uniti in funzione anti Isis. Cellule del califfato nero sono pericolosamente presenti nel Rojava e la loro attività si è intensificata con l’avvento del nuovo governo di Damasco. Il campo di El Hol custodisce decine di migliaia di tagliagole con le loro famiglie, provenienti da ogni parte del mondo, che i paesi d’origine rifiutano di riprendere. Se il Rojava cadesse nelle mani dei mercenari di Ankara un’ondata di barbarie dilagherebbe fuori dal campo di El Hol. L’agenzia di stampa kurda ANF News il 24 dicembre dava notizia di 15 mila arresti e di molti rapimenti e di riduzione in schiavitù di donne kurde combattenti ferite catturate in ospedale e uccise: crimini compiuti da SNA nell’area di Sheheba a Nord di Damasco.

Annientare il Rojava

Negli ultimi due mesi il presidente turco Erdogan e il ministro degli esteri Fidan insistono sulla volontà di annientare il Rojava, l’Amministrazione autonoma democratica del Nord Est della Siria (DAANES) che tenta di negoziare con il governo provvisorio di Damasco il mantenimento dell’autonomia e la divisione degli introiti del petrolio della regione. Ankara insiste ossessivamente su una “priorità assoluta”: distruggere le forze kurde YPG / YPJ – Unità di difesa composte da uomini e donne, componenti fondamentali di SDF – e ribadisce il progetto della Fascia di Sicurezza, l’occupazione di una grande parte di territorio kurdo in Siria e la sostituzione della popolazione con arabi rifugiati in Turchia.

La Turchia, nata dal genocidio e dalle stragi di Armeni, Greci e Kurdi, fondata sul dogma di un solo popolo, il turco, e di una sola religione, la islamico-sunnita, non ammette il pluralismo di etnie e di religioni presente in Siria e la rivoluzione delle donne nel Rojava. Dopo la caduta del regime di Assad, Erdogan intensifica i proclami sul ritorno alla grandezza dell’impero Ottomano sottolineando i propri successi in Libia, Somalia e Siria. Si presenta come il grande protagonista della caduta di Assad e del nuovo assetto siriano. Presenta piani di ricostruzione e il progetto di un esercito numeroso e ben armato. Alcuni analisti prospettano che la Siria diventi una sorta di protettorato turco con orientamento islamista. Sempre più paradossale l’appartenenza alla Nato.

Non una “nuova Siria”, ma due

Davide Grasso, Micromega, 31 gennaio 2025
Quando Assad ha lasciato la Siria, lo scorso 8 dicembre, in tanti hanno festeggiato. Non mancavano le preoccupazioni per ciò che sarebbe accaduto, ma è prevalsa, giustamente, la contentezza per un’apertura possibile e, per molti, la possibilità di lasciare le prigioni, tornare nelle proprie città, esprimere il proprio pensiero ad alta voce o, semplicemente, respirare, piangere di commozione, rientrare nel paese. La propaganda dei sostenitori del regime deposto, attiva soprattutto all’estero, ha cercato di far passare la sconfitta del Baath per una catastrofe, e l’identificazione di chiunque non mostrasse contrizione come un “jihadista” o un sostenitore del jihadismo. Se il rigetto di questo tentativo è la base e il principio per ogni discussione empatica e realistica sulla Siria futura – e, in controluce, su cos’è oggi una prospettiva rivoluzionaria nel mondo – è altrettanto cruciale la consapevolezza che è (sempre) necessario mantenere vigile la critica, e verso più di un fenomeno politico allo stesso tempo.
Come le battaglie contro big Pharma non dovrebbero implicare il boicottaggio di campagne vaccinali inevitabili durante una pandemia, infatti – o il sostegno alla resistenza ucraina non dovrebbe tradursi in un sostegno politico per le oligarchie al potere nel paese – così il riconoscimento del severo giudizio storico emerso verso le componenti degenerate e corrotte del nazionalismo baathista non dovrebbe indurre a sottovalutare gli atti delle forze che hanno instaurato una nuova autorità su Damasco. Al-Jolani aveva affermato, a inizio dicembre, che il suo movimento avrebbe stupito il popolo siriano, mostrando come i timori verso un «ordine islamico» fossero frutto di fraintendimenti o di scorrette applicazioni passate di questo concetto. Affermazioni abbastanza audaci da attrarre meritata attenzione e da essere necessariamente prese sul serio, in attesa di azioni politiche che le sostanziassero. Io stesso proposi di giudicare il gruppo non in base ai suoi precedenti (che pure non devono essere mai dimenticati), ma in base alle nuove azioni.
A un mese e mezzo di distanza è evidente che, se obiettivo di HTS era mostrare che l’islamismo è compatibile con il rispetto per le persone, per la cultura e per le donne, la giustizia sociale e la costruzione di un percorso istituzionale animato da una decenza minima nel rapporto con le diversità, i dissidenti e i prigionieri, l’obiettivo è fallito su tutta la linea. L’evoluzione della situazione siriana dimostra nuovamente, dopo sole sei settimane, che la paura e il disgusto che covano o si esprimono in gran parte della Siria – e del mondo musulmano – verso i movimenti islamisti nulla ha a che fare con una presunta e improbabile “islamofobia” ma con fatti nudi e crudi che è impossibile ignorare. L’ordine islamista viene quindi o nuovamente scorrettamente applicato oppure, malauguratamente, ancora frainteso da tanti, troppi comuni mortali.

Colpo di mano e riconoscimento esterno

Al-Jolani persiste in una ormai stantia dichiarazione di volontà di dialogo con tutte le “minoranze”, intese in un depoliticizzato senso etno-culturale che mira a rimuovere la sostanza politica dei problemi sul piatto. HTS è d’altra parte di per sé una minoranza politica che ha deciso, forte del sostegno turco, delle monarchie del golfo e atlantico, di agire come se non fosse tale. Anziché permettere al primo ministro Al-Jalali in carica a inizio dicembre (come inizialmente annunciato) la possibilità di formare un governo di transizione scevro da rappresentanti del Baath ma composito, Jolani ha trasferito nella capitale direttamente il governo monocolore che la sua organizzazione aveva imposto alla popolazione di Idlib dal 2017. La Siria si è trovata così ad essere governata da una compagine salafita senza dubbio forte e influente nel panorama delle opposizioni, ma lungi dal poter essere rappresentativa del quadro socio-politico complessivo delle forze estranee al passato. Nell’attuale processo costituente il governo transitorio mostra inoltre diverse ambiguità: l’incertezza sulla sua durata, la natura del processo costituzionale annunciato e la collocazione esatta della sovranità transitoria.
Jolani ha dichiarato a dicembre che i poteri del suo personale esecutivo sarebbero durati tre mesi. Non è chiaro però cosa seguirà, se è vero che a fine mese ha affermato anche che la celebrazione di elezioni potrebbe non avvenire prima di quattro anni. Ha più volte lasciato intendere nelle sue interviste, in secondo luogo, che la costituzione non sarà scritta da un’assemblea costituente eletta, ma da un gruppo di “esperti”; termine che naturalmente non vuol dire nulla, a meno che non si intenda – nella tradizione politica di HTS – dottori della giurisprudenza islamica selezionati su base ideologica dal movimento e dai suoi alleati controllati dalla Turchia (una base ideologica e giuridica estranea alla maggioranza della popolazione, anche credente e sunnita).
Non è un caso che le prime grandi manifestazioni contro l’atteggiamento del nuovo governo siano state organizzate dalle associazioni femminili arabe, che hanno reagito alle dichiarazioni secondo cui le donne non sarebbero adatte a ricoprire tutti i ruoli esistenti nella società.
La risposta di Aisha Al-Dibs, prontamente appuntata come dirigente di un ufficio per gli affari femminili nel governo (e unica donna nell’esecutivo), non ha fatto che aumentare (e rivelare) i problemi: ha affermato che le donne devono preoccuparsi in primo luogo dei loro mariti e figli, che non vi sarà spazio per il femminismo in Siria e che la porta resterà chiusa per tutte le visioni in disaccordo con la sua (sic).
Resta infine il problema della posizione di HTS nell’architettura istituzionale della transizione. Il parlamento è stato sospeso, lo scranno del presidente è vacante: il Comando delle operazioni militari, organo di HTS che ha formato il governo, ha avviato un processo di unificazione dei gruppi armati islamisti nel paese. Al-Jolani dirige questo organo ed è quindi un esponente di partito che non fa parte dell’esecutivo. D’altra parte, presiedendo l’entità che ha formato il governo e gli ha dato operatività, e che sta costituendo un esercito, è il depositario della sovranità effettiva, ed è effettivo capo dello stato là dove lo stato esercita una controllo territoriale. Con lui, non a caso, si relazionano i rappresentanti degli altri stati. Governi come quello italiano, che hanno riconosciuto nei fatti questa autorità con la visita di Tajani del 10 gennaio, considerano quindi un processo di questo tipo (che non era affatto l’unico possibile) come legittimo (e da legittimare esternamente). Sul piano interno, tuttavia, l’esclusione di tutte le altre forze di opposizione dal governo di transizione si qualifica come un colpo di stato dentro la rivoluzione o contro la rivoluzione possibile.

L’incontenibile pesantezza di una mentalità suprematista

Per ottenere questa precipitosa legittimazione, di cui il governo afghano dei Taliban non ha ad esempio usufruito (avendo rovesciato un governo sostenuto dalla Nato, e non da Iran e Russia), una figura che è giunta al potere coltivando il mito dell’abbattimento delle Twin Towers e delle stragi irachene di sciiti come Al-Jolani non ha dovuto mostrare l’annunciato rispetto per minoranze, neanche cristiane. Il 25 dicembre l’incendio dell’albero di Natale tradizionalmente costruito in piazza dalla comunità cristiana ad Hama è stato seguito dalla diffusione del video della profanazione di un luogo di culto alawita ad Aleppo. Le proteste delle minoranze religiose che ne sono seguite sono state represse con l’invio di centinaia di veicoli di HTS nelle città e nei villaggi, che hanno scatenato il terrore. L’operazione è stata giustificata come atto repressivo contro poliziotti o militari di Assad manovrati dall’Iran, iniziando la litanie delle paranoie complottiste che, c’è da crederlo, farà invidia a quella del Baath. Questa versione, ripresa dagli organi d’informazione globale della Fratellanza musulmana come Al-Jazeera o del governo turco come Middle East Eye, non è stata tuttavia corroborata da nessun documento o prova, e ha mascherato nei fatti il primo pogrom in grande stile della Siria sottoposta all’egemonia islamista.
I video circolati su Telegram e X, peraltro, non hanno mostrato isolati episodi di rabbia sfociati in esecuzioni sommarie, ma un’operazione di massa, preordinata e organizzata, in cui nuovi poliziotti con il dito indice alzato (saluto politico di HTS, ma anche di Daesh) non sembrano in grado di effettuare arresti senza offrire lo spettacolo di uccisioni di gruppo con colpi alla nuca sul marciapiede, decapitazioni e torture, tra cui l’obbligo per gli arrestati di strisciare per terra o di abbaiare come cani; o fedeli cristiani, nel villaggio aramaico Maloula, obbligati a inginocchiarsi e umiliarsi di fronte a nuovi “conquistatori”. Comportamento da rivoluzionari? Un’istituzione, tanto più se pretende di costituire un elemento trasformativo, si definisce anche dal modo è in grado di trattare i propri nemici, soprattutto se sconfitti, e se conduce contro di essi un’operazione organizzata. Quale sia l’idea di trasformazione è stato chiaro con le direttive immediatamente successive per la riforma dei curriculum scolastici e dei libri di testo, dove si prevede siano censurati riferimenti al “passato politeista della Siria” (sic) e ad elementi filosofici e religiosi considerati distanti dal (corretto intendimento del) messaggio divino.

Gli stati e noi (o logiche diverse di riconoscimento potenziale)

Nonostante tutto questo Stati Uniti ed Europa, con Germania e Italia in testa, hanno lasciato intendere che l’apertura al mercato annunciata dall’esecutivo e realizzata con la prima partecipazione storica della Siria governata dall’islam “politico” al WTO di Davos è più che sufficiente per chiudere tutti e due gli occhi sulle atrocità commesse e su quelle a venire. Non a caso i media europei, a partire da quelli italiani, non stanno più parlando della Siria e nessuno di questi crimini è stato dovutamente raccontato e contestualizzato. Mentre i pogrom di Natale avevano luogo, Repubblica e Ansa plaudivano a presunti sequestri di droga dei fedeli di Al-Jolani, accuratamente esibiti a beneficio di una stampa occidentale che non saprei se ingenua (a dir poco) o in malafede. Anche in taluni ambiti politici e accademici non manca chi reagisce con sorpresa a qualsiasi commento scandalizzato su questi fatti – quasi che giudicare HTS per quello che è significhi coltivare nostalgie per Assad e il suo sistema.
Ciò che più è grave è che l’alternativa esiste. Nessuno, tuttavia, la conosce per l’assenza di ricerca e informazione, o la vuole (ri)conoscere negli apparati statali. La legittimità del nuovo regime trova infatti sul piano interno il principale ostacolo nel convitato di pietra del processo transitorio: quella parte di Siria (circa un terzo) che rimane fuori dal controllo dello stato ed è governata da organi legislativi ed esecutivi diversi: l’Amministrazione democratica autonoma (DAA) che controlla la maggior parte delle risorse agricole ed energetiche del paese. Fondata su un sistema di consigli e cooperative socialiste ed ecologiche, dove le donne si sono conquistate autorità e autonomia, dispone di un esercito il cui numero di effettivi è stimato in 80.000 tra donne e uomini. Il fuorviante gergo giornalistico nostrano si riferisce a questa istituzione come “i curdi”, ma l’Amministrazione e le sue forze militari sono formate da siriani che, come nel caso degli altri gruppi emersi dalla guerra rivoluzionaria, si identificano in parte come curdi (molti in questo caso), ma in maggioranza come arabi. A questa pluralità linguistica, espressa anche nei suoi simboli e documenti ufficiali, corrisponde una coerente pluralità religiosa e di genere – e una disponibilità al dialogo politico di cui HTS (che pure ne è tra i destinatari) si sta confermando incapace.
La speranza di Al-Jolani è che la Turchia distrugga la DAA con una vasta operazione di aria e di terra che in parte è cominciata lungo l’Eufrate, dove Ankara sta cercando di sfondare da dicembre presso la diga di Tishrin per raggiungere Kobane, sempre nel silenzio internazionale. L’aviazione turca ha bombardato i cortei di migliaia di civili che hanno raggiunto la diga per dimostrare la loro indisponibilità ad accettare un futuro dispotico, neoliberale e oscurantista, ma neanche questo è bastato a fare breccia tra gli stessi giornalisti che idolatravano in modo spesso caricaturale la resistenza di Kobane dieci anni fa. Al-Jolani e Erdogan contano sul probabile disimpegno militare dell’amministrazione Trump: come sempre i movimenti suprematisti – bianchi o islamici che siano – mostrano funzioni speculari e complementari, e un’analoga volontà di dominio capitalista e patriarcale che conduce alla distruzione del pianeta e delle possibilità, che sarebbero sempre attuali in Siria e altrove, di intesa pacifica e giustizia sociale.
Occorre quindi prendere posizione politicamente, denunciando nel mondo della comunicazione e della cultura che non esiste una nuova Siria dopo l’8 dicembre, ma almeno due Sirie: una al momento nera e teocratica, dove una minoranza politica rafforza un colpo di stato strisciante grazie al sostegno dei mercati e degli stati occidentali, e una multicolore e secolare, sebbene non fanaticamente secolarista, che non sembra avere appoggi futuri se non quelli di chi produrrà analoghe rivoluzioni nel mondo. Analoghe rivoluzioni non arriveranno presto, ma se gli stati riconosco la prima Siria, è nella nostra libertà individuale e collettiva decidere di offrire un riconoscimento politico alternativo alla seconda con la voce, la mobilitazione, il viaggio o la scrittura – almeno fino a quando una Siria davvero “nuova” non sarà frutto dell’inclusione e della libera decisione di organi democraticamente scelti.
Leggi l’articolo su Micromega: https://www.micromega.net/nuova-

SIRIA- KNK: Difendiamo il Rojava come 10 anni fa

retekurdistan.it 26 gennaio 2025

Rilasciando una dichiarazione in occasione dell’anniversario della liberazione del centro di Kobanê dall’ISIS, il KNK (Congresso nazionale del Kurdistan) ha affermato: “Chiediamo oggi a tutta l’umanità di difendere il Rojava proprio come 10 anni fa”.

Il Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha pubblicato un messaggio in occasione dell’anniversario della liberazione del centro di Kobanê dall’ISIS. Nella dichiarazione si afferma che gli attacchi contro la Siria settentrionale e orientale continuano anche oggi e lancia il messaggio: “Difendere il Rojava significa difendere l’umanità”.

Nella dichiarazione del KNK è stato sottolineato che la Rivoluzione del Rojava, iniziata il 19 luglio 2012, ha acquisito una nuova dimensione con Kobanê e sono state fatte le seguenti dichiarazioni: “Kobanê è la prima scintilla della Rivoluzione del Rojava e la bandiera di libertà contro le forze occupanti. La vittoria contro l’Isis il 26 gennaio 2015, con la solidarietà del popolo curdo e dei suoi amici, è la vittoria della dignità umana. “Questo successo storico non è solo una vittoria militare, ma anche una vittoria combattiva ottenuta grazie all’unità e alla determinazione del popolo curdo”.

La sconfitta dell’ISIS a Kobane

Nella dichiarazione, il KNK ha sottolineato che la vittoria di Kobanê è stato il primo grande passo nel crollo dell’ISIS e ha affermato: “La resistenza di Kobanê è passata alle pagine di storia come la prima grande sconfitta dell’ISIS. Questa vittoria è stata resa possibile dagli sforzi congiunti del popolo curdo e dei rivoluzionari del Rojava. La lotta per la libertà iniziata a Kobanê ha portato alla liberazione di molte regioni, inclusa Raqqa, che l’ISIS aveva dichiarato capitale. “In questo processo, i sacrifici delle YPG e delle YPJ, la solidarietà mostrata dal popolo curdo da tutto il mondo e il sostegno delle forze democratiche internazionali hanno reso possibile la vittoria”.

Difendere i valori comuni dell’umanità

La dichiarazione sottolinea che la Siria settentrionale e orientale deve ancora affrontare la minaccia di invasione e prosegue: “Dopo la sconfitta dell’ISIS, lo Stato turco ha preso di mira direttamente il Rojava. Regioni come Afrin, Girê Spî e Serêkaniyê sono un chiaro esempio delle politiche di occupazione della Turchia. Oggi Kobanê e la zona circostante la diga di Tishrin sono sotto attacco. Non va però dimenticato che difendere il Rojava significa difendere non solo il popolo curdo, ma anche i valori comuni dell’umanità. Lo spirito di resistenza che sale da Kobanê è la speranza di libertà per il Kurdistan e per l’umanità. Le conquiste della rivoluzione del Rojava devono essere protette e la resistenza di Kobanê deve essere sempre ricordata. Oggi, proprio come 10 anni fa, invitiamo il nostro popolo, i nostri amici e tutta l’umanità a difendere il Rojava. “In questa occasione celebriamo ancora una volta l’anniversario della vittoria di Kobanê e della fondazione dei cantoni del Rojava.”