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Tag: Siria

Il Rojava e la difesa della diga di Tishrin

Laura Schrader, volere la luna, 22 gennaio 2025
È notte sulla diga di Tishrin. La donna che stringe il microfono indossa un scialle e il velo bianco delle madri dei martiri. Si chiama Eysha, i suoi quattro figli sono caduti nella guerra di resistenza kurda. «Promettiamo di difendere la diga!» grida. «Promettiamo! Promettiamo! Promettiamo!» le rispondono in coro centinaia di persone facendo il segno di vittoria.

La diga di Tishrin

Dal 7 gennaio un flusso gigantesco di veicoli dalla città di Kobane e dai villaggi di Darik, Girko Lege, Kocerat, Berav arriva sul ponte della diga di Tishrin. Migliaia di persone la presidiano giorno e notte. Donne e uomini di ogni età e professione, ragazze e ragazzi, perfino bebè di pochi mesi in braccio alle mamme. Si intonano canti e slogan, si tengono comizi, si danza l’hayal, il ballo di gruppo emblema di identità (e i vecchi sono quelli che ricamano passi con particolare maestria). Sul ponte sopra la diga sono sorti banchetti di cibo e bevande. Il via vai è incessante nonostante gli attacchi di bombardieri e droni dell’aviazione turca. Tra le almeno dieci vittime, un noto attore di teatro, la co-presidente del partito PYD di Qamishli e entrambi i genitori di una bambina di pochi mesi. Oltre 20 i feriti. Mentre dalle sue sponde si levano i lampi di fuoco e i fumi densi delle bombe l’Eufrate scorre azzurro e silenzioso tra basse colline brulle. La diga di Tishrin è alta 40 metri, il suo bacino idrico è lungo 60 km. Fornisce acqua a milioni di persone nel Rojava, il Nord Est della Siria. Un suo collasso sotto le bombe dell’aviazione turca provocherebbe ingentissimi danni ecologici e condizionerebbe la vita anche delle future generazioni.

Dal 7 gennaio Ankara per mezzo del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA) cerca di valicare la diga, nodo strategico per superare l’Eufrate e arrivare a Kobane. L’Esercito Nazionale Siriano, formato, armato e pagato da Ankara, è forte di 70 mila uomini, jihadisti di ogni genere ed ex tagliagole dell’Isis provenienti da tutto il mondo: sono presenti 40 diverse nazionalità. Operatori e giornalisti della televisione e della radio del Rojava lavorano giorno e notte per trasmetterci le immagini del presidio: i bombardamenti, le schegge che esplodono sopra le loro teste, i soccorsi ai feriti, il trasporto dei morti, le auto distrutte… È importante informare.

Kobane, la preda più ambita

La città martire di Kobane è il simbolo della vittoria contro l’Isis delle Forze Siriane Democratiche (SDF) a guida kurda; l’Isis era sostenuto apertamente dalla Turchia (e per conto di Ankara aveva compiuto le sanguinose stragi contro il partito filo kurdo HDP del 2015 e 2016). Distrutta nel corso dell’assedio del califfato nero e rapidamente ricostruita, Kobane esibisce al centro della sua piazza principale la statua di una donna con ali d’angelo che indossa la divisa delle combattenti kurde, dedicata alla Vittoria delle Donne. Per il suo valore simbolico Kobane è la preda più ambita di Ankara, che non ha mai digerito la vittoria kurda. Da tempo l’aviazione turca bombarda sistematicamente le infrastrutture vitali della città e dei villaggi nei dintorni. In seguito alla caduta di Damasco per mano del gruppo HTS di Al Jolani (terrorista per Europa, Usa e Onu) e di altri cosiddetti ribelli siriani, Ankara ha affidato all’Esercito Nazionale Siriano il compito di distruggere Kobane. Le operazioni sono iniziate l’8 dicembre. Contro SNA combattono efficacemente le Forze Siriane Democratiche (SDF) sostenute dagli Stati Uniti in funzione anti Isis. Cellule del califfato nero sono pericolosamente presenti nel Rojava e la loro attività si è intensificata con l’avvento del nuovo governo di Damasco. Il campo di El Hol custodisce decine di migliaia di tagliagole con le loro famiglie, provenienti da ogni parte del mondo, che i paesi d’origine rifiutano di riprendere. Se il Rojava cadesse nelle mani dei mercenari di Ankara un’ondata di barbarie dilagherebbe fuori dal campo di El Hol. L’agenzia di stampa kurda ANF News il 24 dicembre dava notizia di 15 mila arresti e di molti rapimenti e di riduzione in schiavitù di donne kurde combattenti ferite catturate in ospedale e uccise: crimini compiuti da SNA nell’area di Sheheba a Nord di Damasco.

Annientare il Rojava

Negli ultimi due mesi il presidente turco Erdogan e il ministro degli esteri Fidan insistono sulla volontà di annientare il Rojava, l’Amministrazione autonoma democratica del Nord Est della Siria (DAANES) che tenta di negoziare con il governo provvisorio di Damasco il mantenimento dell’autonomia e la divisione degli introiti del petrolio della regione. Ankara insiste ossessivamente su una “priorità assoluta”: distruggere le forze kurde YPG / YPJ – Unità di difesa composte da uomini e donne, componenti fondamentali di SDF – e ribadisce il progetto della Fascia di Sicurezza, l’occupazione di una grande parte di territorio kurdo in Siria e la sostituzione della popolazione con arabi rifugiati in Turchia.

La Turchia, nata dal genocidio e dalle stragi di Armeni, Greci e Kurdi, fondata sul dogma di un solo popolo, il turco, e di una sola religione, la islamico-sunnita, non ammette il pluralismo di etnie e di religioni presente in Siria e la rivoluzione delle donne nel Rojava. Dopo la caduta del regime di Assad, Erdogan intensifica i proclami sul ritorno alla grandezza dell’impero Ottomano sottolineando i propri successi in Libia, Somalia e Siria. Si presenta come il grande protagonista della caduta di Assad e del nuovo assetto siriano. Presenta piani di ricostruzione e il progetto di un esercito numeroso e ben armato. Alcuni analisti prospettano che la Siria diventi una sorta di protettorato turco con orientamento islamista. Sempre più paradossale l’appartenenza alla Nato.

Non una “nuova Siria”, ma due

Davide Grasso, Micromega, 31 gennaio 2025
Quando Assad ha lasciato la Siria, lo scorso 8 dicembre, in tanti hanno festeggiato. Non mancavano le preoccupazioni per ciò che sarebbe accaduto, ma è prevalsa, giustamente, la contentezza per un’apertura possibile e, per molti, la possibilità di lasciare le prigioni, tornare nelle proprie città, esprimere il proprio pensiero ad alta voce o, semplicemente, respirare, piangere di commozione, rientrare nel paese. La propaganda dei sostenitori del regime deposto, attiva soprattutto all’estero, ha cercato di far passare la sconfitta del Baath per una catastrofe, e l’identificazione di chiunque non mostrasse contrizione come un “jihadista” o un sostenitore del jihadismo. Se il rigetto di questo tentativo è la base e il principio per ogni discussione empatica e realistica sulla Siria futura – e, in controluce, su cos’è oggi una prospettiva rivoluzionaria nel mondo – è altrettanto cruciale la consapevolezza che è (sempre) necessario mantenere vigile la critica, e verso più di un fenomeno politico allo stesso tempo.
Come le battaglie contro big Pharma non dovrebbero implicare il boicottaggio di campagne vaccinali inevitabili durante una pandemia, infatti – o il sostegno alla resistenza ucraina non dovrebbe tradursi in un sostegno politico per le oligarchie al potere nel paese – così il riconoscimento del severo giudizio storico emerso verso le componenti degenerate e corrotte del nazionalismo baathista non dovrebbe indurre a sottovalutare gli atti delle forze che hanno instaurato una nuova autorità su Damasco. Al-Jolani aveva affermato, a inizio dicembre, che il suo movimento avrebbe stupito il popolo siriano, mostrando come i timori verso un «ordine islamico» fossero frutto di fraintendimenti o di scorrette applicazioni passate di questo concetto. Affermazioni abbastanza audaci da attrarre meritata attenzione e da essere necessariamente prese sul serio, in attesa di azioni politiche che le sostanziassero. Io stesso proposi di giudicare il gruppo non in base ai suoi precedenti (che pure non devono essere mai dimenticati), ma in base alle nuove azioni.
A un mese e mezzo di distanza è evidente che, se obiettivo di HTS era mostrare che l’islamismo è compatibile con il rispetto per le persone, per la cultura e per le donne, la giustizia sociale e la costruzione di un percorso istituzionale animato da una decenza minima nel rapporto con le diversità, i dissidenti e i prigionieri, l’obiettivo è fallito su tutta la linea. L’evoluzione della situazione siriana dimostra nuovamente, dopo sole sei settimane, che la paura e il disgusto che covano o si esprimono in gran parte della Siria – e del mondo musulmano – verso i movimenti islamisti nulla ha a che fare con una presunta e improbabile “islamofobia” ma con fatti nudi e crudi che è impossibile ignorare. L’ordine islamista viene quindi o nuovamente scorrettamente applicato oppure, malauguratamente, ancora frainteso da tanti, troppi comuni mortali.

Colpo di mano e riconoscimento esterno

Al-Jolani persiste in una ormai stantia dichiarazione di volontà di dialogo con tutte le “minoranze”, intese in un depoliticizzato senso etno-culturale che mira a rimuovere la sostanza politica dei problemi sul piatto. HTS è d’altra parte di per sé una minoranza politica che ha deciso, forte del sostegno turco, delle monarchie del golfo e atlantico, di agire come se non fosse tale. Anziché permettere al primo ministro Al-Jalali in carica a inizio dicembre (come inizialmente annunciato) la possibilità di formare un governo di transizione scevro da rappresentanti del Baath ma composito, Jolani ha trasferito nella capitale direttamente il governo monocolore che la sua organizzazione aveva imposto alla popolazione di Idlib dal 2017. La Siria si è trovata così ad essere governata da una compagine salafita senza dubbio forte e influente nel panorama delle opposizioni, ma lungi dal poter essere rappresentativa del quadro socio-politico complessivo delle forze estranee al passato. Nell’attuale processo costituente il governo transitorio mostra inoltre diverse ambiguità: l’incertezza sulla sua durata, la natura del processo costituzionale annunciato e la collocazione esatta della sovranità transitoria.
Jolani ha dichiarato a dicembre che i poteri del suo personale esecutivo sarebbero durati tre mesi. Non è chiaro però cosa seguirà, se è vero che a fine mese ha affermato anche che la celebrazione di elezioni potrebbe non avvenire prima di quattro anni. Ha più volte lasciato intendere nelle sue interviste, in secondo luogo, che la costituzione non sarà scritta da un’assemblea costituente eletta, ma da un gruppo di “esperti”; termine che naturalmente non vuol dire nulla, a meno che non si intenda – nella tradizione politica di HTS – dottori della giurisprudenza islamica selezionati su base ideologica dal movimento e dai suoi alleati controllati dalla Turchia (una base ideologica e giuridica estranea alla maggioranza della popolazione, anche credente e sunnita).
Non è un caso che le prime grandi manifestazioni contro l’atteggiamento del nuovo governo siano state organizzate dalle associazioni femminili arabe, che hanno reagito alle dichiarazioni secondo cui le donne non sarebbero adatte a ricoprire tutti i ruoli esistenti nella società.
La risposta di Aisha Al-Dibs, prontamente appuntata come dirigente di un ufficio per gli affari femminili nel governo (e unica donna nell’esecutivo), non ha fatto che aumentare (e rivelare) i problemi: ha affermato che le donne devono preoccuparsi in primo luogo dei loro mariti e figli, che non vi sarà spazio per il femminismo in Siria e che la porta resterà chiusa per tutte le visioni in disaccordo con la sua (sic).
Resta infine il problema della posizione di HTS nell’architettura istituzionale della transizione. Il parlamento è stato sospeso, lo scranno del presidente è vacante: il Comando delle operazioni militari, organo di HTS che ha formato il governo, ha avviato un processo di unificazione dei gruppi armati islamisti nel paese. Al-Jolani dirige questo organo ed è quindi un esponente di partito che non fa parte dell’esecutivo. D’altra parte, presiedendo l’entità che ha formato il governo e gli ha dato operatività, e che sta costituendo un esercito, è il depositario della sovranità effettiva, ed è effettivo capo dello stato là dove lo stato esercita una controllo territoriale. Con lui, non a caso, si relazionano i rappresentanti degli altri stati. Governi come quello italiano, che hanno riconosciuto nei fatti questa autorità con la visita di Tajani del 10 gennaio, considerano quindi un processo di questo tipo (che non era affatto l’unico possibile) come legittimo (e da legittimare esternamente). Sul piano interno, tuttavia, l’esclusione di tutte le altre forze di opposizione dal governo di transizione si qualifica come un colpo di stato dentro la rivoluzione o contro la rivoluzione possibile.

L’incontenibile pesantezza di una mentalità suprematista

Per ottenere questa precipitosa legittimazione, di cui il governo afghano dei Taliban non ha ad esempio usufruito (avendo rovesciato un governo sostenuto dalla Nato, e non da Iran e Russia), una figura che è giunta al potere coltivando il mito dell’abbattimento delle Twin Towers e delle stragi irachene di sciiti come Al-Jolani non ha dovuto mostrare l’annunciato rispetto per minoranze, neanche cristiane. Il 25 dicembre l’incendio dell’albero di Natale tradizionalmente costruito in piazza dalla comunità cristiana ad Hama è stato seguito dalla diffusione del video della profanazione di un luogo di culto alawita ad Aleppo. Le proteste delle minoranze religiose che ne sono seguite sono state represse con l’invio di centinaia di veicoli di HTS nelle città e nei villaggi, che hanno scatenato il terrore. L’operazione è stata giustificata come atto repressivo contro poliziotti o militari di Assad manovrati dall’Iran, iniziando la litanie delle paranoie complottiste che, c’è da crederlo, farà invidia a quella del Baath. Questa versione, ripresa dagli organi d’informazione globale della Fratellanza musulmana come Al-Jazeera o del governo turco come Middle East Eye, non è stata tuttavia corroborata da nessun documento o prova, e ha mascherato nei fatti il primo pogrom in grande stile della Siria sottoposta all’egemonia islamista.
I video circolati su Telegram e X, peraltro, non hanno mostrato isolati episodi di rabbia sfociati in esecuzioni sommarie, ma un’operazione di massa, preordinata e organizzata, in cui nuovi poliziotti con il dito indice alzato (saluto politico di HTS, ma anche di Daesh) non sembrano in grado di effettuare arresti senza offrire lo spettacolo di uccisioni di gruppo con colpi alla nuca sul marciapiede, decapitazioni e torture, tra cui l’obbligo per gli arrestati di strisciare per terra o di abbaiare come cani; o fedeli cristiani, nel villaggio aramaico Maloula, obbligati a inginocchiarsi e umiliarsi di fronte a nuovi “conquistatori”. Comportamento da rivoluzionari? Un’istituzione, tanto più se pretende di costituire un elemento trasformativo, si definisce anche dal modo è in grado di trattare i propri nemici, soprattutto se sconfitti, e se conduce contro di essi un’operazione organizzata. Quale sia l’idea di trasformazione è stato chiaro con le direttive immediatamente successive per la riforma dei curriculum scolastici e dei libri di testo, dove si prevede siano censurati riferimenti al “passato politeista della Siria” (sic) e ad elementi filosofici e religiosi considerati distanti dal (corretto intendimento del) messaggio divino.

Gli stati e noi (o logiche diverse di riconoscimento potenziale)

Nonostante tutto questo Stati Uniti ed Europa, con Germania e Italia in testa, hanno lasciato intendere che l’apertura al mercato annunciata dall’esecutivo e realizzata con la prima partecipazione storica della Siria governata dall’islam “politico” al WTO di Davos è più che sufficiente per chiudere tutti e due gli occhi sulle atrocità commesse e su quelle a venire. Non a caso i media europei, a partire da quelli italiani, non stanno più parlando della Siria e nessuno di questi crimini è stato dovutamente raccontato e contestualizzato. Mentre i pogrom di Natale avevano luogo, Repubblica e Ansa plaudivano a presunti sequestri di droga dei fedeli di Al-Jolani, accuratamente esibiti a beneficio di una stampa occidentale che non saprei se ingenua (a dir poco) o in malafede. Anche in taluni ambiti politici e accademici non manca chi reagisce con sorpresa a qualsiasi commento scandalizzato su questi fatti – quasi che giudicare HTS per quello che è significhi coltivare nostalgie per Assad e il suo sistema.
Ciò che più è grave è che l’alternativa esiste. Nessuno, tuttavia, la conosce per l’assenza di ricerca e informazione, o la vuole (ri)conoscere negli apparati statali. La legittimità del nuovo regime trova infatti sul piano interno il principale ostacolo nel convitato di pietra del processo transitorio: quella parte di Siria (circa un terzo) che rimane fuori dal controllo dello stato ed è governata da organi legislativi ed esecutivi diversi: l’Amministrazione democratica autonoma (DAA) che controlla la maggior parte delle risorse agricole ed energetiche del paese. Fondata su un sistema di consigli e cooperative socialiste ed ecologiche, dove le donne si sono conquistate autorità e autonomia, dispone di un esercito il cui numero di effettivi è stimato in 80.000 tra donne e uomini. Il fuorviante gergo giornalistico nostrano si riferisce a questa istituzione come “i curdi”, ma l’Amministrazione e le sue forze militari sono formate da siriani che, come nel caso degli altri gruppi emersi dalla guerra rivoluzionaria, si identificano in parte come curdi (molti in questo caso), ma in maggioranza come arabi. A questa pluralità linguistica, espressa anche nei suoi simboli e documenti ufficiali, corrisponde una coerente pluralità religiosa e di genere – e una disponibilità al dialogo politico di cui HTS (che pure ne è tra i destinatari) si sta confermando incapace.
La speranza di Al-Jolani è che la Turchia distrugga la DAA con una vasta operazione di aria e di terra che in parte è cominciata lungo l’Eufrate, dove Ankara sta cercando di sfondare da dicembre presso la diga di Tishrin per raggiungere Kobane, sempre nel silenzio internazionale. L’aviazione turca ha bombardato i cortei di migliaia di civili che hanno raggiunto la diga per dimostrare la loro indisponibilità ad accettare un futuro dispotico, neoliberale e oscurantista, ma neanche questo è bastato a fare breccia tra gli stessi giornalisti che idolatravano in modo spesso caricaturale la resistenza di Kobane dieci anni fa. Al-Jolani e Erdogan contano sul probabile disimpegno militare dell’amministrazione Trump: come sempre i movimenti suprematisti – bianchi o islamici che siano – mostrano funzioni speculari e complementari, e un’analoga volontà di dominio capitalista e patriarcale che conduce alla distruzione del pianeta e delle possibilità, che sarebbero sempre attuali in Siria e altrove, di intesa pacifica e giustizia sociale.
Occorre quindi prendere posizione politicamente, denunciando nel mondo della comunicazione e della cultura che non esiste una nuova Siria dopo l’8 dicembre, ma almeno due Sirie: una al momento nera e teocratica, dove una minoranza politica rafforza un colpo di stato strisciante grazie al sostegno dei mercati e degli stati occidentali, e una multicolore e secolare, sebbene non fanaticamente secolarista, che non sembra avere appoggi futuri se non quelli di chi produrrà analoghe rivoluzioni nel mondo. Analoghe rivoluzioni non arriveranno presto, ma se gli stati riconosco la prima Siria, è nella nostra libertà individuale e collettiva decidere di offrire un riconoscimento politico alternativo alla seconda con la voce, la mobilitazione, il viaggio o la scrittura – almeno fino a quando una Siria davvero “nuova” non sarà frutto dell’inclusione e della libera decisione di organi democraticamente scelti.
Leggi l’articolo su Micromega: https://www.micromega.net/nuova-

SIRIA- KNK: Difendiamo il Rojava come 10 anni fa

retekurdistan.it 26 gennaio 2025

Rilasciando una dichiarazione in occasione dell’anniversario della liberazione del centro di Kobanê dall’ISIS, il KNK (Congresso nazionale del Kurdistan) ha affermato: “Chiediamo oggi a tutta l’umanità di difendere il Rojava proprio come 10 anni fa”.

Il Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha pubblicato un messaggio in occasione dell’anniversario della liberazione del centro di Kobanê dall’ISIS. Nella dichiarazione si afferma che gli attacchi contro la Siria settentrionale e orientale continuano anche oggi e lancia il messaggio: “Difendere il Rojava significa difendere l’umanità”.

Nella dichiarazione del KNK è stato sottolineato che la Rivoluzione del Rojava, iniziata il 19 luglio 2012, ha acquisito una nuova dimensione con Kobanê e sono state fatte le seguenti dichiarazioni: “Kobanê è la prima scintilla della Rivoluzione del Rojava e la bandiera di libertà contro le forze occupanti. La vittoria contro l’Isis il 26 gennaio 2015, con la solidarietà del popolo curdo e dei suoi amici, è la vittoria della dignità umana. “Questo successo storico non è solo una vittoria militare, ma anche una vittoria combattiva ottenuta grazie all’unità e alla determinazione del popolo curdo”.

La sconfitta dell’ISIS a Kobane

Nella dichiarazione, il KNK ha sottolineato che la vittoria di Kobanê è stato il primo grande passo nel crollo dell’ISIS e ha affermato: “La resistenza di Kobanê è passata alle pagine di storia come la prima grande sconfitta dell’ISIS. Questa vittoria è stata resa possibile dagli sforzi congiunti del popolo curdo e dei rivoluzionari del Rojava. La lotta per la libertà iniziata a Kobanê ha portato alla liberazione di molte regioni, inclusa Raqqa, che l’ISIS aveva dichiarato capitale. “In questo processo, i sacrifici delle YPG e delle YPJ, la solidarietà mostrata dal popolo curdo da tutto il mondo e il sostegno delle forze democratiche internazionali hanno reso possibile la vittoria”.

Difendere i valori comuni dell’umanità

La dichiarazione sottolinea che la Siria settentrionale e orientale deve ancora affrontare la minaccia di invasione e prosegue: “Dopo la sconfitta dell’ISIS, lo Stato turco ha preso di mira direttamente il Rojava. Regioni come Afrin, Girê Spî e Serêkaniyê sono un chiaro esempio delle politiche di occupazione della Turchia. Oggi Kobanê e la zona circostante la diga di Tishrin sono sotto attacco. Non va però dimenticato che difendere il Rojava significa difendere non solo il popolo curdo, ma anche i valori comuni dell’umanità. Lo spirito di resistenza che sale da Kobanê è la speranza di libertà per il Kurdistan e per l’umanità. Le conquiste della rivoluzione del Rojava devono essere protette e la resistenza di Kobanê deve essere sempre ricordata. Oggi, proprio come 10 anni fa, invitiamo il nostro popolo, i nostri amici e tutta l’umanità a difendere il Rojava. “In questa occasione celebriamo ancora una volta l’anniversario della vittoria di Kobanê e della fondazione dei cantoni del Rojava.”

 

La Turchia non chiude all’attacco ai curdi: Siria ancora in bilico tra guerra e pace

Inside Over, 21 dicembre 2024, di Giuseppe Gagliano

Il  19 dicembre un portavoce del Ministero della Difesa turco ha smentito categoricamente la possibilità di un accordo di cessate il fuoco tra Ankara e le Syrian Democratic Forces (SDF), nonostante le dichiarazioni del Dipartimento di Stat

americano che annunciavano una tregua fino al 22 dicembre. Definendo l’annuncio di Washington un “lapsus”, il rappresentante turco ha ribadito che la Turchia non dialogherà con quelle che considera estensioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica.

La tensione crescente tra la Turchia e le forze curde in Siria, sostenute dagli Stati Uniti, è parte di un conflitto più ampio che coinvolge anche le relazioni già fragili tra Ankara e Washington. Gli Stati Uniti, pur riconoscendo il PKK come organizzazione terroristica, continuano a collaborare con le SDF, il cui principale componente, le Unità di Protezione Popolare (YPG), è considerato dalla Turchia una minaccia esistenziale. Le forze sostenute da Ankara, tra cui l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), hanno intensificato le operazioni lungo il confine per “liberare” le aree controllate dalle YPG.

Secondo fonti statunitensi riportate dal Wall Street Journal, un’importante concentrazione di truppe turche è stata osservata nei pressi di Kobani, città simbolo della resistenza curda, suggerendo l’imminenza di un’operazione transfrontaliera. Il dispiegamento include commandos, artiglieria e milizie alleate, in una manovra che richiama le operazioni militari turche precedenti. Le implicazioni di una nuova offensiva sono significative: oltre 200.000 civili curdi potrebbero essere sfollati, e le già vulnerabili comunità cristiane nella regione rischiano di essere travolte.

Ankara ha già lanciato tre operazioni militari in Siria dal 2016, con l’obiettivo dichiarato di impedire ai curdi di stabilire un’entità autonoma lungo il confine turco-siriano. Ora, con l’accumulo di truppe e l’intensificazione della retorica, sembra pronta a ripetere questo schema. Il portavoce turco ha dichiarato che “la lotta al terrorismo continuerà fino a quando il PKK/YPG non deporrà le armi e i combattenti stranieri non lasceranno la Siria”, senza fornire dettagli su eventuali nuove operazioni dirette.

La situazione ha attirato l’attenzione di un alto funzionario curdo, Ilham Ahmed, che ha inviato una lettera al presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, esortandolo a intervenire. Ahmed ha accusato Ankara di voler consolidare il controllo sui territori curdi prima dell’insediamento della nuova amministrazione americana, ricordando a Trump le sue precedenti promesse di proteggere le forze curde, definite “alleati fondamentali” nella lotta contro il terrorismo.

La prospettiva di una nuova offensiva turca rischia di destabilizzare ulteriormente una regione già fragile, minacciando gli sforzi internazionali per contenere il conflitto. Con Antony Blinken che non è riuscito a ottenere impegni concreti da Recep Tayyip Erdogan, e l’amministrazione Trump ancora in transizione, il futuro delle relazioni tra Turchia, Stati Uniti e SDF appare più incerto che mai. Nel frattempo, sul terreno, gli equilibri si spostano pericolosamente verso un’altra escalation, lasciando le popolazioni locali intrappolate in un conflitto senza fine.

DICHIARAZIONE DEL CONSIGLIO DELLE DONNE SIRIANE

22 dicembre 2024

DICHIARAZIONE DEL CONSIGLIO DELLE DONNE SIRIANE

Siamo donne che vivono in Siria, abbiamo vissuto per molti anni sotto le politiche nazionaliste e unilaterali del regime nazionalista baathista che non hanno riconosciuto la volontà delle donne. I popoli della Siria che si sono sollevati contro il crudele regime nel 2011 hanno subito la guerra, la migrazione, l’occupazione e la persecuzione dell’ISIS nei 13 anni successivi, periodo durante il quale le donne sono i soggetti che hanno sofferto di più.

Abbiamo lottato contro il regime baathista, contro l’ISIS, e anche contro tutte le forme di oppressione e di schiavitù. Abbiamo pagato un prezzo elevato, ma non abbiamo perso la speranza di vivere in una Siria libera e democratica. Siamo donne di tutte le etnie, religioni e culture, abbiamo fondato il Consiglio delle donne Siriane (Syrian Women’s Counsel),determinato a costruire un futuro libero per tutte le persone della Siria. Ora più che mai abbiamo la volontà e la determinazione di svolgere un ruolo di leadership più efficace in questo processo.

Gli sforzi per costruire un nuovo ordine in Siria dopo la caduta del regime baathistacontinuano. Questo percorso deve riconoscere la volontà delle donne a cui deve essere garantita rappresentanza equa e paritaria in quanto rappresentano più della metà della società siriana. Solo con la partecipazione paritaria delle donne e di tutti i gruppi religiosi, culturali ed etnici della Siria, potremo costruire il Paese democratico, giusto e sicuro che desideriamo.

In questi 13 anni, le donne del nord-est della Siria hanno lottato e si sono organizzate in tutti i settori della vita, ottenendo importanti conquiste. Hanno acquisito importanti competenze in politica, economia, autodifesa, giustizia e in molti altri campi. È ora che tutte le donne siriane beneficino delle conquiste fatte dalle donne in questa regione,ottenute con grandi sacrifici e alti costi, ed è quindi fondamentale difenderle. Una delle condizioni più importanti per la legittimazione a livello regionale e internazionale del nuovo sistema che si instaurerà in Siria è che sia garantito il ruolo delle donne nella creazione e nella gestione del nuovo sistema siriano.

La caduta del regime di Assad è stata un fattore positivo. Tuttavia, purtroppo, i crimini contro le donne a Idlib, Afrin, Jarablus, al-Bab, Serekani e Gire Spi – come le uccisioni, i rapimenti e la privazione dei diritti fondamentali – continuano. In questi luoghi, e ora anche a Minbij, i gruppi armati sostenuti dalla Turchia commettono crimini e proseguono conl’occupazione.

Oggi, mentre celebriamo la caduta del regime baathista, assistiamo anche a un allarmate aumento della violenza contro le donne e le minoranze religiose ed etniche – in particolare cristiane, alawite e druse – nelle regioni costiere e meridionali. Inoltre, continuano gli attacchi nel nord-est della Siria e i crimini efferati, come le brutali uccisioni e la decapitazione di donne, come è avvenuto a Tal Rifaat, da parte di fazioni armate sostenute dalla Turchia. Pertanto, al fine di prevenire queste violazioni e di porre fine alla paura e al pericolo che i nostri popoli stanno affrontando, chiediamo a tutte le forze politiche in Siria di lavorare per raggiungere i seguenti obiettivi.

I popoli siriani devono determinare il futuro della Siria.
Le norme internazionali e gli accordi di pace devono essere rispettati; fine della guerra e dei conflitti nella nostra regione e quindi chiusura dello spazio aereo siriano alle attività militari; cessazione di tutti gli attacchi sul territorio siriano e ritiro di tutti gli eserciti occupanti.
Rilascio immediato di tutte le donne ancora prigioniere nelle carceri dei gruppi armati a Idlib, Afrin, Jarabulus, al-Bab, Gire Spî (Tal Abyad) e Serekaniye (Ras al-Ain).
Istituzione di un comitato con la partecipazione attiva delle donne per garantire il ritorno sicuro dei rifugiati siriani sfollati e fine dell’occupazione del territorio siriano.
Garanzia di un’equa rappresentanza delle donne e delle organizzazioni delle donne di tutte le zone della Siria nella costruzione di un paese democratico e nel nuovo Comitato costituzionale.
Attuazione della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; adozione di misure per garantire la partecipazione delle donne ai processi di pace; misure per prevenire i conflitti e per prevenire la violenza contro le donne durante e dopo i conflitti; effettiva partecipazione delle donne nei processi decisionali, di attuazione e di responsabilità nell’adozione di queste misure.
Istituzione di una commissione per la verità e la giustizia che indaghi e persegua tutti i crimini contro le donne e i diritti umani.
Garanzia che le donne partecipino in maniera equa e libera a tutti i meccanismi decisionali e settori della politica, dell’istruzione, della scienza e dell’economia.
Riconoscimento giuridico del diritto delle donne all’autodifesa.
Piena attuazione e garanzia del rispetto dei diritti umani sanciti dalle convenzioni internazionali, come la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Garanzia dei diritti fondamentali e dei diritti sociali delle donne.
Istituzione di un comitato che lavori per includere la volontà delle donne nelle istituzioni pubbliche e politiche sulla base della pari rappresentanza.
Istituzione di comitati di giustizia per i bambini che hanno subito danni psicologici e fisici a causa della guerra e della violenza.
Istituzione di un comitato che indaghi sulla distruzione dell’ambiente, sui crimini ambientali e per perseguire i responsabili, tra le altre misure necessarie da adottare.

Consiglio delle Donne Siriane

Syrian Women’s Counsil

20.12.2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Imminente attacco turco alle città della Siria settentrionale – L’UE deve fermare Erdoğan

pressenza.com Bolzano, Göttingen Associazione per i Popoli Minacciati 17dicembre 2024

L’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) chiede all’UE di impedire al sovrano turco Recep Tayyip Erdoğan di lanciare un grande attacco alle città settentrionali siriane di Kobani e Raqqa, che sono sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF) guidate dai curdi.

Nei suoi colloqui con il Presidente Erdoğan, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen deve fare tutto il possibile per impedire un attacco turco alle città di Kobani e Raqqa. Nelle ultime settimane circa 200.000 rifugiati hanno trovato rifugio nella regione controllata dai curdi intorno alle due città. In caso di nuova aggressione turca, essi e centinaia di migliaia di curdi, assiri/aramaici, armeni, cristiani, yazidi, aleviti e molti sunniti che rifiutano un regime islamista in Siria dovranno fuggire. Un attacco turco sarebbe una catastrofe umanitaria e la fine di un futuro pluralistico per la Siria. La città curda di Kobani è una città simbolo nella lotta contro l’IS. Raqqa, l’ex capitale dell’IS, è stata liberata dai curdi con grande sacrificio.

Anche l’IS sarebbe rafforzato dagli attacchi turchi. Inoltre, circa 11.000 membri dell’IS potrebbero evadere dalle prigioni nella regione del Rojava e raggiungere l’Europa attraverso la Turchia. Se i membri dell’IS evadono dalle prigioni nel nord della Siria e vengono in Europa, il rischio di attacchi islamisti aumenta anche qui, ad esempio nei mercatini di Natale. I politici, soprattutto in Germania, che non riconoscono questi pericoli e sostengono Erdoğan agiscono in modo irresponsabile e mettono in pericolo la vita delle persone.

L’APM critica l’invio di un diplomatico tedesco dell’UE in Siria. Per anni abbiamo chiesto alla Germania e all’UE di fornire aiuti umanitari ai curdi che combattono contro l’IS nel nord della Siria. La richiesta è stata respinta perché il PKK curdo è classificato come organizzazione terroristica dalla Turchia e dai suoi sostenitori. La Germania e l’UE considerano l’SDF vicina al PKK. Il fatto che l’islamista HTS, che ora controlla gran parte della Siria, sia sulla lista dei terroristi delle Nazioni Unite non sembra invece essere un problema.

 

Zerocalcare: “Vi raccontiamo cosa succede ora in Siria e perché la rivoluzione del Rojava è in pericolo”


Zerocalcare, ospite degli studi di Fanpage.it, rivolge quattro domande a Eddi Marcucci e Tiziano Saccucci per capire costa sta accadendo in Siria e il futuro della rivoluzione del Rojava.
Valerio Renzi, Fanpage, 11 dicembre 2024

Gli eventi in Siria, dopo anni che la guerra civile sembrava congelata, sono precipitati in modo molto veloce. Il 30 novembre Aleppo, che durante i primi anni del conflitto era stata oggetto di un drammatico assedio, è caduta nelle mani delle forze filoturche e jihadiste senza che il regime di Bashar al Assad riuscisse a opporre resistenza. Da lì alla conquista di Damasco è passata una settimana, con la fuga precipitosa di Assad a Mosca, dove ha ottenuto asilo.

Negli studi di Fanpage.it Zerocalcare, nell’inedito ruolo dell’host, ci ha aiutato a districarci nella ressa di eventi che abbiamo di fronte, per capire costa accadendo e quale futuro potrebbe esserci per la Siria e per la rivoluzione guidata dai curdi nel Nord-Est del Paese. Zerocalcare ha viaggiato più volte nel Nord-Est della Siria, raccontando nei suoi libri e nelle storie a fumetti la lotta per una Siria democratica e contro l’Isis.

“Più di una volta in questi giorni mi è stato chiesto di spiegare o raccontare quello che stava succedendo in Siria. Questo perché ci sono stato per raccontare quello che accadeva in Rojava, quella rivoluzione che metteva al centro un progetto di emancipazione della donna e di convivenza pacifica tra i vari popoli che compongono il mosaico siriano, un progetto che va sotto il nome di Confederalismo democratico”, spiega il fumettista.

“Ma visto che non sono un esperto, ho scelto di ascoltare le voci di chi ha un legame molto stretto con quelle terre e con il progetto della rivoluzione, e che è stato lì per lunghi periodi di tempo. Per questo ne parliamo con Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, editor di Turning Point ed ex combattente delle YPJ, le unità di protezione delle donne; e con Tiziano Saccucci, dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia”.

Siria: la situazione prima del crollo del regime di Assad

La situazione sullo scacchiere siriano prima dell’offensiva su Damasco, era circa quella che vedete nella mappa disegnata da Zerocalcare. L’area rossa era sotto il controllo del regime degli Assad, grazie il sostegno attivo della Russia, delle milizie che fanno riferimento all’Iran, e di Hezbollah. Le aree di colore verde che vedete a Nord invece, sotto l’influenza della Turchia, avevano dato riparo diverse delle forze sconfitte nella guerra civile, in particolare molti miliziani dell’Isis e soprattuto quelli di Jabhat Fateh al-Sham, che oggi si fanno chiamare Hay’at Tahrir al-Sham (Hts). Altre milizie, composte anche da combattenti provenienti da diverse parti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, sono state organizzate direttamente dalla Turchia soprattutto in funzione anti curda nell’Esercito Nazionale Siriano (Sna). Il Nord Est invece è controllato dalle Forze Democratiche Siriane, espressione dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est.

Le differenze tra HTS e SNA e il ruolo della Turchia

“Perché proprio ora?”, è la domanda che pone Zerocalcare ai propri interlocutori. E la risposta arriva da Eddi Marcucci: “Per anni, nonostante Assad si rifiutasse di arrivare a qualsiasi compromesso, la situazione è rimasta in stallo, perché aveva il supporto di forze esterne. Quando queste sono state impegnate su altri fronti, la Russia in Ucraina, l’Iran e soprattutto Hezbollah nel conflitto con Israele, le forze sostenute dalla Turchia hanno attaccato l’Esercito Arabo Siriano e il regime è crollato senza più chi lo teneva in piedi”.

Marcucci sottolinea poi le differenze tra Hay’at Tahrir al-Sham e l’Esercito Nazionale Siriano, ripercorrendone brevemente la storia. “Hts e Nsa hanno convissuto negli stessi territori, ma hanno obiettivi e storie diverse. L’Nsa è nato dalle ceneri dell’Esercito Siriano Libero, una coalizione che all’inizio della guerra civile attrae tutti quelli che partecipano all’insurrezione popolare. Questa forza viene poi egemonizzata da alcuni gruppi fondamentalisti che vengono organizzati, armati e supportati logisticamente dalla Turchia che, è bene ricordarlo, è il secondo esercito Nato. Oggi l’Nsa mette insieme bande di mercenari, ex miliziani dell’Isis e reduci. Sono gli stessi contro cui abbiamo già combattuto nel Nord-Est della Siria negli scorsi anni, e che oggi sono lo strumento della Turchia in Siria”. Hts invece, che oggi si trova a Damasco e sta gestendo la transizione di potere, pur avendo goduto dell’appoggio turco, ha “un’agenda autonoma”. “Nasce dalla galassia jihadista di Al Qaeda. Abu Muhammad al-Jawlani, il leader di Hay’at Tahrir al-Sham è il fondatore di Jabhat al Nusra, la branca siriana di Al Qaeda, dal quale si distacca nel 2016. Oggi si presenta con un volto più moderato, ma quello che sappiamo per certo è che il “califfo” dell’Isis Al Baghdadi, si nascondeva nei territori che controllavano loro”, prosegue Marcucci.

Una differenza quella tra Nsa e Hts che si vede anche dagli obiettivi militari che hanno intrapreso, spiega Tiziano Saccoccio. “Mentre Hay’at Tahrir al-Sham dopo la presa di Aleppo si è diretta immediatamente verso Damasco, l’Sna ha dichiarato un’altra operazione e si è diretta verso i territori dell’Amministrazione autonoma attaccando l’Sdf e in particolare puntando sulla città Manbij, già liberata con un costo altissimo dall’Isis. L’offensiva dell’Esercito Nazionale Siriano è sostenuta dai droni e dai bombardamenti della Turchia”.

La rivoluzione democratica nel Nord-Est della Siria è in pericolo?

Se al momento Hay’at Tahrir al-Sham e Abu Muhammad al-Jawlani mostrano un volto “moderato”, nonostante le violenze in corso, il futuro della Siria è ancora molto incerto. Come è incerta è la situazione per il Rojava e il confederalismo democratica, e la sicurezza delle minoranze come quella curda ed ezida.

Eddi Marcucci spiega che parlare di “curdi” in riferimento all’Amministrazione autonoma del Nord-Est è oggi riduttivo. “Si tratta di un’entità che controlla un terzo della Siria, dove convivono curdi, ezidi, circassi, ceceni, turcomanni, assiri, ceceni, ma dove la maggior parte della popolazione è araba e arabofona, stiamo parlando di tutto il popolo siriano. – spiega – Oggi nessuno è al sicuro in Siria, non solo nel Nord-Est, e la guerra sono quasi quindici anni che va avanti con mezzo milione di morti, milioni di profughi interni e chi è andato via dal Paese e non è mai riuscito a tornare”. E per i futuro? Spiega Saccoccio: “Le possibilità sono due, un processo di riconciliazione nazionale con la caduta del regime di Assad, o una nuova escalation. Già a oggi ci sono 200.000 nuovi sfollati, molti dei quali già erano fuggiti da Isis o dall’invasione turca”.

L’Isis è stato sconfitto ma non è morto

Quando Zerocalcare è stato in Siria la prima volta, è nato il libro a fumetti “Kobane Calling”, che raccontava la lotta contro Isis. “Oggi in Occidente ci sembra che l’Isis sia stato sconfitto – spiega – ma le cose anche in questo caso sono più complicate di così”. Eddi Marcucci, che alla guerra contro Isis ha partecipato in prima persona, lo sa meglio di molti altri: “Lo Stato Islamico ha subito una sconfitta militare e territoriale, ma l’ideologia che muoveva il progetto del Califfato è ancora viva, e sopratutto esiste una rete capillare di cellule e militanti che ancora è in piedi, e contro cui l’Sdf non ha mai smesso di combattere”. In più c’è un’altra questione, di cui si è discusso troppo poco qui da noi: “L’amministrazione autonoma si è ritrovata con decine di migliaia di prigionieri da gestire da sola. Parliamo non solo di miliziani, ma anche delle loro famiglie. Una realtà sottovalutata in questi anni, nonostante le richieste di aiuto per un la costituzione di un tribunale internazionale e la gestione dei campi dove si trovano”. E proprio Isis sta approfittando della situazione per riprendere l’iniziativa e tentare di rialzare la testa in diverse zone della Siria.

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Lettera di Kongra-Star a Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siriakongra Star


Kongra-Star, 11 dicembre 2024

La Siria si trova in una fase critica e i recenti sviluppi richiedono una risposta internazionale efficace per evitare il caos e raggiungere una transizione politica completa e sostenibile. In questo contesto, sottolineiamo la necessità di lavorare in conformità con la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che costituisce il quadro giuridico delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione politica che ponga fine alle sofferenze del popolo siriano e rispetti i diritti di tutti i suoi componenti. Riteniamo che un elemento essenziale per costruire una Siria democratica e stabile sia garantire la partecipazione delle donne siriane in tutte le fasi di un processo politico basato sulla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulle donne, la pace e la sicurezza.

La Siria oggi affronta una serie di sfide serie, a partire dall’escalation militare in corso, in particolare con i ripetuti attacchi da parte della Turchia sulla Siria settentrionale, come possiamo osservare a Manbij. Questi attacchi non solo minano la sicurezza, ma provocano anche sfollamento di migliaia di persone e rafforzano l’attività delle cellule dormienti dell’ISIS, che rappresentano una minaccia a livello locale, regionale e internazionale.

Le persone che vivono in condizioni drammatiche nei campi profughi a nord di Aleppo (Shehba) dal 2018 a seguito dell’occupazione turca di Afrin, sono state sfollate con la forza per la seconda volta. Questi sfollati, soprattutto donne e bambini, vivono in condizioni umanitarie catastrofiche, poiché ancora non sono arrivati aiuti internazionali e l’Amministrazione Autonoma Democratica nord-est della Siria deve affrontare questa sfida da sola. Gli sforzi profusi dall’Amministrazione Autonoma e da iniziative comunitarie per far fronte all’aggravarsi della crisi non sono sufficienti e si rende indispensabile un rapido intervento internazionale.

Questa crisi è particolarmente dura per le donne e i bambini, che subiscono maggiormente il peso degli attacchi e della violenza. In quanto organismo internazionale preposto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali avete la responsabilità di adottare misure decisive e immediate per contenere la situazione ed evitare un ulteriore deterioramento.

Vi chiediamo pertanto di:

  1. Esercitare pressioni immediate sulla Turchia per fermare gli attacchi e l’escalation.

Chiediamo alle Nazioni Unite di agire urgentemente per esercitare pressioni sulla Turchia e sui gruppi armati che sostiene affinché cessino i ripetuti attacchi militari nella Siria settentrionale, per garantire la protezione della popolazione civile e preservare la sicurezza regionale. Questi attacchi non solo minacciano la stabilità della Siria, ma contribuiscono anche all’aggravarsi della crisi umanitaria e allo sfollamento di migliaia di civili. Chiediamo anche l’apertura di corridoi umanitari sicuri a Shehba che permettano agli aiuti umanitari di raggiungere le persone colpite e fornire protezione ai civili intrappolati nelle aree colpite.

  1. Mantenere la sicurezza regionale e impedire il ritorno dei gruppi terroristici.

Chiediamo un’azione internazionale decisiva per prevenire la ricomparsa di gruppi terroristici come l’ISIS nelle aree di escalation. Questi gruppi stanno usando l’attuale caos per espandere le loro operazioni e rappresentano una grave minaccia alla sicurezza regionale e internazionale.

  1. Avviare la soluzione politica in conformità con la risoluzione 2254.

Garantire l’accelerazione dei negoziati politici sotto la supervisione delle Nazioni Unite e fornire meccanismi chiari per gestire la transizione in modo equo e sostenibile. Concentrarsi sulla protezione dell’unità e della sovranità della Siria e garantire i diritti di tutte le componenti etniche, religiose e culturali del paese, nonché i diritti delle donne.

  1. Garantire l’inclusione delle donne nella nuova costituzione siriana in linea con la risoluzione 1325.

Garantire la partecipazione delle donne a tutte le fasi dei negoziati e della transizione politica per assicurare il loro ruolo attivo nella costruzione della pace e della giustizia sociale. Rafforzare le misure per proteggere le donne dalla violenza e dallo sfruttamento e sostenere le donne nei ruoli di leadership nella fase successiva.

  1. Affrontare il problema degli sfollati forzati e proteggere gli sfollati.

Fornire un sostegno urgente agli sfollati di Afrin e di altre aree e garantire il loro ritorno sicuro alle loro zone di origine. Fornire protezione internazionale per porre fine alle violazioni e garantire la sicurezza nel nord della Siria.

  1. Aumentare gli aiuti umanitari.

Fornire assistenza umanitaria urgente alle aree che ospitano persone sfollate, in particolare nel nord-est della Siria, per alleviare la pressione sulle infrastrutture e soddisfare i bisogni di base. Sviluppare un piano delle Nazioni Unite per fornire assistenza a lungo termine che contribuisca alla ricostruzione e alla stabilizzazione.

Il popolo siriano ha sofferto per anni sotto il flagello della guerra e del conflitto, e la pace e la stabilità possono essere raggiunte solo attraverso una soluzione politica giusta e democratica che metta l’interesse del popolo al di sopra di tutto e garantisca che tutte le componenti, soprattutto le donne, siano coinvolte nella definizione del futuro del paese.

Cordiali saluti

Kongra Star

9 dicembre 2024

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Rojava e Shengal: mobilitazione generale contro la minaccia jihadista e turca

L’attacco degli jihadisti filo-turchi contro Aleppo e Hama, che ha disfatto le forze di Assad, minaccia direttamente i Curdi sia dei quartieri di Aleppo che dei vicini villaggi del Rojava, fino al distretto ezida di Shengal

Carla Gagliardini, Dinamo Press, 6 dicembre 2024

La guerra di Israele su Gaza e poi sul Libano sembra aprire degli spazi per la resa dei conti che la Turchia aspettava da tempo contro i Curdi del Rojava, in Siria. Attraverso organizzazioni terroristiche jihadiste che Ankara ha sempre finanziato, come l’ISIS prima e adesso Hayat Tahri al-Sham (HTS), erede di Jabhat al-Nusra, e la coalizione di gruppi armati che si oppongono al presidente siriano Bashar al-Assad, denominata Syrian national army (SNA) e fedele alleata della Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da mercoledì della settimana scorsa sta ottenendo dei risultati importanti in Siria.

L’offensiva lanciata nella provincia di Idlib da unità jihadiste legate all’HTS, che era già in parte nelle loro mani, e sulla città di Aleppo, dalla quale l’esercito siriano ha battuto in ritirata, ha messo in fuga circa 200.000 Curdi e fatto oltre settecento vittime, di cui più di cento tra i civili, risvegliando l’incubo vissuto all’epoca dell’avanzata dell’ISIS. Intorno a quella tragica esperienza si era però sviluppata una forte lotta di resistenza che aveva coinvolto in prima linea le donne curde, riunitesi in formazioni combattenti, le YPJ, al fianco degli uomini delle YPG.

Il protagonismo curdo nella zona, ispirato dalle idee del leader curdo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Õcalan, ha portato all’implementazione del modello politico del confederalismo democratico, fortemente ostacolato da Ankara che ne vuole la totale eliminazione in tutti i luoghi dove si cerca di realizzarlo, ossia nelle municipalità turche amministrate da co-sindache e co-sindaci curdi, in Rojava, regione amministrata dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria (DAANES), nonché nel distretto iracheno di Shengal, patria del popolo ezida, e nel campo profughi curdo di Makhmour, entrambi nel nord dell’Iraq.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, la città curda di Tal Rifaat domenica è caduta nelle mani della SNA, che ha beneficiato del supporto logistico turco per portare avanti l’operazione militare. Nel frattempo il servizio segreto turco, MIT, ha fatto sapere di aver “neutralizzato” Yasar Cekik, uno dei leader delle YPG che si trovava tra i bersagli di Ankara.

Il comando generale delle YPJ ha emesso lunedì 2 dicembre un comunicato stampa con il quale dichiara che i mercenari dell’occupazione turca commettono «pratiche barbare contro le giovani donne catturate» e che queste «sono le stesse perpetrate dall’ISIS nel 2014 contro migliaia di donne a Shengal, Mosul e Raqqa». Le combattenti delle YPJ invitano «le giovani donne di tutto il mondo a unirsi ai ranghi della resistenza nelle loro regioni e alle unità di protezione delle donne (YPJ)».

Lo scenario in Rojava si complica, come era prevedibile, a causa degli spazi che la guerra su Gaza e in Libano ha aperto in Medio Oriente e di cui Ankara vuole avvantaggiarsi. La gravità del momento ha portato le Forze di difesa siriane (SDF) a lanciare una chiamata alla mobilitazione generale e a rivolgersi ai e alle giovani della regione, siano essi Curdi, Arabi, Assiri, Armeni o Siriani affinché si uniscano a loro in difesa della terra e dell’intera regione. Nel comunicato le SDF accusano la Turchia di aver orchestrato gli attacchi per conquistare il Rojava e poi prendersi l’intera Siria.

Damasco ha dichiarato di aver riconquistato le sette città della regione di Hama, a sud di Idlib, che erano state occupate dall’HTS martedì scorso, anche se quest’ultimo smentisce la notizia mentre gli scontri proseguono. Più a sud si trova la città di Homs, considerata uno snodo geografico strategico che conduce direttamente a Damasco, probabilmente nel mirino dell’HTS che potrebbe puntare dritto sulla capitale siriana. In questo scenario, cosa sta facendo la Russia per favorire l’alleato Assad? Mosca ha bombardato postazioni militari jihadiste e le dichiarazioni di mercoledì della portavoce del Ministero degli esteri, Maria Zakharova, si scagliano contro «forze esterne» per aver supportato queste organizzazioni terroristiche.

Sembra non esserci alcun dubbio che Zakharova stesse parlando dello stato turco. Putin da tempo caldeggia un avvicinamento tra l’alleato Assad e il presidente turco Erdoğan, ma finora non sono bastate le recenti aperture di dialogo a sciogliere i nodi che continuano a rendere le relazioni tese.

Secondo quanto è trapelato sulla telefonata di martedì tra Putin e Erdoğan, il presidente russo avrebbe sollecitato con veemenza Ankara a usare la propria influenza per arrestare l’onda jihadista in Siria e consentire il ripristino dell’ordine costituzionale. Da parte sua Erdoğan avrebbe auspicato «una soluzione giusta e permanente», raggiungibile attraverso la diplomazia. I due presidenti si sarebbero infine trovati d’accordo sulla necessità di rafforzare le loro relazioni, includendo in questo processo anche l’Iran.

Ma è proprio dall’Iran che arriva il commento più duro verso l’operazione jihadista sostenuta dalla Turchia. Dopo aver fatto sapere di essere pronto a intervenire al fianco di Damasco se dovesse essere da questa richiesto, il consigliere dell’Ayatollah Alì Khamenei ha tuonato contro Ankara accusandola di essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e di Israele.

Ma la Turchia ha sempre rimescolato le carte nella partita politica internazionale e il precario scenario mediorientale, in cui due delle potenze presenti nella regione, la Russia e l’Iran, sono impegnate direttamente o indirettamente anche su altri fronti di guerra, insieme alla vittoria elettorale negli Stati Uniti di Trump, il quale non ha verso i Curdi le simpatie, pur sempre interessate, che hanno avuto le amministrazioni Obama e poi quella Biden, consentono a Erdoğan un affondo. In fin dei conti, il presidente turco aveva avvertito il 10 novembre scorso che avrebbe lanciato un’offensiva sul nord della Siria per costruire una zona cuscinetto a difesa del confine turco, come ha già fatto in altre zone dello stesso paese e in Iraq. Il giorno seguente, come riportava la Reuters, il suo Ministro degli esteri, Hakan Fidan, si era rivolto agli Stati Uniti per ricordare loro che era venuto il momento di porre fine alla collaborazione che intrattengono «con l’organizzazione terroristica in Siria», ovviamente riferendosi alle YPG e alle YPJ, considerate parte del PKK.

Monitorando la preoccupante situazione siriana, Baghdad ha inviato migliaia di soldati nel distretto di Shengal, abitato prevalentemente dalla popolazione ezida, a difesa del confine con la Siria. Una buona notizia se si considera il reale pericolo che corre quella zona, ma contemporaneamente espone il distretto a manovre governative sul territorio ribelle.

Non bisogna infatti dimenticare che a Shengal una parte della popolazione ezida sta lavorando affinché il governo federale iracheno riconosca l’Amministrazione autonoma di Shengal, costituitasi nel 2017 come risposta al genocidio commesso dall’ISIS tre anni prima contro questo popolo, ma ancora priva di legittimazione parlamentare. L’obiettivo incontra però l’opposizione della Turchia che fa pesare su Baghdad i recenti accordi commerciali e militari, oltre alle promesse di investimenti per la realizzazione di infrastrutture in Iraq.

Osservando le evoluzioni sul campo, anche le unità di resistenza ezide di Shengal hanno identificato nello stato turco «il nemico di tutti i popoli della regione», considerandolo «particolarmente ostile verso la comunità ezida. Vuole disegnare la regione secondo i suoi propri interessi per realizzare i suoi sogni di un nuovo Impero ottomano».

La Turchia ha mobilitato le sue gangs e vuole inasprire sempre di più la guerra. Ovviamente, gli occhi dello stato turco sono anche sulla regione dove noi viviamo e sulle nostre terre». Per queste ragioni le YBS hanno chiesto ai e alle giovani di unirsi a loro e alle unità di resistenza delle donne ezide di Shengal (YJS), per evitare che il genocidio commesso dall’ISIS dieci anni fa nei loro confronti possa ripetersi. Da quella drammatica esperienza che ha visto i soldati iracheni e i peshmerga del Partito democratico del Kurdistan (KDP) ritirarsi davanti all’avanzata dell’ISIS, lasciando totalmente sprovvisti di difesa i villaggi ezidi del distretto di Shengal, è maturata la convinzione che solo le forze popolari di autodifesa possano proteggere la comunità ezida.

Lo spettro che i mercati delle schiave che l’ISIS aveva resuscitato da un passato oscuro possano ancora una volta trovare spazio in Siria e in Iraq, come le dichiarazioni degli jihadisti riportate nel comunicato delle YPJ sembrano suggerire («Vi venderemo di nuovo nei mercati»), e la paura che alle porte ci sia un altro ferman, ossia un editto che imponga lo sterminio del popolo ezida allargato a quello curdo, ha costretto le unità di resistenza del Rojava e di Shengal a chiedere la mobilitazione generale dei popoli che abitano queste zone per combattere i nemici comuni, ossia le varie organizzazioni jihadiste manovrate dalla Turchia.

Immagine di copertina: Kurdishstruggle da commons.wikimedia.org

Unitevi alla campagna per fornire aiuto concreto a chi, in queste ore, sta subendo questo ennesimo attacco contro la propria esistenza. Difendere il Rojava significa difendere i diritti umani di tuttx. Scrivi “aiuti emergenza NES” nella causale.

Comunicato di Rete Jin Milano sulla situazione in Siria

MOBILITIAMOCI in sostegno alle combattenti kurde e AL POPOLO CURDO e contro ogni fondamentalismo, compreso quello economico imperiale dell’Occidente

Rete Jin Milano, 5 dicembre 2024

Ci risiamo. Il giorno dopo che Israele ha piegato gli hezbollah libanesi si riaccende la questione siriana. Ricordate? Era l’agosto del 2014 quando l’Isis aveva attaccato Shengal, muovendosi poi dentro il Rojava, cercando di distruggere e umiliare l’esperimento del Confederalismo democratico invadendo il Nord-Est della Siria e attaccando la resistenza kurda e, soprattutto, le combattenti kurde: mutilate, violentate e vendute, una volta catturate, come schiave. Il prezzo pagato fu alto ma, allora, i terroristi dell’Isis furono sconfitti e le combattenti curde acclamate dalla stampa internazionale per averci salvato dall’orrore jihadista.

Il 2 dicembre 2024 dall’enclave jihadista di Idlib sono usciti, armati sino ai denti, i tagliagola che, in questi tempi di alleanze variabili, hanno conquistato la dignità di “ribelli”, e non perché abbiamo cambiato programma ma perché adesso chi li sostiene è palesemente la Turchia, con il beneplacito di USA e Israele. Hanno attaccato la città martire di Aleppo, preso TalRifaat e Hama. Dai media arrivano notizie di rapimenti di combattenti delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), caricate sui camion brutalmente e portate chissà dove, colpevoli di essere soggettività oppresse che hanno osato invece autodeterminarsi con la lotta.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che non ha mai smesso di vessare la zona autonoma dei kurdi, adesso, sconfitti gli hezbollah in Libano – ormai impossibilitati a dare sostegno alla Siria – prova a liquidare i kurdi per interposta persona dando il via libera ai gruppi jihadisti. Gli obiettivi che Erdogan vorrebbe raggiungere sono ambiziosi: impadronirsi di altri pezzi della Siria del Nord; tenere, quantomeno, sotto controllo i kurdi e, perché no, liberarsi dei milioni di profughi siriani spingendoli verso le terre del Rojava.

Tutto ciò con piena soddisfazione di Benjamin Netanyahu che ha bisogno di smantellare la Siria per attaccare l’Iran, il colpo grosso da offrire in dono a Trump, una volta insediatosi come presidente, che chiuderà i suoi occhi e quelli del resto dei cosiddetti Paesi democratici sulla strage dei palestinesi.

Ci verrà detto, per addomesticare il nostro disgusto, che tutto ciò viene fatto per costruire la pace. Ma nessuna pace si costruisce sulle case distrutte, i corpi straziati e la prepotenza del più forte. Solo un progetto che prevede la costruzione di una società laica, democratica ed ugualitaria, dove cooperano tra loro etnie, confessioni, cultura e identità diverse, che rispetti la terra e che metta al centro del cambiamento la rivoluzione delle donne può portare pace in quell’area i cui confini sono stati tracciati, quasi ottant’anni fa, dall’Occidente colonialista solo per fomentare l’instabilità dell’area, sfruttarla e controllarla.

 

Diciamo BASTA MOBILITIAMOCI in sostegno alle combattenti kurde E AL POPOLO CURDO e contro ogni fondamentalismo, compreso quello economico imperiale dell’Occidente.

MOBILITIAMOCI per i territori autonomi del Nord-Est della Siria, affinchè delle valorose combattenti non debbano sacrificarsi a causa della nostra indifferenza.

Rete Jin Milano, 05 dicembre 2024