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Tag: Afghanistan

Afghanistan: lo sport che non c’è, ma solo per le donne

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione del diritto allo sport delle donne afghane

Carla Gagliardini, Bio Correndo, 1 luglio 2025

Se sentiamo la parola Afghanistan a cosa pensiamo immediatamente? Le risposte possono essere varie: è uno stato; è uno stato governato dai talebani; le donne vivono in una condizione di segregazione totale. Certamente ci saranno altre risposte ma queste saranno prevedibilmente quelle più frequenti.
Da qui possiamo partire per cercare di dare una descrizione sintetica dell’Afghanistan che ci aiuti a comprendere le difficoltà che le donne incontrano tutti i giorni, anche nell’esercitare il diritto a praticare lo sport. Il diritto allo sport è riconosciuto da diversi trattati internazionali ma è evidente che non ci voglia un documento, per quanto sia il frutto di una negoziazione ad alti livelli, per dare a un diritto umano il suo riconoscimento perché questo, proprio per la sua natura e qualità, è del tutto inscindibile dall’essere umano.

L’Afghanistan, i talebani e le donne

Iniziamo a collocare geograficamente l’Afghanistan che si trova nell’Asia meridionale e confina con il Tagikistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Iran, il Pakistan e la Cina.

Poi proviamo a descrivere sinteticamente chi siano i talebani, cioè coloro che governano l’Afghanistan. Secondo l’enciclopedia Treccani online i talebani sono un “gruppo di fondamentalisti islamici formatisi nelle scuole coraniche afghane e pakistane (dal pashtō ṭālib «studente»), impegnato nella guerriglia antisovietica in Afghanistan; tra il 1995 e il 1996 sono emersi come vincitori della guerra civile afgana successiva al ritiro dell’URSS e, conquistato il potere, hanno imposto un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica”[1].

Infine tentiamo di dire brevemente perché le donne vivono in una condizione di segregazione totale e lo facciamo con le parole di Minky Worden, direttrice del Global initiatives di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa che da decenni monitora la violazione dei diritti umani nel mondo. Lo scorso 3 febbraio la Worden ha scritto nella lettera indirizzata a Jay Shah, presidente dell’International cricket Committee (ICC), che “dalla riconquista del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una lunga e crescente lista di regole e politiche che proibiscono alle donne e alle ragazze di esercitare i loro diritti fondamentali, includendo la libertà di espressione e di movimento, il diritto ad accedere a molti impieghi e il diritto all’istruzione oltre il sesto grado (scuole elementari, ndr). Ciò ha praticamente un impatto su tutti i loro diritti, incluso quello alla vita, ai mezzi di sostentamento, ad avere un luogo sicuro dove vivere, alla cura della salute, al cibo e all’acqua”.

Sport: “non necessario” per le donne

Poche settimane dopo il ritorno dei talebani alla guida dell’Afghanistan, avvenuto a metà agosto del 2021, il vice-capo della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, si diceva dubbioso sul futuro dello sport femminile nel paese, ritenendo la pratica sportiva non necessaria per le donne; parlando in particolare del cricket diceva che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. E’ l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”[2].

Intere squadre femminili hanno lasciato l’Afghanistan dall’agosto del 2021 con la speranza di poter continuare non solo a fare sport nei paesi di accoglienza ma anche di rappresentare la loro terra sotto la bandiera della nazionale afghana in esilio. Un messaggio politico che ovviamente non ha come unico destinatario il governo afghano poiché si chiede alle federazioni internazionali di non voltare lo sguardo.

La nazionale femminile di cricket che ha lasciato l’Afghanistan grazie al supporto di tre donne, Mel Jones (precedente giocatrice della nazionale australiana di cricket), Emma Staples e Catherine Ordway in collaborazione con il governo australiano, ha ripetutamente invitato l’ICC a intervenire per consentire alla squadra in esilio di giocare. Solo recentemente però è arrivata una risposta, probabilmente solo parziale, alle aspettative che le giovani avevano. L’ICC ha dichiarato di aver stanziato dei fondi per consentire alle atlete di proseguire nella pratica sportiva ma nulla ha fatto rispetto alla sanzione che dovrebbe raggiungere l’Afghanistan cricket board (ACB). Secondo le regole internazionali del cricket ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale deve avere sia la squadra nazionale maschile sia quella femminile, per evidentemente tutelare e promuovere i diritti di tutti e di tutte a praticare questo sport. Dall’ingresso dei talebani al governo l’ACB non ha più la squadra femminile e questo dovrebbe essere sufficiente per cancellare dalle competizioni afghane quella maschile. Eppure …

Diritto negato di fatto anche dalla precedente Repubblica

Da un colloquio avuto con Sapeda, attivista afghana di cui per ragioni di sicurezza non è possibile rivelare il vero nome, è possibile disegnare il quadro afghano che riproduce la situazione dello sport femminile. Sostanzialmente si tratterebbe di una tela con uno sfondo dai colori cupi rappresentante l’oppressione di un governo che vuole dominare completamente la donna, oscurandola. Tuttavia da quelle tenebre si vedrebbero raggi di luce, quelli della resistenza di molte donne che, sfidando ogni sorta di pericolo e le conseguenze più spaventose, esercitano i loro diritti in modo clandestino, incluso quello di praticare lo sport.

Sapeda racconta che durante i vent’anni di occupazione dell’Afghanistan da parte della Coalizione guidata dagli Stati Uniti lo sport poteva essere praticato dalle donne nelle grandi città, nei villaggi la situazione era rimasta invece molto arretrata. Nei luoghi pubblici, come le palestre, l’accesso era suddiviso in fasce orarie per i due sessi, per impedire che uomini e donne potessero mescolarsi.

Alle donne e alle ragazze piaceva fare sport perché era un momento di socializzazione ma era anche un modo per riprendere la linea, soprattutto dopo tante gravidanze, e avere cura della propria salute.

Hambastagi, Partito afghano della solidarietà e unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan[3], aveva aperto una palestra a Kabul dove si tenevano corsi di karate, di autodifesa e di ginnastica.

Le più giovani avevano un vivo interesse verso lo sport perché per loro poteva rappresentare una possibilità professionale. Infatti durante il periodo dell’occupazione si erano formate le squadre nazionali femminili in alcune discipline sportive e le atlete che ne facevano parte hanno avuto la possibilità di partecipare ai Giochi olimpici e a altre competizioni internazionali. Tuttavia non è stato sempre facile perché il governo afghano ha tentato molte volte di ostacolare l’invio delle nazionali femminili a tornei e gare fuori dai confini nazionali, sollevando ragioni di sicurezza derivanti dalle minacce dei talebani.

Sapeda dice che il governo di quel ventennio non proibiva la pratica sportiva alle ragazze e alle donne solo perché molte attività venivano gestite dalle Ong e ciò fruttava molti introiti che facevano gola.

Il diritto allo sport delle donne, unitamente a molti altri, non sono dunque mai stati al centro dell’attenzione dei governi talebani passati e presenti ma nemmeno di quelli che si sono insediati durante l’occupazione, la quale con la sua propaganda ha cercato di convincere il mondo che la guerra in Afghanistan era giusta, anche perché avrebbe liberato la donna. Non solo l’intento propagandistico non è riuscito, avendo continuato a lasciare oltre l’80% delle donne nella stessa condizione pre-occupazione, ma ha svelato tutta la sua inconsistenza quando nel momento del ritiro delle forze di occupazione le donne con i loro corpi, i loro sogni e la loro voglia di libertà sono state gettate nelle mani di estremisti fanatici che concepiscono in senso padronale il rapporto tra i due sessi.

Sport: diritto indiscutibile anche per le donne

Il Cisda, un’associazione italiana che dal 1999 aiuta e sostiene le donne afghane che vivono nel loro paese, ha ancora in corso la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”[4] che punta a far riconoscere nei trattati internazionali l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e chiede altresì che si riconosca il fatto che questo viene commesso sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre chiede che vengano attivate immediatamente le azioni necessarie da parte della Comunità internazionale per non legittimare i fondamentalisti che continuano a violare i diritti umani delle donne e gli obblighi legali internazionali dell’Afghanistan.

La negazione del diritto allo sport alle donne afghane ci ricorda ancora una volta che lo sport non è solo competizione ma è anche e soprattutto uno spazio della vita dove si costruiscono relazioni umane, dove ci si prende cura del proprio benessere psicologico e fisico. E’ il luogo dal quale si possono lanciare messaggi potenti, come fa da anni La corsa di Miguel. Ma è soprattutto un diritto indiscutibile che appartiene a uomini e donne nella stessa misura.

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione se non vogliono far passare il messaggio che lo sport è sola competizione e, in quanto tale, viene trattato come un diritto esclusivo accessibile unicamente a chi ha dalla sua le risorse economiche, le strutture e il talento fino ad arrivare all’estremo di consentire che una legge possa vietare ad alcuni soggetti di praticarlo.

Note:

[1]Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/talebani/.

[2]https://www.bbc.com/news/world-asia-58571183.

[3]https://www.cisda.it/chi-sosteniamo/hambastagi/.

[4]https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere/.

In Afghanistan, un uomo di 45 anni sposa una bambina afghana di 6 anni

Sotto il regime dei talebani, i matrimoni infantili si diffondono e le ragazze perdono protezione e voce

Rawa News, 28 giugno 2025

Una foto che circola sui social media mostra un uomo di 45 anni con la bambina di 6 anni che ha appena sposato: un esempio straziante del peggioramento della crisi dei matrimoni infantili sotto il regime dei talebani.
Fonti locali di Helmand affermano che un uomo di 45 anni, che ha già altre due mogli, ha sposato una bambina di 6 anni.

Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo anziano “in cambio di denaro”.

Secondo alcune fonti, la cerimonia di nozze tra l’uomo di 45 anni e la bambina ha avuto luogo venerdì 27 giugno 2025.

Tuttavia, prima che la bambina venisse consegnata al suo “marito” 45enne, sono intervenuti funzionari talebani locali, non per impedire il matrimonio, ovviamente, ma per dare prova della loro versione di “moderazione”. Fonti affermano di aver intimato all’uomo di aspettare che la bambina compisse la maturissima età di 9 anni prima di portarla a casa sua.

Il matrimonio precoce – in particolare quello forzato di bambine con uomini molto più grandi o di mezza età – rimane una delle forme di violenza di genere più diffuse e culturalmente radicate in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei Talebani, questa pratica ha registrato un’impennata drammatica, alimentata dalle politiche ultrapatriarcali del regime, dal crollo delle tutele legali e dalla crescente disperazione economica delle famiglie. La normalizzazione di queste unioni coercitive, sotto l’egida della tradizione, non solo priva le bambine della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il regime talebano.

 

Catturare la tranquilla resilienza delle donne afghane

La resilienza non è una scelta: per le donne, e per gli afghani in generale, è una necessità

Phoebe West, Rawa.org, 25 gennaio 2025

Nel corso di sei mesi, la fotografa Kiana Hayeri e la ricercatrice Melissa Cornet hanno realizzato un ritratto della vita delle donne afghane sotto il regime talebano. In un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi dei diritti delle donne nel mondo,  “No Woman’s Land” cattura le loro lotte, ma illumina anche i modi sottili ma potenti in cui resistono, dalle aule segrete ai momenti di tranquilla convivenza in casa. Qui Hayeri racconta a Phoebe West come la coppia ha affrontato il progetto nonostante l’accesso limitato imposto dal regime talebano, e perché la resistenza è una necessità per le donne afghane.

Nel corso di sei mesi, Hayeri e Cornet hanno trascorso dieci settimane in sette province, parlando con 100 donne e ragazze per capire cosa significhi essere una donna in Afghanistan oggi. “Volevamo coprire tutto”, mi dice Hayeri da Damasco. “Volevamo mostrare cosa significa essere una donna nelle aree rurali, in quelle urbane, per le donne istruite e per quelle non istruite, per mostrare cosa è cambiato per loro e per raccontare tutti gli aspetti della storia”. La storia dell’Afghanistan è lunga e complessa, caratterizzata da instabilità politica e da un controllo oppressivo sui diritti delle donne: “Ogni regime ha usato le donne come simbolo di modernità o di purezza morale”, afferma Hayeri.

“Volevo essere molto rispettosa”, afferma Hayeri. Ogni immagine è stata concepita come unica e creata in collaborazione con il soggetto, garantendone la sicurezza e la capacità di agire. “Anche se le donne non si sentivano a loro agio a mostrare il proprio volto”, spiega Hayeri, “hanno comunque la loro individualità nelle foto”.

“No Woman’s Land” non si sottrae all’oscurità che pervade l’esistenza delle donne in Afghanistan oggi, ma non è nemmeno tutta la storia. Anche la gioia e la speranza esistono, trascendendo il personale, per incarnare la resistenza e la sfida in una terra di oppressione. “Spero che continui a vivere come documentazione di ciò che sta accadendo in Afghanistan”, dice Hayeri, “e diventi qualcosa su cui la prossima generazione potrà costruire: le fondamenta su cui costruire resilienza e speranza. Potranno guardare indietro a questo e capire cosa è possibile”.

Il progetto è frutto della collaborazione tra Hayeri e la ricercatrice sui diritti delle donne Melissa Cornet. Lavorare insieme è stato chiaramente illuminante per entrambe, consentendo a ciascuna di esprimere la propria creatività e condividere la responsabilità nelle decisioni relative al lavoro. Al di là di Hayeri e Cornet, le radici della collaborazione si estendono ben oltre. Considerando quanto sia diventato limitato l’accesso in Afghanistan sotto il regime dei Talebani, lo spazio concesso loro è stato possibile grazie all’esistenza di reti già esistenti e alla reputazione all’interno della comunità: “Gran parte dell’accesso è avvenuto tramite passaparola”, spiega Hayeri, “così dicevamo alla nostra rete chi volevamo incontrare e loro garantivano per noi”.

Sia Hayeri che Cornet hanno vissuto a Kabul per anni e nutrono un profondo amore per l’Afghanistan, che traspare dal loro lavoro. Avevano una solida base di relazioni di fiducia su cui costruire, un linguaggio per comunicare senza bisogno di un interprete e il tempo per garantire che tutti i partecipanti desiderassero davvero essere lì: “In alcune delle scene che vedete, mi conoscono da tre o quattro anni”, dice, “quindi sanno che non farei nulla che mettesse a repentaglio la loro sicurezza, e abbiamo avuto il tempo per tornare più e più volte. Questo non accade più nel nostro campo di lavoro”.

Hayeri ha lavorato molto in Afghanistan, ma questo progetto è stato diverso da qualsiasi altro: “Grazie a questa borsa di studio, ho potuto fare tutto ciò che volevo in modo creativo ed è stato molto appagante”, spiega. Hayeri afferma di aver sempre scattato con la luce naturale: “L’Afghanistan ha questa tonalità calda”. Ma per “No Woman’s Land” ha deciso di usare luci al neon. “Gli afghani adorano le luci al neon”, dice sorridendo, “vai nelle gelaterie, nei ristoranti, in qualsiasi posto all’aperto: hanno luci al neon ovunque”.

Sentendo lo spazio concesso alle donne ridursi sempre di più, Hayeri e Cornet hanno deciso di “portare le luci al neon nelle loro case e nei loro spazi”. La decisione di portare la luminosità nei santuari di queste donne ci porta a pensare ai loro cieli che passano dal technicolor al pallore del cielo coperto, mentre i progressi di decenni si disfano nel giro di poche settimane quando, nella tarda estate del 2021, i Talebani tornano al potere.

Passato e futuro sono presenti in tutta l’opera. Diverse inquadrature di “No Woman’s Land” catturano diverse generazioni di donne: ogni fotogramma racchiude cicli di repressione e instabilità politica. È difficile comprendere l’ampiezza di ciò che per queste ragazze è appena passato e impossibile: per le più anziane è la storia che si ripete, un’eco di una vita passata, ma per le giovani, le loro figlie e nipoti, è un futuro nuovo, intero, cancellato in un istante.

“La resilienza non è una scelta”, afferma Hayeri. “Per le donne, e per gli afghani in generale, direi che è una necessità”. È un grande privilegio poter pensare alla resilienza come a una scelta. All’interno dell’oppressione che, ancora una volta, è diventata la realtà per le donne in Afghanistan, la resistenza e la ribellione esistono a livello molecolare: non si manifestano per le strade perché gli altri le guardino, ma accadono continuamente. Ballare a porte chiuse, fare arte e creare disegni all’henné diventano atti di sfida di fronte alla cancellazione della personalità.

Realizzare questo lavoro oggi non sarebbe possibile – ogni parvenza di accesso che esisteva allora è stata chiusa – ma la portata di ciò che è stato creato è illimitata. “È molto facile per le persone attribuire il titolo di apartheid di genere all’Afghanistan”, riflette Hayeri, “ma non si parla dell’apartheid che si sta verificando in Cisgiordania. La lotta per i diritti delle donne va oltre l’Afghanistan. C’è in Palestina, in America, in Kenya!”.

Dopo la nostra conversazione, Hayeri si unirà ai festeggiamenti a Damasco per il 14° anniversario della rivoluzione siriana, durante i quali elicotteri militari lasceranno cadere fiori e coriandoli, per ricordare che accanto alla fragilità dei diritti delle donne nel mondo c’è il potenziale del cambiamento e la possibilità di qualcosa di meglio.

 

Quanto sono costate le guerre degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Afghanistan?


Si stima che oltre 20 anni di guerre statunitensi abbiano causato la morte diretta di circa 940.000 persone e siano costate agli Stati Uniti 5,8 trilioni di dollari

Marium Ali, Hanna Duggal,  AlJazeera, 24 giugno 2025

Il coinvolgimento militare decennale degli Stati Uniti in Medio Oriente si è nuovamente intensificato questa settimana, dopo che i loro aerei da guerra hanno bombardato almeno tre impianti nucleari iraniani.

Secondo un briefing del generale statunitense Dan Caine, presidente dello stato maggiore congiunto, sette bombardieri stealth B-2, ciascuno del valore di circa 2,1 miliardi di dollari, hanno sganciato almeno 14 bombe bunker-buster del valore di milioni su Fordow e Natanz.

In totale, alla missione hanno preso parte più di 125 velivoli statunitensi, tra cui bombardieri, caccia, petroliere, aerei da sorveglianza ed equipaggi di supporto, il cui dispiegamento e funzionamento hanno comportato un costo di centinaia di milioni di dollari.

Gli Stati Uniti spendono per le forze armate più di qualsiasi altro paese al mondo, più dei successivi nove paesi messi insieme, circa tre volte più della Cina e quasi sette volte più della Russia.

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2024 gli Stati Uniti hanno speso 997 miliardi di dollari per le forze armate, pari al 37% dell’intera spesa militare mondiale.

Il costo umano delle guerre condotte dagli Stati Uniti
Secondo un’analisi del Watson Institute of International & Public Affairs della Brown University, le guerre condotte dagli Stati Uniti a partire dal 2001 hanno causato direttamente la morte di circa 940.000 persone in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e altre zone di conflitto post 11 settembre.

Questo numero non include i decessi indiretti, ovvero quelli causati dalla perdita di accesso al cibo, all’assistenza sanitaria o dalle malattie legate alla guerra. Si stima che questi decessi indiretti siano compresi tra 3,6 e 3,8 milioni, portando il bilancio totale delle vittime, inclusi decessi diretti e indiretti, a una cifra compresa tra 4,5 e 4,7 milioni, e il numero è in aumento.

In quel periodo, furono uccisi almeno 30.000 militari statunitensi, appaltatori e truppe alleate. Tra questi, almeno 7.052 soldati, 8.189 appaltatori e 14.874 truppe alleate.

Mezzo milione di persone uccise nelle guerre in Afghanistan e Iraq

La guerra in Afghanistan iniziò il 7 ottobre 2001 in risposta agli attacchi dell’11 settembre e mirava a distruggere al-Qaeda e a deporre i talebani dal potere. Meno di due anni dopo, il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti e i loro alleati lanciarono la guerra in Iraq , con l’obiettivo di eliminare le sue presunte armi di distruzione di massa (ADM) e di deporre Saddam Hussein dal potere. Tuttavia, non furono mai rinvenute scorte di ADM.

Durato quasi 20 anni, il conflitto in Afghanistan, comprese le vittime nelle regioni confinanti con il Pakistan, è stato il più prolungato impegno militare nella storia degli Stati Uniti e ha causato circa 243.000 vittime dirette. In Iraq, circa 315.000 persone sono state uccise direttamente durante la guerra.

Secondo il Watson Institute, insieme rappresentano almeno 558.000 decessi diretti tra ottobre 2001 e agosto 2021.

Il costo economico delle guerre condotte dagli Stati Uniti

Si stima che gli Stati Uniti abbiano speso circa 5,8 trilioni di dollari per finanziare oltre due decenni di guerra.

Ciò include 2,1 trilioni di dollari spesi dal Dipartimento della Difesa (DOD), 1,1 trilioni di dollari dal Dipartimento della Sicurezza Interna, 884 miliardi di dollari per aumentare il bilancio di base del DOD, 465 miliardi di dollari per l’assistenza medica ai veterani e un ulteriore trilione di dollari in pagamenti di interessi sui prestiti contratti per finanziare la guerra.

Gli Stati Uniti continuano a pagare per le loro guerre

Oltre ai 5,8 trilioni di dollari già spesi, si prevede che gli Stati Uniti spenderanno almeno 2,2 trilioni di dollari per obblighi relativi all’assistenza ai veterani nei prossimi 30 anni.

Ciò porta il costo totale stimato delle guerre degli Stati Uniti dal 2001 a 8 trilioni di dollari.

Finanziamento statunitense del genocidio israeliano a Gaza

Israele è stato costantemente il maggiore beneficiario degli aiuti esteri degli Stati Uniti, avendo ricevuto almeno 251,2 miliardi di dollari al netto dell’inflazione dal 1959, secondo il Watson Institute della Brown University. Dal 2016, gli Stati Uniti si sono impegnati a erogare a Israele 3,8 miliardi di dollari all’anno nell’ambito di un memorandum d’intesa decennale, valido fino al 2028. La maggior parte di questa somma è destinata ai finanziamenti militari esteri.

Tuttavia, nell’anno successivo agli attacchi dell’ottobre 2023, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele ulteriori 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari, il totale annuo più alto di sempre. Questo include 6,8 miliardi di dollari in finanziamenti militari, 4,5 miliardi di dollari per la difesa missilistica e 4,4 miliardi di dollari per il rifornimento di armi a Israele provenienti dalle scorte statunitensi.

Il costo umano del genocidio israeliano a Gaza

Secondo gli ultimi dati sulle vittime forniti dal Ministero della Salute palestinese a Gaza, aggiornati al 24 giugno 2025:

Morti confermate: almeno 56.077
Feriti: almeno 131.848
Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco il 18 marzo:

Morti confermate: almeno 5.759
Feriti: almeno 19.807
Si teme che migliaia di altri morti siano rimasti sepolti sotto le macerie.

 

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”: la lotta disperata di una vedova afghana per i suoi figli

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 16 giugno 2025

Hadia* aveva solo 21 anni quando suo marito fu ucciso in un attentato suicida nella capitale afghana Kabul, lasciandola da sola con tre figli piccoli da crescere.

Il bombardamento ha sconvolto la vita un tempo pacifica della famiglia. Ancora traumatizzata dalla perdita del marito in modo così violento, Hadia si è improvvisamente trovata a dover uscire e cercare lavoro in un Paese dove, anche prima del ritorno al potere dei talebani, la maggior parte delle donne rimaneva a casa con i figli.

Ma se la vita era dura prima del 2021, non era nulla in confronto a ciò che Hadia deve affrontare ora. Oltre a non riuscire a trovare lavoro a causa delle crescenti restrizioni imposte alle donne dai talebani afghani, è stata costretta a nascondersi sotto la minaccia che le venissero portati via i figli.

Dopo aver fatto tutto il possibile per tenerli al sicuro, Hadia ora deve affrontare una causa legale intentata dal padre del marito defunto per ottenere la custodia della figlia adolescente e dei due figli più piccoli. Sebbene affermi che l’uomo sia un tossicodipendente, essendo una donna single, la legge le sarebbe comunque contro.

“Un giorno, mio ​​figlio è tornato a casa pallido. Mi ha detto che suo nonno gli aveva bloccato la strada e aveva cercato di costringerlo ad andare con lui”, ha raccontato.

“Mi si strinse il cuore. Se i miei figli finissero con lui, li venderebbe sicuramente per pagarsi la droga.”

I suoi timori non sono infondati. L’Afghanistan ha uno dei tassi di tossicodipendenza più alti al mondo, povertà e disperazione sono diffuse e la disponibilità di stupefacenti è molto elevata.

Hadia sentiva di non avere altra scelta che fuggire e da allora ha cambiato casa tre volte. Ora vive in una zona tranquilla di Kabul, ma teme di non essere al sicuro nemmeno lì, dopo che suo suocero ha sporto denuncia alle autorità accusandola di aver rapito illegalmente i bambini.

“Il pensiero che dopo tutto quello che ho sopportato, tutto questo dolore e questa solitudine, possano finire nelle mani di un tossicodipendente mi fa impazzire”, ha detto.

La situazione di Hadia, per quanto estrema, offre uno spaccato della difficile situazione delle vedove e delle altre madri single nell’Afghanistan odierno, dove povertà, restrizioni legali e lo stigma sociale della vedovanza hanno creato una tempesta perfetta di sofferenza.

Lo scorso anno, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha segnalato che in Afghanistan le famiglie guidate da donne sono quelle che hanno subito le conseguenze più gravi del declino economico del Paese.

Per Hadia, trovare un riparo e un lavoro negli ultimi anni è stata una sfida enorme. Senza un uomo, ha faticato persino ad affittare un alloggio. Faceva i lavori che riusciva a trovare, lavorando nelle scuole e nelle fattorie per soli 4.000-5.000 afghani (60-70 dollari) al mese, o tessendo tappeti. Tornata a casa tardi, è stata criticata come “immorale” e le è stato chiesto con chi fosse stata.

“Se indossavo vestiti nuovi, mi sussurravano: ‘Chi glieli ha comprati? E ​​in cambio di cosa?'”

Costrette al matrimonio

Sebbene abbia ancora 30 anni, le rughe sul volto di Hadia parlano di anni di dolore e stanchezza e la pelle delle mani che accarezzano delicatamente il viso del suo giovane figlio è ruvida.

Il consiglio religioso presso il quale si è lamentato il suocero l’ha convocata per un’udienza, ma la sola idea la terrorizza.

Hadia si preoccupa soprattutto per la figlia tredicenne, temendo che il suocero la spinga a un matrimonio precoce. Essendo stata lei stessa vittima di un matrimonio forzato, sa cosa significherebbe.

Hadia non ricorda esattamente se aveva 13 o 14 anni quando suo padre la diede in sposa a un uomo di 32 anni, in un cosiddetto matrimonio di scambio, una pratica tradizionale in cui una ragazza di una famiglia viene scambiata con una ragazza di un’altra.

“Mio padre mi ha data via in cambio del matrimonio di mio fratello. All’epoca non capivo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato”, ha detto.

Quel matrimonio durò solo un anno. Litigi tra il fratello di Hadia e sua moglie portarono alla loro separazione, a seguito della quale anche Hadia divorziò. Pochi mesi dopo, suo padre la risposò, questa volta con l’uomo che sarebbe diventato il padre dei suoi figli.

Il suo secondo matrimonio durò 14 anni. Nonostante le difficoltà, Hadia lo descrive come una vita relativamente tranquilla. Ma con la morte del marito in un attentato suicida, il ciclo di dolore e sofferenza ricominciò da capo.

Nonostante tutte le sofferenze che ha sopportato, Hadia non abbandona mai la speranza. Sogna un futuro diverso per i suoi figli, libero dal dolore che ha conosciuto.

Ora vive in un rifugio nascosto, la cui ubicazione non è stata rivelata da Rukhshana Media. Temendo di perdere i suoi figli, nascondersi è l’unica opzione che sente di avere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”, ha detto. “Persino la legge di questo Paese darebbe ragione a un uomo come lui, un tossicodipendente.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza.

Bennett: serve un approccio “a tutto campo” per porre fine all’oppressione sistematica di genere in Afghanistan

OHCHR, Comunicato stampa, 18 giugno 2024

Il modello di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne e delle ragazze da parte dei talebani si è intensificato, causando danni immensi che hanno interessato generazioni e tutti gli elementi della società in Afghanistan, ha affermato oggi un esperto delle Nazioni Unite.

“L’istituzionalizzazione da parte dei Talebani del loro sistema di oppressione di donne e ragazze, e i danni che continua a radicare, dovrebbero sconvolgere la coscienza dell’umanità”, ha affermato Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, che ha presentato il suo ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani, parlando a fianco delle donne afghane. “Queste violazioni sono così gravi ed estese che sembrano costituire un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile, che potrebbe costituire crimini contro l’umanità. Questo attacco non solo è in corso, ma si sta intensificando”.

Bennett ha chiesto ai talebani di adottare misure immediate per porre fine al loro sistema di oppressione di genere che priva le donne e le ragazze dei loro diritti fondamentali.

Il Relatore speciale ha inoltre sollecitato un approccio “a tutto campo” per sfidare e smantellare il sistema istituzionalizzato di oppressione di genere dei talebani e per chiamare a risponderne i responsabili.

Questo approccio include l’uso di meccanismi di responsabilità internazionali, quali la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia, nonché il perseguimento dei casi a livello nazionale secondo il principio della giurisdizione universale.

Ha inoltre raccomandato agli Stati membri di adottare il concetto di apartheid di genere e di sostenerne la codificazione, dopo aver ascoltato le donne afghane affermare che questo termine descrive al meglio la loro situazione.

Bennett ha affermato che è fondamentale che la società civile afghana, comprese le donne impegnate nella difesa dei diritti umani, partecipi in modo significativo alla riunione degli inviati speciali delle Nazioni Unite per l’Afghanistan che si terrà a Doha alla fine di questo mese e che i diritti delle donne e delle ragazze siano affrontati sia direttamente sia nell’ambito di discussioni tematiche.

“Il miglioramento dei diritti umani è fondamentale per un Afghanistan in pace con se stesso e con i suoi vicini. Non discutere di questo tema comprometterebbe sia la credibilità che la sostenibilità del processo”, ha affermato l’esperto.

Bennett ha affermato che prima di procedere a qualsiasi normalizzazione o legittimazione delle autorità de facto in Afghanistan, dovrebbero essere introdotti miglioramenti concreti, misurabili e verificati in materia di diritti umani.

“Gli afghani, in particolare le donne e le ragazze afghane, hanno dimostrato un coraggio e una determinazione straordinari di fronte all’oppressione dei talebani. La comunità internazionale deve dare prova di protezione e solidarietà, anche con azioni decise e basate su principi, che mettano i diritti umani al centro di tutto”, ha affermato Bennett.

 

Il Sig. Richard Bennett è il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan . Ha assunto ufficialmente l’incarico il 1° maggio 2022. Ha prestato servizio in Afghanistan in diverse occasioni ricoprendo diversi incarichi, tra cui quello di Capo del Servizio per i Diritti Umani della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA).

I Relatori Speciali fanno parte delle cosiddette Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Procedure Speciali, il più grande organo di esperti indipendenti nel sistema delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, è il nome generico dei meccanismi indipendenti di inchiesta e monitoraggio del Consiglio che affrontano situazioni nazionali specifiche o questioni tematiche in tutto il mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non percepiscono alcun compenso per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e svolgono il loro servizio a titolo individuale.

Non solamente io!

Il forte grido di dolore delle ragazze afghane davanti all’indifferenza per le continuate privazioni di ogni loro spazio vitale, cui sono costrette dalle leggi fondamentaliste talebane e della diffusa mentalità ignorante e misogina

Samana Jafari, 8AM Media, 22 giugno 2025

Ero seduta sulla sedia, ma la mia anima era altrove. Le gambe mi tremavano per l’ansia e le dita erano strette l’una all’altra. Le tecniche di respirazione profonda si stavano rivelando inefficaci e lo stress si faceva sempre più opprimente. Mezz’ora prima avevano annunciato che l’esame sarebbe iniziato con un’ora di ritardo, il che significava altri trenta minuti intrappolati in questa tensione soffocante. Anche la ragazza seduta accanto a me sembrava nervosa, forse anche più di me. Feci un respiro profondo e cercai di distrarmi. Tanto per rompere il ghiaccio, le chiesi: “A che livello sei?”.

Lei mi guardò e disse: “A1”.
Perfetto. Eravamo allo stesso livello.

Il lenimento della musica

Continuai la conversazione fino ad arrivare alla domanda che rivolgevo sempre e che aveva sempre dato un solo tipo di risposta. «Perché stai studiando il tedesco?»

Potrei giurare di aver visto il dolore affiorare nei suoi occhi. Riconobbi il groppo in gola e le lacrime pungenti che le si appiccicavano alle ciglia. Neanche lei se la passava bene.

«Non c’è altra scelta», rispose. «Per tre anni ho bussato a tutte le porte per poter seguire le cose che amo, ma non se n’è aperta nemmeno una. Ora sono solo stanca”.

Rimasi in silenzio,  non avevo nulla da offrirle come conforto. Anch’io ero stanca, stanca di lottare e di non raggiungere mai alcun risultato. In effetti, tutte in quella classe erano esauste, tutte avevano preparato le valigie per fuggire da un Paese in cui non c’era posto per loro.

Avvertendo il mio silenzio, aggiunse: “Ti piace la musica? A me piace molto cantare”.

Io e la mia amica illuminammo al solo sentir parlare di musica. Raccontammo quanto la musica significasse per noi e la mia amica parlò delle sue esperienze canore durante gli inni scolastici.

Quei giorni sembravano ormai un sogno lontano: i giorni in cui ci avvolgevamo i nastri neri, rossi e verdi intorno ai polsi, mettevamo le mani sul cuore e cantavamo con orgoglio l’inno nazionale davanti a centinaia di persone. Giorni in cui l’insegnante non si presentava e noi chiedevamo al nostro amico di recitare le poesie in Dari dal nostro libro di testo con una melodia. Giorni in cui cantavamo tutti all’unisono:

“La luce del risveglio ha riempito il mondo,
Per quanto tempo dormirai nell’ignoranza, o compagno?”.

Anche la ragazza condivise con noi i suoi ricordi legati al canto. Desiderose di sentire la sua voce, le chiedemmo se poteva canticchiare qualcosa per noi. Lo fece, ma la canzone che scelse scatenò una ribellione dentro di me, una ribellione di sentimenti sepolti che dovevano essere liberati.

Lei cantò e io mi immersi nei ricordi, nelle parole che avevo conservato per tre anni: le prese in giro che avevo sopportato nei momenti peggiori, le frecciatine crudeli di chi mi circondava.

“O, mia patria, ancora una volta, eccoti qui con le spalle al Pamir,
Scuoti le stelle, perché l’alba si diffonda”.

Solo io, con milioni di ragazze

Ancora oggi qualcuno mi ha detto: “È un bene che le scuole abbiano chiuso. Stavi studiando solo per necessità”. La sua risata dopo – un pugnale conficcato nel cuore – è stata insopportabile.

“Scrollati di dosso le stelle, perché le stelle di questa città
sono tutte cicatrici di ferite, tutti ricordi di catene”.

Solo pochi giorni prima, qualcun altro mi aveva detto: “Nessuno rimane analfabeta. Tu non puoi andare a scuola – gli altri vivono una vita perfettamente normale”. Strano come, in un paese in cui a milioni di ragazze è vietato l’accesso all’istruzione, a ognuna di noi venga detto: solo tu. Solo io? E la prossima generazione? Le ragazze in prima media quest’anno? Quelle che si sono unite a noi solo due mesi fa? Solo io? E la ragazza in nero, seduta di fronte a me?

“Io sono la speranza di un giorno, quando ti vedrò come meriti,
Un’immagine dai mille colori, come le ali di un pavone”.

Anche lei aveva dei sogni: forse, con la sua bella voce, sperava di studiare musica un giorno. Ma ora aveva messo a tacere quella voce, l’aveva sepolta in fondo alla sua anima, solo per poter rimanere in questo paese. E per cosa? Che cosa offre questo Paese per scegliere una vita invisibile qui piuttosto che una visibile altrove? Perché, nonostante tutte le ingiustizie che questa terra ci infligge, cantiamo ancora canzoni per la nostra patria con tanta passione?

“Lascia che i fiori, il grano e i papaveri fioriscano nei tuoi campi,
lascia che il sole sorga dalle tue spalle orgogliose”.

Cos’ha questa terra che ci spinge a morire per essa, anche quando non ci è permesso camminare liberamente tra i suoi campi in fiore? Perché ci vergogniamo di aver deciso di andarcene? Perché altri se ne sono andati così facilmente, hanno fatto le valigie al primo segno di un’altra bandiera nel cielo e non si sono mai voltati indietro?

“O mia patria, che nessuno dei tuoi germogli pianga mai, 

Che nessuno soffochi nel tuo dolore.”

A questo punto della canzone, la sua voce si incrinò per l’emozione. Lei stava male e noi stavamo peggio. Perché il mondo continuava a dire “soltanto tu” a milioni di persone come noi? Giuro sul Dio in cui credo, non sono solamente io.

Perché nessuno vuole capire?

Quel giorno non risposi. La guardai soltanto, con gli occhi colmi di dolore. Perché qui nessuno ci capisce. E non avrebbero bisogno delle nostre parole per capire. Tutto è visibile: nei nostri occhi addolorati, nelle nostre voci strozzate dalle lacrime, nel pianto nascosto nella notte, nelle statistiche internazionali, in ogni angolo di questa geografia ferita.

Tutto è sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno vuole capire.

Nessuno vuole ammettere che non sono l’unica. Vorrei essere soltanto io, perché mi sono abituata a piangere di notte e se la mia assenza potesse portare gloria alla mia patria, se la mia presenza qui fosse la causa della povertà, dell’insicurezza, dell’impotenza, allora scomparirei volentieri. Vorrei che sacrificando me, solo me, si potessero ricucire i pezzi rotti del mio Paese.

Ma nessuno vede. Nessuno capisce.

Se sono l’unica a essere stata privata di qualcosa, perché ho dovuto camminare per chilometri, controllando tutte le biblioteche che ho incontrato, per trovare dei libri di testo per la dodicesima classe? Sono l’unica? E allora chi sono queste ragazze esauste intorno a me, quelle che hanno scelto questa classe per sfuggire alla propria disperazione? Perché qualcuna si è data fuoco e nessuno se n’è accorto? Perché qualcuna si è buttata da questo stesso edificio e nessuno l’ha vista? Perché nessuno ha notato il tremito nella voce di quella ragazza?

Perché sono diventati tutti ciechi e sordi?

Dov’è la cantante afghana Zalala? I talebani sono accusati di aver nascosto la verità

Mentre aumentano i timori per l’incolumità dell’artista, molti afghani accusano i talebani coprire la sua scomparsa e le istituzioni internazionali come l’UNAMA di non fare nulla per difendere i diritti delle donne e del popolo afghan0

RAWAnews, 21 giugno 2025

La cantante pashto Zalala Hashimi, finalista della 12ª serie di Afghan Star, è scomparsa da oltre due settimane a Kabul. Il marito ne ha denunciato la scomparsa dopo che era uscita di casa per andare a trovare un’amica e non era più tornata. Nonostante le ricerche approfondite, non è stata ritrovata e sia l’amica che la sua famiglia affermano di non sapere dove sia.

Come molte altre artiste, Zalala è stata costretta al silenzio. Pur avendo la possibilità di lasciare il Paese, ha scelto di rimanere a Kabul per motivi familiari. Secondo l’ideologia talebana, le donne artiste sono viste con disprezzo ed etichettate come immorali, rendendo di fatto sacrificabile la loro vita.

Un video sfocato che circola online, che mostrerebbe Zalala mentre cammina e corre, viene utilizzato da fonti affiliate ai Talebani per affermare che è partita di sua spontanea volontà. Tuttavia, non ci sono prove credibili a sostegno di questa versione e gli osservatori ritengono che faccia parte di un  tentativo più ampio di normalizzare la sua scomparsa e allontanare i sospetti da chi è al potere.

Le istituzioni internazionali come l’UNAMA, profondamente inserite nel panorama politico di Kabul, hanno risposto con nient’altro che “espressioni di preoccupazione” di routine. Molti afghani accusano queste organizzazioni di complicità, sostenendo che privilegiano la diplomazia a porte chiuse con i leader talebani rispetto alla sicurezza e ai diritti del popolo afghano, soprattutto delle donne.

Mentre la paura e la frustrazione crescono, gli attivisti chiedono pressioni internazionali urgenti e una reale assunzione di responsabilità. Il caso di Zalala Hashimi non è isolato: è un riflesso del terrore imposto alle donne afghane da un regime che il mondo continua a tollerare.

Dal ritorno al potere dei Talebani nel 2021 – insediati con il sostegno degli Stati Uniti – l’Afghanistan è diventato un inferno per le donne. Sotto il governo talebano, le donne sono state sistematicamente cancellate dalla vita pubblica, bandite dall’istruzione, dal lavoro e dall’espressione artistica e sottoposte a severe restrizioni che hanno spinto molte di loro alla disperazione.

 

Insicurezza nazionale: gli afghani espulsi chiedono un rapido ritorno in Pakistan

Dawn e-paper, 20 giugno 2025

Il Pakistan afferma di aver espulso più di un milione di afghani negli ultimi due anni, ma molti hanno tentato rapidamente di tornare, preferendo tentare la fortuna eludendo la legge piuttosto che lottare per l’esistenza in una patria che alcuni non avevano mai visto prima.

“Tornare lì significherebbe condannare a morte la mia famiglia”, ha affermato Hayatullah, un afghano di 46 anni deportato attraverso il valico di frontiera di Torkham nel Khyber Pakhtunkhwa all’inizio del 2024.

Da aprile, con la ripresa delle deportazioni , circa 200.000 afghani hanno oltrepassato i due principali valichi di frontiera provenienti dal Pakistan, entrando a bordo di camion carichi di beni imballati in fretta.

Ma hanno poche speranze di ricominciare in un Paese povero, dove alle ragazze è vietato andare a scuola dopo la scuola primaria.

Hayatullah, uno pseudonimo, è tornato in Pakistan un mese dopo essere stato deportato, viaggiando per circa 800 chilometri (500 miglia) a sud fino al valico di frontiera di Chaman, nel Belucistan, perché per lui la vita in Afghanistan “si era fermata”.

Ha pagato una tangente per attraversare la frontiera di Chaman, “come tutti i braccianti che regolarmente attraversano il confine per lavorare dall’altra parte”.

Sua moglie e i suoi tre figli, tra cui due figlie di 16 e 18 anni, a cui sarebbe stata negata l’istruzione in Afghanistan, erano riusciti a evitare l’arresto e la deportazione.

Sicurezza relativa
Hayatullah si trasferì con la famiglia a Peshawar. “Rispetto a Islamabad, qui la polizia non ci molesta così tanto”, ha detto.

Anche Samad Khan, un afghano di 38 anni che ha parlato usando uno pseudonimo, ha scelto di trasferire la sua famiglia a Peshawar.

Nato a Lahore, mise piede in Afghanistan per la prima volta il 22 aprile, giorno della sua deportazione.

“Non abbiamo parenti in Afghanistan e non c’è traccia di vita. Non c’è lavoro, non c’è reddito e i talebani sono estremamente severi”, ha detto.

All’inizio ha cercato lavoro in un paese in cui l’85 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, ma dopo alcune settimane ha trovato il modo di tornare in Pakistan.

“Ho pagato 50.000 rupie a un camionista afghano”, ha detto, usando la carta d’identità di uno dei suoi dipendenti pakistani per attraversare il confine.

Tornò di corsa a Lahore per caricare su un veicolo i suoi averi, la moglie e i due figli che aveva lasciato lì, e si trasferì a Peshawar.

“Ho avviato un’attività di vendita di scarpe di seconda mano con il supporto di un amico. La polizia qui non ci molesta come a Lahore e l’ambiente in generale è molto migliore”, ha dichiarato all’AFP .

Reinserimento ‘difficile’
È difficile dire quanti afghani siano tornati, poiché i dati sono scarsi.

Fonti governative sostengono che centinaia di migliaia di afghani siano già tornati e si siano stabiliti nel KP, cifre che non possono essere verificate in modo indipendente.

I difensori dei diritti dei migranti in Pakistan affermano di aver sentito parlare di tali rimpatri, ma insistono sul fatto che i numeri sono limitati.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha dichiarato all’AFP che “alcuni afghani rimpatriati hanno successivamente scelto di emigrare di nuovo in Pakistan”.

“Quando le persone tornano in aree con accesso limitato ai servizi di base e alle opportunità di sostentamento, la reintegrazione può essere difficile”, ha affermato Avand Azeez Agha, responsabile delle comunicazioni dell’agenzia delle Nazioni Unite a Kabul.

Potrebbero andare avanti ancora, ha detto, “mentre le persone cercano opportunità sostenibili”.

Sotto il regime dei talebani, gli afghani LGBTQ+ affermano che la violenza sessuale e lo stupro sono all’ordine del giorno

Zan Times, 18 giugno 2025

NOTA: il presente rapporto contiene termini e dettagli che potrebbero risultare scomodi per alcuni lettori.

In una casa scarsamente illuminata alla periferia di Kabul, una donna transgender di 24 anni che ha chiesto di essere identificata come Remo è stata trattenuta per 28 giorni. Durante quel periodo, racconta di essere stata torturata e ripetutamente violentata dai combattenti talebani. Ha ottenuto il rilascio solo dopo aver promesso di continuare ad avere rapporti sessuali con il comandante che aveva ordinato la sua detenzione.

“Gli ho detto: ‘Non devi tenermi qui. Verrò quando vuoi'”, racconta Remo al Zan Times in un’intervista telefonica. “Nel momento in cui mi ha lasciato andare, sono scappato.”

La sua storia è solo una delle oltre dodici testimonianze dirette raccolte da Zan Times durante un’indagine durata 10 mesi, iniziata nel 2024, sul trattamento riservato dai talebani alle persone LGBTQ+. I risultati rivelano un modello inquietante e diffuso di violenza sessuale, tra cui lo stupro di gruppo, perpetrato contro le persone LGBTQ+ in Afghanistan. Le nostre conclusioni rispecchiano il recente rapporto di Richard Bennett, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan, pubblicato l’11 giugno.

“Le donne transgender sono particolarmente a rischio di violenza, tra cui stupro e violenza sessuale, durante l’arresto e la detenzione”, afferma il rapporto delle Nazioni Unite, aggiungendo: “Denunciare tali abusi è impensabile, poiché farlo esporrebbe la vittima, e potenzialmente le sue famiglie, a ulteriori violenze, vittimizzazione ed emarginazione sociale”.

Violentata in una “stanza degli interrogatori”

Nel dicembre 2021, i soldati talebani hanno fatto irruzione nell’appartamento di Ariana e del suo compagno a Kabul. Erano nudi in camera da letto quando i soldati talebani hanno iniziato a colpirli con calci di fucile e pugni. “Urlavano che eravamo sodomizzate e che meritavamo di essere uccise”, racconta Ariana, 25 anni, una donna transgender.

Le due sono state bendate e portate al distretto di polizia 8. Una settimana dopo, sono state trasferite nella prigione di Pol-e-Charkhi, dove Ariana afferma di essere stata ripetutamente violentata.

“Ogni due o tre notti mi portavano nella stanza degli interrogatori. Lì mi violentavano. A volte, da tre a quattro uomini”, racconta. “Filmavano tutto e lo mandavano ai loro amici, invitandoli a unirsi a loro.”

Questo schema di abusi rispecchia la testimonianza di Jannat Gul, una donna transgender detenuta per otto mesi dai talebani nella provincia di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Secondo un rapporto congiunto pubblicato ad aprile da Rainbow Afghanistan, ILGA World e ILGA Asia, la donna è stata picchiata, sottoposta a scosse elettriche e stuprata di gruppo più volte a settimana.

“Mi hanno violentata con la forza. Ricordo che una notte, quattro di loro si sono alternati a violentarmi”, cita Gul nel rapporto.

Secondo il rapporto, i funzionari talebani hanno utilizzato strutture di detenzione formali e informali, comprese abitazioni private, per sottoporre persone LGBTQ+ a stupri, torture e degradazioni. In particolare, le donne transgender sono trattate come quelle che il rapporto definisce “schiave sessuali” e diverse sono scomparse dopo aver rifiutato richieste sessuali.

Sarwan, una donna transgender di 27 anni, racconta a Zan Times come i talebani l’abbiano portata al Distretto di Polizia 5 dopo un raid in casa sua. “Non c’era nessuna telecamera nella stanza. C’erano un bagno e un’altra stanza dove mi avrebbero portata per stuprarla, ma dicevano che era per l’interrogatorio”, spiega Sarwan. Dopo due notti di detenzione, la sua famiglia è riuscita a liberarla con l’aiuto degli anziani del posto.

Sarwan, Ariana e alcuni degli altri sopravvissuti intervistati da Zan Times affermano di essere stati pressati affinché rivelassero i nomi e gli indirizzi dei loro amici LGBTQ in cambio della loro libertà.

I miei fratelli hanno deciso di uccidermi

I talebani non sono gli unici autori di violenze anti-LGBTQ+ in Afghanistan. “Anche le persone LGBTQ+ subiscono discriminazioni e violenze all’interno delle loro famiglie e comunità”, afferma il rapporto di Bennett.

Darya, una persona transgender di Kabul, è stata arrestata per aver indossato pantaloni nel giugno 2024. “Un soldato talebano mi ha afferrato il telefono e, quando ho opposto resistenza, me l’ha rotto”, racconta. L’hanno picchiata selvaggiamente e portata al Distretto di Polizia 2, dove l’hanno gettata in una stanza buia senza bagni né acqua corrente. “Non mi hanno dato da mangiare per i primi due giorni e ho dovuto vivere e fare pipì nella stessa stanza”. È rimasta lì per due settimane. “Una notte, dopo mezzanotte, tre persone sono entrate nella mia stanza e hanno iniziato a violentarmi a turno”, racconta Darya, ventenne, al Zan Times in un’intervista telefonica.

Quando sua madre venne a sapere del suo arresto, convinse gli anziani della comunità a implorare i talebani per il suo rilascio. Il suo calvario non era finito. “Dopo il mio rilascio, i miei fratelli mi hanno incatenata nella baracca fuori e mi hanno quasi picchiata a morte. Dicevano che avevo portato vergogna alla famiglia e distrutto il buon nome di mio padre. I miei fratelli decisero di uccidermi”, racconta. È sopravvissuta perché sua madre l’ha aiutata a fuggire.

Ciò che rende la situazione degli afghani LGBTQ+ come Darya ancora più difficile è che, oltre a non vedere riconosciuti i loro diritti, i talebani hanno eliminato ogni rifugio sicuro o sistema di supporto. Peggio ancora, vengono perseguitati pubblicamente.

Da quando hanno ripreso il potere, i talebani hanno approvato leggi che criminalizzano le relazioni omosessuali e autorizzano i funzionari ad agire impunemente. Nell’agosto 2024, il regime ha approvato una legge che includeva un articolo che si riferisce alle identità LGBTQ+ come “atti immorali specifici” – ” sahaq ” per le donne e ” lawatat ” per gli uomini – punibili con l’esecuzione, la lapidazione o il crollo di un muro sulla vittima.

“Le relazioni tra persone dello stesso sesso sono criminalizzate e soggette a gravi punizioni fisiche, tra cui la fustigazione in pubblico”, afferma il rapporto del relatore speciale delle Nazioni Unite Richard Bennett.

Secondo un rapporto della CNN che cita dati di Afghan Witness, tra novembre 2022 e novembre 2024 sono state documentate 43 fustigazioni pubbliche, in cui tra le accuse figurava anche quella di “sodomia”. Questi episodi hanno coinvolto 360 individui: 192 uomini, 40 donne e 128 il cui sesso o genere non è stato identificato.

Lottare per sopravvivere

La violenza contro la comunità LGBTQ+ non assume una forma specifica. Tahera, una donna trans di Herat, racconta di essere stata licenziata perché ha un aspetto diverso e “comportamenti femminili”. La perdita del lavoro è stata devastante per la capofamiglia di una famiglia di cinque persone. “La mia famiglia ignora volontariamente che sono trans; vogliono che lavori come un ragazzo”, racconta a Zan Times.

Al giorno d’oggi, gli unici lavori che riesce a trovare riguardano la prostituzione. Trova i suoi clienti su Facebook. La sicurezza è sempre un problema. Qualche settimana fa, ha accettato di incontrare un uomo che le aveva scritto un messaggio su Facebook, scoprendo poi che il suo cliente era un talebano. “Ero spaventata quando l’ho visto, ma lui mi ha detto: ‘Non preoccuparti, sembro un talebano, ma non lo sono'”, racconta Tahera, 25 anni, in un messaggio vocale WhatsApp allo Zan Times. Più tardi, a casa sua, ha mostrato le sue foto mentre era seduto nell’ufficio dell’intelligence. “Mi ha detto: ‘Non ti pagherò, ma devi venire da me ogni volta che te lo chiederò'”, racconta Tahera.

Gli esperti, tra cui il relatore speciale delle Nazioni Unite, affermano che questi abusi potrebbero costituire crimini contro l’umanità. Citando testimonianze e modelli di abuso, il rapporto Rainbow Afghanistan definisce la condotta dei talebani “sistematica, istituzionalizzata e deliberatamente presa di mira”.

“Mentre altri in Afghanistan lottano per i propri diritti”, afferma Tahera, “noi lottiamo semplicemente per sopravvivere”.

I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati e degli autori.