Skip to main content

Tag: Diritti delle donne

All’ombra della guerra e della repressione: un messaggio dalla prigione di Qarchak

Sillingers Collective, 2 luglio 2025

Lettera aperta di Golrokh Iraee, Reihaneh Ansari e Verisheh Moradi dalla prigione di Qarchak

Non consideriamo la nostra sofferenza di oggi più grande di quella che è stata imposta al popolo iraniano. Lunedì 23 giugno, mentre oltre tremila persone erano rinchiuse dietro le porte chiuse in varie sezioni della prigione di Evin, i razzi israeliani hanno colpito il complesso carcerario e i suoi edifici. Oltre alle vittime, non si hanno ancora notizie di alcuni detenuti che erano rinchiusi in celle di isolamento.

Martedì mattina, le donne di Evin sono state trasferite nelle carceri di Qarchak e Varamin, sottoposte a severe restrizioni di sicurezza, e circa tremila uomini di Evin sono stati trasferiti nella prigione di Teheran Grande. Sebbene ci troviamo in condizioni peggiori rispetto a prima del nostro trasferimento, dichiariamo, insieme ai nostri compagni e fratelli della prigione di Teheran Grande che sono stati attaccati e sottoposti a pressioni contemporaneamente a noi, che la situazione attuale non fermerà la nostra lotta. Perché sappiamo che questo percorso non è mai stato privo di difficoltà.

Dalla Rivoluzione Costituzionale a oggi, nonostante le numerose guerre, i colpi di stato contro il popolo, il massacro di persone indifese e di dissidenti politici da parte di regimi autoritari nel corso dell’ultimo secolo, e i molti alti e bassi di cui la storia è testimone, il cammino della lotta continua. Oggi siamo nella prigione di Qarchak, ad affrontare le condizioni che più di mille donne con varie accuse hanno sopportato e vissuto per anni. Donne ai margini, che recano sofferenze impresse nel profondo dei loro occhi, testimonianze dei cicli di ingiustizia che ci uniscono nella lotta per spezzarli. Sono le naufraghe ai margini della società, che non trovano posto in nessuna dimensione della vita, non sono presenti nei notiziari o nei media e non sono menzionate nei rapporti sui diritti umani. I loro nomi, le loro storie e il loro dolore rimangono invisibili e inascoltati.

Ciò che ci ha stupite negli ultimi giorni è la verità della vita di queste donne. Donne piegate su letti corti grandi come tombe, desiderose delle più elementari condizioni di vita e di igiene. Tra muri lerci e incrostati che portano il segno di anni di privazioni, molte di loro, senza un solo rial a disposizione, si offrono ai loro compagni di cella solo per i soldi delle sigarette. Per sfruttamento. Per lo sfruttamento sessuale. E si sottopongono a ogni forma di umiliazione. Per riempire lo stomaco. E per ottenere il minimo di ciò che desideravano. Lavorano nella sezione di lavoro del carcere e si prodigano quotidianamente senza sosta (dal trasporto di cibo e rifiuti alla pulizia delle aree di riposo e ai contatti con le guardie carcerarie), senza ricevere alcun salario, solo per qualche minuto in più di telefonate.

Nell’officina del carcere, sono impegnate a cucire e cucire per ottenere un pacchetto di sigarette alla fine della giornata. Queste sono le donne da cui noi, come prigioniere politiche, siamo solitamente separate, a meno che le autorità non ci mettano deliberatamente insieme come forma di punizione o esilio. E ora, anche se siamo state sistemate nella prigione di Qarchak separatamente da loro, le nostre disgrazie non sono separate dalle loro.
Accanto alle instancabili lotte dei popoli contro la dittatura, con obiettivi precisi e una linea d’azione decisa, continueremo a percorrere il cammino della resistenza fino al rovesciamento e all’eliminazione di ogni forma di tirannia. E al fianco di queste vittime dimenticate che sono state escluse dal flusso della vita, rilanciamo la nostra resistenza con maggiore determinazione di prima. E a coloro che alzano le loro voci per noi e per le nostre difficili condizioni, diciamo con voce ancora più forte: ciò che ci è stato imposto oggi non è più grande degli anni di sofferenza che queste donne hanno patito. Quindi impegnatevi per migliorare le condizioni di “noi”, a prescindere dalle accuse che ci vengono rivolte, e per migliorare le condizioni di “noi” che siamo state trasferite nelle carceri di Qarchak e della Grande Teheran, a prescindere dal nostro sesso.

E sappiate che coloro che sono scomparsi sotto le macerie dell’attacco e coloro che sono stati scacciati dal circolo spietato della vita hanno bisogno di aiuto più di noi.
Che noi si possa essere un anello della catena della lotta del popolo iraniano per l’uguaglianza e la libertà, un popolo che ha sopportato oltre un secolo di tirannia e sfruttamento e che continua ad andare avanti.

[Trad. a cur di Cisda]

Afghanistan, la crisi è sia dentro che fuori dei confini. E i Paesi vicini espellono i profughi

la Repubblica Mondo Solidale, 4 luglio 2025

Rientrare in Afghanistan vuol dire, soprattutto per le ragazze, affrontare l’ossessione liberticida dei talebani. L’84% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà

ROMA – Si avvicina il quarto anniversario del ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, quando, il 15 agosto 2021 issarono la loro bandiera sul palazzo presidenziale di Kabul, dopo l’uscita frettolosa dei contingenti Nato a guida statunitense, di cui era parte anche l’Italia. Da allora, la condizione di vita degli afghani non accenna migliorare né per i residenti, né per i profughi nei Paesi vicini. E’ su questi ultimi che in settimana si sono concentrati l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) e la Federazione di Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale (Ifrc), che hanno lanciato l’allarme sui ritorni forzati da Pakistan e Iran, principali paesi di destinazione per i rifugiati.

Dal Pakistan rientrati 1 milione di rifugiati. Dal Pakistan secondo l’Ifrc, dal 2023 sono rientrati un milione di afghani nel quadro della politica promossa da Islamabad per espellere tutti i profughi afghani residenti irregolarmente. Una dinamica che si è intensificata con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, a gennaio scorso.Quanto all’Iran, primo paese al mondo per popolazione rifugiata secondo dati Unhcr (3,4 milioni), a marzo ha varato una legge che stabilisce l’interruzione al rinnovo del permesso di soggiorno per gli afghani nel Paese. Ancora l’Ifrc avverte che 800mila afghani hanno attraversato il valico di frontiera di Islam Qala, nell’Afghanistan occidentale, di ritorno dall’Iran da gennaio 2025. Di questi, secondo l’Agenzia Onu, 640mila sono rientrati solo nel mese di giugno.

Le persone arrivano esauste. Gli organismi umanitari avvertono che le persone spesso arrivano esauste e senza cibo, acqua o riparo adeguati in un periodo dell’anno segnato dall’aumento delle temperature, aumentando anche la pressione su comunità già in affanno.Lanciano quindi un appello alla comunità internazionale a intervenire a sostegno delle popolazioni.In questo quadro, secondo gli esperti si fanno decisamente sentire gli effetti dei tagli agli aiuti umanitari stabiliti da diversi governi, a partire dagli Stati Uniti.

Da un giorno all’altro sospese mille ostetriche. “Da un giorno all’altro abbiamo dovuto tagliare mille ostetriche e questo significa che delle donne probabilmente moriranno o sono morte partorendo, che i neonati non sopravvivono e che c’è un aumento nella violenza di genere” ha riferito alla Dire Mariarosa Cutillo di Unfpa, il Fondo Onu per la popolazione. Arafat Jamal, rappresentante dell’Unhcr a Kabul, avverte: “Le famiglie afghane vengono sradicate ancora una volta, arrivano con pochi effetti personali, esauste, affamate, spaventate da ciò che le aspetta in un Paese in cui molti di loro non hanno mai messo piede.

La paura delle ragazze per la libertà di movimento. Le donne e le ragazze sono particolarmente preoccupate, perché temono le restrizioni alla libertà di movimento e ai diritti fondamentali come l’istruzione e l’occupazione”.Un quadro confermato dalla famiglia Shukohman, residente in Iran, il cui visto scade a metà agosto: un termine che non pone fine solo alla residenza ma riduce quasi a zero le possibilità di curare la piccola Ayeda, due anni, affetta da Colestasi intraepatica progressiva familiare (Pfic): è una malattia genetica che colpisce il fegato, causa prurito invalidante, ittero e, senza cure, può causare cirrosi epatica e quindi morte.”Mia figlia soffre moltissimo” racconta la mamma di Ayeda all’Agenzia Dire, “piange per il dolore e con gli occhi mi chiede aiuto, ma io non posso fare niente per lei”.

La raccolta di firme. Gli organismi ieri hanno anche lanciato una raccolta firme sulla piattaforma Change.org, evidenziando che in Italia “esistono centri di riferimento con competenze consolidate sulle malattie epatiche rare, in grado di offrire ad Ayeda una possibilità”. L’accoglienza nel nostro Paese “farà la differenza tra la vita e la morte”, concludono.La mamma di Ayeda aggiunge: “Non avremmo mai voluto lasciare l’Afghanistan, ma abbiamo dovuto. Mi mancano profondamente i miei genitori, i miei amici, le valli e le montagne del nostro villaggio. Ma ora rientrare è impossibile”.

L’84% della popolazione sotto la soglia di povertà. In Afghanistan la situazione è drammatica. L’Onu avverte che l’84% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Emergency in settimana ha diffuso il rapporto ‘Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan’, dedicato proprio alle difficoltà che la popolazione incontra ad accedere alla sanità, sia per i servizi scarsi o difficili da raggiungere, sia per i costi in aumento.

Tre afghani su 5 non possono curarsi. Dalle interviste raccolte dai ricercatori è emerso che 3 afghani su 5 non possono pagare le cure e per ottenerle spesso si indebitano chiedendo denaro in prestito o vendendo i propri beni.Un afghano su quattro invece deve posticipare o annullare un intervento chirurgico perché non può pagarlo, mentre uno su cinque ha mancato un appuntamento di controllo. Emergency quindi avverte che questa situazione porta a peggioramenti della salute, spesso fatali: oltre il 33% degli intervistati ha riportato una disabilità o un decesso dovuti al mancato accesso alle cure.

Il velo ci riguarda tutte

 

Non solo in Iran, o in Afghanistan… il velo ci riguarda tutte. Una riflessione di Giuliana Sgrena

Giuliana Sgrena,  Facebook, 4 luglio 2025

Nei paesi musulmani le donne lottano, rischiano la vita per liberarsi dal velo, in occidente la sinistra e persino alcune femministe difendono l’uso del velo. Perché? Per ignoranza o per relativismo culturale, per paura di essere confusi con la destra? La destra è contro il velo perché difende la cristianità dell’Italia e dell’Europa, io ho sempre sostenuto le donne che si ribellano al velo, anche in Italia, perché i diritti delle donne sono diritti universali.

A proposito delle leggi antivelo – legittime in un paese laico come la Francia, meno in uno stato non laico come l’Italia – non si entra nel merito della questione anche perché, da sempre, bandiera della Lega. A tale proposito, leggo sulla Repubblica di oggi (4 luglio 2025) una dichiarazione di Marco Grimaldi (deputato di Sinistra italiana-Avs) che sostiene: «Le ordinanze anti-velo…. mirano a limitare la libertà di scelta e di espressione delle donne che a parole vogliono difendere: vietare il velo significherebbe negare la loro identità e cultura».

Di quale identità e cultura parla Grimaldi? Proprio in nome della identità della donna musulmana Khomeini ha imposto il velo in Iran dopo il suo arrivo al potere. Nemmeno il Corano prevede l’uso del velo per le donne, l’unica identità rappresentata dal velo è quella ideologica di appartenenza a uno stato islamico. Una politica conservator-religiosa che rappresenta la destra nei paesi musulmani. E che in occidente impone alle donne l’uso del ciador, ma perché il dovere di manifestare pubblicamente l’appartenenza a un movimento attraverso il comportamento – compreso l’uso del velo – tocca solo alle donne? E quale cultura? Nei paesi musulmani le culture sono diverse e non sono certo omologabili con il velo, che non appartiene nemmeno alla tradizione, perché nella tradizione ogni paese aveva usi e costumi diversi.

Peraltro, anche in Italia le nostre bisnonne portavano il velo, ma noi no. In Afghanistan il re Amanatullah aveva abolito il velo nel 1926, forse possiamo sostenere che il burqa imposto dai taleban sono un segno di identità?

Difendendo l’uso del velo – e tutte le costrizioni che l’accompagnano – condanniamo le donne che osano ribellarsi alle imposizioni di genitori, mariti, fratelli. Le denunce aumentano ma non garantiamo nessuna protezione a queste donne che rischiano di fare la fine di Saman, Hina, Sana e altre di cui non conosciamo nemmeno il nome.

Pensavo che la rivolta delle donne iraniane avesse fatto comprendere anche in occidente – come in Iran a donne e uomini, giovani e vecchi di tutte le etnie – che il velo è il simbolo dell’oppressione della donna. E per mostrare la nostra solidarietà non basta tagliare una ciocca di capelli. E ora quelle donne che rischiano la vita e il carcere per le loro scelte sono ancor più isolate dopo l’attacco di Israele e Usa all’Iran. E che nessuno osi dire che con i bombardamenti si distrugge il potere teocratico degli ayatollah, al contrario il regime in difficoltà si è ricompattato dopo i bombardamenti.

 

Nei paesi musulmani le donne lottano, rischiano la vita per liberarsi dal velo, in occidente la sinistra e persino alcune femministe difendono l’uso del velo. Perché? Per ignoranza o per relativismo culturale, per paura di essere confusi con la destra? La destra è contro il velo perché difende la cristianità dell’Italia e dell’Europa, io ho sempre sostenuto le donne che si ribellano al velo, anche in Italia, perché i diritti delle donne sono diritti universali.
A proposito delle leggi antivelo – legittime in un paese laico come la Francia, meno in uno stato non laico come l’Italia – non si entra nel merito della questione anche perché, da sempre, bandiera della Lega. A tale proposito, leggo sulla Repubblica di oggi (4 luglio 2025) una dichiarazione di Marco Grimaldi (deputato di Sinistra italiana-Avs) che sostiene: «Le ordinanze anti-velo…. mirano a limitare la libertà di scelta e di espressione delle donne che a parole vogliono difendere: vietare il velo significherebbe negare la loro identità e cultura». Di quale identità e cultura parla Grimaldi? Proprio in nome della identità della donna musulmana Khomeini ha imposto il velo in Iran dopo il suo arrivo al potere. Nemmeno il Corano prevede l’uso del velo per le donne, l’unica identità rappresentata dal velo è quella ideologica di appartenenza a uno stato islamico. Una politica conservator-religiosa che rappresenta la destra nei paesi musulmani. E che in occidente impone alle donne l’uso del ciador, ma perché il dovere di manifestare pubblicamente l’appartenenza a un movimento attraverso il comportamento – compreso l’uso del velo – tocca solo alle donne? E quale cultura? Nei paesi musulmani le culture sono diverse e non sono certo omologabili con il velo, che non appartiene nemmeno alla tradizione, perché nella tradizione ogni paese aveva usi e costumi diversi. Peraltro, anche in Italia le nostre bisnonne portavano il velo, ma noi no. In Afghanistan il re Amanatullah aveva abolito il velo nel 1926, forse possiamo sostenere che il burqa imposto dai taleban sono un segno di identità?
Difendendo l’uso del velo – e tutte le costrizioni che l’accompagnano – condanniamo le donne che osano ribellarsi alle imposizioni di genitori, mariti, fratelli. Le denunce aumentano ma non garantiamo nessuna protezione a queste donne che rischiano di fare la fine di Saman, Hina, Sana e altre di cui non conosciamo nemmeno il nome.
Pensavo che la rivolta delle donne iraniane avesse fatto comprendere anche in occidente – come in Iran a donne e uomini, giovani e vecchi di tutte le etnie – che il velo è il simbolo dell’oppressione della donna. E per mostrare la nostra solidarietà non basta tagliare una ciocca di capelli. E ora quelle donne che rischiano la vita e il carcere per le loro scelte sono ancor più isolate dopo l’attacco di Israele e Usa all’Iran. E che nessuno osi dire che con i bombardamenti si distrugge il potere teocratico degli ayatollah, al contrario il regime in difficoltà si è ricompattato dopo i bombardamenti.

Padri trasformatisi in guardie talebane della propria famiglia

Nelle loro case, gli uomini sono diventati di fatto i garanti e gli esecutori consapevoli delle leggi talebane sulla morale contro la libertà delle donne

Zahra Joya, Annie Kelly, Rukhshana Media, 9 giugno 2025

Essere padre di due figlie nell’Afghanistan dei talebani è diventato un incubo quotidiano per Amir. Ora, dice, è più una guardia carceraria che un genitore amorevole, un esecutore riluttante e non retribuito di un sistema di apartheid di genere che disprezza ma che si sente in dovere di infliggere alle sue due figlie adolescenti per proteggerle dalla furia e dalle rappresaglie dei talebani.

Solo pochi anni fa, le figlie di Amir avevano una vita e un futuro, andavano a scuola, andavano a trovare gli amici e si spostavano nella comunità. Ora, dice, preferirebbe che le sue figlie non uscissero mai di casa. Lui, come molti altri padri in Afghanistan, ha sentito storie su cosa può succedere alle giovani donne che si trovano nel mirino della “polizia morale” dei talebani.

Nei rari casi in cui le loro suppliche e implorazioni per avere il permesso di uscire nel mondo diventano insostenibili per lui, si assicura che vadano accompagnate da un membro maschio della famiglia e che siano completamente coperte.

“Insisto che indossino l’hijab e dico loro che non possono ridere fuori casa o al mercato”, dice. “La ‘polizia morale’ è molto severa e se non rispettano le regole, potrebbero essere arrestate”.

Padri trasformati in guardiani

L’estate scorsa, a tre anni dalla loro presa del potere nell’agosto 2021, la portata dell’ambizione dei talebani di cancellare le donne dalla vita pubblica è stata resa manifesta dalla presentazione di un’ampia serie di leggi su “vizi e virtù”.

In base alle nuove regole, alle donne veniva chiesto di coprirsi completamente quando erano fuori casa, di non far sentire la propria voce mentre parlavano ad alta voce, di apparire in pubblico solo con un accompagnatore maschio e di non guardare mai un uomo che non fosse un loro parente diretto.

Quando queste regole furono annunciate, non era chiaro come un numero relativamente piccolo di “polizia morale” impiegata dai talebani avrebbe potuto farle rispettare e attuarle.

Tuttavia, nei mesi successivi, sono stati i padri, i fratelli e i mariti a trasformarsi, di fatto, in guardie non retribuite che hanno imposto alle donne e alle ragazze afghane il regime oppressivo dei talebani.

Non sono spinti solo dalla paura di ciò che potrebbe accadere alle donne se arrestate dalle forze dell’ordine talebane. Secondo le nuove leggi dei talebani, se una donna viene ritenuta colpevole di aver violato le regole morali, è il suo parente maschio, non lei, a essere punito e a dover pagare multe o persino il carcere.

Il “”Guardian”” e “”Rukhshana Media”” hanno parlato con più di una decina di uomini e giovani donne in tutto l’Afghanistan, di come le leggi morali dei talebani stessero cambiando il loro atteggiamento e il comportamento nei confronti delle donne nelle loro famiglie.

Tra adattamento e frustrazione

“Gli uomini sono diventati soldati non pagati dei talebani”, afferma Jawid Hakimi, della provincia di Bamiyan . “Siamo costretti, per il bene del nostro onore, della nostra reputazione e del nostro status sociale, a far rispettare gli ordini dei talebani alle donne delle nostre famiglie. Giorno dopo giorno, la società si sta adattando alle regole dei talebani e le loro restrizioni [sulle donne] stanno gradualmente rimodellando la società secondo la loro visione – e ci sentiamo in dovere di allineare le nostre famiglie alle loro aspettative. È un’atmosfera soffocante”.

Parwiz, un giovane proveniente da una provincia nel nord-est dell’Afghanistan, racconta che quando sua sorella è stata arrestata dalla “polizia morale” perché non indossava l’hijab, era terrorizzato per la sua sicurezza e determinato a fare in modo che ciò non accadesse mai più.

“Sono stato costretto ad andare alla stazione di polizia, dove sono stato insultato e mi è stato detto che dovevo fare tutto quello che i talebani dicevano”, racconta. “Quando sono tornato a casa, ho sfogato tutta la mia rabbia e frustrazione su mia madre e mia sorella“.

Altri uomini hanno raccontato di come il rischio della vergogna sociale se fossero stati puniti per un comportamento “immorale” si stesse trasformando in repressione e violenza nei confronti delle loro familiari.

Freshta, una giovane donna della provincia di Badakhshan, racconta di essere picchiata dal marito quando esce di casa, anche solo per andare a comprare del cibo al mercato. “Ero andata all’angolo della strada a comprare la verdura e indossavo un lungo hijab nero, ma non il burqa. Quando sono tornata, mi ha colpita in faccia e mi ha picchiata.

Ha detto: “Vuoi che infrangiamo le regole? E se uno dei miei colleghi di lavoro ti vedesse?”. Da mesi ormai non esco quasi mai di casa. Dice che se esco devo indossare il burqa.”

“Non possiamo rischiare il disonore”

Rahib, 22 anni, afferma che non può rischiare che la sua famiglia affronti il ​​”disonore” se sua sorella maggiore Maryam esce e la gente pensa che sia vestita in modo immodesto.

“Il nostro orgoglio non lo permette. Abbiamo vergogna, abbiamo onore. Non possiamo sopportare il pensiero che, Dio non voglia, si possa dire qualcosa su di lei in città o al mercato”, dice.

Le giovani donne hanno parlato del dolore delle loro famiglie trasformate in esecutori di un codice morale imposto loro da un’ideologia estremista che le aveva già private del diritto all’istruzione, al lavoro e all’autonomia.

“Il comportamento di mio padre è cambiato dopo l’arrivo dei talebani. Prima non gli importava molto dei nostri vestiti [delle sue figlie]”, racconta Masha, 25 anni. “Prima non ci diceva mai di non indossare qualcosa o di evitare certi luoghi, ma non appena sono arrivati ​​i talebani è cambiato. Ci ha detto: ‘Se mi considerate vostro padre e avete a cuore la dignità della vostra famiglia, indosserete l’hijab. Non truccatevi, nemmeno una ciocca di capelli deve essere visibile, non indossate scarpe con i tacchi alti e non uscite così spesso. Se avete bisogno di qualcosa, ditelo a me o ai vostri fratelli così possiamo procurarvelo al mercato'”, racconta.

“Ora, ogni volta che ho il ciclo, devo rinunciare a assorbenti e medicine. Resto semplicemente in casa.”

Richard Bennett, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, afferma che, pur avendo documentato “atti di resistenza” da parte di uomini afghani contro la repressione istituzionalizzata delle donne da parte dei talebani, “all’interno delle famiglie, i membri maschili stanno imponendo sempre più restrizioni alle loro parenti femmine, e sempre più donne riferiscono di aver bisogno del permesso per uscire di casa. Sono sempre più numerose anche le segnalazioni di membri femminili che garantiscono il rispetto delle regole”.

“La presenza di funzionari di fatto e presunti informatori nelle comunità, la minaccia di una sorveglianza costante e l’imprevedibilità dell’applicazione della legge contribuiscono ulteriormente al senso di insicurezza, aumentando lo stress psicologico e l’ansia, soprattutto tra le giovani donne”, afferma.

*Pubblicato in collaborazione con “The Guardian”.

Afghanistan: lo sport che non c’è, ma solo per le donne

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione del diritto allo sport delle donne afghane

Carla Gagliardini, Bio Correndo, 1 luglio 2025

Se sentiamo la parola Afghanistan a cosa pensiamo immediatamente? Le risposte possono essere varie: è uno stato; è uno stato governato dai talebani; le donne vivono in una condizione di segregazione totale. Certamente ci saranno altre risposte ma queste saranno prevedibilmente quelle più frequenti.
Da qui possiamo partire per cercare di dare una descrizione sintetica dell’Afghanistan che ci aiuti a comprendere le difficoltà che le donne incontrano tutti i giorni, anche nell’esercitare il diritto a praticare lo sport. Il diritto allo sport è riconosciuto da diversi trattati internazionali ma è evidente che non ci voglia un documento, per quanto sia il frutto di una negoziazione ad alti livelli, per dare a un diritto umano il suo riconoscimento perché questo, proprio per la sua natura e qualità, è del tutto inscindibile dall’essere umano.

L’Afghanistan, i talebani e le donne

Iniziamo a collocare geograficamente l’Afghanistan che si trova nell’Asia meridionale e confina con il Tagikistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Iran, il Pakistan e la Cina.

Poi proviamo a descrivere sinteticamente chi siano i talebani, cioè coloro che governano l’Afghanistan. Secondo l’enciclopedia Treccani online i talebani sono un “gruppo di fondamentalisti islamici formatisi nelle scuole coraniche afghane e pakistane (dal pashtō ṭālib «studente»), impegnato nella guerriglia antisovietica in Afghanistan; tra il 1995 e il 1996 sono emersi come vincitori della guerra civile afgana successiva al ritiro dell’URSS e, conquistato il potere, hanno imposto un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica”[1].

Infine tentiamo di dire brevemente perché le donne vivono in una condizione di segregazione totale e lo facciamo con le parole di Minky Worden, direttrice del Global initiatives di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa che da decenni monitora la violazione dei diritti umani nel mondo. Lo scorso 3 febbraio la Worden ha scritto nella lettera indirizzata a Jay Shah, presidente dell’International cricket Committee (ICC), che “dalla riconquista del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una lunga e crescente lista di regole e politiche che proibiscono alle donne e alle ragazze di esercitare i loro diritti fondamentali, includendo la libertà di espressione e di movimento, il diritto ad accedere a molti impieghi e il diritto all’istruzione oltre il sesto grado (scuole elementari, ndr). Ciò ha praticamente un impatto su tutti i loro diritti, incluso quello alla vita, ai mezzi di sostentamento, ad avere un luogo sicuro dove vivere, alla cura della salute, al cibo e all’acqua”.

Sport: “non necessario” per le donne

Poche settimane dopo il ritorno dei talebani alla guida dell’Afghanistan, avvenuto a metà agosto del 2021, il vice-capo della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, si diceva dubbioso sul futuro dello sport femminile nel paese, ritenendo la pratica sportiva non necessaria per le donne; parlando in particolare del cricket diceva che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. E’ l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”[2].

Intere squadre femminili hanno lasciato l’Afghanistan dall’agosto del 2021 con la speranza di poter continuare non solo a fare sport nei paesi di accoglienza ma anche di rappresentare la loro terra sotto la bandiera della nazionale afghana in esilio. Un messaggio politico che ovviamente non ha come unico destinatario il governo afghano poiché si chiede alle federazioni internazionali di non voltare lo sguardo.

La nazionale femminile di cricket che ha lasciato l’Afghanistan grazie al supporto di tre donne, Mel Jones (precedente giocatrice della nazionale australiana di cricket), Emma Staples e Catherine Ordway in collaborazione con il governo australiano, ha ripetutamente invitato l’ICC a intervenire per consentire alla squadra in esilio di giocare. Solo recentemente però è arrivata una risposta, probabilmente solo parziale, alle aspettative che le giovani avevano. L’ICC ha dichiarato di aver stanziato dei fondi per consentire alle atlete di proseguire nella pratica sportiva ma nulla ha fatto rispetto alla sanzione che dovrebbe raggiungere l’Afghanistan cricket board (ACB). Secondo le regole internazionali del cricket ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale deve avere sia la squadra nazionale maschile sia quella femminile, per evidentemente tutelare e promuovere i diritti di tutti e di tutte a praticare questo sport. Dall’ingresso dei talebani al governo l’ACB non ha più la squadra femminile e questo dovrebbe essere sufficiente per cancellare dalle competizioni afghane quella maschile. Eppure …

Diritto negato di fatto anche dalla precedente Repubblica

Da un colloquio avuto con Sapeda, attivista afghana di cui per ragioni di sicurezza non è possibile rivelare il vero nome, è possibile disegnare il quadro afghano che riproduce la situazione dello sport femminile. Sostanzialmente si tratterebbe di una tela con uno sfondo dai colori cupi rappresentante l’oppressione di un governo che vuole dominare completamente la donna, oscurandola. Tuttavia da quelle tenebre si vedrebbero raggi di luce, quelli della resistenza di molte donne che, sfidando ogni sorta di pericolo e le conseguenze più spaventose, esercitano i loro diritti in modo clandestino, incluso quello di praticare lo sport.

Sapeda racconta che durante i vent’anni di occupazione dell’Afghanistan da parte della Coalizione guidata dagli Stati Uniti lo sport poteva essere praticato dalle donne nelle grandi città, nei villaggi la situazione era rimasta invece molto arretrata. Nei luoghi pubblici, come le palestre, l’accesso era suddiviso in fasce orarie per i due sessi, per impedire che uomini e donne potessero mescolarsi.

Alle donne e alle ragazze piaceva fare sport perché era un momento di socializzazione ma era anche un modo per riprendere la linea, soprattutto dopo tante gravidanze, e avere cura della propria salute.

Hambastagi, Partito afghano della solidarietà e unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan[3], aveva aperto una palestra a Kabul dove si tenevano corsi di karate, di autodifesa e di ginnastica.

Le più giovani avevano un vivo interesse verso lo sport perché per loro poteva rappresentare una possibilità professionale. Infatti durante il periodo dell’occupazione si erano formate le squadre nazionali femminili in alcune discipline sportive e le atlete che ne facevano parte hanno avuto la possibilità di partecipare ai Giochi olimpici e a altre competizioni internazionali. Tuttavia non è stato sempre facile perché il governo afghano ha tentato molte volte di ostacolare l’invio delle nazionali femminili a tornei e gare fuori dai confini nazionali, sollevando ragioni di sicurezza derivanti dalle minacce dei talebani.

Sapeda dice che il governo di quel ventennio non proibiva la pratica sportiva alle ragazze e alle donne solo perché molte attività venivano gestite dalle Ong e ciò fruttava molti introiti che facevano gola.

Il diritto allo sport delle donne, unitamente a molti altri, non sono dunque mai stati al centro dell’attenzione dei governi talebani passati e presenti ma nemmeno di quelli che si sono insediati durante l’occupazione, la quale con la sua propaganda ha cercato di convincere il mondo che la guerra in Afghanistan era giusta, anche perché avrebbe liberato la donna. Non solo l’intento propagandistico non è riuscito, avendo continuato a lasciare oltre l’80% delle donne nella stessa condizione pre-occupazione, ma ha svelato tutta la sua inconsistenza quando nel momento del ritiro delle forze di occupazione le donne con i loro corpi, i loro sogni e la loro voglia di libertà sono state gettate nelle mani di estremisti fanatici che concepiscono in senso padronale il rapporto tra i due sessi.

Sport: diritto indiscutibile anche per le donne

Il Cisda, un’associazione italiana che dal 1999 aiuta e sostiene le donne afghane che vivono nel loro paese, ha ancora in corso la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”[4] che punta a far riconoscere nei trattati internazionali l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e chiede altresì che si riconosca il fatto che questo viene commesso sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre chiede che vengano attivate immediatamente le azioni necessarie da parte della Comunità internazionale per non legittimare i fondamentalisti che continuano a violare i diritti umani delle donne e gli obblighi legali internazionali dell’Afghanistan.

La negazione del diritto allo sport alle donne afghane ci ricorda ancora una volta che lo sport non è solo competizione ma è anche e soprattutto uno spazio della vita dove si costruiscono relazioni umane, dove ci si prende cura del proprio benessere psicologico e fisico. E’ il luogo dal quale si possono lanciare messaggi potenti, come fa da anni La corsa di Miguel. Ma è soprattutto un diritto indiscutibile che appartiene a uomini e donne nella stessa misura.

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione se non vogliono far passare il messaggio che lo sport è sola competizione e, in quanto tale, viene trattato come un diritto esclusivo accessibile unicamente a chi ha dalla sua le risorse economiche, le strutture e il talento fino ad arrivare all’estremo di consentire che una legge possa vietare ad alcuni soggetti di praticarlo.

Note:

[1]Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/talebani/.

[2]https://www.bbc.com/news/world-asia-58571183.

[3]https://www.cisda.it/chi-sosteniamo/hambastagi/.

[4]https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere/.

In Afghanistan, un uomo di 45 anni sposa una bambina afghana di 6 anni

Sotto il regime dei talebani, i matrimoni infantili si diffondono e le ragazze perdono protezione e voce

Rawa News, 28 giugno 2025

Una foto che circola sui social media mostra un uomo di 45 anni con la bambina di 6 anni che ha appena sposato: un esempio straziante del peggioramento della crisi dei matrimoni infantili sotto il regime dei talebani.
Fonti locali di Helmand affermano che un uomo di 45 anni, che ha già altre due mogli, ha sposato una bambina di 6 anni.

Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo anziano “in cambio di denaro”.

Secondo alcune fonti, la cerimonia di nozze tra l’uomo di 45 anni e la bambina ha avuto luogo venerdì 27 giugno 2025.

Tuttavia, prima che la bambina venisse consegnata al suo “marito” 45enne, sono intervenuti funzionari talebani locali, non per impedire il matrimonio, ovviamente, ma per dare prova della loro versione di “moderazione”. Fonti affermano di aver intimato all’uomo di aspettare che la bambina compisse la maturissima età di 9 anni prima di portarla a casa sua.

Il matrimonio precoce – in particolare quello forzato di bambine con uomini molto più grandi o di mezza età – rimane una delle forme di violenza di genere più diffuse e culturalmente radicate in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei Talebani, questa pratica ha registrato un’impennata drammatica, alimentata dalle politiche ultrapatriarcali del regime, dal crollo delle tutele legali e dalla crescente disperazione economica delle famiglie. La normalizzazione di queste unioni coercitive, sotto l’egida della tradizione, non solo priva le bambine della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il regime talebano.

 

Catturare la tranquilla resilienza delle donne afghane

La resilienza non è una scelta: per le donne, e per gli afghani in generale, è una necessità

Phoebe West, Rawa.org, 25 gennaio 2025

Nel corso di sei mesi, la fotografa Kiana Hayeri e la ricercatrice Melissa Cornet hanno realizzato un ritratto della vita delle donne afghane sotto il regime talebano. In un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi dei diritti delle donne nel mondo,  “No Woman’s Land” cattura le loro lotte, ma illumina anche i modi sottili ma potenti in cui resistono, dalle aule segrete ai momenti di tranquilla convivenza in casa. Qui Hayeri racconta a Phoebe West come la coppia ha affrontato il progetto nonostante l’accesso limitato imposto dal regime talebano, e perché la resistenza è una necessità per le donne afghane.

Nel corso di sei mesi, Hayeri e Cornet hanno trascorso dieci settimane in sette province, parlando con 100 donne e ragazze per capire cosa significhi essere una donna in Afghanistan oggi. “Volevamo coprire tutto”, mi dice Hayeri da Damasco. “Volevamo mostrare cosa significa essere una donna nelle aree rurali, in quelle urbane, per le donne istruite e per quelle non istruite, per mostrare cosa è cambiato per loro e per raccontare tutti gli aspetti della storia”. La storia dell’Afghanistan è lunga e complessa, caratterizzata da instabilità politica e da un controllo oppressivo sui diritti delle donne: “Ogni regime ha usato le donne come simbolo di modernità o di purezza morale”, afferma Hayeri.

“Volevo essere molto rispettosa”, afferma Hayeri. Ogni immagine è stata concepita come unica e creata in collaborazione con il soggetto, garantendone la sicurezza e la capacità di agire. “Anche se le donne non si sentivano a loro agio a mostrare il proprio volto”, spiega Hayeri, “hanno comunque la loro individualità nelle foto”.

“No Woman’s Land” non si sottrae all’oscurità che pervade l’esistenza delle donne in Afghanistan oggi, ma non è nemmeno tutta la storia. Anche la gioia e la speranza esistono, trascendendo il personale, per incarnare la resistenza e la sfida in una terra di oppressione. “Spero che continui a vivere come documentazione di ciò che sta accadendo in Afghanistan”, dice Hayeri, “e diventi qualcosa su cui la prossima generazione potrà costruire: le fondamenta su cui costruire resilienza e speranza. Potranno guardare indietro a questo e capire cosa è possibile”.

Il progetto è frutto della collaborazione tra Hayeri e la ricercatrice sui diritti delle donne Melissa Cornet. Lavorare insieme è stato chiaramente illuminante per entrambe, consentendo a ciascuna di esprimere la propria creatività e condividere la responsabilità nelle decisioni relative al lavoro. Al di là di Hayeri e Cornet, le radici della collaborazione si estendono ben oltre. Considerando quanto sia diventato limitato l’accesso in Afghanistan sotto il regime dei Talebani, lo spazio concesso loro è stato possibile grazie all’esistenza di reti già esistenti e alla reputazione all’interno della comunità: “Gran parte dell’accesso è avvenuto tramite passaparola”, spiega Hayeri, “così dicevamo alla nostra rete chi volevamo incontrare e loro garantivano per noi”.

Sia Hayeri che Cornet hanno vissuto a Kabul per anni e nutrono un profondo amore per l’Afghanistan, che traspare dal loro lavoro. Avevano una solida base di relazioni di fiducia su cui costruire, un linguaggio per comunicare senza bisogno di un interprete e il tempo per garantire che tutti i partecipanti desiderassero davvero essere lì: “In alcune delle scene che vedete, mi conoscono da tre o quattro anni”, dice, “quindi sanno che non farei nulla che mettesse a repentaglio la loro sicurezza, e abbiamo avuto il tempo per tornare più e più volte. Questo non accade più nel nostro campo di lavoro”.

Hayeri ha lavorato molto in Afghanistan, ma questo progetto è stato diverso da qualsiasi altro: “Grazie a questa borsa di studio, ho potuto fare tutto ciò che volevo in modo creativo ed è stato molto appagante”, spiega. Hayeri afferma di aver sempre scattato con la luce naturale: “L’Afghanistan ha questa tonalità calda”. Ma per “No Woman’s Land” ha deciso di usare luci al neon. “Gli afghani adorano le luci al neon”, dice sorridendo, “vai nelle gelaterie, nei ristoranti, in qualsiasi posto all’aperto: hanno luci al neon ovunque”.

Sentendo lo spazio concesso alle donne ridursi sempre di più, Hayeri e Cornet hanno deciso di “portare le luci al neon nelle loro case e nei loro spazi”. La decisione di portare la luminosità nei santuari di queste donne ci porta a pensare ai loro cieli che passano dal technicolor al pallore del cielo coperto, mentre i progressi di decenni si disfano nel giro di poche settimane quando, nella tarda estate del 2021, i Talebani tornano al potere.

Passato e futuro sono presenti in tutta l’opera. Diverse inquadrature di “No Woman’s Land” catturano diverse generazioni di donne: ogni fotogramma racchiude cicli di repressione e instabilità politica. È difficile comprendere l’ampiezza di ciò che per queste ragazze è appena passato e impossibile: per le più anziane è la storia che si ripete, un’eco di una vita passata, ma per le giovani, le loro figlie e nipoti, è un futuro nuovo, intero, cancellato in un istante.

“La resilienza non è una scelta”, afferma Hayeri. “Per le donne, e per gli afghani in generale, direi che è una necessità”. È un grande privilegio poter pensare alla resilienza come a una scelta. All’interno dell’oppressione che, ancora una volta, è diventata la realtà per le donne in Afghanistan, la resistenza e la ribellione esistono a livello molecolare: non si manifestano per le strade perché gli altri le guardino, ma accadono continuamente. Ballare a porte chiuse, fare arte e creare disegni all’henné diventano atti di sfida di fronte alla cancellazione della personalità.

Realizzare questo lavoro oggi non sarebbe possibile – ogni parvenza di accesso che esisteva allora è stata chiusa – ma la portata di ciò che è stato creato è illimitata. “È molto facile per le persone attribuire il titolo di apartheid di genere all’Afghanistan”, riflette Hayeri, “ma non si parla dell’apartheid che si sta verificando in Cisgiordania. La lotta per i diritti delle donne va oltre l’Afghanistan. C’è in Palestina, in America, in Kenya!”.

Dopo la nostra conversazione, Hayeri si unirà ai festeggiamenti a Damasco per il 14° anniversario della rivoluzione siriana, durante i quali elicotteri militari lasceranno cadere fiori e coriandoli, per ricordare che accanto alla fragilità dei diritti delle donne nel mondo c’è il potenziale del cambiamento e la possibilità di qualcosa di meglio.

 

I curdi nel caos mediorientale

La situazione attuale, le questioni aperte e perché la proposta di un confederalismo democratico, il nuovo paradigma pensato da Abdullah Ocalan, manda in fibrillazione ognuno dei Paesi dove la presenza curda, pur minoritaria, è importante

Carla Gagliardini, Patria Indipendente, 26 giugno 2025

I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.


In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.

Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.

Il confederalismo democratico

Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.

Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, giovane curda iraniana, rea di non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica
E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.


Netanyahu è sotto processo della Corte penale internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui 125 Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Non lo hanno ratificato Russia, Stati Uniti e Israele.
Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.

PJAK e KJAR

Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.


I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv

NOTE

(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”: la lotta disperata di una vedova afghana per i suoi figli

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 16 giugno 2025

Hadia* aveva solo 21 anni quando suo marito fu ucciso in un attentato suicida nella capitale afghana Kabul, lasciandola da sola con tre figli piccoli da crescere.

Il bombardamento ha sconvolto la vita un tempo pacifica della famiglia. Ancora traumatizzata dalla perdita del marito in modo così violento, Hadia si è improvvisamente trovata a dover uscire e cercare lavoro in un Paese dove, anche prima del ritorno al potere dei talebani, la maggior parte delle donne rimaneva a casa con i figli.

Ma se la vita era dura prima del 2021, non era nulla in confronto a ciò che Hadia deve affrontare ora. Oltre a non riuscire a trovare lavoro a causa delle crescenti restrizioni imposte alle donne dai talebani afghani, è stata costretta a nascondersi sotto la minaccia che le venissero portati via i figli.

Dopo aver fatto tutto il possibile per tenerli al sicuro, Hadia ora deve affrontare una causa legale intentata dal padre del marito defunto per ottenere la custodia della figlia adolescente e dei due figli più piccoli. Sebbene affermi che l’uomo sia un tossicodipendente, essendo una donna single, la legge le sarebbe comunque contro.

“Un giorno, mio ​​figlio è tornato a casa pallido. Mi ha detto che suo nonno gli aveva bloccato la strada e aveva cercato di costringerlo ad andare con lui”, ha raccontato.

“Mi si strinse il cuore. Se i miei figli finissero con lui, li venderebbe sicuramente per pagarsi la droga.”

I suoi timori non sono infondati. L’Afghanistan ha uno dei tassi di tossicodipendenza più alti al mondo, povertà e disperazione sono diffuse e la disponibilità di stupefacenti è molto elevata.

Hadia sentiva di non avere altra scelta che fuggire e da allora ha cambiato casa tre volte. Ora vive in una zona tranquilla di Kabul, ma teme di non essere al sicuro nemmeno lì, dopo che suo suocero ha sporto denuncia alle autorità accusandola di aver rapito illegalmente i bambini.

“Il pensiero che dopo tutto quello che ho sopportato, tutto questo dolore e questa solitudine, possano finire nelle mani di un tossicodipendente mi fa impazzire”, ha detto.

La situazione di Hadia, per quanto estrema, offre uno spaccato della difficile situazione delle vedove e delle altre madri single nell’Afghanistan odierno, dove povertà, restrizioni legali e lo stigma sociale della vedovanza hanno creato una tempesta perfetta di sofferenza.

Lo scorso anno, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha segnalato che in Afghanistan le famiglie guidate da donne sono quelle che hanno subito le conseguenze più gravi del declino economico del Paese.

Per Hadia, trovare un riparo e un lavoro negli ultimi anni è stata una sfida enorme. Senza un uomo, ha faticato persino ad affittare un alloggio. Faceva i lavori che riusciva a trovare, lavorando nelle scuole e nelle fattorie per soli 4.000-5.000 afghani (60-70 dollari) al mese, o tessendo tappeti. Tornata a casa tardi, è stata criticata come “immorale” e le è stato chiesto con chi fosse stata.

“Se indossavo vestiti nuovi, mi sussurravano: ‘Chi glieli ha comprati? E ​​in cambio di cosa?'”

Costrette al matrimonio

Sebbene abbia ancora 30 anni, le rughe sul volto di Hadia parlano di anni di dolore e stanchezza e la pelle delle mani che accarezzano delicatamente il viso del suo giovane figlio è ruvida.

Il consiglio religioso presso il quale si è lamentato il suocero l’ha convocata per un’udienza, ma la sola idea la terrorizza.

Hadia si preoccupa soprattutto per la figlia tredicenne, temendo che il suocero la spinga a un matrimonio precoce. Essendo stata lei stessa vittima di un matrimonio forzato, sa cosa significherebbe.

Hadia non ricorda esattamente se aveva 13 o 14 anni quando suo padre la diede in sposa a un uomo di 32 anni, in un cosiddetto matrimonio di scambio, una pratica tradizionale in cui una ragazza di una famiglia viene scambiata con una ragazza di un’altra.

“Mio padre mi ha data via in cambio del matrimonio di mio fratello. All’epoca non capivo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato”, ha detto.

Quel matrimonio durò solo un anno. Litigi tra il fratello di Hadia e sua moglie portarono alla loro separazione, a seguito della quale anche Hadia divorziò. Pochi mesi dopo, suo padre la risposò, questa volta con l’uomo che sarebbe diventato il padre dei suoi figli.

Il suo secondo matrimonio durò 14 anni. Nonostante le difficoltà, Hadia lo descrive come una vita relativamente tranquilla. Ma con la morte del marito in un attentato suicida, il ciclo di dolore e sofferenza ricominciò da capo.

Nonostante tutte le sofferenze che ha sopportato, Hadia non abbandona mai la speranza. Sogna un futuro diverso per i suoi figli, libero dal dolore che ha conosciuto.

Ora vive in un rifugio nascosto, la cui ubicazione non è stata rivelata da Rukhshana Media. Temendo di perdere i suoi figli, nascondersi è l’unica opzione che sente di avere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”, ha detto. “Persino la legge di questo Paese darebbe ragione a un uomo come lui, un tossicodipendente.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza.

Bennett: serve un approccio “a tutto campo” per porre fine all’oppressione sistematica di genere in Afghanistan

OHCHR, Comunicato stampa, 18 giugno 2024

Il modello di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne e delle ragazze da parte dei talebani si è intensificato, causando danni immensi che hanno interessato generazioni e tutti gli elementi della società in Afghanistan, ha affermato oggi un esperto delle Nazioni Unite.

“L’istituzionalizzazione da parte dei Talebani del loro sistema di oppressione di donne e ragazze, e i danni che continua a radicare, dovrebbero sconvolgere la coscienza dell’umanità”, ha affermato Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, che ha presentato il suo ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani, parlando a fianco delle donne afghane. “Queste violazioni sono così gravi ed estese che sembrano costituire un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile, che potrebbe costituire crimini contro l’umanità. Questo attacco non solo è in corso, ma si sta intensificando”.

Bennett ha chiesto ai talebani di adottare misure immediate per porre fine al loro sistema di oppressione di genere che priva le donne e le ragazze dei loro diritti fondamentali.

Il Relatore speciale ha inoltre sollecitato un approccio “a tutto campo” per sfidare e smantellare il sistema istituzionalizzato di oppressione di genere dei talebani e per chiamare a risponderne i responsabili.

Questo approccio include l’uso di meccanismi di responsabilità internazionali, quali la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia, nonché il perseguimento dei casi a livello nazionale secondo il principio della giurisdizione universale.

Ha inoltre raccomandato agli Stati membri di adottare il concetto di apartheid di genere e di sostenerne la codificazione, dopo aver ascoltato le donne afghane affermare che questo termine descrive al meglio la loro situazione.

Bennett ha affermato che è fondamentale che la società civile afghana, comprese le donne impegnate nella difesa dei diritti umani, partecipi in modo significativo alla riunione degli inviati speciali delle Nazioni Unite per l’Afghanistan che si terrà a Doha alla fine di questo mese e che i diritti delle donne e delle ragazze siano affrontati sia direttamente sia nell’ambito di discussioni tematiche.

“Il miglioramento dei diritti umani è fondamentale per un Afghanistan in pace con se stesso e con i suoi vicini. Non discutere di questo tema comprometterebbe sia la credibilità che la sostenibilità del processo”, ha affermato l’esperto.

Bennett ha affermato che prima di procedere a qualsiasi normalizzazione o legittimazione delle autorità de facto in Afghanistan, dovrebbero essere introdotti miglioramenti concreti, misurabili e verificati in materia di diritti umani.

“Gli afghani, in particolare le donne e le ragazze afghane, hanno dimostrato un coraggio e una determinazione straordinari di fronte all’oppressione dei talebani. La comunità internazionale deve dare prova di protezione e solidarietà, anche con azioni decise e basate su principi, che mettano i diritti umani al centro di tutto”, ha affermato Bennett.

 

Il Sig. Richard Bennett è il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan . Ha assunto ufficialmente l’incarico il 1° maggio 2022. Ha prestato servizio in Afghanistan in diverse occasioni ricoprendo diversi incarichi, tra cui quello di Capo del Servizio per i Diritti Umani della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA).

I Relatori Speciali fanno parte delle cosiddette Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Procedure Speciali, il più grande organo di esperti indipendenti nel sistema delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, è il nome generico dei meccanismi indipendenti di inchiesta e monitoraggio del Consiglio che affrontano situazioni nazionali specifiche o questioni tematiche in tutto il mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non percepiscono alcun compenso per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e svolgono il loro servizio a titolo individuale.