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Tag: Talebani

Dieci morti nei bombardamenti nell’est dell’Afghanistan

internazionale.it Afp 25 novembre 2025

Almeno dieci persone, tra cui nove bambini, sono morte nella notte tra il 24 e il 25 novembre nei bombardamenti nell’est dell’Afghanistan, ha annunciato Zabihullah Mujahid, portavoce del regime dei taliban.

Kabul ha attribuito gli attacchi alle forze armate pachistane, che però hanno smentito il loro coinvolgimento, in un contesto di forti tensioni tra i due paesi asiatici.

“Intorno alla mezzanotte le forze pachistane hanno bombardato una casa nella provincia di Khost, uccidendo nove bambini (cinque maschi e quattro femmine) e una donna”, ha precisato Mujahid sul social network X.

Il portavoce ha riferito di altri attacchi nelle province di Kunar e Paktika, al confine con il Pakistan, che hanno causato quattro feriti.

In un messaggio pubblicato qualche ora dopo Mujahid ha condannato “con la massima fermezza questo crimine”, al quale Kabul “risponderà in modo adeguato e a tempo debito”.

Il Pakistan ha però smentito di aver condotto attacchi in Afghanistan durante la notte.

“Quando conduciamo un attacco ce ne assumiamo la responsabilità”, ha assicurato Ahmed Chaudhry, portavoce dell’esercito pachistano, sull’emittente statale Ptv. Chaudhry ha aggiunto che le accuse di Kabul sono “infondate” e che l’esercito pachistano “non attacca i civili”.

L’episodio arriva in un contesto di forti tensioni tra Kabul e Islamabad, aggravate da un attentato suicida compiuto il 24 novembre contro il quartier generale della polizia di frontiera a Peshawar, capoluogo della provincia pachistana di Khyber Pakhtunkhwa, che aveva causato tre morti. L’attentato non è stato rivendicato.

L’11 novembre un altro attentato davanti a un tribunale di Islamabad, la capitale del Pakistan, aveva causato dodici morti e decine di feriti, ed era stato rivendicato dal gruppo Tehrik-i-taliban Pakistan (Ttp, i taliban pachistani). Le autorità pachistane avevano attribuito l’attentato a “una cellula terroristica diretta e guidata dall’alto comando afgano”.

Dopo uno scontro armato di rara intensità a ottobre, che aveva causato una settantina di morti, i due paesi avevano concordato una fragile tregua, i cui dettagli non sono ancora stati definiti, nonostante vari cicli di negoziati.

Islamabad accusa Kabul di ospitare terroristi sul suo territorio, in particolare quelli del Ttp. Negli ultimi mesi il gruppo ha intensificato gli attacchi contro le forze di sicurezza pachistane nelle zone montuose al confine tra i due paesi.

Kabul afferma invece di non avere niente a che fare con il Ttp e accusa a sua volta Islamabad di sostenere i terroristi del gruppo Stato islamico, oltre che di espellere gli afgani che vivono nel paese.

La fame all’ombra dell’inflazione e della negligenza dei talebani

Nima, 8AM Media, 22 novembre 2025

Diversi cittadini del Paese lamentano l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Affermano che, dopo il blocco del commercio e del transito con il Pakistan, i prezzi del riso, del petrolio e di altri prodotti alimentari sono aumentati senza precedenti e, in una situazione di disoccupazione e povertà, le persone non sono in grado di acquistare i beni di prima necessità.

I ​​cittadini sottolineano che i talebani non prestano attenzione alla fame e all’impotenza della popolazione e sono tutti concentrati sul saccheggio delle miniere, sul traffico di droga e sull’estorsione di denaro, senza preoccuparsi di fornire opportunità di lavoro alla popolazione affamata perché possa soddisfare i propri bisogni primari. Secondo i dati forniti dalla popolazione, il prezzo della farina è aumentato di 100-150 afghani, il prezzo dell’ olio di 150-200 afghani e il prezzo di un sacco di riso di 350-400 afghani.

Dopo 40 giorni di chiusura dei valichi di frontiera e degli scambi commerciali con il Pakistan, diversi cittadini sono estremamente preoccupati per il perdurare della situazione, perché il prezzo dei  beni di prima necessità aumenta di giorno in giorno. Se continueranno a salire con questo ritmo, molte famiglie non saranno in grado di soddisfare i loro bisogni più elementari.

La chiusura delle frontiere fa aumentare i prezzi

Simin (pseudonimo), un residente di Kabul, preoccupato per l’aumento dei prezzi, afferma: “Quando sono andato al mercato qualche tempo fa, il riso Qush Tipa costava 2.500 afghani, ma oggi è arrivato a 3.000 afghani. Cinque litri di olio, che costavano 600 afghani, ora costano 800 afghani. Anche un cartone di pasta, che prima costava 750 afghani, è aumentato a 850-900 afghani”. Persino prodotti come gli scialli pakistani, che prima costavano 300 afghani, ora costano 550 afghani.

Aggiunge: “Quando si chiede ai negozianti il ​​motivo dell’aumento dei prezzi, rispondono che le strade sono chiuse e che stanno importando meno dall’Iran a causa delle elevate tasse doganali. Alcuni sostengono addirittura che i prezzi dei prodotti alimentari saliranno ulteriormente perché questi articoli non sono disponibili all’interno del Paese”.

Amrullah, un altro cittadino del paese, racconta: ” A volte i commercianti e i negozianti, quando sentono che le strade sono chiuse, se ne approfittano aumentando i prezzi dei beni acquistati due mesi prima. La maggior parte delle forniture alimentari viene importata dall’Asia centrale e dall’Iran, e anche la farina proviene dal Kazakistan. Qualche tempo fa, il prezzo della farina era di 1.400 afghani, ma due giorni fa, quando l’abbiamo comprata, è arrivato a 1.650 afghani. L’olio di semi di girasole, venduto in quattro bottiglie in un cartone, costava 2.700 afghani, ma ora è salito a 3.500 afghani”.

Tanin, un residente di Ghor, afferma: “I talebani non si preoccupano della fame e della morte del popolo afghano. Chi è diventato proprietario di case, terreni, automobili e servizi sociali, non capisce cosa stia passando la povera gente. A Ghor, nessuno può permettersi di comprare un barile di petrolio o un sacco di riso. I talebani non sono consapevoli di questi problemi; tutte le miniere sono al loro servizio e riscuotono con la forza varie tasse, zakat e ushr dalla popolazione. Ricevono anche denaro da paesi e istituzioni alleati, e la chiusura del confine e l’aumento dei prezzi non hanno alcun effetto su di loro”.

Manijeh (pseudonimo) afferma: “In questi giorni caratterizzati da politiche incerte e dal governo dei talebani, affrontiamo ogni giorno una nuova sfida e una nuova crisi: dalla disoccupazione alla povertà, all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Non è chiaro se Torkham sia chiuso o se il Pakistan abbia preso questa decisione per proteggere la sua popolazione; ma alla fine saranno i più poveri a essere colpiti più duramente”.

Perdite anche per i commercianti

Sono passati più di quaranta giorni dalla chiusura dei valichi di frontiera tra Afghanistan e Pakistan. La Camera di Commercio e Investimenti afghana aveva precedentemente avvertito che la chiusura avrebbe causato perdite fino a 200 milioni di dollari al mese per entrambe le parti. Il quotidiano Express Tribune riportava ieri che la continua chiusura del confine di Torkham ha creato una grave crisi finanziaria per i grossisti di Rawalpindi e Islamabad e decine di commercianti di grandi e medie dimensioni sono a rischio fallimento.

Secondo il rapporto, sono stati effettuati ingenti pagamenti anticipati ai fornitori afghani per spedizioni di frutta fresca, tra cui uva e melograni Kandahari, verdura e frutta secca come uvetta e albicocche. Il rapporto afferma che queste spedizioni sono rimaste bloccate per settimane sul lato afghano del confine di Torkham e che gran parte dei prodotti freschi si è deteriorata. Secondo l’organo di stampa, i commercianti afghani si sono rifiutati di rimborsare i pagamenti e insistono sul fatto di non essere responsabili del deterioramento delle merci dovuto alla chiusura del confine.

Secondo quanto riferito, la situazione ha causato perdite individuali tra i 40 e i 150 milioni di rupie pakistane. I commercianti hanno chiesto al governo pakistano di consentire eccezionalmente l’ingresso nel paese dei container e dei camion bloccati per risolvere la crisi e di avviare colloqui immediati con i funzionari talebani. Oltre a danneggiare gli importatori, questa situazione ha anche portato a un blocco delle esportazioni pakistane in Afghanistan, causando perdite economiche reciproche. Alcuni grossisti sono stati inoltre costretti a contrarre nuovi prestiti per continuare le loro attività e riprendere il loro limitato commercio locale.

Reprimere la memoria, l’identità e le possibilità future

 

Richard Bennett: L’Afghanistan affronta una repressione a lungo termine della memoria, dell’identità e delle possibilità future

‎Shafaq Hamrah‎, Facebook, 22 novembre 2025
Il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan afferma che le restrizioni imposte dai talebani ai media e ai giornalisti afghani fanno parte di un più ampio sforzo per mettere a tacere il pensiero indipendente ed eliminare spazi in cui gli afghani possono mettere in discussione, immaginare o persino sperare.

Negli ultimi quattro anni i media hanno assistito a più di 550 casi di violazioni della libertà di informazione e violenze da parte dei talebani.
“Queste misure fanno parte di un più ampio sforzo per mettere a tacere il pensiero indipendente e distruggere spazi in cui gli afghani possono porre domande, immaginare o persino sperare”, ha aggiunto Richard Bennett venerdì 21 novembre, in un discorso online al forum “Afghanistan Press Freedom”. “L’impatto complessivo è profondo e non riguarda solo le libertà che ho menzionato prima. L’Afghanistan si trova ad affrontare una soppressione a lungo termine della memoria, dell’identità e delle possibilità future”.

Sottolineando la necessità di sostenere i media in esilio e i giornalisti afghani, ha avvertito che se i giornalisti, nonostante la loro ferma volontà di informare liberamente, non avranno accesso alle risorse e alle strutture necessarie, la capacità del mondo di comprendere le attuali realtà in Afghanistan sarà gravemente ridotta.

L’incontro dell’AMSO

L’incontro è stato organizzato il 21 novembre a Berlino, in Germania, dall’Organizzazione di sostegno ai giornalisti afghani (AMSO).
Nasir Ahmad Andisheh, rappresentante permanente facente funzioni dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha inoltre affermato nel suo discorso all’incontro: “Il giornalismo indipendente è l’ultimo baluardo contro la distruzione, perché porta la verità alle orecchie del mondo.”

Riferendosi all’importanza dei media in esilio, ha aggiunto che questi media forniscono il 70 percento della copertura indipendente della situazione attuale in Afghanistan e che il sostegno globale nei loro confronti è la vera misura dell’impegno per i diritti umani.

L’Afghanistan Press Freedom Summit ha discusso argomenti quali la libertà di espressione e la situazione dei media in Afghanistan, le condizioni dei giornalisti afghani nei paesi vicini, le attività dei media in esilio e altre questioni correlate.

Dopo essere tornati al potere, i talebani hanno imposto severe restrizioni ai media e agli attivisti dei media. Zahir Cheragh, capo del Comitato per le relazioni con i media dell’Organizzazione afghana di supporto ai media, ha parlato dell’incontro a Radio Azadi e ha affermato: “Abbiamo chiesto a ricercatori, esperti e rappresentanti di diverse organizzazioni e istituzioni di prestare la massima attenzione all’attuale sistema mediatico in Afghanistan, e ai partecipanti e alle organizzazioni di supporto ai media di collaborare con i giornalisti afghani residenti in Iran, Pakistan e altri Paesi che si trovano in una situazione sfavorevole, prestando attenzione ai loro casi e al processo di elaborazione delle loro domande di asilo nel più breve tempo possibile.”

Dopo essere tornato al potere, il governo talebano ha imposto severe restrizioni ai media e ai giornalisti nel Paese, mentre i talebani continuano ad affermare  che la libertà dei media e dei giornalisti è garantita nel quadro degli “interessi nazionali, della legge islamica e della cultura afghana”, secondo i risultati dell’Organizzazione afghana di supporto ai media, negli ultimi quattro anni i media hanno assistito a più di 550 violazioni della libertà di espressione e violenze e a più di 25 decreti restrittivi da parte dei talebani.

Nell’Indice mondiale sulla libertà di stampa 2025 di Reporter senza frontiere, l’Afghanistan si classifica al 175° posto su 180 paesi e territori.

«Così puntiamo a cambiare il diritto internazionale»

Il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (CISDA) ha lanciato una campagna perché la Corte penale internazionale e l’ONU riconoscano l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Ne abbiamo parlato con la presidente dell’associazione, Graziella Mascheroni

Giacomo Butti, Il Corriere del Ticino, 22 novembre 2025

Era il 1999 quando l’espressione «apartheid di genere» entrò nelle sale delle Nazioni Unite. Abdelfattah Amor, allora relatore speciale ONU per l’eliminazione delle discriminazioni basate su religione o credo, definì così – «un sistema di apartheid nei confronti delle donne» – il trattamento riservato dai talebani alla popolazione femminile afghana. A quei tempi, le immagini dell’apartheid sudafricano erano fresche nella mente di tutti. Violenza, segregazione, oppressione, negazione dei diritti fondamentali. Era questo che anche le donne afghane stavano vivendo in quel momento, sotto il controllo del primo governo talebano (1996-2001). Ed è questo che stanno vivendo oggi, dopo il ritiro delle truppe statunitensi, la fine della Repubblica e il ritorno al potere degli «studenti» coranici.

Restrizioni alla libertà di movimento, divieto di studio e lavoro, divieto di parlare in pubblico. A quattro anni dalla caduta di Kabul, ne abbiamo parlato a più riprese, l’Afghanistan è tornato indietro nel tempo. Non è un caso, allora, che l’espressione «apartheid di genere», già largamente utilizzata dalle donne afghane un ventennio fa per descrivere la propria condizione, sia oggi ancora in uso. Ed è per questo che un gruppo della vicina Penisola, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (CISDA), punta a portare nuovamente il tema sotto i riflettori internazionali, con un’iniziativa che chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto quale crimine contro l’umanità (come già è il caso per l’apartheid razziale) all’interno dei Trattati internazionali. Ne abbiamo parlato con Graziella Mascheroni, presidente del CISDA.

La raccolta firme

Sin dal 1999 il CISDA è attivo per promuovere progetti di solidarietà a favore delle donne afghane. Ma nel suo statuto, voce “Oggetto e scopi”, viene esplicitato: tra gli obiettivi dell’associazione c’è quello di «realizzare una crescita ed uno sviluppo, sia a livello locale che internazionale, nella ricerca di una maggiore giustizia tra i popoli». Non stupisce, allora, che l’ente non profit si sia lanciato in un’azione particolarmente ambiziosa: cambiare il diritto internazionale, per combattere l’apartheid di genere in Afghanistan e nel mondo.

«Per lanciare il nostro progetto abbiamo lavorato in modo molto approfondito, consultandoci con giuristi ed esperti di diritto internazionale», ci racconta Mascheroni. «Da questa collaborazione è nato un documento sul quale abbiamo basato la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere“».

La campagna, si legge sul sito del CISDA, chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto come crimine contro l’umanità e si riconosca che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre, al fine di non legittimare i fondamentalisti al governo a Kabul, il CISDA chiede che l’ONU non dia riconoscimento né giuridico né di fatto al regime talebano, che il fondamentalismo talebano sia dichiarato illegale, che sia impedito il finanziamento e l’invio di armi da Paesi amici, che i rappresentanti talebani siano estromessi da incontri di diplomazia internazionale e riunioni ONU.

La petizione collegata alla campagna, aperta a dicembre 2024 e chiusa lo scorso aprile (ma firmare è ancora possibile), ha raccolto circa 2.000 firme e il sostegno di un’ottantina di associazioni. «La raccolta firma è stata inviata al governo italiano, perché si faccia portavoce degli obiettivi della campagna dinanzi alle istituzioni internazionali. Siamo in attesa, ora, di avere un’audizione in Senato», ci spiega Mascheroni, che sottolinea: «Il documento è stato inviato anche alla Sesta commissione ONU e alla Corte penale internazionale (CPI). Quest’ultima ci ha risposto spiegando i prossimi passi». Un grande orgoglio per una associazione come il CISDA, ci spiega la presidente, che tuttavia non si fa illusioni: «C’è ancora tantissimo da fare». Perché questa proposta di modifica dello Statuto di Roma (il trattato internazionale istitutivo della CPI) venga presa in considerazione, dovrà essere patrocinata da uno Stato membro. «Negli ultimi mesi ci siamo mossi per cercare l’appoggio di un Paese che senta l’importanza di questo tema». Sudafrica e Congo sono tra i papabili, ma ci vorrà ancora del tempo perché vengano avanzate proposte concrete. Certo è che se l’iniziativa dovesse avere successo, l’impatto sarebbe fondamentale, e globale.

La situazione in Afghanistan

Per le donne afghane ogni mese conta, perché ogni mese è peggiore del precedente. «La situazione continua a deteriorarsi», conferma la presidente del CISDA, che con i gruppi locali di sostegno alle donne mantiene stretti contatti. «E questo anche per colpa del progressivo riconoscimento – formale o informale – da parte di Paesi terzi, che con i talebani stanno portando avanti rapporti diplomatici». Proprio negli scorsi giorni, la Segreteria di Stato della migrazione (SEM) ha confermato di aver «invitato rappresentati del governo talebano non ufficiale all’aeroporto di Ginevra» per trattare il tema delle espulsioni di cittadini afghani verso il loro Paese d’origine. Negoziazioni che hanno permesso il ristabilimento di un canale con l’Afghanistan per le espulsioni di uomini la cui domanda di asilo è stata respinta.

A Kabul, intanto, le donne di RAWA – l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane, gruppo politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana – non hanno intenzione di mollare di fronte alle terribili condizioni di vita. «Le sentiamo regolarmente. Sono convinte che nessun vero cambiamento possa venire dall’esterno. Dicono che giustizia e libertà possano giungere solo attraverso la lotte cosciente e unita della popolazione. Questo è il credo di RAWA, che dagli anni Settanta – dall’invasione sovietica, passando per guerre civili, i governi talebani e anche il periodo americano – non ha mai smesso di lottare. Loro vivono da sempre in clandestinità e quindi stanno portando avanti il loro lavoro come fatto in passato. Più difficile, invece, operare per le ONG che fino a qualche anno fa lavoravano indisturbate e oggi devono stare invece molto attente alla sorveglianza dei talebani per portare avanti in segreto la formazione delle bambine, la cui istruzione è stata proibita».

Chi non fa parte di associazioni o gruppi, porta avanti l’opposizione come può. «Con il progressivo assestarsi del potere talebano, scendere in strada come nei mesi seguenti la caduta di Kabul non è più possibile. La resistenza si è quindi spostata sui social. Non è un caso se nelle ultime settimane alcune regioni dell’Afghanistan abbiano subito un blocco dell’accesso alla rete». E questo fenomeno, ci racconta Mascheroni, non riguarda solo le donne. «Tutta la popolazione è stanca, e anche gli uomini sono contrari al dominio talebano. La società afghana è patriarcale: nei centri abitati al di fuori delle grandi città, i capi villaggio sono esclusivamente uomini. Eppure collaborano strettamente con le associazioni femminili con cui siamo in contatto, specialmente nelle zone colpite recentemente dai terremoti, dove i talebani si sono ben guardati dal portare aiuti».

L’importanza dell’alfabetizzazione

Parallelamente alla campagna contro l’apartheid di genere, da anni il CISDA porta avanti una lunga serie di progetti in Afghanistan a sostegno della popolazione. «Grazie a un nostro generoso sponsor, a Kabul e in altre quattro province possiamo finanziare un corso di cucito che garantisce, parallelamente, l’alfabetizzazione delle bambine. Contemporaneamente sosteniamo un’unità mobile, un team sanitario che va di villaggio in villaggio a visitare i pazienti». In passato l’organizzazione italiana, spiega la presidente, finanziava «grandi case protette per le donne afghane, ma molte sono state chiuse dopo l’arrivo dei talebani nel 2021. In questo momento, quindi, stiamo aiutando uno “shelter” più piccolo – che passa quindi inosservato – che al momento ospita quattro donne vittime di violenza e i loro 9 figli». Ma non finisce qui. «Da una decina d’anni, il nostro progetto Vite preziose permette il sostegno a distanza per chi ha subito violenze: così sponsor esterni possono aiutare finanziariamente, di solito per un anno, una donna afghana in difficoltà. Giallo fiducia, invece, supporta una coltivazione di zafferano nelle zone di Herat. Le dodici donne che lavorano in questo campo partecipano a un corso di alfabetizzazione e a uno sui diritti umani».

Piccoli numeri che, moltiplicati per la loro capillarità, fanno la differenza in una resistenza che vede l’alfabetizzazione, come già evidenziato, tema principale. «In risposta alla chiusura degli istituti scolastici, sono sorte migliaia di piccole scuole clandestine che, sparse un po’ ovunque, vedono insegnanti mettere a disposizione la propria casa per portare avanti la formazione di piccoli numeri di ragazze. La risposta a simili iniziative è alta, perché c’è la consapevolezza che l’istruzione è alla base della società. Senza, ottenere o mantenere libertà diventa molto più difficile».

I bambini lavoratori vengono radunati, picchiati e imprigionati dai talebani

In Afghanistan oggi i più giovani e i più poveri sono intrappolati tra la fame in casa e la violenza per strada. I bambini lavoratori, già oberati dal sostentamento delle loro famiglie, rischiano l’arresto, i lavori forzati e il rischio di sparizione sotto in custodia dei talebani

Yalda Amini e Mahtab Safi, Zan Times, 2o novembre 2025

Haron aveva cinque anni quando iniziò a lavorare per le strade di Kabul. Ora che ha 11 anni, vende calzini da un cesto intrecciato e porta con sé una piccola bilancia affinché le persone possano pesarsi. Nei giorni migliori guadagna 200 afghani, appena sufficienti per sfamare la sua famiglia di sei persone, che comprende il padre paralizzato e la madre a cui non è permesso lavorare fuori casa.

Sogna di andare a scuola come gli altri bambini, ma sa che non è possibile, date le sue responsabilità nel provvedere alla famiglia. In questi giorni, la sua più grande paura non è la fame, sono i talebani. È stato arrestato sei volte dallo scorso inverno.

Haron è tra il numero crescente di bambini costretti a vivere per strada a causa della fame, che minaccia circa 23 milioni di persone in Afghanistan, tra cui 12 milioni di bambini, secondo l’UNICEF. Una volta in strada, diventano bersaglio dei talebani e della loro lunga campagna di “rastrellamento dei mendicanti”. Con oltre 800.000 bambini che si prevede saranno deportati in Afghanistan da Iran e Pakistan solo quest’anno, il numero di bambini vulnerabili che vivono per strada è in aumento, così come i pericoli che corrono.

“Rastrellare i mendicanti”

Zan Times ha parlato con alcuni di questi bambini arrestati dai talebani, che hanno raccontato le loro esperienze di arresto, lavori forzati e brutali percosse da parte delle forze talebane. Alcuni hanno trascorso fino a 15 notti in prigione. Tutti i bambini raccontano storie simili, rivelando un modello di violenza all’interno di centri di detenzione come Badam Bagh, dove bambini di appena nove anni raccontano di aver visto teste spaccate a causa delle percosse.

Haron ricorda ognuno dei suoi sei arresti. Il primo fu a Pul-e-Sorkh. “Stavo vendendo calzini quando diversi talebani mi chiamarono”, racconta. “Quando andai da loro, mi misero nella loro Ranger e mi portarono in prigione”. Trascorse 15 giorni in detenzione. I suoi genitori lo cercarono per tutta la prima notte, finché non trovarono altri bambini di strada che dissero loro che era stato rapito dai talebani.

Basandosi sulle sue esperienze e su quelle di altri mendicanti di strada, Haron racconta a Zan Times come funziona la repressione a Kabul: i bambini, sia mendicanti che lavoratori di strada, vengono portati a Badam Bagh, una prigione femminile che ora ospita anche minori. Alcuni dei bambini sono trasferiti da Badam Bagh a Qasaba. Due amici di Haron, Murtaza e Nasir, “sono ancora dispersi” dopo essere stati trasferiti a Qasaba, racconta.

La campagna per “rastrellare i mendicanti” ha ricevuto un’accelerazione nell’aprile 2024, quando il leader talebano ha approvato la legge sulla raccolta dei mendicanti e sulla prevenzione dell’accattonaggio. In base a questa legge, chiunque abbia “cibo a sufficienza per un giorno” è considerato un criminale se trovato a mendicare.

La commissione incaricata dell’attuazione della legge è guidata dal vice-ministro antidroga del Ministero dell’Interno talebano. Nell’ottobre 2024, il suo leader ha dichiarato alla radio e televisione nazionale afghana che le autorità avevano rastrellato circa 58.000 mendicanti in tutto il Paese, tra cui un gran numero di bambini. La trasmissione mostrava file di bambini spaventati, alcuni apparentemente non più grandi di cinque anni, che fissavano direttamente la telecamera.

I funzionari hanno affermato che i detenuti sono classificati come “indigenti”, “professionisti” o “in rete”, e che i loro dati biometrici sono stati raccolti e archiviati in un database. Coloro che sono sospettati di essere “professionisti” e “in rete” rischiano punizioni, affermano.

Violenze e lavori forzati

Secondo Haron e altri bambini intervistati da Zan Times, le condizioni a Badam Bagh sono dure e violente. “Ci hanno fatto pulire i muri”, racconta l’undicenne, descrivendo il lavoro forzato imposto ai bambini al loro arrivo nel centro di detenzione. I bambini che disobbediscono o “lavorano troppo lentamente”, aggiunge, vengono trasferiti a Qasaba.

Ricorda di aver sentito anche le urla delle donne. “Anche le mendicanti venivano portate lì”, racconta. “Potevamo sentire il rumore delle loro percosse”. Haron e altri due bambini detenuti raccontano di aver visto ragazzi picchiati fino a spaccarsi il cranio. “Un ragazzo è stato picchiato così forte che gli è scoppiato un occhio”, ricorda Haron. In prigione era presente un solo medico. A nessun detenuto era permesso accedere a cure mediche esterne.

Il cibo era scarso: ogni 24 ore tre persone condividevano una pagnotta di pane secco e una ciotola di lenticchie. “Nessuno di noi era sazio”, racconta.

Durante la detenzione, le forze talebane hanno preso le impronte digitali e fotografato i bambini con la forza. “Ci hanno afferrato per il colletto per i dati biometrici”, racconta Haron. “Ci hanno detto che ci avrebbero dato le tessere di aiuto, ma non ci hanno dato nulla”. Hanno anche confiscato i beni dei bambini e la paghetta. “Ci hanno preso tutto”, racconta. “Quando ci hanno rilasciato, non ci hanno restituito nulla”.

Questa inchiesta fa seguito a un precedente articolo di Zan Times su come una donna, detenuta per “accattonaggio”, abbia assistito alla morte di due bambini in custodia dei talebani. La donna ha dichiarato a Zan Times che le guardie hanno picchiato i ragazzi con dei cavi “fino alla morte”, ricordando come i detenuti fossero minacciati di percosse se avessero protestato o parlato.

La legge dei talebani sembra prevedere che i detenuti muoiano in custodia. L’articolo 25 della legge del 2024 delinea le procedure di sepoltura per chiunque muoia in detenzione senza che vi siano parenti che ne reclamino il corpo.

Costretti dalla fame all’accattonaggio

Per molte famiglie, la fame a casa non lascia altra scelta che mandare i figli in strada, anche a rischio di essere arrestati dai talebani. Esmat, un bambino lavoratore di nove anni a Kabul, ha trascorso 10 giorni a Badam Bagh. È stato rilasciato dopo che i suoi genitori hanno implorato i funzionari talebani e firmato una garanzia. “Ci hanno detto di non lavorare più per strada”, racconta. Ma né lui né i suoi genitori hanno ricevuto assistenza.

Salima deve mandare il figlio dodicenne a raccogliere la spazzatura perché non le è permesso lavorare e suo marito è scomparso 12 anni fa. “A volte mio figlio piange”, racconta allo Zan Times. “Lo picchiano. È molto difficile mandarlo fuori con un carrello a rovistare tra i rifiuti. Ma non ho altra scelta”. Nessuna agenzia umanitaria o ufficio talebano le ha offerto aiuto.

La pressione sulle famiglie sta aumentando in tutto l’Afghanistan. Secondo Save the Children, i bambini vengono deportati in Afghanistan dall’Iran al ritmo di uno ogni 30 secondi. Migliaia di questi bambini arrivano soli e molti sono nati all’estero e non hanno mai vissuto in Afghanistan. Tornano in un Paese alle prese con fame, sfollamenti interni di massa, terremoti e siccità causati dai cambiamenti climatici nel nord, che stanno distruggendo i raccolti e prosciugando le fonti d’acqua.

A Kandahar, Ali, 12 anni, racconta che la sua famiglia di 13 persone è stata rimpatriata forzatamente da Karachi sei mesi fa. Suo padre è paralizzato, il che rende Ali il principale sostentamento della famiglia. “Esco di casa alle cinque del mattino e resto fuori fino alle undici di sera”, racconta. Raccoglie lattine in un sacco. “Guadagno dai 60 ai 70 afghani al giorno. Compriamo pane secco. A volte dormiamo affamati. Il nostro affitto costa 2.500 afghani e siamo sempre indebitati”.

Quindici bambini lavoratori intervistati da Zan Times a Kabul, Kandahar e Jawzjan affermano di essere i principali fornitori di cibo per le loro famiglie.

Uno di questi è Ahmed, 11 anni, che vende sambusa per le strade di Sheberghan. Suo padre è partito per l’Iran dopo la presa del potere da parte dei talebani e da allora la sua famiglia non ha più sue notizie. Non potendo permettersi le cure mediche per una ferita alla gamba, Ahmed sopravvive per strada con 60 afghani al giorno. “Voglio crescere e andare in Iran a trovare mio padre”, dice.

Come Ahmed, Saboor, 12 anni, vive a Sherberghan. Raccoglie lattine insieme ai suoi due fratelli minori. “Ci sono troppi ragazzi che raccolgono lattine ormai”, dice. “Quando qualcuno lancia una lattina, tutti corrono”. Anche suo padre è partito per l’Iran e non è mai tornato. “Indossiamo sempre i vestiti vecchi della gente”, dice. Sogna di andare a scuola e che sua sorella malnutrita torni in salute.

L’Afghanistan è oggi un paese in cui i più giovani e i più poveri sono intrappolati tra la fame in casa e la violenza per strada. I bambini lavoratori, già oberati dal sostentamento delle loro famiglie, rischiano l’arresto, i lavori forzati e il rischio di sparizione sotto la custodia dei talebani.

Per Haron, ogni giorno porta con sé la stessa paura. Continua a vendere calzini, sperando che i Rangers non si fermino più per lui.

I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati e dell’autore. Mahtab Safi è lo pseudonimo di un giornalista dello Zan Times in Afghanistan. Sana Atef e Hura Omar hanno contribuito a questo articolo.

 

Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea

A fine ottobre la Commissione europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul

Beatrice Biliato, Altreconomia, 18 novembre 2025

L’Unione europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi.

Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi.

L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa.

Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro.

E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto.

La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan sono stati ceduti nelle loro mani.

Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani.

Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan.

Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan.

Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei.

Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’Ue”.

A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’Ue, è un Paese Schengen.

Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche ai Paesi occidentali in quanto giustificata da esigenze pragmatiche.

Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei.

A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan.

Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa Ue continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’Ue con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante Ue per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’Ue a portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani- offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli.

È quanto del resto ha ribadito il Parlamento europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee.

In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba.

La guerra segreta della CIA ai papaveri afghani, il piano costoso poi fallito

La V0ce di New York, 15 novembre 2025, di Dania Ceragioli

Per vent’anni, nei cieli dell’Afghanistan non sono caduti soltanto missili e ordigni. Fra un bombardamento e l’altro, spesso si diffondevano minuscoli semi di papavero: miliardi di granelli protettivi per indebolire il traffico di eroina. Non era una leggenda contadina, ma una delle operazioni più riservate condotte dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, un programma che, come raccontato dal The Washington Post , avrebbe dovuto trasformare il cuore dell’economia dell’oppio afghano intervenendo direttamente sulla genetica delle coltivazioni.

Dal 2004 al 2015, la CIA ha lanciato dall’alto sementi selezionate per generare piante quasi private degli alcaloidi necessari alla produzione di droga. Una strategia definita da alcune fonti del giornale americano come un tentativo “creativo e non militare” per indebolire la base finanziaria dei talebani, e allo stesso tempo tagliare alla principale fonte di “polvere bianca” destinata ai mercati europei e asiatici.

In base a quanto riportato, quattordici persone che erano a conoscenza dell’operazione, tutte rimaste rigorosamente anonime, hanno confermato che l’iniziativa fu autorizzata direttamente dall’ex presidente George W. Bush attraverso un documento classificato. Il programma prevedeva voli notturni, spesso con aerei cargo britannici, per disperdere i microscopici bambini senza essere intercettati e senza attirare l’attenzione degli agricoltori.

Le piante nate da quei semi non solo avevano un contenuto di morfina insignificante, ma erano anche progettate per germogliare prima e produrre fiori più appariscenti, così da indurre i contadini a conservarne e ripiantarne i derivati. L’obiettivo dichiarato era quello di far incrociare le nuove piantagioni con quelle locali, facendole divenire nel tempo dominanti e indebolendo il raccolto dei trafficanti.

Fonti citate dal quotidiano sostengono che in alcuni periodi, in particolare tra il 2007 e il 2011, l’ambizioso progetto sembrò funzionare: le superfici coltivate diminuivano sensibilmente, e le intercettazioni registravano la frustrazione dei produttori. Qualcuno lo definisce un raro esempio di “pensiero fuori dagli schemi” all’interno della guerra alla droga.

Il piano era talmente riservato che, perfino alti funzionari del Pentagono e del Dipartimento di Stato affermano di non esserne mai stati informati. Intanto, il costo dell’operazione lievitava: tanto che negli anni finali la CIA tentò di coinvolgere altre agenzie per coprire spese come carburante e manutenzione. Gli Stati Uniti, dal 2001, si stima abbiano speso circa 9 miliardi di dollari nel contrasto alla lotta all’eroina che uscì dalla Nazione,

La segretezza non impedì però la diffusione dei sospetti nelle campagne afghane: per anni si mormorò che “gli stranieri avrebbero adulterato i campi”, modificando fertilizzanti o spargendo sostanze sconosciute. Una versione che, alla luce dei fatti, non era così distante dalla realtà.

Il contesto, ricostruito dal Washington Post , appareva come un intrico di responsabilità sovrapposte, tensione tra le diversi organismi federali e profonde divergenze con gli alleati: alcuni spingevano per l’irrorazione di erbicidi, altri mettevano in guardia dai possibili danni alle comunità rurali e altri ancora, ritenevano invece prioritario mantenere il controllo militare delle aree sensibili.

L’intera strategia antidroga in Afghanistan, osservano vari funzionari citati, fu minata da dispute politiche, dall’instabilità del governo Karzai e da un’economia che faceva dell’oppio un pilastro quasi insostituibile. Mentre Washington combatteva per ridurre i raccolti, i talebani continuavano ad autofinanziare la loro insurrezione grazie al “gasdotto dell’eroina”.

Alla fine, il programma dei semi “sterili” non resistette ai tagli di bilancio, quando venne chiuso, nel 2015, i raccolti avevano ricominciato a crescere. Un rapporto del 2018 dell’ispettorato speciale statunitense per la ricostruzione del Paese che non era stato informato dell’operazione segreta, concluse che nessuna delle iniziative antinarcotici americane aveva provocato “riduzioni durature” della produzione di oppio.

Quando gli USA lasciano il territorio nel 2021, la sostanza rappresentava ancora fino al 14% del PIL afghano e anche il divieto imposto dai talebani nel 2022 ha solo temporaneamente fermato le coltivazioni, poi rimbalzate l’anno successivo, spostandosi verso altre regioni.

Australia: i talebani afghani potrebbero dover affrontare nuove sanzioni

Human Rights Watch, 12 novembre 2025, Comunicato stampa

I regolamenti modificati consentiranno di agire contro chi viola i diritti e promuoveranno la responsabilità

Le modifiche proposte dal governo australiano alle sue norme sulle sanzioni rappresentano un passo importante verso l’assunzione di responsabilità da parte dei funzionari talebani e di altri responsabili di gravi abusi in Afghanistan , ha affermato Human Rights Watch in una recente comunicazione al governo australiano.

Il Regolamento sulle Sanzioni Autonome modificato introduce nuovi criteri di inserimento nell’elenco specifici per l’Afghanistan e consentirà al governo australiano di imporre sanzioni mirate e divieti di viaggio a individui ed entità in Afghanistan che siano coinvolti, responsabili o complici dell’oppressione di donne, ragazze e gruppi minoritari, o dell’oppressione in generale. Permetterà inoltre di imporre sanzioni contro chiunque comprometta il buon governo e lo stato di diritto in Afghanistan.

“È fondamentale che il governo australiano intervenga contro i leader talebani responsabili della violazione dei diritti delle donne e delle ragazze e di altri gravi abusi in Afghanistan”, ha affermato Daniela Gavshon , direttrice per l’Australia di Human Rights Watch. “Le modifiche apportate alle norme sulle sanzioni consentiranno all’Australia di unirsi ad altri paesi che stanno già adottando misure per contrastare la diffusa e sistematica oppressione dei talebani”.

Da quando hanno preso il controllo del Paese nell’agosto 2021, i Talebani hanno intensificato i loro attacchi ai diritti delle donne e delle ragazze, il che equivale al crimine contro l’umanità della persecuzione di genere. Esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani e attivisti afghani per i diritti delle donne hanno descritto le violazioni sistematiche e strutturali dei Talebani contro donne e ragazze come “ apartheid di genere “.

Le autorità talebane hanno inoltre progressivamente limitato lo spazio civico, attuato una censura su larga scala e arrestato e torturato giornalisti e attivisti. Lesbiche, gay, bisessuali e transgender afghani, e le persone che non si conformano alle rigide norme di genere in Afghanistan, si trovano ad affrontare una situazione sempre più disperata e gravi minacce alla loro sicurezza e alla loro vita sotto il controllo dei talebani. Inoltre, gruppi affiliati allo Stato Islamico (ISIS) hanno effettuato attentati contro gli sciiti di etnia Hazara e altre, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

“Il governo australiano dovrebbe utilizzare sanzioni mirate come importante strumento di politica estera contro i talebani per sollecitare l’assunzione di responsabilità per i gravi abusi”, ha affermato Gavshon. “Imporre sanzioni ai leader autori di abusi è una delle numerose misure che possono aumentare il costo delle violazioni dei diritti umani in Afghanistan e altrove”.

I talebani arrestano e poi rilasciano una dottoressa durante una nuova repressione delle donne a Herat

amu.tv, 10 novembre 2025, di  Ahmad Azizi

Fonti locali hanno riferito che i talebani hanno arrestato e poi rilasciato una chirurga a Herat, nell’ambito di una nuova stretta sull’abbigliamento femminile e sull’accesso agli spazi pubblici, comprese le strutture mediche.

La dottoressa Shabnam Fazli, chirurgo generale presso l’ospedale regionale di Herat, è stata arrestata dai funzionari talebani nei pressi dell’ospedale all’inizio di questa settimana, secondo quanto riferito da alcune fonti ad Amu. Suo marito, Quddus Khatibi, ha successivamente confermato l’arresto sulla sua pagina Facebook. Nel frattempo è stata rilasciata.

L’incidente segue le nuove restrizioni imposte dai talebani, che impongono a pazienti e medici di indossare il burqa negli ospedali pubblici. Sebbene la direzione talebana per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio di Herat abbia negato di aver emanato tale direttiva, diversi testimoni oculari e il personale ospedaliero affermano che l’applicazione è già iniziata.

Fonti affermano che la situazione è degenerata quando a una donna incinta, che aveva già subito due tagli cesarei, è stato negato l’ingresso al Gozargah Maternity Hospital perché non indossava il burqa. Mentre soffriva per le doglie fuori dalla struttura, il suo utero si è rotto. La sua famiglia, disperata, l’ha trasportata in risciò in un altro ospedale, il Rezai Regional Maternity Hospital.

Quando è stata sottoposta a un intervento chirurgico d’urgenza, il suo bambino non ancora nato era morto a causa di un’emorragia interna e della mancanza di ossigeno, hanno spiegato le fonti. La donna è attualmente in coma e rimane ricoverata in terapia intensiva, hanno aggiunto le fonti.

Il caso ha suscitato indignazione tra i professionisti del settore medico e i sostenitori dei diritti delle donne, i quali affermano che le rigide norme di abbigliamento dei talebani mettono in pericolo vite umane e violano l’etica medica di base.

“Non si tratta di cultura o tradizione, ma di controllo”, ha affermato un medico di Herat che ha chiesto di rimanere anonimo per timore di ritorsioni. “Quando l’accesso all’assistenza sanitaria diventa condizionato da ciò che una donna indossa, si perdono delle vite”.

Da quando sono tornati al potere nel 2021, i Talebani hanno reintrodotto una serie di restrizioni di genere simili a quelle applicate durante il loro primo regime negli anni ’90. Alle donne è ora vietato accedere alla maggior parte dei lavori, all’istruzione secondaria e superiore e spesso sono obbligate a viaggiare con un tutore maschio. La visibilità pubblica è ulteriormente limitata dai codici di abbigliamento che impongono l’uso di indumenti che coprano il viso, come il burqa.

Le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani hanno ripetutamente chiesto ai talebani di revocare queste politiche, avvertendo che esse equivalgono a una “persecuzione di genere” e potrebbero costituire crimini secondo il diritto internazionale.

Nonostante le pressioni internazionali, i talebani continuano a sostenere che le loro politiche sono in linea con la loro interpretazione della legge islamica.

[Trad. automatica]

Islamabad accusa talebani pakistani per l’attentato, Kabul chiude il commercio

Asia News, 12 novembre 2025

Dopo le 12 persone uccise dall’esplosione al tribunale distrettuale, il governo pakistano punta il dito contro Tehrik-i Taliban Pakistan (TTP), formazione accusata di agire col sostegno di Kabul e dell’India. In risposta, l’Afghanistan ha sospeso tutti gli scambi commerciali, bloccando anche le importazioni di farmaci. Mentre un rapporto dell’ONU denuncia una situazione umanitaria sempre più grave tra profughi afghani rimpatriati in estrema povertà e il 90% delle famiglie alla fame.

Islamabad (AsiaNews) – L’Afghanistan ha annunciato che non riprenderà i commerci con il Pakistan in seguito all’attentato che si è verificato ieri a Islamabad. Anche le importazioni di farmaci sono state bloccate, hanno riferito i talebani, nonostante nel Paese la stragrande maggioranza della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà.

Il ministro dell’Interno pakistano, sebbene abbia dichiarato che le autorità stiano “esaminando tutti gli aspetti” riguardo all’esplosione, ieri ha incolpato come responsabili “elementi sostenuti dall’India e agenti dei talebani afghani”, riferendosi ai Tehrik-i Taliban Pakistan, conosciuti come TTP, principali responsabili dell’aumento degli attentati terroristici negli ultimi anni. La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nel 2021 ha infatti galvanizzato i TTP che puntano a ricreare anche in Pakistan un Emirato islamico su modello di quello afghano.

L’attacco di ieri di fronte al tribunale distrettuale di Islamabad, in cui sono morte 12 persone, ha fatto riemergere una serie di preoccupazioni nell’opinione pubblica: nonostante le diverse operazioni delle forze di sicurezza lanciate nelle aree di confine nel tentativo di eliminare i gruppi terroristici legati al TTP, questi sembrano essere in grado di organizzare attentati nella capitale, che era considerata, come diversi altri centri urbani, un territorio tutto sommato sicuro.

Il TTP ha negato il proprio coinvolgimento, mentre una fazione separatista, la Jamaat-ul-Ahrar, ne ha poi in un primo momento rivendicato la responsabilità, poi smentita dal comandante del gruppo. La Jamaat-ul-Ahrar ha un rapporto conflittuale con i TTP: si era separata come fazione indipendente nel 2014 e aveva scelto come base operativa la provincia afghana di Nangarhar, per poi tornare tra i ranghi nel 2020, ma le recenti dichiarazioni mostrano come i TTP non siano un gruppo unitario, ma un insieme di milizie che a volte perseguono azioni in maniera indipendente. Nel 2022 il leader della Jamaat-ul-Ahrar, conosciuto come Abdul Wadi, era stato ucciso in Afghanistan.

L’attentato a Islamabad, inoltre, ha fatto seguito a un assalto a una scuola militare a Wana, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, epicentro delle violenze e degli scontri tra esercito pakistano e talebani. Secondo le autorità i combattenti che hanno preso d’assalto l’istituto (dove centinaia di studenti sono stati evacuati) volevano replicare gli attentati contro le scuole di Peshawar del 2014.

Nel frattempo, il mullah Baradar Akhund, vice ministro per gli Affari economici, ha dichiarato: “Per salvaguardare la dignità nazionale, gli interessi economici e i diritti dei nostri cittadini, i commercianti afghani dovrebbero ridurre al minimo i loro scambi commerciali con il Pakistan e cercare vie di transito alternative. Se, a partire da oggi, un commerciante dovesse incontrare problemi in Pakistan, il governo afghano non ascolterà le sue rimostranze né si occuperà delle sue questioni”. Nel corso della stessa conferenza stampa, il ministro dell’Industria e del Commercio, Nooruddin Azizi, ha rivelato che la chiusura del valico di Torkham, durata un mese, è costata ai commercianti afghani circa 200 milioni di dollari.

Le tensioni tra Pakistan e Afghanistan erano sfociate in un conflitto il mese scorso, a inizio ottobre, quando Islamabad ha lanciato una serie di attacchi, compreso il lancio di una serie di droni contro la capitale, Kabul. Sono poi scoppiati scontri transfrontalieri, a cui la mediazione del Qatar ha messo fine il 19 ottobre, ma una soluzione definitiva non è stata ancora trovata tra i due Paesi, e secondo gli esperti una de-escalation non sembra essere in vista.

Nel frattempo, però, le condizioni di vita della popolazione continuano a essere drammatiche: negli ultimi anni il Pakistan, per fare pressioni ai talebani affinché mettessero fine agli attentati dei TTP (una questione su cui Kabul dice di non avere potere) ha espulso milioni di profughi afghani che avevano trovato rifugio in Pakistan, in particolare dopo il 2021. Circa 4,5 milioni di persone sono rientrate a partire da settembre 2023.

Secondo un rapporto pubblicato oggi dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (UNDP), crisi sovrapposte (povertà cronica, rimpatri involontari su vasta scala, gli shock climatici e catastrofi naturali, il calo degli aiuti e l’esclusione delle donne dalla vita pubblica imposta dai talebani) hanno creato una “tempesta perfetta” che sta aggravando la povertà in tutto l’Afghanistan, al punto che 9 famiglie su 10 soffrono la fame. Più della metà delle famiglie che sono rientrate in Afghanistan rinuncia alle cure mediche per permettersi il cibo, mentre oltre il 90% ha contratto debiti per far fronte alla situazione. I debiti vanno dai 373 a 900 dollari, mentre uno stipendio medio in Afghanistan si attesta sui 100 dollari al mese. La disoccupazione è stimata tra l’80% e il 95% tra le famiglie rimpatriate, di cui una su quattro è guidata da donne, mentre circa il 30% dei bambini è costretto a lavorare. Il 75% delle famiglie rientrate risiede in aree rurali, dove i costi degli affitti sono aumentati dal 100% al 300% in alcune regioni.