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Tag: Talebani

Onu chiede revoca delle restrizioni del personale femminile

L’ONU in Afghanistan chiede la revoca delle restrizioni all’accesso del personale femminile alle sedi dell’ONU

UNAMA, 11 settembre 2025

Il 7 settembre, le forze di sicurezza afghane di fatto hanno impedito al personale femminile nazionale e ai collaboratori esterni delle Nazioni Unite di entrare nei complessi ONU a Kabul.

Questa restrizione è stata estesa agli uffici ONU in tutto il Paese, a seguito di notifiche scritte o verbali da parte delle autorità de facto . Le forze di sicurezza sono visibilmente presenti agli ingressi delle sedi ONU a Kabul, Herat e Mazar-i-Sharif per far rispettare la restrizione. Ciò è particolarmente preoccupante alla luce delle continue restrizioni ai diritti delle donne e delle ragazze afghane.

Le Nazioni Unite hanno anche ricevuto segnalazioni di forze di sicurezza de facto che tentano di impedire al personale femminile nazionale di recarsi nelle sedi sul campo, anche per supportare donne e ragazze nell’ambito dell’urgente risposta al terremoto, e di accedere ai siti operativi per i rimpatriati afghani dall’Iran e dal Pakistan.

Le Nazioni Unite in Afghanistan stanno coinvolgendo le autorità de facto e chiedono l’immediata revoca delle restrizioni per continuare a fornire un sostegno fondamentale al popolo afghano.

Le azioni attuali ignorano gli accordi precedentemente comunicati tra le autorità de facto e le Nazioni Unite in Afghanistan. Tali accordi hanno permesso alle Nazioni Unite di fornire assistenza essenziale in tutto il Paese, attraverso un approccio culturalmente sensibile e basato su principi, garantendo l’assistenza fornita dalle donne, per le donne.

Gli aiuti umanitari salvavita e altri servizi essenziali attualmente forniti a centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini nelle zone colpite dal terremoto nell’Afghanistan orientale e lungo i confini tra Afghanistan, Iran e Pakistan sono seriamente a rischio.

In risposta a questa grave interruzione, l’UNAMA e le agenzie, i fondi e i programmi delle Nazioni Unite in Afghanistan hanno implementato adeguamenti operativi provvisori per proteggere il personale e valutare opzioni praticabili per proseguire il loro lavoro fondamentale e basato sui principi.

Il divieto di movimento del personale delle Nazioni Unite e l’ostruzione delle operazioni delle Nazioni Unite costituiscono una violazione delle norme internazionali sui privilegi e le immunità del personale delle Nazioni Unite.

Estorsioni in nome della Sharia

Le estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane

Sayeh, شفق همراه, settembre 2025

Le autorità preposte alla promozione del bene e la proibizione del male, che secondo i leader del gruppo talebano dovrebbero attuare la Sharia, sono progressivamente diventati un apparato estorsivo.

Questi funzionari accusano le donne per il mancato rispetto dell’hijab (velo) e per la mancanza di un mahram maschile (parente maschio), mentre gli uomini sono incolpati di indossare abiti contrari alla cultura islamica afghana, di tagliarsi i capelli in violazione della Sharia e di avere tatuaggi. Con minaccie di punizirli, portarli in caserma e rinchiuderli in prigione, li spaventano per poter estorcere loro denaro e oggetti di valore. Queste estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane.

Non si tratta solo di fatti occasionali: ogni giorno ci sono donne e giovani che vengono violate e insultate in qualche parte della città; a causa del “hijab” o del “zahir” (aspetto), subiscono violenze e umiliazioni e sono costrette a pagare e a consegnare i loro beni di valore per non essere portate via e subire abusi.

Sajeda, che ora ha lasciato l’Afghanistan, racconta la sua terribile esperienza: “L’estate scorsa stavo facendo i preparativi per un viaggio e sono uscita di casa per fare degli acquisti. Indossavo uno scialle semplice e modesto, ma avevo lasciato fuori alcune ciocche di capelli che, in realtà, non pensavo potessero essere oggetto di biasimo. Questo, però, è bastato perché la cosiddetta banda talebana mi fermasse”.

Mentre arrivava a Pul-e-Sorkh, incontrò le forze dell’ordine talebane che le ordinano di fermarsi. “Uno di loro disse ad alta voce: ‘Fermati, ragazza. Che razza di vestito è questo?'”.

Quando lei spiegò che il suo vestito era in regola, uno di loro disse che aveva i capelli che uscivano dal velo e che la sua famiglia doveva venire a garantire per lei per
chè fosse lasciata libera. “Mi hanno costretta a seguirli al terzo distretto, ma quando siamo stati nelle vicinanze mi hanno fatta entrare in un vicolo che scende in fondo al mare e uno dei più giovani mi ha detto: ‘Dammi cinquemila afgani e sei libera’. All’inizio ho opposto resistenza e ho detto che non avevo soldi, ma loro non hanno accettato».

Le prensero il cellulare, guardarono le foto contenute e poi, indicando quelle della famiglia, le dissero: ‘La vostra famiglia ha un problema con l’hijab’. Nella galleria del mio cellulare c’erano foto del matrimonio di mio fratello e della mia festa di compleanno. Quando ho detto che quelle foto erano private, uno di loro ha gridato con rabbia: ‘La Sharia deve essere osservata sia in pubblico che in privato’”.

“Mentre ci avvicinavamo al posto di polizia, continuavano a minacciarmi e a ripetermi che il mio crimine era grave, perciò ho capito che mi avrebbero trattenuta e che non avevo alcuna possibilità di venirne fuori. Quindi mi sono decisa a pagare tremila afghani per salvarmi”.

Questo caso mostra come il “mahram” e l’“hijab” non costituiscano un principio religioso per i talebani, ma un mezzo di intimidazione e di controllo finalizzato all’estorsione. Quando una ragazza viene arrestata con l’accusa di aver indossato un velo troppo corto, presa in ostaggio e ricattata con il pretesto di qualche ciocca di capelli e sottoposta a un processo sommario, è evidente che l’obiettivo è il controllo e il ricatto. Questo comportamento intimidatorio e umiliante compromette la sicurezza delle donne anche nelle più semplici attività e movimenti quotidiani.

Anche i ragazzi sono presi di mira

Vahid “Mastar”, un ragazzino che ha un piccolo tatuaggio sul polso ed è stato molestato più volte dai talebani per questo, racconta l’ultima volta che ciò è accaduto: “Avevo fatto il tatuaggio prima che arrivassero i talebani. All’inizio, quando mi rimboccavo le maniche, mi molestavano sempre, perciò lo nascondevo. Questa primavera mentre stavo tornando a casa, non mi ero abbottonato la manica e il mio tatuaggio era visibile. Una persona mi ha invitato a raggiungerla, ma quando ha visto il tatuaggio, mi ha schiaffeggiato e ha detto: “Questo è un segno di infedeltà”.

Però non si trattò solo di una minaccia: lo portò direttamente alla polizia di zona togliendogli il cellulare. «Mi ha fatto passare davanti a un container e ha minacciato di rinchiudermi lì. Uno dei talebani, che non indossava l’uniforme bianca e che non sembrava essere un membro dell’Amr al-Ma’ruf, era seduto su uno sgabello. Mi si è avvicinato e ha detto: “Promettimi che rimuoverai il tatuaggio e verrai rilasciato'”.

Quando ritornò il funzionario talebano, Wahid iniziò a supplicarlo e a promettere di cancellare il tatuaggio. Dopo qualche istante, lui accettò e gli portò carta e penna per scrivere la promessa. “Poi mi disse: ‘Ora ti conosco e se vedo che hai ancora il tatuaggio non ti perdonerò’. Mentre me ne andavo, gli ho detto che aveva il mio cellulare. Mi si avvicinò e mi disse: ‘Non credo che tu abbia capito perché ti ho rilasciato così facilmente’. Mi resi conto che non mi avrebbe restituito il cellulare. Onestamente, ero spaventato perchè avevo visto molte persone picchiate senza motivo”.

Quando Vahid uscì dal commissariato, il funzionario lo seguì e gli fece notare che non aveva affatto un cellulare e che se gli avesse rivisto un tatuaggio, si sarebbe messa male per lui.

Ora le strade di Kabul e di altre città sono diventate un terreno di ricatto e di guadagno per il gruppo talebano; quella che chiamano “imporre ciò che è giusto e proibire ciò che è sbagliato” è in realtà una pratica di estorsioni e umiliazioni, un luogo in cui le donne vengono fermate a causa dei loro capelli e il colore dei loro vestiti e i giovani a causa del loro aspetto fisico, mentre sono sottoposti a estorsioni, insulti e umiliazioni.

 

Afghanistan, terremoti e leggi che uccidono le donne

Casa delle Donne di Milano, 11 settembre 2025, di Antonella Eberlin

Un terremoto distrugge in pochi secondi. Case che crollano, villaggi che spariscono, famiglie che si ritrovano senza nulla. Ma in Afghanistan, dopo che la terra ha smesso di tremare, per molte donne la tragedia non è finita. È solo cominciata.
Perché in un Paese in cui alle donne è vietato, tra tante altre cose, studiare medicina, lavorare come infermiera o muoversi senza un accompagnatore maschio, anche il diritto più elementare – ricevere soccorso quando si è feriti – può essere negato.

Una catastrofe naturale e un sistema che amplifica il dolore

Nell’ottobre 2023 la provincia di Herat è stata colpita da tre scosse di magnitudo 6.3: circa 1.480 morti e quasi 2.000 feriti. Un bilancio pesantissimo, aggravato dalla distruzione di oltre 40 strutture sanitarie. Testimonianze delle agenzie umanitarie hanno rivelato un dato significativo: tra le vittime, la maggioranza erano donne e bambine. Non per caso, ma perché al momento delle scosse si trovavano in casa, mentre gli uomini erano all’aperto per lavoro.

E quando si arriva all’ospedale – ammesso che non sia crollato – inizia un altro dramma. Da anni, i talebani hanno imposto regole che limitano l’assistenza sanitaria femminile. In molte zone un uomo non può visitare una donna se non è presente un mahram, cioè un parente maschio. Ma se il mahram non c’è, o è morto sotto le macerie, la donna resta senza cure. In situazioni di emergenza questo equivale a una condanna a morte.

Il blocco della formazione sanitaria femminile

Come se non bastasse, dal dicembre 2024 è stato imposto lo stop ai corsi di infermieristica e ostetricia. Una misura che ha chiuso l’ultima finestra per formare personale sanitario femminile, proprio quando ce n’è più bisogno.
Il paradosso è evidente: le donne possono essere curate solo da altre donne, ma alle donne viene vietato di studiare e di lavorare in ospedali e ONG. Il risultato è che intere comunità restano senza mediche e infermiere. In un Paese con frequenti disastri naturali e un sistema sanitario fragile, questa scelta non è neutrale: è letale.

Non solo regole, ma vite spezzate

Le cronache raccontano storie di donne ferite che hanno dovuto attendere ore ai checkpoint, perché senza un accompagnatore maschio. Alcune non ce l’hanno fatta. Altre, arrivate in ospedale, hanno trovato solo medici uomini che non potevano toccarle.
Medici Senza Frontiere ha sottolineato come, dopo i terremoti, la maggior parte dei pazienti fosse composta da donne e bambini. Ma senza staff femminile sufficiente, l’accesso alle cure è stato limitato. Non esiste un decreto nazionale che proibisca esplicitamente a un uomo di salvare una donna ferita, ma la somma di regole, divieti e paure crea lo stesso effetto: vite perse per motivi che nulla hanno a che vedere con la natura.

Dove finisce l’umanità?

Dov’è finita l’umanità se, di fronte a una donna che sanguina sotto le macerie, si dà più valore a una regola che al suo diritto alla vita?
Un terremoto è inevitabile. Ma lasciar morire una persona ferita perché “non può essere toccata” non è una fatalità: è una scelta politica, un atto di crudeltà istituzionalizzato. È l’umanità stessa che viene sepolta, ogni volta che un soccorritore abbassa le mani per paura di una punizione.

Cosa chiedono le agenzie internazionali

Le Nazioni Unite, Human Rights Watch e numerose ONG parlano apertamente di gender apartheid. Non si tratta di tradizioni culturali da rispettare, ma di un sistema che discrimina e uccide. Le richieste sono chiare:

  • Deroghe immediate che permettano a chiunque di salvare chiunque, in situazioni di emergenza.
  • Ripristino della formazione sanitaria femminile, perché senza infermiere e mediche non c’è futuro.
  • Accesso sicuro alle ONG e alle cliniche mobili, che spesso rappresentano l’unica speranza nelle province più isolate.

Le donne afghane oggi stanno morendo due volte: una sotto le macerie, l’altra per mano di un sistema che nega loro perfino il diritto alla vita. Non possiamo permettere che questo silenzio continui.

Afghanistan. Il CISDA al fianco delle famiglie del Kunar

Esperto ONU: i talebani hanno raddoppiato le fustigazioni pubbliche e imposto nuove restrizioni alle donne

amu.tv, 9 settembre 2025, di Siyar Sirat

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, ha dichiarato lunedì che i talebani hanno intensificato la repressione nel 2025, raddoppiando il numero di persone frustate in pubblico e introducendo nuove misure che limitano ulteriormente i diritti delle donne, dei giornalisti e dei comuni cittadini afghani.

Intervenendo alla 60a sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Bennett ha affermato che i talebani “non hanno revocato nessuna delle loro misure oppressive di genere”, ma le hanno invece ampliate. Ha citato l’introduzione delle “mahram cards” che limitano la libertà di movimento delle donne, i piani segnalati per limitare l’istruzione nelle madrase per le ragazze e una nuova legge che vieta poesie che criticano il leader talebano, lodano l’amore romantico o incoraggiano le relazioni. Ha anche evidenziato una direttiva che impone alle emittenti di sottoporre i programmi a un’approvazione preventiva e le restrizioni alla libertà religiosa, tra cui conversioni forzate e condanne per blasfemia.

Bennett ha affermato che almeno 672 persone (547 uomini e 125 donne) sono state sottoposte a fustigazione pubblica sanzionata dal tribunale dall’inizio dell’anno, più del doppio rispetto alla cifra registrata nello stesso periodo del 2024.

Ha avvertito che l’Afghanistan non è un luogo sicuro per i rimpatri forzati, criticando gli stati che continuano le deportazioni di massa degli afghani nonostante i rischi di persecuzioni e rappresaglie.

Rifiutando l’idea che l’Afghanistan sia una “causa persa”, Bennett ha affermato che il Paese rappresenta “una prova” della determinazione del mondo a opporsi alla persecuzione di genere e all’impunità. “Come possiamo impedire che l’Afghanistan diventi una causa persa? Usando ogni strumento a nostra disposizione”, ha affermato, chiedendo una pressione internazionale costante, un’espansione degli aiuti umanitari, l’assunzione di responsabilità per gli abusi e il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine.

Bennett ha inoltre sollecitato la creazione di un meccanismo investigativo indipendente per raccogliere e preservare le prove, identificare i colpevoli e supportare le azioni penali.

“Quello che sta accadendo in Afghanistan, sebbene grave e impegnativo, non è né inevitabile né irreversibile”, ha affermato Bennett. “È il risultato di scelte – certamente dei talebani, ma anche della comunità internazionale. E questo significa che sono possibili scelte diverse”.

Nella stessa sessione, l’inviato afghano Nasir Andisha ha affermato che gli arresti arbitrari sono diventati una prassi in Afghanistan, soprattutto per quanto riguarda i rimpatriati. Ha avvertito che anche i bambini sono vittime di “oppressione istituzionalizzata”.

[Trad. automatica]

 

I talebani impiccano un uomo in pubblico in stile esecuzione


L’uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei talebani si sta intensificando e negare il diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici
Sharif Amiry, Rawa, 3 settembre 2025

Fonti hanno confermato che venerdì 22 agosto, membri dei talebani nell’Afghanistan occidentale hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco un uomo e ne hanno impiccato il corpo in pubblico. L’incidente ha suscitato la condanna degli attivisti per i diritti umani, che hanno descritto l’atto come un’esecuzione sommaria e una violazione della dignità umana.

Testimoni hanno riferito ad Amu che l’uomo è stato impiccato a un vecchio carro armato nella trafficata zona di Kandahar Gate a Herat, dove una grande folla si è radunata per assistere all’accaduto. I video che circolano sui social media mostrano membri talebani che prendono a calci il corpo alla testa e al volto, mentre i passanti filmavano la scena.

Nel filmato, un combattente talebano ha identificato l’uomo come membro di un gruppo armato di opposizione e lo ha accusato di aver ucciso due membri talebani, tra cui Mawlawi Hassan Akhund, comandante del 10° distretto di sicurezza talebano a Herat. Il gruppo di opposizione “Nahzat Azadi-Bakhsh Islami Mardom Afghanistan” – che ha rivendicato la responsabilità degli attacchi nell’Afghanistan occidentale – aveva dichiarato all’inizio di questa settimana di essere dietro l’assalto in cui è morto Akhund.

Attaccato al cadavere è stato trovato anche un pezzo di carta con la scritta “Morte al gruppo Nahzat Azadi-Bakhsh Afghanistan”.

Il comando di polizia talebano di Herat ha successivamente rilasciato una dichiarazione contraddittoria su X, precedentemente Twitter, sostenendo che l’uomo era solo sospettato di furto. La dichiarazione affermava che era stato identificato dai residenti, arrestato durante un’operazione talebana ed “eliminato”.

Gli attivisti per i diritti umani hanno condannato l’atto definendolo un omicidio illegale.

“Privare qualcuno del diritto alla vita senza un giusto processo e senza un giusto processo è una palese violazione dei diritti umani”, ha dichiarato Hadi Farzam, attivista per i diritti umani. “Appendere il corpo in pubblico dopo l’omicidio è un affronto diretto alla dignità umana”.

Una membro del movimento femminile Window of Hope ha dichiarato ad Amu che i processi ai talebani negano agli imputati il ​​diritto ad avere un avvocato o alla difesa. “L’uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei talebani si sta intensificando, e negare il diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici”, ha affermato.

Non si tratta del primo episodio del genere. Negli ultimi anni, i talebani hanno effettuato numerose esecuzioni pubbliche. L’anno scorso, quattro uomini accusati di rapimento sono stati fucilati e impiccati a Herat, mentre all’inizio di quest’anno altre quattro persone sono state giustiziate nelle province di Farah, Nimroz e Badghis.

Read more at: https://www.rawa.org/temp/runews/2025/09/03/taliban-hang-man-in-public-in-herat-after-execution-style-shooting-sources.html

 

Dal saccheggio minerario al gioco con le potenze mondiali


Arian Nasiri, شفق همراه, 6 settembre 2025

Un tempo i Talebani erano noti per la coltivazione e il contrabbando di oppio. Ma sotto la pressione internazionale, cercando soluzioni globali e sfruttando le conoscenze moderne, il gruppo ha trovato un nuovo modo per finanziare la sua guerra e la sua repressione: produrre droghe sintetiche e saccheggiare sistematicamente le miniere afghane.
Questo cambiamento non è un segno di arretramento, ma una testimonianza della resilienza dei Talebani nel trovare nuove fonti per mantenere in vita la loro macchina del terrore.

La struttura del saccheggio

L’Afghanistan è una terra di ricchezze leggendarie. Si stima che il valore delle risorse sotterranee del Paese si aggiri tra 1 e 3 trilioni di dollari: oro, litio, lapislazzuli, ferro, rame, uranio e metalli rari che avrebbero potuto costituire il fondamento dello sviluppo sostenibile, dell’industrializzazione e della riduzione della povertà.
Ma nelle mani dei Talebani questa ricchezza si è trasformata nel suo opposto: carburante per la guerra, fonte di corruzione e strumento per le reti mafiose.

Dalla caduta della repubblica nel 2021, il saccheggio delle risorse afghane si è intensificato. Personaggi come Bashir Noorzai, famigerato narcotrafficante, sono ora al centro degli accordi minerari; un chiaro segno che i Talebani stanno aggirando la pressione globale.

In Afghanistan, la struttura del saccheggio è chiara. I Talebani nominano loro rappresentanti proprio nei luoghi di estrazione dei minerali, strategici per obbligare a dare loro la quota del 10%.
Quando si tratta di esportazioni, gli stessi ministeri che dovrebbero facilitare lo scambio diventano invece ostacoli: prezzi irrealistici, pratiche pesanti e corruzione sfacciata. Gli esportatori sono costretti a ricorrere al contrabbando.
I Talebani hanno deliberatamente chiuso questo traffico in modo che tutto ruoti nell’ombra e i profitti principali finiscano nelle loro tasche. Solo i Talebani sono in grado di esportare legalmente questi materiali o chi condivide indirettamente gli stessi interessi .

Oltre il 95% delle pietre preziose, come smeraldi, lapislazzuli e oro, passa attraverso il Pakistan e viene poi venduto in Cina, Emirati Arabi Uniti e India. Materiali da costruzione lussuosi, come marmo di Kandahar, talco e onice di Helmand, vengono esportate in blocchi grezzi attraverso Iran e Pakistan, dove vengono valorizzate e esportate in altri Paesi da parte del Pakistan. L’Afghanistan non riceve alcuna quota di questo valore aggiunto, gli restano solo le terre devastate, le acque inquinate e la povertà delle persone.

Nel nord-est del Paese, le miniere d’oro sono diventate un monopolio assoluto dei Talebani. Le aziende affiliate ai comandanti locali operano senza licenze ufficiali. Chiunque paghi una quota ai Talebani è autorizzato a estrarre anche illegalmente; chiunque opponga resistenza viene minacciato o addirittura giustiziato.
In Badakhshan, quattro minatori locali che si erano opposti ai saccheggi sono stati uccisi di notte.

Questa repressione non solo ha messo a tacere la comunità locale, ma ha anche riversato i profitti dell’oro direttamente nelle tasche dei Talebani e dei loro alleati terroristi. Rapporti internazionali mostrano che al-Qaeda ha guadagnato circa 194 milioni di dollari dall’estrazione dell’oro nel nord-est dell’Afghanistan solo tra il 2022 e il 2024.

Esportazione anziché sviluppo interno

Il fluoruro di calcio (fluorite) è un esempio dell’importanza di questi materiali: svolge un ruolo vitale nell’industria siderurgica e, senza di esso, l’Afghanistan, con le sue vaste risorse di ferro, non sarebbe in grado di creare un’industria siderurgica sostenibile.
Ma oggi, invece di contribuire allo sviluppo interno, viene esportato a tonnellate e venduto nei mercati pakistani. I dati del commercio mondiale mostrano che Cina e Corea del Sud sono tra le principali destinazioni di queste esportazioni: la Cina per l’industria dei metalli e delle batterie per usi industriali e la Corea del Sud per l’acciaio e il vetro.
Il risultato è chiaro: invece di creare un’industria siderurgica autosufficiente, l’Afghanistan si ritroverà con un’economia incompleta e sarà costretto ad acquistare nuovamente questo stesso vitale materiale sul mercato mondiale domani. I talebani non solo stanno saccheggiando il paese oggi, ma anche prendendo in ostaggio il futuro industriale del Paese.

Nella catena globale dell’economia sommersa

Ma i Talebani non guardano solo all’interno, oggi potenze come la Cina hanno portato il ciclo di saccheggio dei Talebani a un nuovo livello.
Secondo Reuters, Pechino ha promesso di concedere alle esportazioni afghane l’esenzione tariffaria totale. Ciò significa che i Talebani, mentre cacciano le ragazze da scuola e mettono a tacere i manifestanti locali con i proiettili, possono “legittimamente” esportare le risorse del sottosuolo del Paese nel mercato cinese. Per Pechino, l’Afghanistan è una fonte di litio, uranio, rame e ferro, materiali che alimentano la catena industriale cinese.

La Cina, sebbene non abbia riconosciuto ufficialmente i Talebani, come altri Paesi, ha però praticamente aperto loro le porte dell’economia globale.
“Zero dazi” significa che i Talebani possono passare dal saccheggio interno alle esportazioni ufficiali e riempire le loro casse. Questo è lo stesso pericolo che, se non preso sul serio, trasformerà l’Afghanistan da un terreno di contrabbando locale a un anello chiave nella catena globale dell’economia sommersa.

I talebani parlano di “sviluppo” nei loro discorsi ufficiali, ma in pratica aggravano la povertà. Nel messaggio per l’Eid, il loro leader ha menzionato “miniere e terra” come risorse per ridurre la povertà, ma quello stesso discorso era rivolto solo agli uomini ed escludeva le donne.
Questa lampante contraddizione tra parole e fatti è il vero volto dei talebani: all’estero, lo slogan dello sviluppo e della cooperazione, ma in patria, saccheggio, discriminazione e oppressione.

I talebani sono vivi finché esiste il denaro

La domanda principale è: in che modo i Talebani possono perdurare? La risposta può essere riassunta in una frase: i Talebani sono vivi finché esiste il denaro.
Ogni dollaro del contrabbando di oro e smeraldi, ogni rimessa da Dubai o Karachi, ogni accordo tariffario con la Cina e ogni tonnellata di fluoruro di calcio che raggiunge le acciaierie coreane o le industrie metallurgiche cinesi è una pallottola nell’arsenale dei Talebani.
Il modo per controllare i Talebani è fermare il denaro.
La comunità internazionale deve prendere di mira le fonti di finanziamento dei Talebani: vietando le esportazioni minerarie illegali, creando un’etichetta “Taliban-free” per i minerali, monitorando rigorosamente le rimesse e le organizzazioni benefiche e facendo pressione sui Paesi complici di questo saccheggio.

Allo stesso tempo è necessario offrire alternative al popolo afghano: investendo nella lavorazione interna, sostenendo aziende trasparenti e creando opportunità di lavoro legittime.
I talebani trovano continuamente nuove fonti di reddito: dall’oppio alla metanfetamina, dalle miniere ai contratti con l’estero.
Ma una verità non cambia: tutte queste fonti portano al denaro, e tutto questo denaro al terrore. La fine del terrore implica la fine dell’economia sommersa e la fine dell’economia sommersa è possibile solo con la volontà collettiva di tagliare l’arteria finanziaria dei talebani.

L’Afghanistan merita un’economia che costruisca scuole e ospedali, non un tesoro che fornisca armi e polvere da sparo. Se il mondo non decide oggi, domani non solo l’Afghanistan ma anche la sicurezza della regione e del mondo intero rimarranno ostaggio dell’economia sommersa dei talebani.
Ma se questa arteria verrà chiusa, i talebani saranno senza fiato, la guerra perderà slancio e la speranza, seppur lentamente, tornerà a scorrere.

 

Fonti
Reuters. 2024. La Cina concederà ai talebani accesso senza dazi doganali al commercio con un regime isolato e ricco di risorse. Servizio di Joe Cash, 25 ottobre 2024.
Associated Press (AP News). 2023. Ricavi di Al-Qaeda dalle miniere d’oro nel nord-est dell’Afghanistan. 2022-2024.
Radio Freedom (RFE/RL). 2023. Il controllo dei talebani sulle miniere afghane e il loro ruolo nella corruzione e nel finanziamento del terrorismo.
Global Witness. 2022. Minerali insanguinati: come stanno saccheggiando i talebani le risorse naturali dell’Afghanistan?
The Guardian. 2024. L’attività mineraria illegale in Afghanistan e le sue conseguenze ambientali.
United States Institute of Peace (USIP). 2022. Beni dei talebani: l’economia politica della cattura del governo.
Organizzazione mondiale delle dogane (OMD). 2021. Ricerca sulle risorse minerarie e sui flussi commerciali.
Banca Mondiale/UN Comtrade Database. 2022. Dati sul commercio internazionale – Esportazioni e importazioni di fluorite (Afghanistan, Cina, Corea del Sud).
Wilson Center. 2023. Infiltrazione mineraria: le ambizioni della Cina nell’Afghanistan controllato dai talebani.
Lawfare. 2023. I minerali strategici dell’Afghanistan: rischi e implicazioni per la sicurezza globale.
15 di Sanbol 1404, otto del mattino

 

Un nuovo studio rivela che gli Hazara rischiano il genocidio sotto il regime dei talebani

Un nuovo rapporto conclude che vi è una “ragionevole base per credere” che gli attacchi dei talebani, dello Stato islamico della provincia di Khorasan (IS-KP) e dei Kuchi sostenuti dai talebani rispondano alla definizione di genocidio della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948

Kabul Now, 1 settembre 2025

Il New Lines Institute for Strategy and Policy pubblicherà presto un rapporto che valuterà se la comunità Hazara dell’Afghanistan sia stata vittima di genocidio dal ritorno al potere dei Talebani nel 2021. Una copia esclusiva ottenuta da KabulNow conclude che vi è una “ragionevole base per credere” che i recenti e continui attacchi contro gli Hazara da parte dei Talebani, dello Stato Islamico-Provincia di Khorasan (IS-KP) e dei Kuchi sostenuti dai Talebani rientrino nella definizione di genocidio della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948.

Intitolato “Il genocidio degli Hazara: un esame delle violazioni della Convenzione sul genocidio in Afghanistan dall’agosto 2021″ , il rapporto sostiene che le uccisioni, i bombardamenti, gli sfollamenti forzati e la privazione sistematica delle risorse di base inflitti agli Hazara costituiscono atti proibiti dalla Convenzione. Queste atrocità, intensificatesi dopo la presa del potere da parte dei talebani, includono l’uccisione di membri del gruppo, l’inflizione di gravi danni fisici e psicologici e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere il gruppo.

Lo studio documenta come gli Hazara abbiano dovuto affrontare la distruzione dei mezzi di sussistenza, l’espulsione dalle terre ancestrali, la negazione di cibo e cure mediche e ripetuti attacchi alle strutture sanitarie, inclusi i reparti maternità, nonché a scuole, centri di apprendimento, luoghi di culto, trasporti, incontri sociali e ai loro quartieri. Anche gli aiuti umanitari sono stati sospesi o limitati nelle aree popolate dagli Hazara.

Gli autori sottolineano che l’intento è fondamentale per determinare il genocidio e affermano che l’intento di distruggere gli Hazara può essere visto attraverso dichiarazioni ufficiali, politiche, natura e modelli di attacchi, sfollamenti forzati e altri atti sistematici che li prendono di mira a causa della loro identità.

Gli Hazara, un gruppo etnico distinto e prevalentemente sciita, rimangono tra le comunità più vulnerabili dell’Afghanistan. Il rapporto sottolinea che rientrano nella categoria dei gruppi etnici protetti ai sensi dell’Articolo II della Convenzione sul Genocidio, in base alla loro cultura, lingua e religione comuni. In quanto musulmani sciiti, sono anche un gruppo religioso protetto in un Paese in cui l’Islam sunnita è la fede dominante.

Nonostante gli impegni del Paese nei confronti dei trattati internazionali sui diritti umani, la comunità ha dovuto affrontare una violenza incessante, con scarsa protezione e scarsa responsabilità.

Il rapporto accusa i Talebani, in quanto autorità de facto, di aver violato la loro responsabilità di prevenire le atrocità e sostiene che la complicità del gruppo – talvolta attraverso il coinvolgimento diretto negli attacchi – ne acuisce la colpevolezza. Avverte inoltre che, ai sensi del diritto internazionale, gli altri Stati parte della Convenzione sul Genocidio sono obbligati ad agire.

“Data la duratura realtà della violenza sistematica contro gli Hazara e la concomitante cultura dell’impunità in Afghanistan, è giunto il momento che la comunità internazionale prenda in considerazione l’obiettivo e lo scopo della Convenzione di ‘prevenire e punire’ gli atti di genocidio contro questo gruppo”, afferma lo studio.

Il rapporto colloca i continui attacchi contro gli Hazara in una più ampia storia di persecuzioni. Alla fine del XIX secolo, l’emiro Abdur Rahman Khan lanciò una campagna che uccise o sfollò deliberatamente la maggior parte della popolazione Hazara. Le sue forze compirono esecuzioni di massa, violenze sessuali, riduzione in schiavitù e matrimoni forzati. Decreti di jihad e promesse di bottino alimentarono la violenza, mentre torri di teschi esposti nei bazar simboleggiavano il terrore. Donne e ragazze furono costrette a sposarsi o ridotte in schiavitù, e decine di migliaia di Hazara furono comprati e venduti nei mercati degli schiavi, con lo stato afghano che traeva profitto dal commercio. Gli studiosi stimano che più della metà della popolazione maschile Hazara perì in quelle campagne.

“Tali atrocità passate che hanno preso di mira le comunità, soprattutto se affrontate impunemente, rappresentano un segnale di allarme precoce e un fattore di rischio per ulteriori atrocità in futuro”, si legge nel rapporto. “Dovrebbero essere utilizzate per identificare e prevedere il grave rischio di genocidio, che a sua volta dovrebbe innescare il dovere di prevenzione”.

Il rapporto sottolinea che le atrocità contro gli Hazara sono continuate per tutto il XX secolo, con la comunità sottoposta a persistenti discriminazioni e persecuzioni. Evidenzia episodi particolarmente brutali dopo il ritiro sovietico nel 1989 e durante il primo regime talebano negli anni ’90.

Inquadrando il caso Hazara direttamente all’interno della Convenzione sul genocidio, il rapporto fornisce uno degli argomenti più convincenti finora a favore di un’azione internazionale urgente.

Tra le sue raccomandazioni, il rapporto chiede la creazione di un meccanismo delle Nazioni Unite per documentare e preservare le prove dei crimini contro gli Hazara, deferendo il caso Hazara alla Corte penale internazionale, come già fatto nel caso della persecuzione di genere, e avviando un procedimento presso la Corte internazionale di giustizia per le violazioni della Convenzione sul genocidio da parte dei talebani.

A livello nazionale, il rapporto esorta i governi di tutto il mondo ad avviare indagini strutturali sulle atrocità commesse dagli Hazara, a perseguire penalmente i cittadini sotto la giurisdizione universale e a imporre sanzioni agli individui responsabili di crimini contro la comunità.

La pubblicazione del rapporto avviene in un momento in cui il regime al potere in Afghanistan è sottoposto a un rinnovato esame da parte degli organismi internazionali. A luglio di quest’anno, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto nei confronti di due alti dirigenti talebani per crimini contro l’umanità basati sul genere.

Tuttavia, il rapporto del New Lines Institute avverte che gli organismi internazionali sono rimasti in gran parte in silenzio sulla difficile situazione degli Hazara, nonostante migliaia di morti e feriti causati da attacchi mirati dal 2021. Gli autori sostengono che la CPI dovrebbe esaminare la persecuzione degli Hazara “in modo più ampio, e come crimini contro l’umanità, persecuzione religiosa ed etnica e crimine di genocidio”.

 

“Tutto ciò che mi è rimasto è questo tessuto”: i sopravvissuti al terremoto in Afghanistan aspettano ancora aiuto

Shams Rahman, Zan Times, 5 settembre 2025

Nelle case distrutte del villaggio di Wadeer, nella provincia afghana di Kunar, i sopravvissuti al devastante terremoto di domenica, che ha ucciso più di 2.200 persone, affermano di essere ancora in attesa degli aiuti più basilari: cibo e riparo.

Il terremoto di magnitudo 6.0, che ha colpito l’Afghanistan orientale verso mezzanotte, ha causato oltre 3.600 feriti, secondo i funzionari talebani. E in tutta la provincia di Kunar, oltre 5.700 case sono state distrutte. Il distretto di Nurgal, nella parte occidentale della provincia di Kunar, dove si trova il villaggio di Wadeer, è stato l’epicentro della devastazione, con 1.000 morti confermati e 2.500 feriti.

I talebani, che hanno preso il controllo del Paese nel 2021, hanno esortato enti di beneficenza, imprenditori e cittadini comuni a contribuire alla loro risposta. I portavoce talebani hanno diffuso online i numeri di conto bancario, con la promessa che le donazioni sarebbero state gestite con “trasparenza”.

Le difficoltà del soccorso

Un portavoce del governo talebano, Zabihullah Mujahid, afferma che le operazioni di soccorso continuano. Nelle zone irraggiungibili con gli elicotteri, sarebbero state paracadutate unità di commando per trasportare i feriti in salvo.

Ma sul campo, il divario tra annunci e azioni concrete si sta ampliando. Alcune squadre di soccorso volontarie hanno raggiunto il villaggio di Wadeer e sono state inviate unità sanitarie mobili, ma i residenti affermano che il supporto rimane insufficiente.

I danni alle strade causati dal terremoto e dalle recenti piogge hanno reso l’accesso ancora più difficile. In altri villaggi, alcuni sopravvissuti stanno ancora aspettando di estrarre i corpi dei loro cari dalle macerie.

“Abbiamo urgente bisogno di tende e cibo. Le persone hanno perso la casa; non hanno nemmeno i mezzi per cucinare. E abbiamo bisogno di più medici. Le équipe mediche sono troppo poche e le persone vengono ancora sepolte”, racconta al Guardian un anziano del villaggio di Wadeer.

“Siamo ancora seduti al sole perché non c’è una tenda”, dice una nonna di Wadeer, che è con i suoi due nipoti. “Se ci fosse una tenda, potrei almeno tenerli all’ombra”.

Racconta che sua nuora e suo marito sono stati portati in ospedale in elicottero, ma non ha idea di dove. Nessuno è tornato con informazioni o aiuti.

Lì vicino, un’altra donna che ha perso più di 30 parenti racconta: “Ho perso mio marito, i miei figli, i miei nipoti. Tutto. Mi è rimasto solo questo panno. Non ho nemmeno i soldi per comprare un paracetamolo”.

Le agenzie umanitarie hanno affermato che le donne sopravvissute al terremoto non possono accedere facilmente a soccorsi o supporto medico e che nelle province conservatrici come Kunar è difficile per una donna single chiedere aiuto a uomini non imparentati. L’autonomia e la libertà di movimento delle donne sono fortemente limitate dal regime talebano, incluso il divieto di parlare in pubblico.

Un solo ospedale funzionante

Nonostante sia uno dei distretti più colpiti, Nurgal ha un solo ospedale funzionante, che non riesce a gestire l’enorme numero di vittime. La maggior parte delle persone soccorse finora viene trasferita nella capitale afghana, Kabul, o nella vicina provincia di Nangarhar in elicottero per le cure.

Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà a intensificare gli sforzi di soccorso, non solo a causa della conformazione del territorio, ma anche a causa delle gravi carenze di finanziamenti, molte delle quali derivano dal crollo più ampio del sostegno dei donatori all’Afghanistan.

“La situazione sul campo è critica”, afferma il Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC). “Intere comunità hanno urgente bisogno di assistenza salvavita. Le risorse locali sono al limite e la mancanza di finanziamenti sta limitando la portata e la rapidità della risposta umanitaria”.

L’NRC afferma che le famiglie nella provincia di Kunar dormono in tende sovraffollate, alcune delle quali ospitano fino a 100 donne e bambini, senza accesso a servizi igienici o acqua pulita.

Da febbraio 2025, 422 centri sanitari in tutto l’Afghanistan hanno chiuso i battenti a seguito dei tagli agli aiuti statunitensi. Solo nell’Afghanistan orientale, 80 centri sanitari hanno chiuso i battenti, di cui almeno 15 a Kunar e 29 a Nangarhar, lasciando i sopravvissuti al terremoto ancora più vulnerabili.

L’NRC afferma che il suo portafoglio di finanziamenti è pari al 60% di quello del 2023, il che limita significativamente la sua capacità di rispondere alle crescenti esigenze umanitarie. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni delle Nazioni Unite, che aiuta gli sfollati in Afghanistan, afferma che i tagli ai finanziamenti di quest’anno hanno ridotto la capacità dei magazzini e la presenza dell’organizzazione sul campo, costringendo la maggior parte delle forniture a essere spedita da Kabul, il che aumenta ulteriormente i ritardi e i costi logistici.

Fondi stanziati, ma i soccorsi non arrivano

L’Organizzazione Mondiale della Sanità e altre agenzie hanno dispiegato kit sanitari di emergenza, team mobili e ambulanze aggiuntive nella regione. Eppure, per molti nelle aree remote, l’accesso alle cure rimane impossibile. Con le strade bloccate e il numero insufficiente di elicotteri, gli abitanti dei villaggi devono aspettare, sperando che arrivino i soccorsi.

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari afferma che 25 team inter agenzia hanno raggiunto alcuni distretti colpiti, ma ha ammesso che l’accesso alle valli più colpite rimane discontinuo e che le condizioni meteorologiche hanno ulteriormente ritardato i progressi.

Le Nazioni Unite hanno stanziato 10 milioni di dollari (7,4 milioni di sterline) in fondi di emergenza, 5 milioni dal Fondo Centrale di Risposta alle Emergenze e altri 5 milioni dal Fondo Umanitario per l’Afghanistan. Ma i responsabili degli aiuti umanitari affermano che si tratta di una frazione di quanto necessario.

Per ora, in villaggi come Wadeer, le persone siedono sotto brandelli di stoffa o teli di plastica, piangendo i loro morti e temendo ciò che accadrà in futuro.

Kreshma Fakhri e Freshta Ghani hanno contribuito al reportage.

Questo rapporto è stato pubblicato in collaborazione con il Guardian .

Dopo il terremoto, i bambini afghani affrontano una crisi nella crisi

I tagli agli aiuti hanno causato la chiusura delle cliniche e bloccato gli aiuti. Nessun bambino dovrebbe morire perché l’attenzione mondiale cala o i bilanci si riducono. I bambini afghani erano già vulnerabili alla fame, alle malattie, alla povertà e all’isolamento, e ora sono precipitati in un abisso ancora più profondo

Abdurahman Sharif, Al Jazeera, 3 settembre 2025

Un violento terremoto di magnitudo 6.0 ha devastato l’Afghanistan orientale questa settimana, radendo al suolo interi villaggi di montagna e distruggendo le fragili vite di migliaia di persone, in particolare bambini, che erano già alle prese con crescenti necessità umanitarie e tagli ai finanziamenti.

Questo terremoto, che ha colpito le province di Kunar e Nangarhar, ha già ucciso più di 1.400 persone e si prevede che il numero aumenterà, mentre le scosse di assestamento continuano a provocare devastazione. Migliaia di altre persone sono rimaste ferite, con interi villaggi rasi al suolo in zone remote e montuose dove le strade sono bloccate e le squadre di soccorso, tra cui il personale sanitario mobile di Save the Children, stanno lottando per raggiungere le persone in difficoltà.

I bambini sono in più colpiti

Ma non si tratta di un’altra catastrofe naturale: è una collisione di catastrofi per l’Afghanistan, dove quasi 23 milioni di persone, ovvero poco meno della metà della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria quest’anno. Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification, oltre 9 milioni di persone dovranno affrontare una grave insicurezza alimentare prima di ottobre. Almeno 2 milioni di persone sono state costrette a tornare in Afghanistan solo quest’anno da Iran e Pakistan. Il risultato è catastrofico, e sono i bambini a pagarne le conseguenze.

Tali disastri naturali richiedono una risposta umanitaria rapida e decisa. I bambini hanno bisogno di cure mediche immediate, acqua pulita, riparo e supporto psicosociale per riprendersi dal trauma. Eppure, queste operazioni essenziali sono limitate, ridotte dai tagli agli aiuti inflitti al sistema umanitario globale.

Quest’anno, i donatori internazionali hanno tagliato i budget per gli aiuti esteri. Queste decisioni sono arrivate esattamente nel momento sbagliato. Circa 126 programmi gestiti da Save the Children a livello globale sono stati chiusi a causa dei tagli agli aiuti a maggio, colpendo circa 10,3 milioni di persone. Si tratta di programmi che supportano milioni di bambini in zone di conflitto, campi profughi e aree a rischio di catastrofi.

In Afghanistan, questi tagli hanno comportato una riduzione del personale necessario per rispondere alle calamità naturali e a fronteggiare catastrofi come questo terremoto. Le cliniche mediche sono state chiuse, quindi ci sono meno strutture per curare i feriti, e le strutture sanitarie ancora aperte sono disperatamente sovraccariche, anche prima che si verificasse questo disastro. I servizi sanitari in Afghanistan non possono assorbire colpi come questo terremoto.

L’impatto dei tagli agli aiuti in Afghanistan è stato profondamente sentito da Save the Children. Save the Children ha perso i finanziamenti per 14 cliniche sanitarie nell’Afghanistan settentrionale e orientale, sebbene al momento utilizziamo finanziamenti alternativi a breve termine per mantenerle aperte. La perdita di queste cliniche significherebbe la perdita dell’accesso all’assistenza sanitaria nei loro villaggi per 13.000 bambini.

All’inizio di quest’anno, ho visitato la provincia di Nangarhar, ora devastata dal terribile terremoto, e ho incontrato bambini e le loro famiglie che lottano per sopravvivere. Ho visto interi centri sanitari gestiti dai nostri partner chiudere. Le famiglie mi hanno raccontato cosa significa: madri impossibilitate a partorire in sicurezza, bambini che non ricevono vaccinazioni essenziali e famiglie lasciate senza speranza.

La portata della crisi umanitaria in Afghanistan, aggravata dai tagli agli aiuti e ora combinata con uno scenario di risposta improvvisa come il terremoto afghano, crea una crisi nella crisi. Le agenzie umanitarie sono sotto pressione – o assenti – a causa dei licenziamenti del personale e della chiusura di programmi e uffici.

Questo terremoto dovrebbe essere un chiaro appello a reinvestire negli aiuti umanitari, rapidamente e generosamente. I governi donatori devono invertire la rotta, sbloccare i finanziamenti di emergenza e impegnarsi a finanziare a lungo termine i servizi per l’infanzia.

Senza finanziamenti immediati e duraturi, prevediamo un rapido peggioramento: bambini esposti a malattie trasmesse dall’acqua, famiglie costrette a strategie di adattamento negative come il lavoro minorile o il matrimonio precoce, e tassi crescenti di malnutrizione in un Paese in cui un bambino su cinque già prima del terremoto soffriva di fame acuta. Entro ottobre di quest’anno, si prevedeva che cinque milioni di bambini afghani – ovvero circa il 20% dei bambini in Afghanistan – avrebbero dovuto affrontare una fame acuta, con tagli ai finanziamenti che avrebbero ridotto del 40% la quantità di aiuti alimentari disponibili e 420 centri sanitari chiusi, impedendo l’accesso a tre milioni di persone. Anche prima dei tagli agli aiuti, 14 milioni di persone avevano un accesso limitato all’assistenza sanitaria.

Dobbiamo garantire che quando si verifica un disastro – che si tratti di un terremoto o di un conflitto – siamo in grado di reagire, e rapidamente. Dobbiamo garantire che i diritti dei bambini continuino a esistere, anche quando i bilanci vacillano.

Questa è una crisi che aggrava un’altra crisi. Stiamo assistendo al collasso dei sistemi di protezione dei bambini – sanitari, nutrizionali, educativi, psicosociali – proprio nel momento in cui sono più critici.

Nessun bambino dovrebbe morire perché l’attenzione mondiale cala o i bilanci si riducono. I bambini afghani erano già vulnerabili alla fame, alle malattie, alla povertà e all’isolamento, e ora sono precipitati in un abisso ancora più profondo.

(Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera)

Abdurahman Sharif è Direttore senior, Impatto del programma, Influenza e Affari umanitari per Save the Children.

 

Il capo delle NU sollecita maggiori aiuti per i sopravvissuti al terremoto in Afghanistan

Kabul Now, 2 settembre 2025

Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha sollecitato aiuti urgenti e maggiori per i sopravvissuti al devastante terremoto nell’Afghanistan orientale, avvertendo che le risorse esistenti sono “insufficienti per far fronte alle necessità”.

In una dichiarazione rilasciata dalla missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), il signor Guterres ha affermato che le Nazioni Unite non risparmieranno alcuno sforzo per aiutare le persone colpite, ma ha sottolineato che sono urgentemente necessari maggiori finanziamenti.

Ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime e ha augurato una pronta guarigione ai feriti. Ha inoltre confermato che sono stati stanziati 5 milioni di dollari dal Fondo Centrale di Risposta alle Emergenze (CERF) delle Nazioni Unite per fornire soccorsi immediati. Ulteriori 5 milioni di dollari dal Fondo Umanitario per l’Afghanistan sono stati stanziati per la risposta al terremoto, portando il contributo iniziale totale delle Nazioni Unite a 10 milioni di dollari.

“Le Nazioni Unite e i nostri partner in Afghanistan si stanno coordinando con le autorità de facto per valutare rapidamente le necessità, fornire assistenza di emergenza ed essere pronti a mobilitare ulteriore supporto”, ha affermato Guterres.

Il terremoto, di magnitudo 6,0, ha colpito nella tarda notte di domenica, colpendo le province di Kunar, Nangarhar, Laghman e Nuristan. L’impatto più grave è stato segnalato nella provincia di Kunar, in particolare nei distretti di Chhawkay, Nurgal, Chapa Dara, Dara-e-Pech, Watapur e Asadabad.

Secondo i dati dei talebani , almeno 1.411 persone sono state uccise e più di 3.100 ferite. Molti dei feriti rimangono in condizioni critiche, mentre gli ospedali devono far fronte a carenza di forniture, attrezzature e personale. Gli operatori umanitari affermano che le restrizioni all’occupazione femminile nel settore sanitario hanno ulteriormente complicato la risposta, lasciando le pazienti senza un adeguato accesso alle cure.

I funzionari delle Nazioni Unite stimano che oltre 12.000 persone siano state colpite direttamente, mentre oltre 5.400 case sono state distrutte nella sola provincia di Kunar. I villaggi nelle remote valli montane rimangono isolati dopo che le frane provocate dalle recenti piogge e le inondazioni hanno bloccato le strade, rendendo difficile per i convogli di aiuti raggiungere alcune delle zone più colpite.

Alcuni paesi hanno promesso un sostegno immediato. L‘Unione Europea ha annunciato un finanziamento di 1 milione di euro, mentre il Regno Unito si è impegnato a 1 milione di sterline. L’India ha inviato 21 tonnellate di forniture di emergenza, tra cui cibo, tende, medicinali e acqua.

Nonostante questi sforzi, le agenzie umanitarie affermano che l’attuale livello di supporto è ben lungi dall’essere sufficiente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha chiesto 3 milioni di dollari per fornire cure mediche urgenti. Il Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) ha richiesto 2 milioni di dollari per sostenere 25.000 persone nei prossimi sei mesi con cibo, alloggio e assistenza in denaro.

Il terremoto si verifica mentre l’Afghanistan sta affrontando una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, con oltre metà della popolazione già dipendente dagli aiuti dopo decenni di guerra, collasso economico e ripetuti disastri naturali.