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La normalizzazione dell’oppressione sotto il regime talebano

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8Am Media, 3 febbraio 2025

“Noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive”, mentre l’oppressione diventa normale nel silenzio degli uomini

In questo preciso momento, mentre inizio a scrivere queste righe, sono trascorsi 1.260 giorni da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Ma questi 1.260 giorni non sono più solo un numero: sono una catena, che diventa più pesante di momento in momento attorno al collo del nostro tempo e della nostra stessa esistenza.

Questi giorni raccontano la lenta distruzione di un’intera generazione di donne e ragazze, una generazione che non ha vissuto sotto l’ombra del terrore ma è semplicemente sopravvissuta. Giorni che, invece di assistere allo sbocciare dei sogni, hanno solo visto il loro crollo. Un tempo in cui le aspirazioni non sono state perseguite ma seppellite, una per una.

Questi giorni sono incisi come una fiamma spenta nei cuori di una generazione, una generazione le cui voci di speranza, con ogni frustata sui loro corpi e sulle loro anime, si sono appassite in sussurri senza vita. Per 1.260 giorni, il tempo non è passato per loro né si è fermato; ha solo scavato nuove ferite nel tessuto dei loro spiriti. Questi giorni testimoniano la graduale morte della speranza e la silenziosa sepoltura di grida e voci mai ascoltate.

Talebani è sinonimo di orrore

Abbiamo sempre saputo che i talebani erano un gruppo terroristico a tutti gli effetti, allevato nelle madrase del Pakistan, non per costruire, ma per distruggere. Uomini rozzi, con la barba folta e dall’aspetto spaventoso, fucili a tracolla, crudeltà sfacciata, che frustavano le donne in piazza Spinzar a Kabul con selvaggia brutalità. Nella nostra mente, l’immagine dei talebani è sempre stata sinonimo di orrore. Come si potrebbe non temere un gruppo che si lega le bombe al corpo con precisione esperta, solo per farsi esplodere e fare a pezzi centinaia di vite innocenti?

Ora, da tre anni, viviamo sotto lo stesso incubo che un tempo definiva le nostre peggiori paure. Se questo può anche essere chiamato “vivere”. Perché noi respiriamo e basta, senza essere veramente vive. Chissà? Forse nel loro prossimo decreto, persino respirare sarà proibito “fino a nuovo avviso”.

 

Un regime costruito sulle rovine della dignità umana

Per tre anni, siamo state sistematicamente spogliate della nostra umanità. Scuola, università, lavoro, viaggi, voce, visione, finestre e persino la nostra stessa identità ci sono stati tolti. Siamo state imprigionate nelle nostre stesse case, le nostre voci messe a tacere. E quando abbiamo osato protestare, ci hanno frustato senza pietà, selvaggiamente, imperdonabilmente. Per tre anni, stupro, umiliazione e oppressione non sono stati semplici incidenti; sono stati politica, una strategia deliberata per distruggere lo spirito collettivo, estinguere la speranza e fortificare un regime costruito esclusivamente sulle rovine della dignità umana.

E tuttavia, attraverso tutto questo, sono le donne che hanno tenuto duro in questo campo di distruzione. Donne che si sono inginocchiate davanti ai corpi senza vita dei loro sogni, le loro lacrime e le loro urla hanno messo a nudo la loro impotenza di fronte a un mondo a cui semplicemente non importa.

Non hanno solo protestato. Hanno pagato il prezzo. Con la prigionia, con le frustate, con il loro sacrificio. Sono le donne che si svegliano ogni mattina con il suono dei loro sogni che crollano intorno a loro e ogni notte sono costrette a seppellire le loro aspirazioni nel silenzio soffocante di questa terra oscura.

Un vergognoso silenzio

Ma il dolore non deriva solo dai mostri misogini che si definiscono un governo. No, questo incubo è più grande di un regime. Con l’arrivo di queste bestie, risentimenti sepolti da tempo, ignoranza radicata e misoginia nascosta nel tessuto stesso della società sono emersi. È come se la loro presenza avesse dato una licenza, un permesso distorto a una società che aveva sempre considerato le donne inferiori, per metà viste, per metà ignorate. E ora, apertamente, infligge le sue ferite ai loro corpi e alle loro anime.

Eppure, loro resistono. Donne che sono state abbandonate dalle loro case, dalle loro comunità e persino dalla storia stessa. Sole. Ma orgogliose. Sfidanti di fronte a un’oppressione così grande che ha annegato il mondo in un vergognoso silenzio.

Solo pochi giorni fa, le grida disperate della figlia del nostro vicino risuonavano tra le pareti della loro casa mentre suo padre la picchiava. La chiamerò Farah. Farah era all’undicesimo anno quando arrivarono i talebani. Era una ragazza piena di ambizione, traboccante di sogni, sogni abbastanza grandi da creare un mondo completamente nuovo. Voleva diventare una scrittrice. Aveva imparato a memoria ogni libro di Elif Shafak e Mahmoud Dowlatabadi.

Ma i sogni di Farah furono bruciati, letteralmente. I suoi libri dati alle fiamme. Fu picchiata fino alla sottomissione e costretta a sposare un uomo vedovo, la cui unica qualifica era la sua ricchezza, un uomo che l’aveva trascinata da un mondo di sogni alla schiavitù di una vita imposta. E quando la gente protestò contro la decisione di suo padre, lui ebbe una sola risposta: “Le scuole sono chiuse. Di questi tempi, tenere una figlia nubile è difficile”.

 

L’oppressione è diventata ordinaria

La storia di Farah, per quanto amara e tragica, non sembra più nemmeno un evento degno di nota. Nella realtà soffocante che governa la vita delle donne qui, storie come la sua sono diventate insignificanti. Ogni giorno, centinaia di storie del genere, scritte e non scritte, si dipanano, racconti che, in un altro tempo, avrebbero acceso la rabbia, avrebbero fatto piangere. Ma ora sono diventati solo un’altra parte della routine quotidiana di questa terra.

Come disse una volta Hannah Arendt: “La più grande vittoria degli oppressori è quella di normalizzare l’oppressione”. E qui, nella terra di Farah, l’oppressione non ha più bisogno di giustificazioni. L’ingiustizia cammina per le strade, respira nelle case e si annida nelle menti. Quando l’oppressione diventa ordinaria, nessuno urla più. E così, la storia di Farah, come le storie di innumerevoli altri, è sepolta in quello stesso silenzio mortale. Un silenzio che non riflette altro che la morte dell’umanità stessa.

 

Dentro ogni uomo un talebano nascosto

Ogni volta che abbiamo provato a parlare del silenzio degli uomini di fronte alla crudeltà dei talebani verso le donne, le nostre voci sono state strozzate prima ancora di poter uscire dalle nostre gole. Ci hanno detto: “No, non avete il diritto di dire queste cose”. Hanno sostenuto: “Se gli uomini protestano, verranno uccisi”. Alcuni, persino con orgoglio, hanno detto: “Il semplice fatto che un uomo permetta alla sorella o alla moglie di uscire e alzare la voce è di per sé un atto di sostegno”.

Ma perché? Perché la responsabilità è stata così drasticamente ridotta? Perché l’aspettativa di una decenza umana di base è stata abbassata a un livello così spaventoso? Se domani i talebani dovessero imporre a tutta la società gli stessi decreti che hanno cancellato le donne dalla vita pubblica, questo silenzio e questa indifferenza continuerebbero? No. Questo silenzio non è solo paura. Questo silenzio ha radici più profonde. È radicato nell’accettazione, nella normalizzazione, in un talebano nascosto che ha sempre vissuto nei cuori della maggior parte degli uomini in questa società. Perché nessuno lo dice? Perché nessuno ammette che la maggior parte delle persone in questa società porta dentro di sé un talebano silenzioso e nascosto? Un talebano senza pistola, senza decreto, uno che, attraverso il silenzio e la complicità, spiana la strada stessa dell’oppressione.

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