Skip to main content

La vita di una bambina ceduta in risarcimento

|

Shamsia, Zan Times, 3 febbraio 2025

Questa è la storia di una bambina che è stato data via come risarcimento e che ora vende penne per le strade di Kabul per sopravvivere. È stata scritta da una giornalista con lo pseudonimo di Shamsia.

Il mio cuore batte forte ogni giorno quando esco di casa e mi dirigo a Pul-e-Surkh, vicino all’Università di Kabul. Temo che i talebani possano fermarsi accanto a me e trascinarmi di nuovo nel loro veicolo. Sono distrutta per essere stata imprigionata dai talebani e per aver dovuto spiegare perché lavoro come venditrice ambulante. La prima volta che mi hanno arrestata, sono riuscita a liberarmi piangendo e supplicando, ora mi nascondo dietro i muri e nei vicoli di Pul-e-Surkh, aspettando che passino i loro veicoli. Mi copro il viso con un velo nero prima di scendere in strada per vendere penne.

So che il mio aspetto rende le persone sospette, pensano che io sia una mendicante. Vendere penne è l’unico lavoro che posso fare al momento. Vorrei avere un lavoro migliore, ma devo portare il cibo a casa e comprare le medicine per mia suocera.

Ogni giorno alle sei del mattino cammino da Company (un quartiere di Kabul) a Pul-e-Surkh. Non posso permettermi il biglietto dell’autobus e vendo penne lungo la strada. Alle sei di sera torno a casa a piedi. Quando dico “casa”, potresti immaginare una casa con un tetto, finestre e porte, ma invece viviamo in una tenda. In inverno, non abbiamo abbastanza carburante per stare al caldo. Mio marito e io usiamo il nostro magro reddito per soddisfare i bisogni di base. Riusciamo a malapena a comprare olio, riso e farina per non morire di fame. Mia suocera prende i miei guadagni e a volte mi dà un po’ di soldi per comprare una sciarpa o dei vestiti. È malata, ma non possiamo permetterci un medico e nessuno la curerà gratis.

Una bambina in cambio

Avevo 12 anni quando mi hanno data in sposa, ora ne ho 14. All’inizio non avevo idea di cosa significasse il matrimonio. Non avrei mai immaginato che sarei stata separata dalla mia famiglia così giovane, ma la mia famiglia non aveva scelta. Mio zio ha avuto una relazione con la sorella di mio marito e i due sono scappati insieme. In cambio della loro figlia che era scappata con mio zio, la famiglia di mio marito ha preteso me.

La mia famiglia mi ha dato via come risarcimento. Mio zio e mia cognata vivono in un posto sconosciuto, ma io sono qui, a pagare il prezzo delle loro azioni. A casa non ho autorità: faccio tutto quello che gli altri mi dicono di fare.

Anche mio marito è vittima della decisione di sua sorella. Eravamo entrambi bambini e ora ci siamo sposati controvoglia. Anche mio marito è un venditore di penne. A volte andiamo insieme al mercato, altre volte lavora a Sar-e-Kotal. A volte, invece di vendere penne, vende acqua.

Compro penne a cinque afghani l’una e le vendo a 10. I miei guadagni giornalieri sono imprevedibili. A volte vendo un pacchetto completo di 12 penne, altre volte ne vendo molto meno. Nei giorni in cui vendo qualche penna in più, torno a casa più felice.

La paura dei talebani

Dopo che i talebani mi hanno arrestato per aver lavorato per strada, ero terrorizzata e non volevo più lavorare. Sono rimasta a casa per qualche giorno, ma mia suocera mi ha detto che dovevo lavorare, altrimenti saremmo rimasti con la fame. Ho dovuto tornare in strada. Ora, sono estremamente attenta, anche se la paura di essere arrestata e imprigionata è sempre con me. Non so se è maggiore la preoccupazione di mettere il cibo in tavola o di come scappare dalla prigione dei talebani.

Quando le forze talebane mi hanno arrestata vicino all’Università di Kabul mi hanno portata in un luogo sconosciuto. Anche mio marito e diversi altri bambini lavoratori sono stati trattenuti. Siamo rimasti sotto custodia per due giorni. Ci hanno dato pochissimo cibo e avevamo costantemente fame. Alcuni bambini sono stati picchiati.

“Non lavorate. Restate a casa. Vi aiuteremo”, ci hanno detto i talebani. Ma non ci hanno aiutato per niente. Invece, ci hanno fatto promettere che non avremmo mai più lavorato e hanno minacciato che ci avrebbero torturati e imprigionati se fossimo stati sorpresi per strada una seconda volta.

Durante l’interrogatorio, ho implorato e pianto, spiegando la mia disperazione per il fatto che avevo una persona malata a casa e nessuno che la nutrisse o si prendesse cura di lei. Dopo due giorni, mi hanno rilasciata ma hanno tenuto mio marito in prigione.

Sogno di diventare mamma un giorno. Non ho ancora pensato a quante figlie o figli vorrei avere, ma mia suocera vuole che diventi mamma presto. Mi manca sempre mia madre. Non mi è permesso andare a trovare a casa i miei genitori, che sono lontani, ma a volte lei viene a trovarmi di nascosto.

Ogni volta che vedo bambini che vanno a scuola, vorrei essere uno di loro. Più di ogni altra cosa, vorrei diventare un medico. Non sono mai andata a scuola, ma so che l’istruzione è una cosa molto buona.

Vorrei che nessun’altra ragazza dovesse subire la mia stessa sorte. Spero che nessun’altra venga data via come risarcimento come è successo a me.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *