A Doha Usa e Talebani sarebbero vicini a siglare un accordo di pace. Tutte le contraddizioni di una non-strategia basata su cinismo e malafede.
Partiamo dai fatti di cronaca recente. A Doha, capitale del Qatar che sponsorizza il terrorismo internazionale, Usa e Talebani sarebbero vicini a siglare un accordo di pace. Questo accordo prevederebbe un progressivo ritiro delle forze armate americane – 5mila uomini su 14mila presenti in Afghanistan – ma soprattutto prevede che i Talebani, irriducibili nemici sul piano militare e politico religioso dell’Occidente e degli Stati Uniti in particolare, limitino e contengano le azioni terroristiche di al Qaeda e dello stato islamico.
il manifesto – 23 agosto 2019 – Francesco Brusa, Brando Ricci
Turchia. Intervista al vice presidente dell’Hdp, Azad Baris: «Proteste non solo nelle città curde, ma in varie parti del paese. Riceviamo il supporto di numerose forze politiche. È chiaro a tutti che quello di Erdogan è un regime autoritario»
Il governo di Erdogan ha rimosso domenica i sindaci democraticamente eletti di Dyarbakir, capitale del Kurdistan turco, Van e Mardin, due delle maggiori città della regione. Fanno parte dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli. L’accusa è essere legati al Pkk, il Partito curdo dei lavoratori, considerato da Ankara organizzazione terroristica.
Al loro posto il ministero dell’interno ha indicato commissari speciali. La decisione sembra essere parte di un più ampio attacco alle opposizione al governo: le fonti parlano di più di 600 arresti in tutto il paese, in particolare tra i dipendenti comunali.
Le reazioni di protesta e sdegno sono state immediate: da giorni si susseguono gli scontri nelle città coinvolte. Qualcosa però sembra diverso rispetto a due anni fa, quando furono commissariati quasi cento comuni. La decisione del ministro Soylu ha trovato molte voci ferme di dissenso, alcune particolarmente autorevoli.
UIKI Onlus – Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia – 22 agosto 2019
Care/i la destituzione di sindaci curdi e l’ondata di arresti contro l’opposizione curda non sono rivolti solo contro l’HDP, ma contro tutte le forze democratiche, dichiara l’HDP e invita manifestare solidarietà. Nelle metropoli Amed (Diyarbakir), Van e Mêrdîn (Mardin) i sindaci sono stati destituiti dal Ministero degli Interni e sono stati sostituiti amministratori coatti. È già la seconda volta che amministrazioni comunali democraticamente elette vengono messe sotto amministrazione forzata. Nell’autunno 2016 circa cento sindaci curdi erano stati destituiti e incarcerati. Solo con le elezioni comunali del 31 marzo nei municipi delle città e dei comuni curdi sono tornati amministratori eletti.
I municipi di Amed (Diyarbakir), Mêrdîn (Mardin) e Van sono sotto assedio della polizia. Le forze dell’ordine hanno bloccato gli accessi con barriere lungo i municipi. In tutte e tre le città sono in corso perquisizioni e numerosi veicoli corazzati sono stati posizionati nei pressi dei municipi.
«Un colpo di stato civile si è svolto il 19 agosto con la nomina di amministratori fiduciari nei nostri comuni». Lo ha dichiarato Sezai Temelli, co presidente del Halklarin Demokratik Partisi (HDP), il Partito Democratico dei Popoli, all’indomani che il Ministero degli Interni della Turchia, ha deciso di rimuovere i sindaci eletti delle città di Van, Diyarbakir e Mardin, località con forte presenza curda amministrate proprio all’HDP.
Al posto loro, come commissari straordinari, sono stati nominati i governatori provinciali delle stesse città. Esattamente come avvenne, per mano dello stesso governo, nel 2016 quando ad essere rimossi furono 94 sindaci. Il governo di Ankara accuserebbe i tre sindaci di avere legami col Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione paramilitare curda dichiarata “terrorista”.
(Traduzione di Stefania Mascetti) – Articolo del 19 agosto 2019 di Jean-Pierre Filiu, Le Monde – Francia
Il cliché del signore della guerra barbuto e chiuso da solo nel suo quartier generale in un posto isolato non è più attuale in Afghanistan. Vent’anni dopo la caduta dei taliban, questi moderni signori feudali cercano di prendere il controllo di una o l’altra provincia, puntando sul clientelismo anziché sulla violenza, e occasionalmente coltivando la loro immagine internazionale.
Indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, questi signori della guerra sono tutti ugualmente preoccupati della campagna per le elezioni presidenziali del 28 settembre, ma soprattutto dei negoziati tra gli Stati Uniti e i taliban.
La prospettiva di un ritiro delle forze statunitensi nel 2020 ha effettivamente indebolito in modo significativo il potere centrale, che è stato escluso, su espressa richiesta dei taliban, dai colloqui in Qatar tra gli Stati Uniti e l’insurrezione afgana. Donald Trump vuole a tutti i costi ritirare il suo contingente dall’Afghanistan, in modo da monetizzare tale ritiro durante la sua campagna per le presidenziali del 2020.
L’attentato alle nozze di Kabul riaccende i riflettori su un Afghanistan più insicuro. Il punto sui negoziati con i talebani e gli scenari da scongiurare.
Ameno 83 morti e più di 180 feriti, tutti civili. L’ennesima notte di festa interrotta a Kabul, l’ennesimo matrimonio trasformato in massacro. Questo, mentre scriviamo, il bilancio dell’attentato di sabato scorso, 17 agosto, nella capitale afgana, rivendicato dall’ Islamic State Khorasan (IS-K), lo Stato Islamico locale. Si tratta dell’esplosione suicida che nell’ultimo anno ha causato più vittime in Afghanistan, ma non l’ultima di un’interminabile lista. Lunedì 19 agosto, durante le celebrazioni del centenario dell’indipendenza dai britannici, 6 bombe sono esplose a Jalalabad ferendo oltre 30 persone.
“… A nessun potere straniero sarà permesso d’interferire internamente ed esternamente con gli affari afghani, e se dovesse accadere sono pronto a tagliargli la gola con questa spada”. Con tali parole re Amanullah si rivolgeva ai dignitari di Kabul, e agli stessi agenti britannici presenti, pochi mesi prima che il Paese dell’Hindu Kush strappasse una propria dignità nazionale all’Impero di Giorgio V, ottenendo ufficialmente l’indipendenza il 19 agosto 1919. Quel giorno venne firmato il trattato che poneva fine alla terza guerra afghana contro l’esercito britannico, durata in realtà solo un mese.
Zalmay Khalilzad in Qatar per l’ultimo round di colloqui. Dovrà trovare un compromesso sulle modalità del cessate-il-fuoco, poi andrà a Kabul per sottoporre l’intesa al presidente Ashraf Ghani
L’inviato speciale americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, è arrivato in Qatar per il nono e definitivo round di colloqui con i Taleban e si è detto “pronto” a siglare un accordo per porre fine alla guerra in Afghanistan, la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, 18 anni.
Subito dopo l’ultimo round, che dovrà trovare un compromesso sulle modalità del cessate-il-fuoco, Khalilzad andrà a Kabul per sottoporre l’intesa al presidente Ashraf Ghani. Poi dovrebbe scattare la tregua e cominceranno i colloqui diretti tra il governo di Kabul e gli studenti barbuti.
Nei giorni scorsi Khalilzad e il mediatore del gruppo islamista, l’ex braccio destro del mullah Omar, Abdul Ghani Baradar, hanno raggiunto un compromesso sui tempi del ritiro delle truppe Usa dal Paese, uno dei punti più difficili nel negoziato. I talebani avevano proposto 9 mesi, gli statunitensi ne chiedevano 18. Alla fine il mediatore talebano ha accettato un periodo di 14 mesi. Ora però dovrà convincere l’emiro Hibatullah Akhundzada, al vertice dal 2016 e che già sogna di entrare a Kabul come il suo predecessore fece nel 1996, a sottoscrivere l’intesa.
Inizia con un amarcord l’operazione d’un futuro afghano ammantato della retorica del passato. Così dopo The Times, il nostrano Corriere della Sera mostra in prima pagina un Ahmad Massud bambino accanto a papà Shah, il “leone del Panshir”, prima che due falsi giornalisti, di fatto kamikaze qaedisti, lo facessero saltare in aria con la scusa d’un’intervista.
Si richiama il progetto attuale dell’unico maschio Massud, che ha sei sorelle, è vissuto a Londra, ha studiato nel locale King’s College, ha ottenuto un master in politica internazionale, s’è pure formato nell’Accademia militare di Sandhurst, e dopo diciott’anni è tornato nel Panshir.
Si dice che parli ai tajiki delle tribù locali, ponendosi nientemeno che il sogno di diventare un leader per l’intero Afghanistan, magari presentandosi alle presidenziali del prossimo settembre. Se non ci fossero di mezzo il nome e la seconda comunità etnica del Paese, che però non va al di là del 21% della popolazione, l’iniziativa non farebbe notizia.
Perché nella realtà il progetto di Massud jr. appare impraticabile, non tanto perché fuori dalla cinica agenda detta da Washington, che da oltre un anno patteggia coi talebani i prossimi passi per governare le varie province afghane, ma perché proprio i trascorsi politici di Massud padre, rievocano una doppia metastasi mai risolta che tuttora affligge quella nazione assieme all’occupazione straniera: lo strapotere del tribalismo etnico e dei signori della guerra.
Almeno duecento le persone rimaste ferite. Uno dei terroristi, secondo un testimone, ha innescato la cintura esplosiva vicino all’area “riservata ai bambini”
DALL’INVIATO A BEIRUT. Un attacco kamikaze, condotto da più terroristi, ha ucciso almeno 63 persone a una festa di matrimonio a Kabul. Gli attentatori si sono fatti saltare in aria in mezzo alla folla, attorno alla mezzanotte locale, nella grande sala da ricevimenti della centro commerciale Dubai City. E’ stato un massacro. Uno dei terroristi, secondo un testimone, ha innescato la cintura esplosiva vicino all’area “riservata ai bambini”. I feriti sono circa 200.
Nella sala c’erano in quel momento oltre 1200 persone. Il ministro dell’Interno Nusrat Rahimi ha parlato di decine di morti, ma dalle testimonianze riportate su media locali, come Tolo Tv, il bilancio sembra molto più alto. Pe uno dei testimoni citati, Mohammad Toofan, “tutti quelli che si trovavano al centro della sala sono martiri”. E’ il secondo attacco in due settimane. Il 7 agosto un’autobomba ha ucciso 14 persone e ferito altre 145, la maggior parte donne, in una via dello stesso sobborgo occidentale della capitale afghana.