Skip to main content

Autore: Anna Santarello

Reportage dall’afghanistan: il racconto della sofferenza delle donne di Kabul

A dieci anni dall’inizio di una guerra alla quale il mondo intero guardava come strumento di ripristino della democrazia e liberazione delle donne, le speranze del popolo afghano si sono infrante nel modo più doloroso: la presenza di 70 mila truppe straniere e i miliardi di dollari elargiti non hanno portato alcun cambiamento positivo sulla gente.
Le donne vivono in una situazione catastrofica; il sistema giudiziario è minato dal fondamentalismo religioso ed è nelle mani dei signori della guerra e dei narcotrafficanti; i giornalisti democratici vengono incarcerati o assassinati e molte organizzazioni per i diritti umani non possono lavorare.

IL REPORT.
Il quadro a tinte fosche emerge da un report di Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria Delle Donne Afghane che si batte fin dal 1977 contro il fondamentalismo.
Una delle attiviste, Samia Walid (uno dei tanti nomi via via utilizzati per sfuggire ai controlli dell’intelligence locale), è stata la nostra guida durante la missione del Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) a Kabul.
Ci ha raccontato di aver sentito parlare per la prima volta di Rawa da bambina, nel 1992, in un campo profughi in Pakistan dove la sua famiglia si era rifugiata a causa della guerra: lì l’associazione gestiva dei corsi di alfabetizzazione per le donne con l’intento, attraverso l’educazione, di renderle consapevoli dei loro diritti.
«Credo che una delle cose più importanti sia cercare di alzare il livello di coscienza politica del popolo afghano, specialmente nelle donne, che rappresentano una grande fetta della popolazione e per la maggior parte sono analfabete » dice Samia, 28 anni, il volto celato dallo hijab e una vita da clandestina a causa della militanza.
Gli atti intimidatori nei confronti dell’organizzazione non mancano: pedinamenti, fermi, incursioni nelle sedi di associazioni simpatizzanti si sono verificati anche recentemente.
In un clima come questo viene da chiedersi se dopo trent’anni di guerra ininterrotta le azioni non violente a sostegno dei diritti trovino ascolto.
«Non è facile – dice Samia – e rischiamo anche molto, ma è per questo che lavoriamo.
La gente è stanca di guerra, uccisioni, soprusi, ma ha paura, anche perché in Afghanistan la violenza è all’ordine del giorno: quella interna praticata dai Signori della guerra e Taliban e quella importata dal conflitto decennale della Nato che parla di exit strategy ma ne rimanda le date.
Esiste poi anche la microviolenza quotidiana fatta di angherie verso deboli e poveri, verso le donne che vengono stuprate e uccise addirittura a otto, dieci anni.
Chi le pratica, specie se miliziano o poliziotto, risulta intoccabile.
I familiari poi non fanno le denunce perché lo stupro è una vergogna che colpisce loro stessi, piuttosto sono disposti a sopprimere le poverette.
Tutto ciò è duro da sradicare, ma come per la produzione dell’oppio, è incredibilmente aumentato negli anni dell’occupazione.
Per questo quando parliamo di legalità e diritti la gente ci ascolta, anche se tanti hanno paura di esporsi».

GLI ABUSI.
Malalai Joya, membro del parlamento afghano dal 2005 al 2007 (quando fu espulsa per aver denunciato pubblicamente la presenza di criminali di guerra nell’assemblea parlamentare), sostiene che anche gli Stati Uniti hanno chiusogli occhi sulla tragedia delle donne afghane.
«Sono d’accordo – dice Samia – nessuno si chiede perché la situazione delle donne sia tutt’oggi infernale.
In numerose province le donne continuano ad essere vittime di stupri, violenze domestiche, autoimmolazioni, avvelenamenti, abusi sessuali, matrimoni forzati, mentre le ragazzine rischiano di essere sfregiate con l’acido nella strada verso la scuola.
Perfino la rivista Time ha condotto un reportage sulla condizione delle donne afghane, ovviamente senza mai ribadire che questi abusi continuano ad essere perpetrati sotto l’occupazione militare».

MINISTERO PER IL VIZIO.
Da parte sua il governo Karzai, sostenuto dalla comunità internazionale per “guidare il Paese verso la democrazia” non si è nella sostanza impegnato per la promozione dei diritti delle donne: nel 2006 ha reintrodotto il famigerato “Ministero per il vizio e la virtù”, nel marzo 2009 ha approvato una legge, gradita dai gruppi di potere sciiti, secondo cui le donne non possono rifiutarsi di avere rapporti sessuali con il marito e non possono recarsi al lavoro, dal medico o a scuola senza il suo permesso, infine, nel gennaio 2011, il Consiglio dei ministri afghano ha promosso un provvedimento che prevede che le case rifugio per donne maltrattate, una delle poche vie di scampo contro le violenze, non vengano più gestite dalle Ong internazionali e afghane, ma dal Ministero degli affari femminili cercando quindi di porle sotto il controllo del governo che ha al suo interno persone estranee, se non ostili alla cultura dei diritti delle donne.
«La condizione delle donne In Afghanistan non può essere imputata alla nostra cultura né all’Islam – sostiene Samia – La legge sciita contro le donne così come le aperture nei confronti dei talebani cosiddetti moderati sono funzionali al governo Karzai che è diviso e instabile, ma che si dimostra accondiscendente nei confronti degli interessi economici e politici degli Stati Uniti e della Nato.
Le donne non sono che il capro espiatorio, le prime vittime dell’instabilità e della guerra nel paese. Se i talebani tornassero al potere, gli Stati Uniti non avrebbero difficoltà a collaborare con loro.
Gli tornerebbe, infatti, più utile che in Afghanistan ci sia una struttura legislativa fragile e volta alla repressione piuttosto che un governo indipendente, democratico e a favore dei diritti delle donne».

C’era un’alternativa alla guerra?

Noam Chomsky, 5 settembre 2011 14.02
È il decimo anniversario delle spaventose stragi dell’11 settembre 2001, che a detta di tutti hanno cambiato il mondo. Le conseguenze di quegli attentati sono indiscutibili. Tanto per limitarci all’Asia occidentale e centrale, diremo che da allora l’Afghanistan sopravvive a stento, l’Iraq è stato devastato e il Pakistan è sempre più sull’orlo di una crisi che potrebbe rivelarsi catastrofica.

Il 1 maggio di quest’anno Osama bin Laden è stato assassinato proprio in Pakistan, e in quel paese si sono registrate anche le conseguenze più significative dell’11 settembre. A febbraio uno dei massimi specialisti di questioni pachistane, lo storico militare britannico Anatol Lieven, ha scritto sulla rivista The National Interest che la guerra in Afghanistan “sta destabilizzando e radicalizzando il Pakistan, e questo comporta, per gli Stati Uniti e per il resto del mondo, il rischio di una catastrofe geopolitica che farebbe impallidire qualsiasi cosa possa mai accadere in Afghanistan”.
A tutti i livelli della società pachistana, scrive ancora Lieven, si registrano consensi nei confronti dei taliban afgani: non perché i pachistani li amino, ma perché li considerano “una legittima forza di resistenza contro l’occupazione straniera”, proprio come venivano visti i mujahidin afgani negli anni ottanta, quando lottavano contro i sovietici.
Questi sentimenti sono condivisi dai militari pachistani, che detestano Washington perché li ha coinvolti nella guerra contro i taliban. In Pakistan le forze armate sono un’istituzione stabile, quella che tiene insieme il paese. Gli interventi statunitensi rischiano, scrive ancora Lieven, “di provocare rivolte in alcuni settori dell’esercito”. Se dovesse succedere, “lo stato pachistano si disgregherebbe rapidamente, con tutte le disastrose conseguenze del caso”. Aggravate dal fatto che il Pakistan possiede un arsenale nucleare enorme e che nel paese esiste un forte movimento jihadista. Nel suo libro, Lieven sintetizza così la sua tesi: “Si può dire che i militari americani e britannici vanno a morire in Afghanistan per rendere il mondo più pericoloso per il popolo americano e per quello britannico”.
Più di un analista ha osservato che nella sua guerra contro gli Stati Uniti, Osama bin Laden ha ottenuto alcuni importanti successi. Per esempio, nel numero di maggio di The American Conservative, Eric S. Margolis scrive: “Osama ha ripetutamente affermato che l’unico modo per cacciare gli Stati Uniti dal mondo musulmano è attirare gli americani in una serie di guerre piccole ma costose, che alla fine li mandino in fallimento”. E subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 si è capito che Washington era decisa a realizzare gli obiettivi di Bin Laden. Michael Scheuer è un analista della Cia che ha seguito le tracce di Bin Laden dal 1996.
Nel suo libro del 2004, Imperial hubris, Scheuer scrive: “Bin Laden è stato chiarissimo quando ha spiegato all’America per quali motivi ci fa la guerra. Vuole modificare la politica degli Stati Uniti, e di tutto l’occidente, verso il mondo islamico”, e in larga misura è riuscito a farlo. Prosegue Scheuer: “Le scelte politiche statunitensi stanno causando la radicalizzazione del mondo islamico, cosa che Osama bin Laden aveva tentato di fare con un successo relativo, fin dai primi anni novanta. Quindi mi sembra lecito concludere che Washington rimane l’unico alleato indispensabile di Osama bin Laden”. E si può dire che continui a esserlo anche dopo la sua morte.
La sequenza di orrori che ha segnato questi dieci anni fa sorgere una domanda: c’era un’alternativa alla reazione dell’occidente agli attentati dell’11 settembre? Dopo le stragi del 2001, il movimento jihadista, in gran parte critico verso Bin Laden, si sarebbe potuto dividere e neutralizzare se il “crimine contro l’umanità” – come quegli attentati sono stati giustamente definiti – fosse stato affrontato appunto come un crimine, cioè con un’operazione internazionale per catturare i presunti responsabili. Ma nella fretta di fare la guerra quest’idea non è stata neanche presa in considerazione. Anche se Osama bin Laden era stato condannato in gran parte del mondo arabo per gli attentati.
Al momento della sua uccisione Bin Laden era da tempo una figura sempre più sbiadita, e negli ultimi mesi era stato eclissato anche dalla primavera araba. Il suo peso è stato ben descritto dal titolo di un articolo pubblicato sul New York Times da Gilles Kepel, noto specialista di questioni mediorientali: “Bin Laden era già morto”. Quel titolo avrebbe potuto essere fatto molto tempo prima, se gli Stati Uniti, con il loro attacco per rappresaglia contro l’Afghanistan e l’Iraq, non avessero mobilitato il movimento jihadista. Certo, nei gruppi jihadisti Osama bin Laden era venerato come un simbolo, ma ormai non sembra che avesse più un ruolo di primo piano all’interno di Al Qaeda, divisa in sezioni che agiscono spesso in modo indipendente.
Insomma, anche i dati di fatto più evidenti e più elementari di questo decennio ci spingono a riflessioni amare nel momento in cui valutiamo l’11 settembre, le sue conseguenze e le ipotesi sul futuro.
Traduzione di Marina Astrologo.

QUI LE DONNE MALTRATTATE TORNANO A VIVERE

Quando Amina è arrivata alla Casa di protezione per donne maltrattate di Kabul aveva solo 13 anni, ma il volto segnato e lo sguardo vuoto di una donna che aveva già vissuto molto. I ricordi sono talmente dolorosi che Amina è quasi piegato in due mentre li ripercorre.

A 7 anni il padre l’ha data in sposta a un cinquantenne per una cospicua somma di denaro. L’uomo iniziò subito a picchiarla e violentarla. La bambina, piccola e fragile, tentò di tornare tante volte dai genitori, ma il padre la rimandava indietro ogni volta. “Mi accusava di portare vergogna nella famiglia” racconta. Il marito, sempre più cattivo, arrivò persino a farla violentare da altri uomini.

Ferita nel corpo e con l’anima spezzata, Amina pensò di immolarsi, uno dei rimedi a cui spesso ricorrono le donne afghane per sottrarsi alla violenza. Ma la paura di sopravvivere al fuoco rimanendo per di più deturpata, come era accaduto alla sua vicina, la dissuase. Così scappò di casa, ma il reato le costò due anni di prigione: “Una volta libera, sono stata accolta nello shelter dove ho potuto finalmente tornare a vivere”.

Un nido caldo per ricominciare

Gli shelter, i rifugi per donne maltrattate, svolgono un’attività preziosa in un Paese come l’Afghanistan, dove l’87% delle donne ha subito violenza, il 60% dei matrimoni è imposto e nel 57% dei casi riguarda ragazze sotto i 16 anni. Ce ne sono 14 in tutto il Paese. La casa protetta di Kabul, aperta dall’organizzazione non governativa HAWCA, con la collaborazione del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), è circondata da un alto muro di cinta ed è sorvegliata da due uomini. La villetta è a due piani e molto ampia, con un piccolo giardino. Al piano terra ci sono la sala comune, la cucina e altri spazi per le attività ricreative. Le donne ospitate sono una trentina, alcune molto giovani. C’è anche qualche bambino. Le loro storie sono molto simili. Vite segnate dal terrore, dall’abbrutimento, dalla ferocia cieca che in queste case calde e accoglienti aspirano a un riscatto.

Ora, però, gli shelter rischiano di scomparire o quantomeno di essere snaturati in seguito a una legge promossa dal Consiglio dei ministri lo scorso gennaio e che dovrebbe entrare in vigore nell’arco di pochi mesi, che stabilisce che la loro gestione dovrà passare dalla ONG afghane a quella del ministro degli Affari femminili (MoWA). Questo significa che i rifugi saranno sotto il diretto controllo del governo che, in questi ultimi anni, si è contraddistinto per aver promulgato leggi in palese violazione dei diritti umani, e che considera le case protette luoghi di prostituzione. “Per molte donne vittime di violenze gli shelter sono l’unica possibilità di salvezza. Non possiamo permettere che diventino prigioni e luoghi di ulteriori soprusi per chi cerca aiuto” dice Selay Ghaffar, direttrice di HAWCA.

Il grido di allarme delle organizzazioni afghane è stato raccolto dalla comunità internazionale che si è subito mobilitata. In Italia, le parlamentari Silvana Amati e Delia Muhrer del PD hanno presentato due interpellanze parlamentari in cui chiedono al governo di promuovere azioni per il ritiro del decreto. E il 21 febbraio scorso, a New York, si è svolta una riunione convocata dalla Commissione indipendente afghana per i diritti umani a cui hanno partecipato anche rappresentanti dell’ONU. I membri del governo afghano hanno fatto promesse. “Ma noi” dice Cristina Cattafesta del CISDA “aspettiamo che il governo dica e faccia qualcosa di ufficiale e dimostri che quelle di New York non sono solo chiacchiere. In caso contrario, siamo pronte a fare ripartire la denuncia”.

Da “Tu style”, 3 maggio 2011

AFGHANISTAN: EMERGENZA TRATTA ESSERI UMANI

(ASCA) – L’Aquila, 27 ago – ”Se la notizia emersa in questi giorni fosse vera, circa l’intenzione degli USA di restare in Afghanistan fino al 2024 anche con truppe da combattimento, forze speciali, cacciabombardieri ed elicotteri, allora sarà bene che La Russa ci illustri subito e chiaramente la posizione dell’Italia, anche in vista della prossima conferenza di Bonn”. Così il capogruppo IDV in Commissione Difesa della Camera, Augusto Di Stanislao.

”La situazione in Afghanistan continua a degenerare – sostiene – e le condizioni del popolo sono insostenibili.

L’Afghanistan, secondo un recente rapporto del Dipartimento di Stato USA, è una zona di transito e di destinazione per uomini, donne e bambini, sottoposti a lavoro forzato e vittime della tratta sessuale. La maggior parte – sottolinea il deputato IdV – sono state ragazze costrette al matrimonio prima di raggiungere l’età legale. Circa l’81 per cento si è sposato prima dei 18 anni ed il 50% sotto i 15 anni.

Il 29 per cento è stato costretto a sposarsi dopo violenza, rapimento, molestiata”.

Di Stanislao riferisce che il rapporto ha identificato 1.889 casi di traffico di donne e bambini. Sia le Nazioni Unite e le ONG locali hanno riportato casi di abusi sessuali sui ragazzi dai membri della Afghan National Security Forces (ANSF). E ancora: ”Le condizioni di vita negli orfanotrofi gestiti dal governo sono estremamente povere e alcuni funzionari corrotti possono avere abusato sessualmente di bambini costringendoli a prostituirsi”. Lamenta l’esponente IdV che ”il Governo afghano non ha fatto alcuno sforzo per indagare e fronteggiare tali crimini e proteggere donne e bambini dai pericoli del traffico umano”.

”È di questo che l’Italia dovrebbe occuparsi – suggerisce – della cooperazione allo sviluppo e contribuire alla pace e alla stabilità di questo popolo. Quello cioè di cui il Governo italiano – conclude – tiene in minimo conto, compensandolo esclusivamente con azioni militari con risultati evidenti e tangibili per tutti, soprattutto per gli afghani”.

iso/vlm

Afghanistan, truppe Usa fino al 2024

Enrico Piovesana  –  PeaceReporter
Altro che ritiro entro il 2014: Washington e Kabul si stanno accordando per mantenere truppe da combattimento e basi nel paese per almeno altri tredici anni

Le truppe Usa non si ritireranno dall’Afghanistan entro il 2014, come promesso da Obama: rimarranno per almeno altri dieci anni oltre quella data, fino al 2024. E non solo quelle addette all’addestramento dell’esercito afgano, come largamente previsto, ma anche truppe da combattimento, forze speciali, cacciabombardieri ed elicotteri. In tutto 25mila militari, budget Usa permettendo.
E’ l’accordo, ancora segreto, che Washington e Kabul stanno finalizzando e che dovrebbe essere siglato entro la conferenza di Bonn sull’Afghanistan in programma per dicembre. Lo ha rivelato il consigliere per sicurezza di Karzai, Rangin Dadfar Spanta, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Telegraph.
A quanto pare l’unico nodo ancora da sciogliere è lo status delle basi militari in cui le truppe Usa rimarranno, almeno, per i prossimi tredici anni: per salvare almeno le apparenze, il governo di Kabul vorrebbe che le truppe d’occupazione risultassero ‘ospiti’ di istallazioni militari afgane. Insomma, cambieranno giusto la targa all’ingresso e la bandiera sul pennone delle attuali basi Usa
Per la stessa ragione, come sta accadendo anche per l’Iraq, la versione ufficiale che verrà data in pasto all’opinione pubblica occidentale sarà che è il governo fantoccio di Kabul a ‘chiedere’ agli americani di restare e loro, magnanimi, accetteranno di malavoglia.
“L’America ci sta aiutando a combattere la guerra contro il terrorismo – ha spiegato Spanta al Telegraph – ma il terrorismo internazionale non finirà nel 2014 e noi abbiamo il dovere comune di continuare a contrastarlo. Da qui la necessità di un prolungamento della permanenza a lungo termine delle truppe Usa”.
La notizia non è stata ben accolta a Mosca, ben consapevole che la presenza militare Usa in Asia ha poco a che vedere con la lotta al terrorismo, e tanto con il posizionamento strategico Usa nella regione in funzione anti-russa e anti-cinese.
“Mi sfugge la logica di questo accordo”, ha dichiarato l’ambasciatore russo a Kabul, Andrey Avetisyan. “Se entro il 2014 il terrorismo sarà sconfitto e tornerà la pace nel Paese, non ci sarà bisogno che gli americani rimangano; altrimenti, come potranno poche migliaia di soldati riuscire laddove hanno fallito 150mila?”.

Afghanistan, nove parlamentari sostituiti per brogli elettorali

A giugno un tribunale speciale aveva ordinato la rimozione di 62 parlamentari per brogli elettorali

La Commissione Elettorale Indipendente (Iec) afgana ha annunciato che nove parlamentari verranno sostituiti per brogli elettorali.
A giugno una sentenza del tribunale elettorale, istituito dal presidente Hamid Karzai per indagare sulle irregolarità delle elezioni di settembre 2010, aveva squalificato ben 62 parlamentari, ma Karzai aveva affidato la decisione finale a una commissione elettorale governativa. Secondo il decreto del Presidente, la commissione può, ma non deve, tenere conto del verdetto del tribunale. Il numero dei parlamentari da sostituire è passato da 62 a 9.
Il parlamento afgano è paralizzato dalle elezioni del 18 settembre 2010, quando erano stati denunciati brogli sistematici, soprattutto a carico dei candidati filo-Karzai. A un anno dalle elezioni, non si è ancora arrivati a un accordo per la formazione dell’esecutivo.
Martedì agosto tremila persone si sono riunite fuori dal parlamento per domandare al presidente di non modificare i risultati elettorali. Abdul Wali Neyazi, uno dei parlamentari rimossi, ha dichiarato che il governo ha permesso la rimozione solo di politici che non hanno alcun legame con il vertice.
La crisi politica arriva in un momento critico per il Paese. In alcune province la coalizione Nato ha cominciato a trasferire le responsabilità alle forze di sicurezza afgane ma il livello di violenza resta ancora alto.

Afghanistan, donne rivoluzionarie

Linda Chiaramnote  –  Peacereporter
Intervista a Samia Walid, attivista clandestina di Rawa, associazione politica femminile afgana che dal 1977 lotta per i diritti umani e la democrazia

Samia Walid è uno dei nomi di copertura che usa una giovane donna afgana da oltre tredici anni attivista di Rawa, la più antica associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan: indipendente, democratica e antifondamentalista che si batte per la laicità, la giustizia sociale e la difesa dei diritti umani e delle donne. Creata nel ’77 da alcune intellettuali dell’università di Kabul, dapprima ha contrastato l’occupazione sovietica, poi ha gestito i campi profughi in Pakistan. Rawa si occupa di progetti di formazione, istruzione, assistenza medica, sostegno alle vittime di guerra, alle donne maltrattate e agli orfani. Samia è nata a Kabul, ha vissuto alcuni anni in uno dei campi pakistani gestiti da Rawa, a ventitre anni è tornata a Kabul dove ha frequentato l’università, poi conclusa in Pakistan, ora vive in Afghanistan.
Qual è la situazione del paese e quali scenari si aprono dopo l’uccisione di Bin Laden?

Dopo dieci anni sotto il controllo della Nato l’Afghanistan è disastrato, occupato, dominato da signori della guerra, talebani e politici corrotti. Nel 2001 le truppe americane attaccarono con il pretesto di portare democrazia, difendere i diritti delle donne e fare guerra al terrorismo. Il vero obiettivo era costruire una base strategica per controllare la produzione dell’oppio. Ora la situazione è anche peggiore di quella al tempo dei talebani, nel frattempo diventati più forti. L’Afghanistan è uno dei governi più corrotti al mondo, il fondamentalismo dell’alleanza del nord è ancora più saldo e molti parlamentari sono estremisti. La situazione delle donne è drammatica, manca la sicurezza, il sistema scolastico e quello sanitario non sono migliorati. Il paese ha ricevuto miliardi di dollari, ma i fondi sono finiti per lo più nelle tasche dei signori della guerra e delle Ong. La situazione economica è gravissima, nei villaggi mancano le scuole. Dell’uccisione di Bin Laden i paesi occidentali hanno parlato come di un’operazione di successo, ma soprattutto per le donne le cose non cambieranno. Anche senza di lui al-Qaeda, talebani e fondamentalismo sono vivi e vegeti. Per sconfiggere al-Qaeda bisogna combattere le sue idee, al potere ci sono terroristi più pericolosi di Bin Laden. Continueranno i crimini contro civili innocenti, Usa e truppe Nato.
Come si vive nel tuo Paese?

È molto pericoloso per un’attivista. Rawa conta circa duemila iscritte e lavora in clandestinità, è molto critica anche sulla politica statunitense e gli agenti segreti dei fondamentalisti ci danno la caccia. Crediamo sia impossibile costruire una società democratica con la forza delle armi, per raggiungere questo obiettivo bisogna battersi con una mobilitazione dal basso. Al momento sembra non ci sia speranza di raggiungere la democrazia, ma un giorno la gente si sveglierà. Guardiamo alla Tunisia e agli altri paesi arabi, lo scorso anno nessuno avrebbe mai immaginato questa rivoluzione, a volte basta una scintilla a far sollevare la popolazione. Siamo sicure che per noi capiterà lo stesso, la popolazione è stanca. Alcune settimane fa in una provincia del nord c’è stata una grande dimostrazione contro le truppe Nato dopo un attacco in cui sono rimasti uccisi quattro civili innocenti. C’è una lenta presa di coscienza. Dieci anni fa avevamo fiducia che le truppe cambiassero le cose, ora abbiamo capito che sta agli afgani lottare, la gente deve prendere il potere. La popolazione ha di fronte diversi nemici: la Nato, i talebani, l’alleanza del nord e il governo corrotto di Karzai. Nessuno sta facendo niente di buono per la gente, ma solo i propri interessi. Le truppe non sono lì per la nostra democrazia, lo stesso vale per i talebani che dicono di combattere per l’Islam e un Afghanistan libero e indipendente, ma che non sono altro che marionette di alcuni paesi islamici come l’Arabia Saudita. Anche gli uomini dell’alleanza del nord sono criminali, fondamentalisti, lo stesso Karzai è un fantoccio.
Che ruolo svolgono i media nel Paese?

Da noi pochi hanno accesso a internet, ci sono molto canali televisivi, giornali, radio, ma appartengono al governo e sono controllati, molti sono di proprietà degli Usa, ricevono soldi dall’americana Nbc quindi seguono soprattutto la politica statunitense nel paese. I crimini contro le donne perpetrati dalla Nato vengono quasi ignorati, la televisione trasmette serial indiani, musica, moda, stile, per tenere occupata la gente e controllare le menti facendo il lavaggio del cervello alle giovani generazioni. La società civile deve nascere dal basso. Quella che c’è ora, specie a Kabul, è soprattutto frutto delle Ong, di istituti che ricevono soldi per realizzare progetti, ma che spesso non si occupano dei problemi reali della gente. Trattano con i signori della guerra, i talebani, il governo, ma non parlano mai di rovesciarlo e di mandar via fondamentalisti e talebani dalla scena politica afgana. I criminali non possono dominare un paese, ma devono andare davanti ad un tribunale e in prigione.
Quali sono le vostre battaglie e di cosa vi state occupando ora?

Siamo un’organizzazione politica, lottiamo per la democrazia, i diritti delle donne, i diritti umani e l’indipendenza, ora stiamo lavorando per rendere consapevoli le donne e creare un fronte contro i signori della guerra, l’occupazione e i talebani. I democratici nel nostro paese sono molto deboli, negli ultimi trent’anni non hanno mai ricevuto supporto, molti sono stati assassinati, altri sono scappati. Le università e le scuole sono controllate dal governo e dai signori della guerra, non c’è possibilità per le idee democratiche di crescere e diffondersi nella società. Solo tutti insieme si può essere più forti.
Come fa Rawa a lavorare in questa situazione?

La nostra attività sociale non può essere underground, per scuole e orfanotrofi usiamo altri nomi o la copertura di Ong. Per l’attività politica invece è necessario restare nell’ombra e stare molto attente, per parlare c’incontriamo nei bazar o all’università. Usare il burqa è un modo per stare al sicuro, l’unico uso positivo, nessuno sa niente su chi ci sia sotto. Purtroppo non possiamo svolgere attività allo scoperto in tribunale o ai congressi, ma siamo in contatto con altri movimenti democratici. Abbiamo sostenitori in varie province e villaggi.
Qual è la battaglia che conta di più per te?

L’istruzione delle donne è la chiave del cambiamento, per lottare devono avere gli strumenti necessari. È importante anche istruire gli uomini, depositari del potere.

Afghanistan, colpo di spugna sui brogli elettorali

Enrico Piovesana – Peacereporter

Il presidente Karzai blocca la rimozione per frode di un quarto dei parlamentari eletti un ano fa. Una nuova vittoria della realpolitik occidentale

La mossa con cui il presidente Hamid Karzai mercoledì ha salvato l’Afghanistan da un pericoloso collasso istituzionale – fino e pochi giorni fa si parlava addirittura della proclamazione dello stato d’emergenza – è così geniale e machiavellica che viene da pensare gli sia stata suggerita da qualche consigliere occidentale italiano. Ma soprattutto è l’ennesima prova di quanto la ‘democrazia’ afgana sia caricaturale e farsesca.
Ricapitoliamo. Quasi un anno fa, il 18 settembre 2010, si tengono le elezioni parlamentari per l’assegnazione dei 249 della Wolesi Jirga. Vota solo un afgano su quattro. Emergono fin da subito brogli massicci e sistematici, soprattutto a carico dei candidati filo-Karzai. La commissione elettorale governativa è costretta ad annullare subito un quarto dei voti e a squalificare 21 parlamentari eletti, ma le denunce di frodi continuano a fioccare.
Per evitare ulteriori quanto scontati guai, Karzai decide di sollevare la commissione elettorale dal suo incarico, istituendo un tribunale speciale con il compito di continuare le indagini elettorali. La corte speciale, di dubbia costituzionalità, lavora in silenzio per mesi e mesi, fino alla fine di giugno, quando annuncia un verdetto ancor più pesante di quello della commissione, criticandone duramente il lavoro: i parlamentari fraudolenti da mandare a casa sono addirittura 62, un quarto del totale.
Nella lista nera ci sono tanti filo-Karzai, ma anche tanti uomini della cosiddetta ‘opposizione’ formata dai partiti islamici etnici dell’ex Alleanza del Nord. L’ascia del sorprendente giudice Sediqullah Haqiq, presidente del tribunale speciale, non risparmia nessuno. I parlamentari sotto accusa minacciano rivolte armate e Karzai, nel disperato tentativo di riprendere in mano le redini della situazione, valuta l’ipotesi di proclamare lo stato d’emergenza.
E’ a questo punto che qualche mente diabolica ha suggerito al presidente afgano una soluzione semplice quanto perfetta: emettere un decreto in cui si dichiara concluso il lavoro del tribunale speciale e si rimette la sceltadefinitiva nuovamente in mano alla commissione elettorale governativa, la quale può, ma non deve, tenere in conto il verdetto del tribunale. La decisione della commissione, attesa a giorni, è scontata: i parlamentari squalificati per brogli non saranno più di 17. Fine della questione.
La mossa di Karzai è stata salutata con gioia da tutti i criminali di guerra, i mafiosi e i narcotrafficanti che ora non devono più temere di perdere la propria poltrona in parlamento, ottenuta a caro prezzo. E ha fatto tirare un gran sospiro di sollievo alle cancellerie occidentali, da mesi in ansia per la stabilità istituzionale del regime-fantoccio di Kabul. Almeno fino al 2014, data delle prossime elezioni presidenziali.

Tangenti italiane ai talebani

di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi – Espresso/Repubblica
Afghanistan mazzette ai guerriglieri per evitare attacchi contro i nostri soldati. I file di WikiLeaks rivelano: nel 2008 Bush disse a Silvio di finirla con i pagamenti. E da allora i caduti in missione sono quadruplicati. Ecco l’inchiesta de l’Espresso, rilanciata anche da The Times di Londra

soldati italiani in Afghanistan combattono, uccidono e muoiono. I bollettini di guerra sui nostri militari colpiti ormai sono quasi quotidiani: in due settimane ci sono stati due caduti e dieci feriti. Un tributo di sangue elevato, pari a quello degli altri eserciti occidentali impegnati contro i talebani in questa estate di fuoco. Ma fino a due anni fa le nostre perdite erano molto più basse, tanto da venire citate come prova di una voce che circolava in tutti i comandi della Nato: il governo di Roma paga i guerriglieri per evitare attacchi. Un’accusa sempre smentita dai ministri che adesso prende consistenza nei cablo segreti della diplomazia americana, ottenuti da WikiLeaks e pubblicati in esclusiva da “l’Espresso”. Con una rivelazione fondamentale: nel giugno 2008 George W. Bush ha domandato personalmente a Silvio Berlusconi di farla finita con le tangenti ai miliziani fondamentalisti. Lo ha chiesto nel primo summit dopo il ritorno al potere del centrodestra, ottenendo “la promessa del Cavaliere ad andare a fondo nella questione”.
I documenti riservati di Washington mostrano come il problema fosse diventato fondamentale per gli americani, che continuavano a ricevere rapporti dall’intelligence e dalle altre nazioni schierate in Afghanistan, sempre più insofferenti per la “scorciatoia” usata dagli italiani per pacificare le zone affidate al loro controllo. Secondo le informazioni raccolte dai nostri alleati, i “pagamenti per la protezione” servivano a sancire tregue tra le truppe di Roma e i guerriglieri nei territori più caldi. Dal 2008 in poi ci sono almeno quattro dossier della diplomazia statunitense che sollecitano interventi al massimo livello sul governo Berlusconi per stroncare il giro di mazzette. Fino all’estate 2009, quando con la prima grande offensiva della Folgore anche i nostri militari sono passati all’assalto dimostrando con le armi la nuova volontà bellica del centrodestra. Ma da allora anche il numero di bare avvolte nel tricolore è cominciato a crescere, sempre di più fino a quadruplicare: nei primi quattro anni erano state sei, negli ultimi due sono state 24 a cui vanno aggiunti oltre cento feriti. Un lungo elenco di uomini che si sono sacrificati per rendere credibile la nostra politica estera e contribuire al tentativo di dare sicurezza alle popolazioni afghane.
Il forte segnale degli Usa. Il primo dei file scoperti da WikiLeaks è dell’aprile 2008, alla vigilia delle elezioni che portarono alla vittoria del centrodestra, quando l’ambasciatore Ronald Spogli definisce la strategia verso il prossimo governo. A partire dalla priorità di ottenere un potenziamento del dispositivo in Afghanistan. “Sia Berlusconi che Veltroni saranno riluttanti ad esporre i soldati italiani a rischi più grandi. Faremo pressioni perché le truppe assumano un atteggiamento più attivo contro gli insorti. Daremo anche un forte segnale opponendoci all’abitudine del passato di pagare denaro per ottenere protezione e negoziare riscatti per la liberazione di persone rapite”.
Quando il Cavaliere si insedia a Palazzo Chigi gli emissari di Washington cominciano subito a farsi sentire con decisione. Il 6 giugno, anniversario dello sbarco in Normandia, Spogli incontra il presidente del Consiglio e Gianni Letta per definire l’agenda dei colloqui con il presidente Bush. “L’ambasciatore ha detto a Berlusconi che continuiamo a ricevere fastidiosi resoconti sugli italiani che pagano i signori della guerra locali e altri combattenti. Berlusconi si è detto d’accordo che ciò vada fermato”.
L’impegno del Cavaliere. Stando ai documenti ufficiali, nel successivo vertice con Bush “in merito alle accuse di pagamenti italiani ai leader degli insorti per evitare attacchi, Berlusconi ha promesso che andrà fino in fondo”. Insorti è il termine con cui gli americani chiamano tutti i miliziani attivi in Afghanistan: fondamentalisti talebani, signori della guerra locali e terroristi di Al Qaeda.
Ma quattro mesi dopo la situazione non è cambiata. Anzi, nel suo resoconto indirizzato all’attenzione della Casa Bianca, Spogli è ancora più duro. Loda la decisione di concentrare i 2.200 soldati nella Regione Ovest, affidata al comando tricolore, sottolineando però il peso dell’affaire tangenti. “Disgraziatamente, l’importanza del contributo è messa a repentaglio dalla crescente reputazione negativa degli italiani che evitano i combattimenti, pagano riscatti e denaro per ottenere protezione. Questa reputazione è basata in parte su voci, in parte su informazioni dell’intelligence che non siamo stati capaci di verificare completamente. Vero o no, resta il fatto che gli italiani hanno perso 12 soldati in Afghanistan (questa cifra include le vittime di incidenti, ndr.), meno di gran parte degli alleati con responsabilità simili. La maggioranza degli scontri nella zona affidata all’Italia sono stati condotti dalle forze americane o dell’esercito di Kabul. Le indicazione che abbiamo ricevuto dal quartiere generale della Nato suggeriscono che questo comportamento potrebbe provocare tensioni tra gli alleati”.
Spogli prosegue la sua analisi con severità: “Ho già fatto presente la questione a Berlusconi. Lui mi ha assicurato di non saperne nulla e che l’avrebbe fermata se ne avesse trovato le prove”. Gli americani però sembrano convinti che le informazioni sui pagamenti siano vere. E quindi Spogli raccomanda a Bush di “rendere chiaro a Berlusconi come la traballante reputazione dell’Italia, anche se fosse immeritata, stia mettendo a rischio la sua credibilità nella coalizione. Cosa ancora più grave, se ci fosse un fondamento a queste accuse, il comportamento italiano starebbe mettendo in pericolo le truppe degli alleati”.
Rappresaglia contro i parà. A forza di insistere Washington sembra ottenere il risultato. Nella primavera 2009 la spedizione viene raddoppiata ed entrano in campo i parà. La Folgore va all’offensiva in tutta la regione occidentale, respingendo i miliziani con raid e incursioni di elicotteri Mangusta. La “bolla di sicurezza” intorno alle basi occidentali viene allargata. E – come rivela WikiLeaks – quando il segretario alla Difesa Gates incontra il ministro Franco Frattini si rallegra “per la fine delle voci sulle tangenti agli insorti”. Nello stesso periodo però crescono anche i caduti, fino al terribile agguato del 17 settembre quando a Kabul vengono uccisi sei paracadutisti e altri quattro restano feriti: l’attentato più grave subito dai militari italiani dopo la strage di Nassiriya. Che adesso potrebbe essere riletto in una luce diversa dopo i documenti “sulle mazzette in cambio di protezione”.
Fonti dell’intelligence hanno confermato a “l’Espresso” che ci sono stati pagamenti a capi locali, spesso alleati dei talebani, nell’area della capitale. E’ la prima zona dove i nostri soldati si sono schierati a partire dal 2004, fino a ottenere per alcuni semestri la responsabilità della sicurezza di tutta Kabul. I fondi per queste “operazioni coperte” sono stati gestiti dal Sismi, allora diretto da Nicolò Pollari, durante il vecchio esecutivo di Silvio Berlusconi. Come “l’Espresso” ha scritto nel 2005, solo nei primi due anni della missione afghana il servizio segreto militare ha ottenuto oltre 23 milioni di euro extra per “attività di informazioni e sicurezza della Presidenza del consiglio dei ministri”. Ma le elargizioni sarebbero proseguite anche durante il governo Prodi. E in città non ci sono mai stati attacchi contro gli italiani. L’unico episodio grave è l’imboscata del settembre 2009, una trappola così potente da dilaniare due veicoli blindati Lince: è scattata dopo la fine di ogni regalia, poche settimane prima che il nostro contingente traslocasse nella regione di Herat. Le conclusioni dell’inchiesta su quel massacro non sono mai state rese note. Di sicuro, nel mirino c’era proprio la Folgore: una rappresaglia per le azioni dei parà o la moratoria delle mazzette ha pesato sulla ferocia dell’assalto?
Il pasticcio di Surobi. Pagamenti alle milizie fondamentaliste ci sarebbero stati anche nel dicembre 2007 quando l’Italia prese il comando del distretto di Surobi, considerato uno dei più pericolosi di tutto il Paese, lungo la direttrice che va da Kabul verso il Pakistan. Per sei mesi alpini e parà presidiarono la vallata, in un periodo di eccezionale serenità che permise anche di aiutare villaggi dove le truppe occidentali non avevano mai messo piede. Ci fu un solo caduto, il maresciallo Giovanni Pezzullo, colpito proprio mentre trasportava cibo alla popolazione.
Ma quando nell’agosto 2008 i nostri vennero sostituiti dai francesi, al loro esordio assoluto in Afghanistan, si scatenò l’inferno. Dieci legionari morirono e 21 furono feriti in un’imboscata, che colse di sorpresa la spedizione di Parigi. Sui giornali francesi vennero fatte filtrare accuse durissime contro Roma: “Gli italiani ci hanno taciuto i pagamenti ai miliziani, ecco perché siamo stati presi alla sprovvista”. Un anno dopo, “The Times” del gruppo Murdoch ha pubblicato in prima pagina un articolo molto informato sulle tangenti italiane ai talebani per “decine di migliaia di dollari”. L’articolo faceva riferimento anche alla protesta dell’ambasciata americana con Berlusconi. All’epoca, tutti smentirono: sia i vertici dell’Alleanza atlantica, sia i ministri di Roma. Ma, come raccontano i cable di WikiLeaks, in quell’autunno 2009 l’intervento personale di George Bush aveva già fatto finire le mazzette. E i soldati italiani si stavano comportando come le altre truppe della Nato: combattevano, uccidevano, morivano. Tutti i giorni, in un Paese che da trent’anni non conosce pace.

TESTO DELL’INTERROGAZIONE PARLAMENTARE DELL’ON DI STANISLAO (IDV)

Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-12945 presentata da
AUGUSTO DI STANISLAO mercoledì 3 agosto 2011, seduta n.512
DI STANISLAO. – Al Ministro degli affari esteri, al Ministro della difesa. – Per sapere – premesso che:
tra le mani dei «signori della guerra» afgani passano i miliardi di dollari che l’Occidente riversa da 10 anni a questa parte del Paese per la cosiddetta ricostruzione. In realtà, secondo l’organizzazione Rawa (Associazione delle donne afgane rivoluzionarie), si tratta di vere e proprie mafie, quella gestita dalle organizzazioni non governative afgane e internazionali, paragonabile alla mafia del traffico di droga, con cui si arricchiscono anche i contingenti stranieri, e quella dei latifondi, che vede capi clan afferenti a uno dei gruppi di potere impadronirsi di ettari e ettari di terra per poi sfruttarli con speculazioni di edilizia privata;
tra il 40 e il 60 per cento dei fondi torna in tasca ai Paesi donatori, tra stipendi e profitto d’impresa. Un’altra percentuale è intascata dal Ministro a cui viene affidato il progetto di ricostruzione. Il tessuto istituzionale afgano, dalle sue più alte cariche giù fino all’ultimo dei dipendenti, è corrotto: l’Afghanistan è diventato dopo l’occupazione occidentale il secondo Paese corrotto al mondo dopo la Somalia;
in un contesto di insicurezza, ingiustizia, in assenza di democrazia, le donne continuano ad essere vittime. La questione della donna è una tematica politica che si inquadra all’interno del contesto generale afgano. Le donne sono state vittime dei crimini perpetrati in questi anni di guerra e continuano ad esserlo. Bambine di 12 anni, e anche più giovani, subiscono stupri, alcune volte anche di gruppo, da parte di uomini legati ai «signori della guerra» o a governatori di province e distretti, che per questo non incorreranno nella macchina giudiziaria, anch’essa corrotta e controllata. D’altra parte, negli ultimi anni il Governo Karzai ha varato leggi volte a colpire i diritti delle donne -:
quali siano le informazioni in possesso del Governo relative alla gestione delle risorse destinate alla ricostruzione in Afghanistan e sul monitoraggio dei livelli di corruzione a partire dalle più alte cariche istituzionali afgane. (4-12945)