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Autore: Anna Santarello

Le donne di ‘The Last 20’: “Né talebani, né imperialismo”

Agenzia DIRE Francesco Mazzanti 13 settembre2021

Alla manifestazione dedicata ai Paesi più poveri del mondo le voci delle diaspore, con l’Afghanistan in primo piano.

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ROMA – “No ai talebani, no all’imperialismo”: un videomessaggio delle donne di varie nazioni, dalla Tunisia al Marocco, dal Mozambico alla Palestina e fino a Cuba, ha segnato all’università di Tor Vergata di Roma la terza e ultima giornata di ‘The Last 20‘, una manifestazione dedicata ai Paesi più poveri del mondo.

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Perché la maggioranza degli afghani ha preferito i Talebani agli occidentali?

Contropiano.org  Patrick Boylan * 14 settembre 2021 

Il noto programma TV australiano “Four Corners”, simile a “Report” e “Presa Diretta” in Italia, ha ritrasmesso il video di un soldato australiano mentre uccide un civile afghano in sangue freddo. Si riaccende la polemica intorno alle “forze speciali” e a come vengono addestrate.

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Talebani preferiti alle truppe occidentali: perché?

Come mai la stragrande maggioranza degli afghani ha preferito la repressione dei Talebani all’oppressione occidentale?  I nostri mass media cercano invano di negare questo fatto evidente, facendoci sentire in TV soltanto le voci di quegli afghani pro-occidentali che rimpiangono la partenza delle truppe di occupazione. Ma si tratta di una piccola minoranza soltanto, concentrata in alcune grandi città. In tutto il resto del paese, le popolazioni hanno festeggiato la partenza delle truppe USA/NATO. Come mai?

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La resistenza delle donne afgane

Sinistrasindacale.it  – NUMERO 16 – 2021 – Linda Bergamo – 12 settembre 2021

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“Abbiamo già bruciato i nostri libri…’’, mi racconta Hafiza al telefono. ‘‘Le milizie taliban passano di casa in casa dicendo che vengono a cercare le armi. Noi sappiamo che in realtà cercano di capire chi siamo, se abbiamo lavorato col governo o con gli americani, se abbiamo studiato o se abbiamo fatto politica. Un quartiere dopo l’altro, arrivano. Tra qualche giorno saranno qui’’.

C’è un solo tipo di musica autorizzato dal regime talibano, ancora diffusa dalle autoradio delle macchine ferme all’incrocio. Pattuglie di taliban camminano per la strada, o osservano la gente seduti a bordo dei pick up. C’è chi cerca di scappare, nei Paesi vicini, in Europa o negli Usa, le immagini dell’aeroporto di Kabul lasciano l’amaro in bocca. L’Afghanistan sembra in attesa. In attesa di sapere se sarà formato un governo di coalizione fra taliban e alcuni membri del governo precedente. In attesa di sapere quali saranno le regole di questo nuovo periodo storico. In attesa di ritirare soldi dalle banche, perché sono tutte chiuse. La preoccupazione più grande è quella di finire le scorte, di non avere più nulla da mangiare. Cosa ne sarà degli ospedali, delle scuole, delle istituzioni? I fondi internazionali sono stati bloccati. Forse saranno usati come leva da parte della comunità internazionale per imporre condizioni volte al rispetto dei diritti umani.

Al di là dell’incertezza e della paura, c’è la resistenza. La resistenza in Afghanistan assume tante forme, alcune più visibili di altre, nello spazio pubblico o privato. All’indomani della presa di Kabul, una parte della popolazione è scesa in piazza con le bandiere tricolori, manifestando contro i nuovi detentori del potere. La maggior parte delle manifestazioni sono state represse nel sangue, quelle invece mediatizzate sembravano voler rassicurare il popolo che i taliban sono aperti alle forme di protesta.

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Coperture e finanziamenti: così il Regno Saud amico degli Usa ha alimentato al-Qaeda

Globalist.it  – Umberto De Giovannangeli – 13 settembre 2021

Il Regno Saud, culla del wahabismo e finanziatore di al-Qaeda. Il Regno Saud, il più stretto alleato, con Israele, degli Stati Uniti in Medio Oriente. In questa forbice c’è la spiegazione del fallimento della “guerra al terrorismo” jihadista.

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Quei documenti esplosivi

Il Federal Bureau of Investigation (Fbi) ha diffuso il primo di una serie di documenti relativi alla sua indagine sugli attacchi terroristici dell’11 settembre e al sospetto sostegno del governo saudita ai dirottatori, dopo un ordine esecutivo del presidente Joe Biden. Il documento, che risale al 2016, fornisce una serie di dettagli circa le indagini dell’Fbi sul presunto supporto logistico che un funzionario consolare saudita e un sospetto agente dell’intelligence saudita a Los Angeles avrebbero fornito ad almeno due degli uomini che hanno dirottato gli aerei l’11 settembre 2001.

In particolare descrive molteplici connessioni e testimonianze che hanno spinto l’FBI a sospettare di Omaral-Bayoumi, ufficialmente uno studente arabo a Los Angeles, sospettato di essere un agente dell’intelligence saudita che avrebbe poi fornito “assistenza di viaggio, alloggio e finanziamenti” ai due dirottatori.

Si fa anche riferimento a Fahad al-Thumairy, all’epoca un diplomatico accreditato presso il consolato saudita a Los Angeles che secondo gli investigatori guidava una fazione estremista nella sua moschea. Il rapporto di 16 pagine, pubblicato nel 20° anniversario degli attacchi, è il primo documento investigativo ad essere divulgato da quando il presidente Joe Biden ha ordinato una revisione e declassificazione di materiali che per anni sono rimasti segreti.  

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L’Emirato afghano visto da Ankara. Pericolo o opportunità?

Reset.it Mariano Giustino 6 settembre 2021

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La Turchia è stata una delle nazioni maggiormente colte di sorpresa dalla travolgente presa di Kabul, proprio mentre era impegnata nella ricerca di un accordo con gli Usa per assumere la missione di protezione e gestione dell’aeroporto internazionale Hamid Karzai, una volta che le forze della coalizione internazionale avessero completato il ritiro dall’Afghanistan.

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Uniamoci alla resistenza delle donne afghane

A Milano, a Roma, a Trieste, in Sicilia e in tante realtà italiane si stanno costruendo reti di donne che cercano di collaborare attorno all’obiettivo di mantenere desta l’attenzione sulla questione afghana.

Fiorella Carollo, Pressenza, 11 settembre 2021

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A Milano, a Roma, a Trieste, in Sicilia e in tante realtà italiane si stanno costruendo reti di donne che cercano di collaborare attorno all’obiettivo di mantenere desta l’attenzione sulla questione afghana. “Associazioni che in realtà hanno scopi specifici diversi, si stanno rendendo disponibili e questa è decisamente una novità. Ci stanno arrivando ovunque offerte di collaborazione e stiamo cercando di mettere tutte in rete. Per esperienza sappiamo e abbiamo visto negli anni che le reti si formano per poi scomparire ed è proprio quello che noi vogliamo evitare avvenga. Stiamo cercando di creare una coalizione con una base condivisa, nonostante le diverse origini, e che su alcune questioni condividano proprio un progetto di trasformazione che riguardi sì la difesa dei diritti delle donne in Afghanistan, ma anche qui in Italia perché siamo sulla stessa barca.”

A parlare è Gabriella Gagliardo, presidente del Cisda, (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) un’associazione che da diversi decenni sostiene il gruppo politico Rawa, le donne rivoluzionarie dell’Afghanistan di cui si è fatta portavoce in Italia. Oggi il Rawa è decisamente in prima linea nella resistenza ai talebani e sta sollecitando le sue relazioni all’estero affinché si uniscano in un fronte comune e non disperdano la grande solidarietà delle donne, come al solito estremamente frammentata.

Il Rawa ha una certa diffusione sul territorio afghano perché iniziò a lavorare nei campi profughi che negli anni Settanta con l’invasione russa dell’Afghanistan si erano creati in Pakistan. Con l’occupazione della Nato vennero rasi al suolo e ricostruiti all’interno del paese, perché la gente rifugiata ormai sfollata da anni non sapeva dove andare e nessuno li ricollocava. In questi vent’anni dell’occupazione Rawa Nato ha lavorato sia all’interno dei campi profughi che nei villaggi, nelle campagne oltre alle principali città afghane.

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Radio Popolare intervista il Cisda

Una rete sotterranea di soccorso e scuole in casa: così si organizza la resistenza delle donne afghane

Lorenza Ghidini, Radio Popolare, 10 settembre 2021

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Com’era prevedibile, nonostante i talebani abbiano provato a sostenere il contrario, la situazione per le donne in Afghanistan è peggiorata drasticamente. Gli è stato vietato di praticare sport per evitare di mostrare parti del proprio corpo e non è escluso che si arrivi di nuovo al divieto di uscire senza essere accompagnate. Ai microfoni di Radio Popolare Lorenza Ghidini ha intervistato Giovanna Cardarelli, attivista del CISDA, il Coordinamento Italiano per il Sostegno alle Donne Afghane. Potete riascoltare l’intervista nel podcast della puntata di prisma di venerdì 10 settembre 2021.

Dopo tanti anni di impegno, quali sono i tuoi pensieri in questi giorni in cui continuano ad arrivare notizie terribili dall’Afghanistan?

A volte viene da dire: “Ve l’avevamo detto”. In questi 20 anni abbiamo ripetuto che i talebani non se ne sono mai andati dall’Afghanistan. Il faro che ogni tanto si accendeva sul Paese si limitava a Kabul e le altre grandi città, ma nel resto dell’ Afghanistan i talebani resistevano. Provo una tristezza infinita. Vent’anni fa abbiamo invaso un Paese per liberarlo e oggi l’abbiamo riconsegna nelle mani dei talebani della peggior specie. Gli abbiamo dato un primo ministro il cui nome è sulla lista Onu dei terroristi e un ministro degli interni e capo della polizia ricercato dall’FBI con una taglia da 5 milioni di dollari sulla sua testa. Cosa ci possiamo aspettare dai talebani? Che se la prendano con le donne e, ovviamente, hanno già iniziato a farlo.

Le vostre attiviste sono tra le persone più a rischio in Afghanistan. In che condizioni è la vostra rete in questo momento? Siete in grado di farle uscire dal paese?

La nostra associazione è nata nel ’99. Conosciamo l’Afghanistan da diversi anni.
Una delle prime associazioni con cui abbiamo lavorato in Afghnistan è Rawa, l’associazione rivoluzionaria delle donne afghane, che è nata a metà degli anni ’70 e ha sempre lavorato sul territorio. Tutte le associazioni e le donne che sosteniamo hanno deciso di non venir via dal Paese e si sono rimesse a lavorare in clandestinità, esattamente come facevano vent’anni fa. Rifaranno lo stesso lavoro che hanno già fatto ai tempi dei talebani. Ricostruiranno la loro rete sotterranea avvicinando le donne e costruendo piccole scuole nelle case.

In questo momento queste associazioni stanno lavorando con i rifugiati a Kabul.
Ricordiamoci che, prima di arrivare nella capitale, i talebani hanno messo a ferro e fuoco i villaggi per un mese e mezzo. Molta gente è scappata a Kabul ed è arrivata in città senza cibo, acqua o vestiti. Nessuno verrà via dal paese: le donne afghane vogliono rimanere e ricostruire il loro Paese.

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Perché i talebani hanno paura del corpo delle donne

La popolazione, quella urbanizzata soprattutto e in particolare quella femminile, ha coscienza dei propri diritti e lo sta dimostrando ogni giorno scendendo in piazza

Giuliana Sgrena, Il Manifesto, 10 settembre 2021

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I taleban non sono cambiati, gli stessi che si trovano oggi al governo a Kabul hanno fatto la storia del movimento degli studenti coranici o ne sono gli eredi. Invece l’Afghanistan è cambiato: nel 1996 quando arrivarono al potere, per la prima volta, il paese era dilaniato da anni di guerra civile tra i leader jihadisti che avevano distrutto Kabul, tanto che l’arrivo al potere dei taleban poteva persino alimentare l’illusione di una «pacificazione».

Allora non si sapeva che quello dei taleban sarebbe stato un regime del terrore: vietata radio e televisione, musica, promiscuità, obbligo delle preghiere e barba per i maschi, per le donne imposizione di un totale apartheid: vietato l’insegnamento, il lavoro e per uscire di casa accompagnate dal Mahram dovevano portare il burqa, non parlare, non segnalare la propria presenza con i tacchi a spillo.

Nel 2001 l’occupazione occidentale ha posto fine al regime dei taleban per l’ospitalità data ad al Qaeda, ora finisce l’occupazione con il ritorno degli stessi taleban. Che possono anche vantare di aver posto fine all’occupazione, sebbene questo sia avvenuto grazie agli accordi di Doha tra taleban – rappresentati dall’attuale vicepremier Baradar – e gli Usa.

Ora gli afghani sanno chi sono i taleban e non si fanno illusioni, soprattutto le donne.

La maggioranza della popolazione è sotto i 20 anni, quindi ha vissuto in una società ancora ostaggio di divisioni etniche e tribali ma con maggiori possibilità di emancipazione rispetto ai tempi del primo emirato taleban. Tutti o quasi in Afghanistan possiedono un cellulare anche se poi magari non hanno l’elettricità per caricarlo, hanno, o avevano, la possibilità di comunicare in tempo reale con il mondo intero.

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11/9, vent’anni di memoria selettiva

Di questi venti anni ricordiamo solo quello che ci hanno voluto far ricordare

Stefano Galieni, Left, 11 settembre 2021

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Quasi tutti ricordiamo più o meno esattamente dove eravamo e cosa stavamo faceva l’11 settembre di 20 anni fa, quando le terribili immagini delle twin towers abbattute irrompevano nella nostra vita. Ma chi ha ricordo del 7 ottobre, quando la vendetta Usa piombò soprattutto sulla popolazione civile di uno dei Paesi più poveri del pianeta? Ci riferiamo all’Afghanistan reo di non aver consegnato agli Stati Uniti, la mente dell’attentato.

Quell’Osama Bin Laden, fondatore e capo di Al Qaeda, le cui milizie erano state a libro paga di Washington fino a poco prima dell’attacco. A settembre 2001 i taliban, col sostegno occidentale, avevano già da 5 anni preso pieno possesso del Paese, imponendo la sharia e rendendosi responsabili dei peggiori crimini, soprattutto verso le donne. Il loro regime non aveva accettato di consegnare il fondatore di Al Qaeda, in assenza di prove certe per gli attentati di New York. Un pretesto per proteggere il pericolo pubblico numero uno? Molto probabilmente. Un motivo sufficiente per scatenare un dispiegamento militare di tale portata? Beh difficilmente giustificabile.

Come mai già allora la famigerata intelligence Usa non provò neanche ad intervenire come avrebbe poi fatto nel 2011 quando attaccò e uccise il ricco saudita con una operazione militare chirurgica ad Abbottabad, in Pakistan, a quasi 200 km dal confine afghano?

Eppure mentre l’11 settembre è data simbolo di una guerra asimmetrica che avrebbe visto coinvolte soprattutto vittime innocenti nelle città di mezzo mondo – c’erano già stati in realtà le stragi del 1998 alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar Es Salam per complessivi 224 morti e nel 2000 l’attacco alla Uss Cole, cacciatorpediniere della marina americana – il 7 ottobre segna l’inizio di una guerra infinita ben presto scomparsa dalle cronache dei mezzi di informazione.

Soltanto nell’Afghanistan riconsegnato il 15 agosto 2021, con anticipo rispetto al previsto, dopo l’impostura degli accordi di Doha del 2018 e senza colpo ferire, ai taliban, sono morte quasi 250 mila persone, milioni sono gli sfollati interni e i profughi (il 90% si trovano in Pakistan e Iran).

In questi 20 anni di occupazione militare mentre gli Usa spendevano 2.300 miliardi di dollari, la Germania 19 miliardi di euro e l’Italia 8,7 miliardi in Afghanistan è accaduto di tutto: Al Qaeda, ha realizzato proprie strutture in altri Paesi per poi veder lentamente diminuire il proprio potenziale economico e militare; è cresciuta a dismisura la produzione di oppiacei, in particolare eroina – oggi l’Afghanistan è il maggior produttore – è cresciuta la tossicodipendenza, sono aumentate le violenze mentre l’assenza di qualsiasi forma di ripresa economica ha fatto ancor più aumentare il tasso di povertà.

Nella guerra condotta dal 2006 con gli alleati Nato – dove eravamo mentre venne presa tale decisione? – si ebbe l’arroganza di dire che si andava a «liberare le donne dal burka e a esportare democrazia». L’87% di analfabetismo femminile, la corruzione dilagante che ha visto coinvolti i governi sostenuti militarmente ed economicamente dall’occidente, hanno impedito di fatto la realizzazione di qualsiasi infrastruttura che non fosse legata a quella splendida parte della società civile e laica afghana in cui le donne hanno occupato e occupano un ruolo determinante.

Ma nel frattempo quanti altri giorni da terrore sono trascorsi e spariti nella memoria? Ci ricordiamo – ed è giusto – del 12 novembre 2015 (strage del Bataclan) ma di quando, il 20 marzo 2003, in nome di mai ritrovati armamenti chimici e sempre per esportare democrazia, tramite cacciabombardieri, la “alleanza dei coraggiosi”, invase l’Iraq. Obbiettivo la cacciata del dittatore Saddam Hussein – con cui fino a poco tempo prima si erano fatti affari in chiave anti iraniana. E anche in questo caso il risultato si misura in centinaia di migliaia di morti, in un Paese diviso e tutto da ricostruire e, da ultimo, nella nascita di un ennesimo strumento di terrorismo, il sedicente Stato Islamico, dato mille volte per sconfitto ma poi in grado di produrre azioni criminali dal continente africano all’Afghanistan, all’Indonesia, al cuore dell’Europa.

Uno Stato Islamico sconfitto politicamente e militarmente soltanto dalle laiche forze kurde a loro volta poi represse dal regime turco di Erdogan. E a proposito di Isis (uno degli acronimi di detto Stato), chi si ricorda cosa accadeva il 13 aprile del 2017? Presto detto. In una remota provincia afghana veniva sganciata la Moab (Mother Of All Bombs) il più potente ordigno convenzionale mai costruito con l’equivalente di 11 tonnellate di dinamite e il costo di 16 milioni di dollari. Si sono bombardati tunnel utilizzati da terroristi dell’Isis, si disse. In realtà l’onda d’urto prodotta portò alla morte di numerosi e mai contati civili e alla perdita dell’udito per chiunque si trovò a venire colpito dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Un esperimento riuscito, dissero dal Pentagono. Di date da ricordare ce ne sono molte, troppe e molte di queste probabilmente non finiranno mai nei libri di storia in occidente.

Oggi, 11 settembre, una parte di società civile italiana, chiamata dal Cisda, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, proverà a far sentire la propria voce in alcune città italiane come Trieste, Milano, Monselice, Bologna, Fano, Roma, Fiumicino, Messina. Il 25 settembre prossimo, promossa da Rawa (L’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) rimaste a combattere contro l’oscurantismo e la violenza taliban, ha chiesto di mobilitarsi nel mondo occidentale e anche in Italia ci saranno iniziative di cui daremo conto. Piccoli segnali di rivolta per ricordare questa data terribile come l’inizio di un ventennio di terrore che in tanti dobbiamo far terminare. Ma c’è un’ultima data da ricordare per ricominciare.

Il 15 febbraio 2003, in tutto il mondo, contemporaneamente 110 milioni di persone si mobilitarono contro le guerre e contro i terrorismi. Il corteo nazionale di Roma portò in piazza quasi 3 milioni di uomini e donne. La frammentazione, le scelte oscene della realpolitik, operate da molti governi, anche apparentemente di colore politico diverso, hanno fatto sparire quell’immensa e pacifica potenza. Questo ricordo chiude con una domanda: dove sono finiti i tanti e le tante che nella bandiera arcobaleno si riconoscevano senza se e senza ma? Avremo tutti bisogno di risentire le loro voci.

Le donne di Rawa

Rawa: “Noi donne siamo in un costante processo di apprendimento e ispirazione reciproca nelle nostre lotte, e dovremmo cercare di costruire una rete robusta di solidarietà e resistenza contro il fondamentalismo, l’imperialismo e il patriarcato”

Federica D’Alessio – Stati Generali – 10 settembre 2021

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All’intervista che segue, inizialmente destinata a una militante di uno dei gruppi di resistenza clandestina afghani, attualmente non reperibile per ragioni di sicurezza, hanno gentilmente risposto alcune compagne del collettivo rivoluzionario RAWA – fra i gruppi femministi più radicali e attivi del Paese da oltre 40 anni. RAWA ha già concesso diverse interviste ad altre testate in Italia nelle scorse settimane, dopo l’annuncio del ritiro americano. Ancora per ragioni di sicurezza, fra le domande e le risposte sono intercorsi diversi giorni; laddove necessario per legarsi alle ultime vicende di cronaca, siamo intervenuti con opportune note. Ringraziamo le attiviste del Cisda – Coordinamento italiano sostegno donne afghane – per la collaborazione.  

Le immagini del caotico ritiro delle forze NATO da Kabul e altri luoghi dell’Afghanistan ad agosto, mentre la gente comune cercava di fuggire, hanno scioccato l’opinione pubblica in tutto il mondo. Eppure, la decisione era stata annunciata da diverso tempo. Perché, secondo voi, l’ultima parte delle operazioni di ritiro è stata gestita in questo modo? Vi aspettavate un simile caos?

Dal nostro punto di vista, è scioccante che ogni singolo elemento del ritiro dall’Afghanistan nelle scorse settimane sia stato osservato al microscopio, mentre la guerra in sé di tutti questi anni non ha mai ricevuto la stessa attenzione. L’Afghanistan è nel caos da 20 anni; la libertà superficiale e ingannevole che si viveva in alcune delle città più grandi del Paese non aveva alcun valore; è servita soltanto a ingannare la nostra gente e il mondo intero.
Ogni giorno, in questi 20 anni, centinaia di persone venivano uccise dai terroristi, e un incalcolabile numero di bombe esplodeva in tutto il territorio nazionale; il nostro Paese veniva completamente distrutto e le donne vivevano in condizioni disastrose, ma tutto questo non ha trovato quasi nessuno spazio sui media.

Detto ciò, crediamo che gli USA non si aspettassero un’uscita di scena così umiliante, imbarazzante e disonorevole. Non si aspettavano questo caos, e infatti hanno rimandato indietro migliaia di truppe per controllare la situazione. Gli Stati Uniti  non si sono ritirati per scelta; sono stati costretti a causa della crisi sfaccettata che vivono nel loro Paese. Il loro fallimento nella gestione della pandemia di Covid-19, l’attacco a Capitol Hill e le infinite proteste contro il governo in tutti gli Stati Uniti hanno obbligato i legislatori a concentrarsi sulle brucianti crisi interne. Inoltre, la guerra afghana è stata una delle più costose di tutta la storia degli USA, gli è costata trilioni di dollari, tutti soldi delle tasse dei cittadini americani.

Dopo 20 anni in cui le istituzioni e i media americani si sono profusi in ogni tipo di retorica riguardo all’importanza di salvare le donne afghane dalla tirannia e di portare la democrazia dove non ce n’è, nel suo primo discorso alla nazione subito dopo le immagini del caos il Presidente Joe Biden ha omesso qualsiasi riferimento a tali argomenti, e ha dichiarato che l’unico obiettivo delle forze armate americane in Afghanistan fosse la guerra al terrorismo. Che cosa ne pensate del discorso di Biden? E quali credete che siano le responsabilità dell’Occidente nell’attuale situazione e nei suoi possibili futuri sviluppi?

Tutti i presidenti americani che si sono succeduti in questi 20 anni di cosiddetta guerra al terrorismo, Biden incluso, hanno le mani macchiate del sangue delle donne, degli uomini e dei bambini afghani più poveri e innocenti. Con le loro dichiarazioni crudeli, demagogiche e senza vergogna, stanno soltanto spargendo sale sulle nostre ferite. Biden dice che il loro unico obiettivo era trovare Osama Bin Laden e ucciderlo… E che tremenda ironia, che alla fine lo abbiano trovato e ucciso in Pakistan!

Negli ultimi 20 anni, una delle nostre richieste è stata la fine dell’occupazione americana, e ancora meglio, che prendessero e portassero via con sé i fondamentalisti islamici e i tecnocrati, e lasciassero decidere la nostra gente del suo proprio destino. Quest’occupazione ha significato soltanto spargimento di sangue, distruzione e caos. Le politiche belliciste americane hanno trasformato il Paese nel luogo più corrotto, insicuro, mafioso e pericoloso per le donne. Purtroppo gli alleati degli USA le hanno seguite senza battere ciglio. Quando una nazione imperialista/capitalista occupa un Paese povero, è solo per soddisfare i suoi obiettivi economici, finanziari, geopolitici e strategici, certo mai in nessun caso per creare “nation building”,  portare “democrazia” o farla finita con il “terrorismo”.

Dall’Italia, che pure è uno degli Stati del G7, abbiamo sempre ricevuto una straordinaria solidarietà e vicinanza proveniente della sua gente democratica, in cerca di giustizia e amante della libertà. E crediamo che questa solidarietà sarà per noi una ragione di forza che alla fine, ci permetterà di sconfiggere i nemici.

Qui in Europa, i media e i social media stanno dando grande rilievo alle immagini di disperazione e terrore delle donne afgane. L’impressione è che molte ONG che hanno lavorato in Afghanistan negli ultimi 20 anni stiano cercando di dipingere il loro ruolo come necessario ai fini della libertà delle donne in Afghanistan. È davvero così? Che cosa pensate del ruolo giocato dalle ONG negli ultimi 20 anni? Hanno contributo anche loro ad atteggiamenti di paternalismo verso le donne afghane e la società afghana in generale, che in qualche modo hanno legittimato l’occupazione?

Crediamo che le ONG vengano usate per legittimare l’occupazione e la colonizzazione dei Paesi chiamati del cosiddetto “terzo mondo”; e questo è il ruolo che hanno giocato anche in Afghanistan. Queste ben note ONG internazionali vengono usate per coprire le odiose politiche xenofobe in vigore nei loro Paesi mostrando al mondo un volto “umanitario” e “filantropico”. Chiedono riforme, ma non cambiamenti radicali nella società. Servono gli stessi scopi dei media mainstream, cioè dare vita a un ritratto demagogico dell’Afghanistan per nascondere i loro stessi crimini. Con l’occupazione USA/NATO, qui le ONG sono spuntate come funghi in tutto il Paese, e sono una delle ragioni principali della corruzione finanziaria e burocratica vissuta. I fondi che raccoglievano di solito passavano attraverso una catena di contractor, da quelli interni fino a quelli del posto, finendo nelle mani dei signori della guerra locali; e le persone comuni beneficiavano di appena pochi centesimi. Non ci dimentichiamo che gli stranieri sono corrotti tanto quanto se non più delle loro controparti afghane, e stanno facendo affari persino con questo ritiro; le agenzie di security e gli staff delle ambasciate, spesso tramite i loro agenti afghani, falsificano i documenti facendosi pagare da chi cerca di scappare dai 3.000 agli 8.000 dollari per dire che sono loro interpreti o aiutanti. Il saccheggio, gli imbrogli e la corruzione espressi dalle ONG in Afghanistan forse non ha precedenti nel mondo. Parliamo di scuole immaginarie, progetti immaginari e persino quantità di soldati immaginari, mai esistiti nella realtà! Parliamo di miliardi di dollari immessi nel territorio afghano, solo per scoprire che il giorno in cui i talebani hanno preso il potere le ONG sono scomparse e tutto ciò che all’apparenza avevano “costruito” è collassato. Questo perché quanto avevano “costruito” era tanto falso e superficiale quanto vistoso, allo scopo di raggirare le opinioni pubbliche dei loro Paesi.

Per noi, educare, sviluppare la consapevolezza e mobilitare le masse, particolarmente le donne, è un compito principalmente politico; tuttavia, poiché siamo una nazione povera, analfabeta e affamata, in alcuni casi le ONG più piccole e locali sono state e possono essere d’aiuto, ma solo dietro rigoroso controllo e supervisione. Ce ne sono alcune che hanno costruito scuole, cliniche, progetti che hanno generato ricchezza e corsi di alfabetizzazione nelle zone più remote dell’Afghanistan, utilizzando una quantità di risorse molto limitate, e che hanno ottenuto risultati positivi.

Grazie a voi di RAWA e alle realtà che anche dall’Italia vi sostengono, come il Cisda, sappiamo oggi che in Afghanistan ci sono tante realtà differenti di donne che lottano. Pensate che da queste realtà possa sorgere una nuova Resistenza? Come vi immaginate una possibile Resistenza, e in che modo vi state preparando?

Negli ultimi 40 anni, l’Afghanistan ha vissuto nella morsa di guerre e conflitti infiniti. Negli anni ’80 c’erano sollevazioni armate di persone contro il regime fantoccio e la Russia, e alcune finirono per risultare anche vincitrici. In quell’epoca, affrontavamo un solo nemico; oggi abbiamo tanti nemici, con equipaggiamenti militari massicci e un fortissimo apparato di intelligence; per questa ragione, una guerriglia popolare o delle donne non sarebbe mai in grado di sconfiggerli tramite la lotta armata. In più, in quest’era digitale, per quanto la tecnologia abbia offerto innegabili avanzamenti, ha anche disseminato di ostacoli la lotta e l’attivismo.  Prima eravamo abituate a cambiare pseudonimo ogni settimana, e portavamo con noi almeno due passaporti. Adesso, con il sistema biometrico, non possiamo sfuggire a certe minacce. Per queste ragioni la nostra lotta, specialmente la lotta delle donne, ha cambiato forma. Ora ci concentriamo su nutrire le radici dei nostri movimenti tramite l’educazione, coltivando la coscienza politica e rafforzando la consapevolezza delle donne di potersi battere per i loro diritti. Poiché tutte le superpotenze ci assediano, lavoriamo in clandestinità, visto che altrimenti sarà solo una questione di giorni per loro, arrivare a distruggerci. Purtroppo, questo tipo di lotta è molto lento, invisibile sul momento, ma darà i suoi frutti sul lungo periodo. Stiamo piantando i semi per le lotte popolari delle future generazioni che saranno l’Afghanistan di domani, affinché esse possano innaffiare i virgulti e infine godere dei frutti e dell’ombra degli alberi.

Siete in comunicazione con altre realtà della resistenza in Afghanistan? Che cosa pensate della dichiarazione di resistenza anti-talebana di Amrullah Saleh, e su un altro piano, di Ahmad Massoud?
(NDR: successivamente all’intervista, fra il 5 e il 6 settembre scorsi, i talebani hanno annunciato di aver preso il controllo della valle del Panshir dove è ubicata la resistenza di Massoud. Il leader ha lanciato un appello alla “rivolta nazionale” contro i talebani, dopo aver dichiarato giorni fa di essere pronto a formare un “governo inclusivo” con gli stessi talebani). 

Purtroppo, questi tipi di resistenza non sono come spesso le persone nel mondo tendono a credere; solo perché sono contro i talebani, non significa che siano meno fondamentalisti o meno criminali. I cosiddetti movimenti guidati da Saleh o da Ahmad Massoud non rappresentano in nessun modo il popolo dell’Afghanistan. Questi signori della guerra e fondamentalisti jihadisti come Mohaqiq, Dostum, Khalili, Sayyaf, Rabbani, Hekmatyar e Ahmad Shah Massoud hanno commesso indicibili quantità di crimini efferati e durante le lotte intestine degli anni 1992-1996 hanno ucciso più di 75mila civili. Inoltre, il loro ruolo non è stato diverso da quello dei talebani: le donne non avevano il permesso di lasciare casa né di lavorare, la musica fu bandita e le elezioni e la democrazia erano considerate un’ideologia “occidentale” e per infedeli.

Quando gli USA nel 2001 hanno invaso l’Afghanistan, hanno riportato al potere questi criminali e misogini, particolarmente l’Alleanza del Nord che era guidata soprattutto da Amrullah Saleh e Abdullah Abdullah. Costoro ricevettero spaventose somme di denaro, equipaggiamento militare, potere politico e tanta propaganda a favore. Durante questi 20 anni, hanno svolto la funzione di mercenari e burattini del governo USA, mascherandosi da “democratici”, “a favore dei diritti delle donne” e “liberali” per attirare l’attenzione del mondo ed essere accettati. Hanno anche offerto posti di Governo alle donne, e paventato che potessero unirsi alla lotta armata! Hanno dichiarato di credere nella democrazia e partecipato alle elezioni. Ma in realtà, sono fratelli di latte con i talebani: misogini, fondamentalisti e reazionari. I loro completi giacca e cravatta, la voce pacata e i visi rasati non bastano a lavare via la loro natura fondamentalista, le mani macchiate di sangue e i tradimenti e i crimini che hanno commesso contro il nostro popolo.

La nostra gente si oppone con fierezza a queste resistenze, e pensa a come costruire una sua propria lotta; ma, purtroppo, abbiamo sofferto tremendamente negli ultimi quattro decenni di guerra. Il nostro popolo non ne può più di chiunque giunga al potere, siano essi i tecnocrati americani, i criminali dell’Alleanza del Nord o i terroristi talebani. Gli afghani li ritengono tutti traditori, al potere solo per fare i propri interessi, per opprimere, derubare e uccidere la gente comune. In più, a causa della mancanza di strutture, di coscienza politica, di attivismo e a una mancanza di organizzazione, non assistiamo a sollevazioni popolari contro l’occupazione, l’imperialismo e il fondamentalismo islamico (NDR: ci sono state alcune coraggiose manifestazioni di donne, agli inizi di settembre 2021, a Herat e a Kabul, salutate con grande favore anche da RAWA). Ci sono partiti/organizzazioni e individui, come il Partito della Solidarietà dell’AfghanistanBelquis Roshan e Malalai Joya che apportano contributi importantissimi, ma le loro strutture e le loro possibilità sono schiacciate dal potere dei signori della guerra.
Infine, tutti noi abbiamo sacrificato tanto e perso tantissime nostre persone negli ultimi 40 anni. Non abbiamo la libertà di portare avanti alcun attivismo politico, riceviamo ogni giorno minacce di morte e da tanti anni siamo costretti a operare in clandestinità.

Siete in contatto in qualche modo con le donne curde o con altre popolazioni resistenti? Credete che gli uomini e le donne afghane potranno riuscire a prendere ispirazione per la loro resistenza?

Sì, siamo in contatto con le donne curde e abbiamo partecipato alle loro conferenze e ai loro incontri, tenendo anche manifestazioni e proteste in sostegno della loro lotta e resistenza armata. Sono una fonte d’ispirazione per noi,  di forza ed energia, e impariamo tanto dalle  grandi conquiste che hanno ottenuto. Crediamo che le donne curde, specialmente le donne di Kobane, siano d’ispirazione per le donne di tutto il mondo, ed è un grande onore per noi essere in contatto con loro. Non ci sono solo le donne curde; tutta la nostra ammirazione va anche alle donne iraniane, che stanno portando avanti gloriosi movimenti di resistenza nonostante le brutali regole islamiche e le torture e gli imprigionamenti che subiscono. Noi donne siamo in un costante processo di apprendimento e ispirazione reciproca nelle nostre lotte, e dovremmo cercare di costruire una rete robusta di solidarietà e resistenza contro il fondamentalismo, l’imperialismo e il patriarcato.