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Autore: CisdaETS

Onu chiede revoca delle restrizioni del personale femminile

L’ONU in Afghanistan chiede la revoca delle restrizioni all’accesso del personale femminile alle sedi dell’ONU

UNAMA, 11 settembre 2025

Il 7 settembre, le forze di sicurezza afghane di fatto hanno impedito al personale femminile nazionale e ai collaboratori esterni delle Nazioni Unite di entrare nei complessi ONU a Kabul.

Questa restrizione è stata estesa agli uffici ONU in tutto il Paese, a seguito di notifiche scritte o verbali da parte delle autorità de facto . Le forze di sicurezza sono visibilmente presenti agli ingressi delle sedi ONU a Kabul, Herat e Mazar-i-Sharif per far rispettare la restrizione. Ciò è particolarmente preoccupante alla luce delle continue restrizioni ai diritti delle donne e delle ragazze afghane.

Le Nazioni Unite hanno anche ricevuto segnalazioni di forze di sicurezza de facto che tentano di impedire al personale femminile nazionale di recarsi nelle sedi sul campo, anche per supportare donne e ragazze nell’ambito dell’urgente risposta al terremoto, e di accedere ai siti operativi per i rimpatriati afghani dall’Iran e dal Pakistan.

Le Nazioni Unite in Afghanistan stanno coinvolgendo le autorità de facto e chiedono l’immediata revoca delle restrizioni per continuare a fornire un sostegno fondamentale al popolo afghano.

Le azioni attuali ignorano gli accordi precedentemente comunicati tra le autorità de facto e le Nazioni Unite in Afghanistan. Tali accordi hanno permesso alle Nazioni Unite di fornire assistenza essenziale in tutto il Paese, attraverso un approccio culturalmente sensibile e basato su principi, garantendo l’assistenza fornita dalle donne, per le donne.

Gli aiuti umanitari salvavita e altri servizi essenziali attualmente forniti a centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini nelle zone colpite dal terremoto nell’Afghanistan orientale e lungo i confini tra Afghanistan, Iran e Pakistan sono seriamente a rischio.

In risposta a questa grave interruzione, l’UNAMA e le agenzie, i fondi e i programmi delle Nazioni Unite in Afghanistan hanno implementato adeguamenti operativi provvisori per proteggere il personale e valutare opzioni praticabili per proseguire il loro lavoro fondamentale e basato sui principi.

Il divieto di movimento del personale delle Nazioni Unite e l’ostruzione delle operazioni delle Nazioni Unite costituiscono una violazione delle norme internazionali sui privilegi e le immunità del personale delle Nazioni Unite.

Parità di genere: il divario in cifre

Se le tendenze attuali persisteranno, entro la fine del decennio oltre 351 milioni di donne e ragazze potrebbero ancora vivere in condizioni di povertà estrema

Ana Carmo, News Nazioni Unite, 15 settembre 2025

Il mondo si sta allontanando dalla parità di genere e il costo si sta contando in termini di vite umane, diritti e opportunità. A cinque anni dalla scadenza degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) nel 2030, nessuno degli obiettivi per la parità di genere è sulla buona strada.

È quanto emerge dal rapporto SDG Gender Snapshot di quest’anno, pubblicato lunedì da UN Women e dal Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, che si basa su oltre 100 fonti di dati per monitorare i progressi in tutti i 17 obiettivi.

Il mondo a un bivio

Il 2025 segna tre importanti traguardi per le donne e le ragazze: il 30° anniversario della Dichiarazione e della Piattaforma d’azione di Pechino , il 25° anniversario della risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza e l’ 80 ° anniversario delle Nazioni Unite .

Ma alla luce dei nuovi dati preoccupanti, è urgente accelerare azioni e investimenti.

Altri risultati del rapporto rivelano che la povertà femminile non è praticamente cambiata negli ultimi cinque anni, attestandosi intorno al 10% dal 2020. La maggior parte delle persone colpite vive nell’Africa subsahariana e nell’Asia centrale e meridionale.

Il conflitto amplifica la crisi

Solo nel 2024, 676 milioni di donne e ragazze vivevano a rischio di conflitti mortali, il numero più alto dagli anni ’90.

Per chi si trova in zone di guerra, le conseguenze vanno ben oltre lo sfollamento. Insicurezza alimentare, rischi per la salute e violenza sono in forte aumento, osserva il rapporto.

La violenza contro donne e ragazze rimane una delle minacce più diffuse. Più di una donna su otto in tutto il mondo ha subito violenza fisica o sessuale da parte del partner nell’ultimo anno, mentre quasi una giovane donna su cinque si è sposata prima dei 18 anni. Ogni anno, si stima che quattro milioni di ragazze subiscano mutilazioni genitali femminili, e oltre la metà di esse prima del quinto compleanno.

Dare priorità alla parità di genere

Eppure, nonostante le statistiche fosche, il rapporto evidenzia cosa è possibile fare quando i paesi danno priorità alla parità di genere. La mortalità materna è diminuita di quasi il 40% dal 2000 e le ragazze hanno ora più probabilità che mai di finire la scuola.

Parlando con UN News , Sarah Hendriks, direttrice della Divisione politica di UN Women, ha affermato che quando si è trasferita per la prima volta in Zimbabwe nel 1997, “dare alla luce era in realtà una questione di vita o di morte”.

“Oggi questa non è più la realtà. E questo è un progresso incredibile in soli 25, 30 anni”, ha aggiunto.

Colmare il divario digitale di genere

Anche la tecnologia è promettente. Oggi, il 70% degli uomini è online, rispetto al 65% delle donne. Colmare questo divario, stima il rapporto , potrebbe portare benefici a 343,5 milioni di donne e ragazze entro il 2050, facendo uscire 30 milioni di persone dalla povertà e aggiungendo 1,5 trilioni di dollari all’economia globale entro il 2030.

“Laddove la parità di genere è stata considerata prioritaria, ha fatto progredire società ed economie”, ha affermato Sima Bahous, Direttore Esecutivo di UN Women. “Investimenti mirati nella parità di genere hanno il potere di trasformare società ed economie”.

Allo stesso tempo, una reazione senza precedenti ai diritti delle donne, la riduzione dello spazio civico e il crescente taglio dei finanziamenti alle iniziative per la parità di genere stanno minacciando i successi ottenuti a fatica.

Secondo UN Women, senza azioni concrete le donne restano “invisibili” nei dati e nell’elaborazione delle politiche, con il 25% in meno di dati di genere disponibili a causa dei tagli ai finanziamenti per le indagini.

“Il Gender Snapshot 2025 dimostra che i costi del fallimento sono immensi, ma lo sono anche i guadagni derivanti dalla parità di genere”, ha affermato Li Junhua, Sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali.

“Un’azione accelerata e interventi focalizzati su assistenza, istruzione, economia verde, mercati del lavoro e protezione sociale potrebbero ridurre il numero di donne e ragazze in povertà estrema di 110 milioni entro il 2050, sbloccando un ritorno economico cumulativo stimato in 342 trilioni di dollari”.

Scelta urgente

Ma i progressi restano disomogenei e spesso dolorosamente lenti.

Le donne detengono solo il 27,2% dei seggi parlamentari in tutto il mondo e la loro rappresentanza negli enti locali si è fermata al 35,5%. Nella dirigenza, le donne occupano solo il 30% dei ruoli e, a questo ritmo, la vera parità è lontana quasi un secolo.

In occasione del 30° anniversario della Piattaforma d’azione di Pechino, il rapporto definisce il 2025 come un momento di resa dei conti.

“L’uguaglianza di genere non è un’ideologia”, avverte. “È fondamentale per la pace, lo sviluppo e i diritti umani”.

In vista della settimana di alto livello delle Nazioni Unite, il rapporto Gender Snapshot chiarisce che la scelta è urgente: investire subito nelle donne e nelle ragazze, oppure rischiare di perdere un’altra generazione di progressi.

La signora Hendriks ha condiviso il messaggio di UN Women ai leader mondiali: “Il cambiamento è assolutamente possibile e abbiamo davanti a noi un percorso diverso, ma non è inevitabile e richiede la volontà politica, nonché la ferma determinazione dei governi di tutto il mondo, per rendere l’uguaglianza di genere, i diritti delle donne e la loro emancipazione una realtà una volta per tutte”.

Basato sull‘Agenda d’azione Pechino+30 , il rapporto individua sei aree prioritarie in cui è necessario un intervento urgente e accelerato per raggiungere la parità di genere per tutte le donne e le ragazze entro il 2030, tra cui una rivoluzione digitale, la libertà dalla povertà, zero violenza, pieno e pari potere decisionale, pace e sicurezza e giustizia climatica.

Estorsioni in nome della Sharia

Le estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane

Sayeh, شفق همراه, settembre 2025

Le autorità preposte alla promozione del bene e la proibizione del male, che secondo i leader del gruppo talebano dovrebbero attuare la Sharia, sono progressivamente diventati un apparato estorsivo.

Questi funzionari accusano le donne per il mancato rispetto dell’hijab (velo) e per la mancanza di un mahram maschile (parente maschio), mentre gli uomini sono incolpati di indossare abiti contrari alla cultura islamica afghana, di tagliarsi i capelli in violazione della Sharia e di avere tatuaggi. Con minaccie di punizirli, portarli in caserma e rinchiuderli in prigione, li spaventano per poter estorcere loro denaro e oggetti di valore. Queste estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane.

Non si tratta solo di fatti occasionali: ogni giorno ci sono donne e giovani che vengono violate e insultate in qualche parte della città; a causa del “hijab” o del “zahir” (aspetto), subiscono violenze e umiliazioni e sono costrette a pagare e a consegnare i loro beni di valore per non essere portate via e subire abusi.

Sajeda, che ora ha lasciato l’Afghanistan, racconta la sua terribile esperienza: “L’estate scorsa stavo facendo i preparativi per un viaggio e sono uscita di casa per fare degli acquisti. Indossavo uno scialle semplice e modesto, ma avevo lasciato fuori alcune ciocche di capelli che, in realtà, non pensavo potessero essere oggetto di biasimo. Questo, però, è bastato perché la cosiddetta banda talebana mi fermasse”.

Mentre arrivava a Pul-e-Sorkh, incontrò le forze dell’ordine talebane che le ordinano di fermarsi. “Uno di loro disse ad alta voce: ‘Fermati, ragazza. Che razza di vestito è questo?'”.

Quando lei spiegò che il suo vestito era in regola, uno di loro disse che aveva i capelli che uscivano dal velo e che la sua famiglia doveva venire a garantire per lei per
chè fosse lasciata libera. “Mi hanno costretta a seguirli al terzo distretto, ma quando siamo stati nelle vicinanze mi hanno fatta entrare in un vicolo che scende in fondo al mare e uno dei più giovani mi ha detto: ‘Dammi cinquemila afgani e sei libera’. All’inizio ho opposto resistenza e ho detto che non avevo soldi, ma loro non hanno accettato».

Le prensero il cellulare, guardarono le foto contenute e poi, indicando quelle della famiglia, le dissero: ‘La vostra famiglia ha un problema con l’hijab’. Nella galleria del mio cellulare c’erano foto del matrimonio di mio fratello e della mia festa di compleanno. Quando ho detto che quelle foto erano private, uno di loro ha gridato con rabbia: ‘La Sharia deve essere osservata sia in pubblico che in privato’”.

“Mentre ci avvicinavamo al posto di polizia, continuavano a minacciarmi e a ripetermi che il mio crimine era grave, perciò ho capito che mi avrebbero trattenuta e che non avevo alcuna possibilità di venirne fuori. Quindi mi sono decisa a pagare tremila afghani per salvarmi”.

Questo caso mostra come il “mahram” e l’“hijab” non costituiscano un principio religioso per i talebani, ma un mezzo di intimidazione e di controllo finalizzato all’estorsione. Quando una ragazza viene arrestata con l’accusa di aver indossato un velo troppo corto, presa in ostaggio e ricattata con il pretesto di qualche ciocca di capelli e sottoposta a un processo sommario, è evidente che l’obiettivo è il controllo e il ricatto. Questo comportamento intimidatorio e umiliante compromette la sicurezza delle donne anche nelle più semplici attività e movimenti quotidiani.

Anche i ragazzi sono presi di mira

Vahid “Mastar”, un ragazzino che ha un piccolo tatuaggio sul polso ed è stato molestato più volte dai talebani per questo, racconta l’ultima volta che ciò è accaduto: “Avevo fatto il tatuaggio prima che arrivassero i talebani. All’inizio, quando mi rimboccavo le maniche, mi molestavano sempre, perciò lo nascondevo. Questa primavera mentre stavo tornando a casa, non mi ero abbottonato la manica e il mio tatuaggio era visibile. Una persona mi ha invitato a raggiungerla, ma quando ha visto il tatuaggio, mi ha schiaffeggiato e ha detto: “Questo è un segno di infedeltà”.

Però non si trattò solo di una minaccia: lo portò direttamente alla polizia di zona togliendogli il cellulare. «Mi ha fatto passare davanti a un container e ha minacciato di rinchiudermi lì. Uno dei talebani, che non indossava l’uniforme bianca e che non sembrava essere un membro dell’Amr al-Ma’ruf, era seduto su uno sgabello. Mi si è avvicinato e ha detto: “Promettimi che rimuoverai il tatuaggio e verrai rilasciato'”.

Quando ritornò il funzionario talebano, Wahid iniziò a supplicarlo e a promettere di cancellare il tatuaggio. Dopo qualche istante, lui accettò e gli portò carta e penna per scrivere la promessa. “Poi mi disse: ‘Ora ti conosco e se vedo che hai ancora il tatuaggio non ti perdonerò’. Mentre me ne andavo, gli ho detto che aveva il mio cellulare. Mi si avvicinò e mi disse: ‘Non credo che tu abbia capito perché ti ho rilasciato così facilmente’. Mi resi conto che non mi avrebbe restituito il cellulare. Onestamente, ero spaventato perchè avevo visto molte persone picchiate senza motivo”.

Quando Vahid uscì dal commissariato, il funzionario lo seguì e gli fece notare che non aveva affatto un cellulare e che se gli avesse rivisto un tatuaggio, si sarebbe messa male per lui.

Ora le strade di Kabul e di altre città sono diventate un terreno di ricatto e di guadagno per il gruppo talebano; quella che chiamano “imporre ciò che è giusto e proibire ciò che è sbagliato” è in realtà una pratica di estorsioni e umiliazioni, un luogo in cui le donne vengono fermate a causa dei loro capelli e il colore dei loro vestiti e i giovani a causa del loro aspetto fisico, mentre sono sottoposti a estorsioni, insulti e umiliazioni.

 

Accordo tra gli Stati Uniti e i talebani sul rilascio di detenuti

La Voce di New York, 14 settembre 2025, di Dania Ceragioli

Da Kabul segnali di apertura verso la normalizzazione, ma Washington resta in silenzio

Un annuncio che appare come una svolta, ma che lascia dietro di sé più domande che certezze. Da Kabul i talebani hanno reso noto di aver raggiunto un’intesa con rappresentanti degli Stati Uniti per uno scambio di prigionieri: un passo che, nelle intenzioni, dovrebbe aprire la strada a rapporti più distesi tra i due Paesi. Ma mentre i portavoce dell’Emirato islamico parlano di “avvicinamento” e “dialogo costruttivo”, dalla Casa Bianca non è arrivata alcuna conferma né commento ufficiale.

L’incontro si è svolto in un clima di apparente cordialità. Alcune fotografie diffuse dalle autorità mostrano il ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi seduto accanto agli inviati americani, tra cui Adam Boehler, responsabile delle missioni legate agli ostaggi sotto l’amministrazione Trump. Secondo quanto riferito, proprio Boehler avrebbe riconosciuto la volontà di entrambe le parti di procedere con una cessione reciproca. Nessun dettaglio, tuttavia, è stato reso noto: né il numero delle persone coinvolte, né la loro identità, né tantomeno le ragioni delle rispettive detenzioni.

Il contesto aggiunge peso politico alla notizia. Solo pochi mesi fa il movimento islamico aveva rilasciato George Glezmann, un cittadino americano rapito mentre viaggiava in Afghanistan come turista. Il terzo ostaggio liberato dall’ascesa del leader del GOP alla White House. Un gesto che, secondo alcuni analisti, potrebbe aver rappresentato un banco di prova per testare la disponibilità statunitense ad aprire spiragli di dialogo.

Ma non si è discusso soltanto di prigionieri. Nella dichiarazione ufficiale, i talebani hanno fatto sapere che al centro dei colloqui vi sarebbero stati anche il rafforzamento dei rapporti bilaterali e le possibilità di investimento economico nella nazione centro-asiatica. Un messaggio che mira a presentare il regime come un interlocutore pragmatico, interessato non solo alla politica ma anche alla stabilità finanziaria.

Gli americani, hanno anche espresso cordoglio per il recente terremoto che ha devastato la zona orientale, un gesto di sensibilità che va oltre le dinamiche diplomatiche, ma che non scioglie i nodi più complessi: il riconoscimento internazionale dei talebani, i diritti umani negati, le restrizioni imposte alle donne.

Resta inoltre aperta la questione più delicata: quanti realmente siano i detenuti coinvolti nello scambio. I miliziani non hanno mai fornito cifre ufficiali, alimentando un clima di incertezza. In passato, il regime aveva rilasciato oltre 2.400 prigionieri in occasione di festività religiose, mentre altri migliaia hanno beneficiato di riduzioni di pena, segno che le carceri afghane restano affollate. La situazione negli Usa invece risulta più circoscritta: a Guantánamo, a inizio 2025, erano rimasti soltanto 15 carcerati, soggetti di origine afghana o altri sospetti legati a conflitti, dopo spostamenti e liberazioni.

Processo di pace a rischio, la Turchia ora chiede lo scioglimento delle Sdf

Il manifesto, 13 settembre 2025, di Tiziano Saccucci

Il governo turco ha annunciato lunedì una riunione di gabinetto convocata da Recep Tayyip Erdogan. Sul tavolo il futuro delle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza curdo-araba che ha guidato la resistenza contro l’Isis. Ankara continua a considerare le Sdf un’emanazione del Pkk, definito «organizzazione terroristica». Giovedì il portavoce del ministero della difesa turco, Zeki Aktürk, ha ribadito che il mancato disarmo delle Sdf «mina l’integrità siriana e la nostra sicurezza nazionale».

AL CENTRO dell’irritazione turca c’è l’accordo firmato a marzo tra Mazloum Abdi, comandante delle Sdf, e il presidente ad interim siriano Ahmed al-Sharaa: un primo passo verso l’integrazione delle istituzioni della Siria del nord-est nel nuovo assetto post-Assad. L’intesa è rimasta però lettera morta, bloccata dall’intransigenza di Damasco e le ingerenze di Ankara, che considera lo scioglimento delle forze curde come l’unico esito accettabile.

Il leader nazionalista Devlet Bahçeli, alleato imprescindibile di Erdogan, ha invocato un’azione militare diretta contro le Sdf se non accetteranno lo scioglimento. Un déjà vu: dal 2016 la Turchia ha condotto tre operazioni militari nel nord della Siria, costringendo centinaia di migliaia di civili curdi alla fuga. Intervistato su Hürriyet, Bahçeli ha chiesto esplicitamente ad Abdullah Öcalan di «fare un nuovo appello» che includa anche le forze curde in Siria e le associazioni curde in Europa: «In quanto fondatore del Pkk e unico promotore del suo scioglimento, sarebbe opportuno che Öcalan ricordasse che l’appello del 27 febbraio riguarda anche la branca siriana e quella europea».

Dietro l’appello di Bahçeli si intravede la consueta ossessione securitaria: liquidare l’esperienza dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord-est come minaccia esistenziale per la Turchia. «Non possiamo permettere che restino un problema di sicurezza» ha scandito, rimettendo il destino della regione «alla decisione del nostro presidente Erdogan».

LA REPLICA CURDA è arrivata con un’intervista a JinTV di Pervin Buldan, deputata del partito Dem, che negli ultimi mesi ha incontrato più volte Öcalan: «Un’operazione turca o la cancellazione delle conquiste dei curdi in Siria provocherebbe devastazione anche tra i curdi in Turchia. Nessuno lo accetterebbe, soprattutto Öcalan». Buldan ha rivelato che il leader curdo ha più volte definito la Siria del nord-est e il Rojava come una «linea rossa». «Con noi – ha spiegato Buldan – Öcalan ha parlato soprattutto di politica turca, ma con la delegazione statale ha discusso apertamente della Siria».

La strategia del governo ad interim di al-Shaara per uscire dal pantano sembra configurarsi ancora una volta come un tentativo di divisione del fronte curdo. L’Enks, coalizione vicina al Partito democratico del Kurdistan della famiglia Barzani, secondo diverse fonti avrebbe ricevuto un nuovo invito a Damasco: un tentativo di indicare nell’Enks l’interlocutore curdo privilegiato del governo. Il portavoce dell’Enks, Faysal Yusuf, pur senza confermare l’invito ha affermato che ogni loro azione sarà in linea con il principio di unità del fronte curdo.

Lo stesso Masoud Barzani, storico leader del Kdp, secondo un report di Rudaw avrebbe inviato un messaggio a diverse tribù siriane: in caso di aggressione al Rojava, «l’intera forza peshmerga del Kurdistan verrà a Qamishlo, e io stesso sarò tra loro». Resta difficile credere che, in caso di intervento turco, le Sdf possano contare sul sostegno della famiglia Barzani, legata a doppio filo, politicamente ed economicamente, ad Ankara.

«NON VOGLIAMO la divisione della Siria, ma una pace giusta», ha detto Salih Muslim, figura di spicco del Rojava, a margine di una conferenza con organizzazioni progressiste del mondo arabo, organizzata dall’Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) a Sulaymaniyya. «Non accetteremo mai un ritorno a un sistema completamente centralizzato in Siria, né alle condizioni esistenti prima del 2011 – ha affermato Muslim – Se il nuovo governo siriano si rifiuta di riconoscere il decentramento, saremo costretti a chiedere l’indipendenza».

Talebani, terremoti, siccità, alluvioni: così la solidarietà delle ong resiste a tutto in Afghanistan

TPI The Post Internazionale, 12 settembre 2025, di Antonio Scali

Un’emergenza umanitaria senza precedenti. Instabilità politica ed economica, disastri naturali, violazione dei più basilari diritti umani. La situazione in Afghanistan è ormai da tempo disastrosa. Sono passati quattro anni da quando, nell’agosto 2021, i talebani hanno ripreso il potere nel Paese. La crisi economica morde sempre più, e minaccia di lasciare più del 97 per cento della popolazione in estrema povertà.
Così molte famiglie sono costrette a compiere scelte drastiche, che nessun genitore vorrebbe mai prendere, come ritirare i figli da scuola per mandarli a lavorare, venderli o, nel caso delle ragazze, farle sposare precocemente. In Afghanistan 22,9 milioni di persone (più della metà degli abitanti del Paese) versano in drammatico bisogno di assistenza umanitaria: di queste, 12,4 milioni sono bambini sotto i 18 anni d’età, come sottolinea l’Unicef.

Una catastrofe dopo l’altra
La mancanza di accesso ai servizi essenziali, all’educazione, al lavoro e alle opportunità di sostentamento acuisce ancor di più le disparità, e aggrava le condizioni delle fasce più deboli, come donne e minori. Le principali criticità riguardano l’accesso a cibo, protezione e servizi sanitari. Le aree di maggiore bisogno sono quelle più remote, spesso identificate come “white areas”, dove i servizi essenziali come l’acqua potabile risultano fortemente limitati, se non inesistenti. Come se non bastasse, anche la natura sembra “accanirsi” su questa terra, negli ultimi anni martoriata da alluvioni, siccità e devastanti terremoti, come quello dello scorso 31 agosto che ha provocato più di duemila morti.
Da quando nel 2021 il nuovo governo talebano è tornato al potere, la crisi economica si è fatta più acuta, la popolazione è più povera (alle donne è vietato lavorare in quasi tutti i settori), e il sistema sanitario è collassato. I numeri, d’altronde, parlano chiaro. In questo momento nel Paese 21 milioni di persone non hanno accesso ad acqua sicura e servizi igienico-sanitari essenziali, oltre 19 milioni sono prive di assistenza medica di base, 7,8 milioni necessitano di supporto nutrizionale, e oltre 820mila bambini sono in immediato pericolo di vita per malnutrizione acuta grave.
In questo contesto sociale e politico così complesso diventa difficile anche portare avanti le attività delle decine di organizzazioni non governative italiane e internazionali che da anni operano sul territorio, con forti rischi per l’incolumità di operatori umanitari e sanitari.

Assistenza sanitaria
Eppure, sono diverse le grandi organizzazioni solidali e sociali che, nonostante tutto, resistono e portano avanti i loro progetti per cercare di migliorare le condizioni di vita della popolazione afghana. Proviamo con una rapida carrellata a dare risalto alle attività e ai progetti più significativi.
Emergency lavora in Afghanistan dal 1999 e oggi è presente nel Paese con tre Centri chirurgici (a Kabul, Lashkar-Gah e Anabah), un Centro maternità ad Anabah, una rete di 40 posti di primo soccorso e Centri sanitari e delle cliniche in alcune carceri del Paese. Gli ospedali di Emergency continuano a rappresentare un punto di riferimento fondamentale per la popolazione locale, offrendo cure gratuite e di qualità. Uno dei punti di forza delle loro attività è l’impegno per formare la popolazione locale. Per questo gli ospedali a Lashkar-gah, Kabul e Anabah sono anche Centri di formazione post-laurea in chirurgia e traumatologia, pediatria, ginecologia e ostetricia e anestesia ufficialmente riconosciuti dal Ministero della Sanità afgano. «Nelle nuove generazioni di giovani medici e infermieri e nella formazione vediamo ancora una speranza per il futuro», spiega Dejan Panic, direttore del programma di Emergency in Afghanistan. «È fondamentale che tutti, donne comprese, possano tornare ad avere il proprio spazio nella società, e che la comunità internazionale non abbandoni questo Paese».
Inoltre non possiamo dimenticarci del lavoro svolto dal Comitato internazionale della Croce Rossa, al servizio del popolo afghano da oltre 40 anni, fornendo assistenza sanitaria di base e supporto alla riabilitazione fisica, riunendo le famiglie separate dai conflitti e migliorando l’accesso all’acqua potabile, ai servizi igienici e all’elettricità. Il Cicr, poi, è intervenuto prontamente dopo il terribile terremoto di fine agosto.

Aiuti all’infanzia
In prima linea per sostenere i bambini bisognosi invece c’è l’Unicef, presente in Afghanistan dal 1949. Tra gli obiettivi del 2025, quello di raggiungere con terapie salvavita 824mila bambini con Malnutrizione Acuta Grave e 7,4 milioni con somministrazione di vitamina A. L’organizzazione punta poi ad assistere con cure mediche di base più di 19 milioni di persone e 340mila bambini con vaccinazioni contro il morbillo. Fondamentale, inoltre, l’obiettivo di raggiungere 3,9 milioni di persone con acqua sicura, 3,4 milioni con servizi idrici e igienico-sanitari appropriati e 4,4 milioni con programmi di promozione dell’igiene. Particolare attenzione verrà data all’aiuto di bambini sfruttati e abusati, e per potenziare l’istruzione, raggiungendo due milioni di ragazzi con programmi di emergenza nelle scuole. Un impegno a fianco della popolazione locale che va avanti da oltre 70 anni, grazie ad un solido rapporto di fiducia con le comunità, come dimostra l’immediata mobilitazione da parte di Unicef di risorse, uomini e aiuti dopo il devastante terremoto che ha colpito il 31 agosto la parte orientale del Paese.
Tra le organizzazioni maggiormente attive sul territorio non possiamo poi non citare Save The Children, presente nel Paese da oltre 40 anni. L’associazione, in particolare, pone l’attenzione sulla gravità della scelta del governo talebano di impedire a moltissime ragazze di frequentare le scuole di istruzione secondaria e l’università. Inoltre, alle donne viene proibito di lavorare per le associazioni umanitarie. In tanti anni di attività in quella nazione, Save The Children ha portato avanti aiuti salvavita come cure mediche anche nelle aree più remote, curando 73mila casi di malnutrizione acuta infantile e fornendo supporto sanitario a oltre 30mila donne. Molti sforzi sono stati profusi nel campo dell’istruzione, con l’allestimento di spazi sicuri dove i bambini possano giocare e studiare. In particolare, un recente progetto – sviluppato in undici strutture sanitarie strategicamente distribuite in vari distretti – ha portato avanti interventi chiave riguardanti l’assistenza prenatale e postnatale, programmi di vaccinazione, trattamento della malnutrizione acuta, supporto all’alimentazione dei neonati e dei bambini e attività di promozione dell’igiene.
Tra le organizzazioni presenti sul territorio afghano c’è anche ActionAid, che ha da poco lanciato il suo piano strategico fino al 2029. Diverse le aree di intervento su cui si vuole investire nei prossimi anni: l’emancipazione di donne e ragazze, promuovendo al contempo diversità, inclusione ed equità; il sostegno a soluzioni sostenibili e durature e ad azioni positive per il clima, come lo sviluppo della biodiversità e il maggior utilizzo delle energie rinnovabili; l’aiuto alle popolazioni colpite da conflitti, disastri naturali e altre crisi. L’obiettivo è quello di sostenere la ripresa di queste comunità per contribuire a un Afghanistan più resiliente e pacifico.

Il contributo dall’Italia
C’è anche l’Italia tra i Paesi che, con le proprie organizzazioni, continua a dare un contributo per il futuro dell’Afghanistan. Pangea, ad esempio, è una fondazione milanese presente a Kabul dal 2003, con progetti in difesa dei diritti umani delle donne, microcredito ed empowerment per la loro indipendenza sociale. Tra le varie attività svolte sul territorio, il progetto Jamila consente alle donne di frequentare corsi, ricevere assistenza e accedere al programma di microcredito per avviare o incrementare attività lavorative. Un progetto che punta all’emancipazione sociale ed economica delle afghane, e per questo mal digerito dai talebani. Tra le altre cose, il programma permette alle donne che hanno seri problemi di salute di usufruire gratuitamente di visite mediche specializzate e se incinte viene offerto un percorso di accompagnamento per una maternità sicura.
A fianco delle donne afghane, dal 1999, c’è anche l’onlus Cisda – Coordinamento italiano in sostegno donne afghane. Tra i progetti sostenuti, quelli a favore dell’istruzione scolastica, visto che, come detto, i talebani hanno vietato l’accesso ai corsi della scuola secondaria alle ragazze nella quasi totalità dei distretti. E ancora il progetto Sartoria, per rendere le donne autonome lavorando da casa, dato che non possono lavorare né nei servizi pubblici (ad eccezione dei ruoli che non possono essere ricoperti da uomini in campo sanitario ed educativo) né in quelli privati. Un modo quindi per ridare loro dignità e riaffermare il diritto al lavoro femminile.
E ancora Nove Caring Humans, operativa in Italia dal 2012 e dall’anno seguente in Afghanistan. Tra i progetti portati avanti, quello di un orfanotrofio femminile a Kabul, per far riconquistare il diritto all’infanzia a decine di bambine sopravvissute a violenze, abbandono e traumi profondi. E ancora il progetto Percorsi di Benessere, per garantire assistenza psicologica alle donne e alle ragazze afghane, sempre più provate dalle crescenti restrizioni imposte dal regime talebano.
In prima linea, per chiudere la nostra carrellata, anche Intersos, che punta a raggiungere le popolazioni vulnerabili nelle aree più remote. L’organizzazione nel 2024 ha assistito 526.652 persone nelle province di Kabul, Kandahar, Uruzgan e Zabul. Vengono forniti aiuti essenziali riguardanti salute, nutrizione, protezione e accesso all’acqua potabile, con l’obiettivo di restituire dignità e rafforzare la resilienza delle comunità. In particolare, vengono garantiti servizi sanitari di base e specialistici, tra cui consultazioni per malattie trasmissibili e non trasmissibili, salute materno-infantile, supporto per la salute mentale, assistenza sessuale e riproduttiva, nonché servizi ostetrici di emergenza. Importanti anche le campagne di vaccinazione e quelle di sensibilizzazione per promuovere l’igiene. Intersos, inoltre, si rivolge a donne sopravvissute a violenza di genere, famiglie sfollate e persone che ritornano da altri Paesi, offrendo loro spazi sicuri, supporto psicosociale e assistenza logistica per l’accesso ai servizi necessari nelle loro città. Organizzazioni e attività che, dunque, nonostante i forti limiti imposti dal regime talebano, portano avanti il loro impegno per un Afghanistan più prospero e pacificato. Un obiettivo strategico anche a livello geopolitico, per riportare la pace nell’area, nell’interesse di tutti.

 

Afghanistan, terremoti e leggi che uccidono le donne

Casa delle Donne di Milano, 11 settembre 2025, di Antonella Eberlin

Un terremoto distrugge in pochi secondi. Case che crollano, villaggi che spariscono, famiglie che si ritrovano senza nulla. Ma in Afghanistan, dopo che la terra ha smesso di tremare, per molte donne la tragedia non è finita. È solo cominciata.
Perché in un Paese in cui alle donne è vietato, tra tante altre cose, studiare medicina, lavorare come infermiera o muoversi senza un accompagnatore maschio, anche il diritto più elementare – ricevere soccorso quando si è feriti – può essere negato.

Una catastrofe naturale e un sistema che amplifica il dolore

Nell’ottobre 2023 la provincia di Herat è stata colpita da tre scosse di magnitudo 6.3: circa 1.480 morti e quasi 2.000 feriti. Un bilancio pesantissimo, aggravato dalla distruzione di oltre 40 strutture sanitarie. Testimonianze delle agenzie umanitarie hanno rivelato un dato significativo: tra le vittime, la maggioranza erano donne e bambine. Non per caso, ma perché al momento delle scosse si trovavano in casa, mentre gli uomini erano all’aperto per lavoro.

E quando si arriva all’ospedale – ammesso che non sia crollato – inizia un altro dramma. Da anni, i talebani hanno imposto regole che limitano l’assistenza sanitaria femminile. In molte zone un uomo non può visitare una donna se non è presente un mahram, cioè un parente maschio. Ma se il mahram non c’è, o è morto sotto le macerie, la donna resta senza cure. In situazioni di emergenza questo equivale a una condanna a morte.

Il blocco della formazione sanitaria femminile

Come se non bastasse, dal dicembre 2024 è stato imposto lo stop ai corsi di infermieristica e ostetricia. Una misura che ha chiuso l’ultima finestra per formare personale sanitario femminile, proprio quando ce n’è più bisogno.
Il paradosso è evidente: le donne possono essere curate solo da altre donne, ma alle donne viene vietato di studiare e di lavorare in ospedali e ONG. Il risultato è che intere comunità restano senza mediche e infermiere. In un Paese con frequenti disastri naturali e un sistema sanitario fragile, questa scelta non è neutrale: è letale.

Non solo regole, ma vite spezzate

Le cronache raccontano storie di donne ferite che hanno dovuto attendere ore ai checkpoint, perché senza un accompagnatore maschio. Alcune non ce l’hanno fatta. Altre, arrivate in ospedale, hanno trovato solo medici uomini che non potevano toccarle.
Medici Senza Frontiere ha sottolineato come, dopo i terremoti, la maggior parte dei pazienti fosse composta da donne e bambini. Ma senza staff femminile sufficiente, l’accesso alle cure è stato limitato. Non esiste un decreto nazionale che proibisca esplicitamente a un uomo di salvare una donna ferita, ma la somma di regole, divieti e paure crea lo stesso effetto: vite perse per motivi che nulla hanno a che vedere con la natura.

Dove finisce l’umanità?

Dov’è finita l’umanità se, di fronte a una donna che sanguina sotto le macerie, si dà più valore a una regola che al suo diritto alla vita?
Un terremoto è inevitabile. Ma lasciar morire una persona ferita perché “non può essere toccata” non è una fatalità: è una scelta politica, un atto di crudeltà istituzionalizzato. È l’umanità stessa che viene sepolta, ogni volta che un soccorritore abbassa le mani per paura di una punizione.

Cosa chiedono le agenzie internazionali

Le Nazioni Unite, Human Rights Watch e numerose ONG parlano apertamente di gender apartheid. Non si tratta di tradizioni culturali da rispettare, ma di un sistema che discrimina e uccide. Le richieste sono chiare:

  • Deroghe immediate che permettano a chiunque di salvare chiunque, in situazioni di emergenza.
  • Ripristino della formazione sanitaria femminile, perché senza infermiere e mediche non c’è futuro.
  • Accesso sicuro alle ONG e alle cliniche mobili, che spesso rappresentano l’unica speranza nelle province più isolate.

Le donne afghane oggi stanno morendo due volte: una sotto le macerie, l’altra per mano di un sistema che nega loro perfino il diritto alla vita. Non possiamo permettere che questo silenzio continui.

Afghanistan. Il CISDA al fianco delle famiglie del Kunar

Esperto ONU: i talebani hanno raddoppiato le fustigazioni pubbliche e imposto nuove restrizioni alle donne

amu.tv, 9 settembre 2025, di Siyar Sirat

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, ha dichiarato lunedì che i talebani hanno intensificato la repressione nel 2025, raddoppiando il numero di persone frustate in pubblico e introducendo nuove misure che limitano ulteriormente i diritti delle donne, dei giornalisti e dei comuni cittadini afghani.

Intervenendo alla 60a sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Bennett ha affermato che i talebani “non hanno revocato nessuna delle loro misure oppressive di genere”, ma le hanno invece ampliate. Ha citato l’introduzione delle “mahram cards” che limitano la libertà di movimento delle donne, i piani segnalati per limitare l’istruzione nelle madrase per le ragazze e una nuova legge che vieta poesie che criticano il leader talebano, lodano l’amore romantico o incoraggiano le relazioni. Ha anche evidenziato una direttiva che impone alle emittenti di sottoporre i programmi a un’approvazione preventiva e le restrizioni alla libertà religiosa, tra cui conversioni forzate e condanne per blasfemia.

Bennett ha affermato che almeno 672 persone (547 uomini e 125 donne) sono state sottoposte a fustigazione pubblica sanzionata dal tribunale dall’inizio dell’anno, più del doppio rispetto alla cifra registrata nello stesso periodo del 2024.

Ha avvertito che l’Afghanistan non è un luogo sicuro per i rimpatri forzati, criticando gli stati che continuano le deportazioni di massa degli afghani nonostante i rischi di persecuzioni e rappresaglie.

Rifiutando l’idea che l’Afghanistan sia una “causa persa”, Bennett ha affermato che il Paese rappresenta “una prova” della determinazione del mondo a opporsi alla persecuzione di genere e all’impunità. “Come possiamo impedire che l’Afghanistan diventi una causa persa? Usando ogni strumento a nostra disposizione”, ha affermato, chiedendo una pressione internazionale costante, un’espansione degli aiuti umanitari, l’assunzione di responsabilità per gli abusi e il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine.

Bennett ha inoltre sollecitato la creazione di un meccanismo investigativo indipendente per raccogliere e preservare le prove, identificare i colpevoli e supportare le azioni penali.

“Quello che sta accadendo in Afghanistan, sebbene grave e impegnativo, non è né inevitabile né irreversibile”, ha affermato Bennett. “È il risultato di scelte – certamente dei talebani, ma anche della comunità internazionale. E questo significa che sono possibili scelte diverse”.

Nella stessa sessione, l’inviato afghano Nasir Andisha ha affermato che gli arresti arbitrari sono diventati una prassi in Afghanistan, soprattutto per quanto riguarda i rimpatriati. Ha avvertito che anche i bambini sono vittime di “oppressione istituzionalizzata”.

[Trad. automatica]

 

sinistra ROJHILAT (Kurdistan “iraniano”): forse una nuova fase per il movimento Jin Jiyan Azadî

Brescia anticapitalista, 7 settembre 2025, di Gianni Sartori

Anche nel Kurdistan “iraniano” (Rojhilat) la questione curda rimane fondamentale per il Medio oriente. Tra condanne a morte e repressione, aspettative di nuove rivolte e politiche anti-sindacali

Sempre più intricato il groviglio medio-orientale e quello curdo in particolare.

Con lo smantellamento (preannunciato, effettivo, in corso…?) del PKK e la determinazione di FDS, YPG e YPJ nel nord est della Siria di NON consegnare le armi ai tagliagole di Damasco. Come ha detto chiaramente la esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan (kjk) Çiğdem Doğu.
Spiegando come la Siria odierna si definisca “attraverso una molteplicità di etnie e religioni diverse” e sottolineando quanto sia “altrettanto distintivo il ruolo assunto dalle donne (…) con l’auto-organizzazione femminile”.

In riferimento poi a quanto avviene nelle regioni alawite e druse (“ripetuti massacri contro la popolazione e ripetute violenze sulle donne”) ha aggiunto che “solo pensare di imporre la resa delle armi alle forze democratiche siriane (Fds) significa semplicemente dire: venite a farvi sgozzare”. Non esiste infatti “alcuna garanzia di sopravvivenza”. Così come sarebbe “priva di senso l’idea dell’integrazione delle Fds nell’esercito siriano”. In quanto semplicemente “oggi non esiste un vero esercito siriano, ma soltanto varie gang. Gruppi sanguinari che conducono attacchi contro le diverse identità nazionali, etniche e religiose”.

Altro discorso (ma complementare) su quanto potrebbe avvenire in Rojhilat (Rojhilatê Kurdistanê, il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana).

Il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê – Pjak; sorto nel 2004, attivo in Iran e allineato sui principi del Confederalismo democratico), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà) scoppiata nel 2022 dopo l’assassinio della ventiduenne curda Jina (Mahsa) Amini.

Precisando comunque che quella condotta da USA e Israele (in riferimento ai bombardamenti israeliani e statunitensi) è “una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni”

“Solo una lotta popolare – proseguiva il comunicato del Pjak – può portare alla libertà in Iran: il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale”.

Fermo restando che “la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica”.

In un contesto generale di inasprimento della repressione e dell’utilizzo di metodi brutali. Per l’Ong curda Hengaw già alla fine di luglio sarebbero state oltre 800 (ottocento !) le condanne a morte eseguite dall’inizio del 2025. Tra le vittime, oltre a una trentina di prigionieri politici, 22 donne e un minorenne. Colpendo soprattutto le minoranze (116 Curdi, 107 Lur, 92 Beluci, 82 Turchi, 46 Afgani).

Tra le condanne che potrebbero venir eseguite in qualsiasi momento, quella riconfermata in luglio di Sharifeh Mohammadi , femminista curda e militante di un sindacato legale. Nel luglio 2024 Condannata a morte per aver manifestato pubblicamente la sua opposizione alla tortura e all’uso sistematico delle esecuzioni capitali. Equiparandola prima a “propaganda contro lo Stato” e poi a “ribellione armata”.

In carcere dal 2023, ha subito maltrattamenti e torture (sia fisiche che psichiche per estorcerle confessioni), posta in isolamento per oltre tre mesi con la proibizione di visite e telefonate. Sulla drammatica vicenda in agosto è intervenuta l’Assemblea delle donne del partito filo-curdo Dem (Partito dell’uguaglianza e della democrazia del popolo) che ha definito Sharifeh Mohammadi “una militante che ha difeso i diritti delle donne e dei lavoratori”. Affermando di considerare “ogni attacco contro le donne, ovunque avvenga nel mondo, come un’attacco contro il nostro corpo”: Per cui “intensificheremo la nostra ribellione. Il regime fascista dei Mullà ha per l’ennesima volta commesso un crimine contro l’umanità e contro le donne per conservare il proprio potere dominato dagli uomini”.

Alla fine del mese scorso intanto giungevano altri dati allarmanti sulle condanne a morte eseguite nel Kurdistan “iraniano” (v. Rapporto mensile dell’organizzazione dei diritti umani del Kurdistan).

Sarebbero 28 (tra cui una donna) i curdi impiccati dal regime di Teheran in agosto. E almeno altrettanti venivano arrestati nel corso del mese.

Inoltre, stando al rapporto, le autorità giudiziarie iraniane avrebbero applicato pene arbitrarie condannando a 64 anni complessivi di carcere una dozzina di cittadini curdi per accuse “prive di fondamento giuridico”.

Mentre il capo del potere giudiziario iraniano, Hossein Mohseni Ejei, annunciava in conferenza stampa che oltre 2000 persone erano state arrestate nel corso del recente conflitto (durato una dozzina di giorni) tra Iran e Israele, la Rete dei diritti dell’uomo del Kurdistan, denunciava che dall’inizio dei bombardamenti israeliani le forze di sicurezza e i servizi segreti avevano arresto più di 335 militanti e cittadini curdi “senza mandato giudiziario”. In particolare nelle città di Ilam, Kermanshah (Kirmaşan), Urmia, Sanandaj (Sînê), Téhéran e Khorasan.

Sempre da un recente rapporto dell’ONG di difesa dei dei diritti umani Hengaw (del 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate) si ricava che “dal 1979 i prigionieri politici curdi sono diventati sistematicamente vittime di sparizioni forzate. Molti venivano fucilati per ordine di tribunali quantomeno improvvisati, spesso senza processo”.

Dall’arresto alla sepoltura in fosse comuni tenute poi segrete, i processi intentati diventavano di fatto propedeutici alla sparizione forzata.

Aggiungo – si parva licet – che nel Rojhilat anche le libertà sindacali e individuali rischiano di subire ulteriori restrizioni. Come viene confermato dalle sanzioni disciplinari imposte alla fine di agosto dal ministero dell’Educazione a 14 insegnanti (curdi e militanti sindacali).

Si tratta di Nasrin Karimi (in pensione forzata con retrocessione); Faysal Nouri (esilio per cinque anni – al confino – nella regione di Kermanshah); Majid Karimi (licenziamento con esclusione perenne dalla funzione pubblica); Ghiyas Nemati (licenziamento perenne dal Ministero dell’Educazione pubblica); Omid Shah-Mohammadi (licenziamento perenne dalla funzione pubblica); Salah Haji-Mirzaei (sospensione dall’insegnamento); Leyla Zarei (sollevata dal ruolo di vice-presidente della scuola e in pensione forzata con retrocessione); Shahram Karimi (sospensione di sei mesi); Loghman Allah-Moradi (sospensione di un anno); Soleyman Abdi (pensione forzata con retrocessione); Hiwa Ghoreishi, Parviz Ahsani e Kaveh Mohammadzadeh (licenziamento dal ministero dell’educazione).

Più un altro insegnante curdo – di cui per ragioni di sicurezza non viene fornita l’identità – ugualmente licenziato.

Vicenda forse minore nel contesto generale, ma comunque indicativa.

I talebani impiccano un uomo in pubblico in stile esecuzione


L’uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei talebani si sta intensificando e negare il diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici
Sharif Amiry, Rawa, 3 settembre 2025

Fonti hanno confermato che venerdì 22 agosto, membri dei talebani nell’Afghanistan occidentale hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco un uomo e ne hanno impiccato il corpo in pubblico. L’incidente ha suscitato la condanna degli attivisti per i diritti umani, che hanno descritto l’atto come un’esecuzione sommaria e una violazione della dignità umana.

Testimoni hanno riferito ad Amu che l’uomo è stato impiccato a un vecchio carro armato nella trafficata zona di Kandahar Gate a Herat, dove una grande folla si è radunata per assistere all’accaduto. I video che circolano sui social media mostrano membri talebani che prendono a calci il corpo alla testa e al volto, mentre i passanti filmavano la scena.

Nel filmato, un combattente talebano ha identificato l’uomo come membro di un gruppo armato di opposizione e lo ha accusato di aver ucciso due membri talebani, tra cui Mawlawi Hassan Akhund, comandante del 10° distretto di sicurezza talebano a Herat. Il gruppo di opposizione “Nahzat Azadi-Bakhsh Islami Mardom Afghanistan” – che ha rivendicato la responsabilità degli attacchi nell’Afghanistan occidentale – aveva dichiarato all’inizio di questa settimana di essere dietro l’assalto in cui è morto Akhund.

Attaccato al cadavere è stato trovato anche un pezzo di carta con la scritta “Morte al gruppo Nahzat Azadi-Bakhsh Afghanistan”.

Il comando di polizia talebano di Herat ha successivamente rilasciato una dichiarazione contraddittoria su X, precedentemente Twitter, sostenendo che l’uomo era solo sospettato di furto. La dichiarazione affermava che era stato identificato dai residenti, arrestato durante un’operazione talebana ed “eliminato”.

Gli attivisti per i diritti umani hanno condannato l’atto definendolo un omicidio illegale.

“Privare qualcuno del diritto alla vita senza un giusto processo e senza un giusto processo è una palese violazione dei diritti umani”, ha dichiarato Hadi Farzam, attivista per i diritti umani. “Appendere il corpo in pubblico dopo l’omicidio è un affronto diretto alla dignità umana”.

Una membro del movimento femminile Window of Hope ha dichiarato ad Amu che i processi ai talebani negano agli imputati il ​​diritto ad avere un avvocato o alla difesa. “L’uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei talebani si sta intensificando, e negare il diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici”, ha affermato.

Non si tratta del primo episodio del genere. Negli ultimi anni, i talebani hanno effettuato numerose esecuzioni pubbliche. L’anno scorso, quattro uomini accusati di rapimento sono stati fucilati e impiccati a Herat, mentre all’inizio di quest’anno altre quattro persone sono state giustiziate nelle province di Farah, Nimroz e Badghis.

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