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Autore: CisdaETS

Afghanistan: nonostante le restrizioni, le donne mantengono vivi i sogni imprenditoriali

amu.tv 13 giugno 2025

HERAT — Nonostante le crescenti restrizioni imposte dai talebani alle donne, un piccolo gruppo si rifiuta di rinunciare alle proprie ambizioni imprenditoriali. A Herat, una modesta fabbrica di chips di frutta, fondata dall’imprenditrice Sadiqa Sadiqyar, ora impiega dieci donne che producono a mano snack di frutta secca.

Sadiqyar, che ha lanciato l’impresa cinque anni fa, ha affermato che la fabbrica esportava prodotti in Turchia prima della presa del potere da parte dei talebani. Oggi, si rammarica del crollo delle opportunità di esportazione e del limitato sostegno alle imprese femminili.

“Esportavamo in Turchia durante la repubblica”, ha detto Sadiqyar. “Ora possiamo vendere solo sul mercato di Herat”.

Le fiere che un tempo mettevano in mostra i loro prodotti sono diminuite. “C’erano diverse fiere all’anno”, ha detto. “Quest’anno ce n’è stata solo una, e solo a Herat”.

All’interno della fabbrica, molte delle giovani donne che vi lavorano hanno dovuto abbandonare gli studi per sostenere le proprie famiglie. Una di loro, Taraneh Attar, ha dichiarato: “Sto studiando grafica, ma se riesco a trovare questo lavoro, posso mantenermi”.

Un’altra dipendente, Maliha Ghoriar, ha affermato che la fabbrica ha conquistato circa il 30% del mercato locale con la sua offerta. “A differenza dei marchi iraniani”, ha affermato, “i nostri prodotti sono completamente naturali”.

Da quando i talebani sono tornati al potere, le restrizioni all’attività commerciale delle donne si sono notevolmente inasprite. In base alle nuove norme, le donne non possono gestire le esportazioni senza un tutore maschio, rendendo la logistica complessa e limitando drasticamente la loro capacità di condurre affari.

Nonostante queste difficoltà, Sadiqyar e le sue dipendenti persistono, spinte dalla necessità e dalla resilienza, e dalla speranza di poter un giorno tornare a partecipare pienamente a un’economia equa e dinamica.

Le insegnanti affermano che i talebani le hanno licenziate senza pensione

amu.tv  Sharif Amiry  13 giugno 2025

Diverse insegnanti affermano di essere state licenziate dai Talebani senza alcun indennizzo o pensione, gettando molte di loro in una profonda crisi economica.

Le insegnanti, alcune delle quali lavorano da decenni nel sistema scolastico pubblico afghano, protestano per la brusca perdita di mezzi di sussistenza e chiedono il pagamento degli stipendi dovuti.

Oltre ai licenziamenti, le insegnanti denunciano che i loro stipendi sono stati ripetutamente tagliati e alcune sono state riassegnate a scuole lontane per ordine dei Talebani. Nel frattempo, i dipendenti pubblici che rischiano il licenziamento affermano che il processo è stato arbitrario e privo di trasparenza.

“Ho insegnato per più di 35 anni. Ora che ho perso mio marito e non ho figli, sono senza lavoro. Non ricevo la pensione. Non so cosa fare”, ha detto Madina, un’insegnante.

La situazione di Madina non è unica. Molte insegnanti intervistate da Amu TV affermano di essere state costrette a dimettersi o licenziate direttamente, spesso senza preavviso o indennità di buonuscita.

“Inizialmente, il nostro stipendio è stato ridotto da 7.000 afghani a 5.000. Ma ora ci pagano 3.000 afghani. Non sappiamo come permettercelo. Viviamo nello stesso posto, ma ci hanno assegnato una scuola lontana, dove è difficile e costoso raggiungerla”, ha detto un’insegnante.

Un dipendente pubblico ha descritto i licenziamenti come indiscriminati e ingiustamente mirati.

“Siamo sull’orlo del licenziamento. I nostri colleghi vengono licenziati ogni giorno. Siamo preoccupati di cosa fare. I licenziamenti sono stati selettivi e privi di fondamento giuridico”, ha detto un dipendente pubblico.

Gli economisti avvertono che la rimozione arbitraria di insegnanti e dipendenti pubblici donne esperte potrebbe destabilizzare ulteriormente la già fragile economia afghana e aggravare le disuguaglianze esistenti.

Queste politiche potrebbero minare i servizi pubblici in un momento in cui il Paese meno se lo può permettere”, ha affermato l’economista Sayed Masood. “Danno non solo alle persone colpite, ma anche al sistema educativo più ampio”.

A Kandahar, fonti hanno rivelato che il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha ordinato una riduzione del 20% del personale governativo. I critici avvertono che questi tagli vengono attuati in modo sconsiderato, privando le istituzioni pubbliche di competenze e colpendo in modo sproporzionato le donne.

Mentre i licenziamenti continuano, insegnanti e dipendenti pubblici chiedono un giusto processo, trasparenza e il ripristino di stipendi e pensioni, richieste che, finora, sono rimaste senza risposta.

COS’È ACCADUTO ALLA DELEGAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE VERSO IL KURDISTAN IN IRAQ?

labottegadelbarbieri.org Cecco Bellosi 11 giugno 2025

Ricostruzione di quanto accaduto alla delegazione dell’Associazione Verso il Kurdistan che, come ogni anno, si reca in Iraq per monitorare i progetti con la popolazione Yazida

Una delegazione dell’“Associazione Verso il Kurdistan Odv” avrebbe dovuto rimanere in Iraq dal 17 al 30 maggio 2025: invece è stata costretta a un rientro anticipato il 27 maggio dal governo iracheno.

Gli obiettivi del viaggio erano tre: incontrare gli abitanti del campo rifugiati di Mackmour, per il quale l’Associazione ha finanziato negli anni scorsi la costruzione di un presidio sanitario; incontrarsi con gli esponenti dell’Amministrazione autonoma yazida e il personale dei presidi sanitari per fare il punto sulla costruzione dell’ospedale di Duhla, finanziato finora con 70.000 dollari raccolti grazie alle campagne di sensibilizzazione dell’Associazione; verificare lo stato dei lavori e le priorità più urgenti.

Gli yazidi nel 2014 hanno subito un genocidio da parte dell’ISIS, che ha massacrato migliaia di uomini, rapito e schiavizzato migliaia di donne e bambini.

Il 24 maggio la delegazione è arrivata a Kamashor, nel distretto di Shengal (Sinjar in arabo), la “montagna sola”, e nel pomeriggio ha visitato il cimitero dei martiri caduti/e nella guerra di resistenza contro l’ISIS, tra cui molti ragazzi e ragazze. C’è stato poi il primo incontro con una esponente dell’Amministrazione autonoma.

Nessun problema ai check point.

Nella giornata di domenica 25, al mattino, la delegazione ha incontrato il personale medico e infermieristico del piccolo ospedale di Kamashor, ormai in funzione e che fornisce prestazioni ambulatoriali e di primo intervento alla popolazione.

Gratuitamente.

Nel pomeriggio di domenica, la delegazione doveva essere accompagnata al presidio sanitario di Serdest, situato sui primi contrafforti della montagna di Shengal. Per il viaggio eravamo stati divisi in due gruppi: quattro persone su un pick-up guidato da un ragazzo e sette persone su un pulmino alla cui guida c’era un uomo, tutti e due designati dall’Amministrazione autonoma. Al primo check point, il pick-up è passato senza problemi; il pulmino invece è stato fermato e sono stati richiesti i passaporti dei passeggeri.

Tutti corredati di un regolare visto rilasciato dall’Ambasciata irachena in Italia, con successivo timbro sul documento apposto dalla polizia all’arrivo all’aeroporto di Baghdad sabato 17 maggio 2025.

Quindi, sia prima della partenza dall’Italia sia all’arrivo in Iraq.

Invece i sette componenti della delegazione, con il capo-delegazione Antonio Olivieri e l’autista, sono stati fermati e scortati da due mezzi militari fino a una grande caserma dell’esercito situata a Shengal. Ritirati passaporti e telefonini che sono stati riconsegnati al momento della partenza per l’Italia. Nella caserma di Shengal sono stati interrogati per ore senza supporto di alcun avvocato e interprete. Poi, da lì sono stati portati a Mosul, dove sono stati trattenuti da uomini dei servizi per tutta la notte in una cella di sicurezza della polizia. Solo il giorno dopo sono stati portati a Baghdad, non in ambasciata, però, ma presso la sede centrale dei servizi di intelligence, dove sono stati interrogati alla presenza dell’ambasciatrice italiana e del comandante dei carabinieri presso l’ambasciata italiana a Baghdad. Ennesima perquisizione e ritiro dei notes con gli appunti. L’accusa formulata era di sostegno al terrorismo!

Un’odissea di circa trenta ore, da Shengal a Baghdad, in corsa su un pulmino di proprietà dell’autista, senza sosta per un pranzo. L’autista è stato rilasciato dopo l’interrogatorio a Baghdad della delegazione.

Solo dopo questo ulteriore passaggio i sette componenti della delegazione hanno potuto essere accolti presso l’ambasciata italiana.

Nel frattempo, gli altri componenti della delegazione: tre donne tra cui la capodelegazione Lucia Giusti e un uomo, sono stati accompagnati da esponenti dell’Amministrazione autonoma nella casa del popolo in cui erano ospiti. Da lì si sono messi in contatto con la Farnesina e con l’Ambasciata italiana in Iraq, che si è subito mossa per garantire l’accoglienza presso la propria sede in attesa di un volo di ritorno imposto a quel punto dal governo iracheno prima della scadenza naturale del viaggio.

Il secondo gruppo poi ha raccolto i bagagli, compresi quelli dei sette dell’altro gruppo, ed è stato accompagnato durante la notte in una nuova casa. Da lì, il mattino dopo la capo-delegazione si è messa in contatto diretto con l’ambasciatrice: il governo iracheno avrebbe garantito l’accompagnamento diretto fino a Baghdad, a evitare problemi ai check point. Anche in questo caso, però, dapprima il gruppo è stato portato in una caserma militare, scortato dai soldati per un breve tragitto e poi consegnato ad agenti dei servizi di intelligence, i quali all’inizio hanno garantito a parole che la meta immediata sarebbe stata, come da accordi, l’ambasciata di Baghdad.

Invece, superata Mosul in direzione della capitale irachena, il pick-up su cui viaggiavano i passeggeri e l’altro con i bagagli hanno fatto un’improvvisa inversione a U sull’autostrada per tornare evidentemente a Mosul, con gli agenti che continuavano a sostenere invece che l’ambasciata era la meta diretta. Come a dire che per andare a Roma da Firenze si va in direzione di Milano.

Infatti, i quattro esponenti della delegazione sono stati portati nella sede dei servizi di intelligence di Mosul e interrogati in uno spazio sotterraneo davanti a una cella di sicurezza, ad alludere che quella sarebbe stata il ricovero per la notte o per le notti seguenti.

Già, perché la prima accusa formulata è stata quella di essere fiancheggiatori del PKK, reato per il quale in Iraq è prevista la pena di morte. Il gruppo allora ha risposto che, se si era indagati, doveva esserci anche la possibilità di una difesa legale. Poi questa accusa è stata accantonata, ma l’interrogatorio è proseguito fino all’una di notte. Il gruppo ha ribadito che l’“Associazione Verso Il Kurdistan” è un ente di volontariato che in questo momento si occupa in particolare della costruzione di un ospedale a Duhla, nel territorio abitato dalla popolazione yazida e che l’obiettivo del viaggio era quello di portare aiuti concreti.

Cosa che è stata fatta.

Inoltre, il gruppo ha ricordato agli agenti che dal 2022 sono stati fatti quattro viaggi in territorio yazida: nel primo la delegazione dopo alcune vicissitudini era stata portata a Shengal da due agenti dei servizi di sicurezza che erano rimasti lì, con loro, per tutto il tempo della visita; nel 2023 di nuovo alcuni agenti dei servizi avevano trattato sulla presenza per una settimana e non per un solo giorno della delegazione nel distretto di Shengal; nel 2024 la delegazione era potuta arrivare presso la popolazione yazida senza problemi. Solo quest’anno c’è stato questo intervento repressivo nei confronti di un viaggio a scopo umanitario.

Alla fine dell’interrogatorio gli agenti volevano far dormire il gruppo nella cella di sicurezza; al rifiuto netto ricevuto, il gruppo è stato portato a dormire in un ufficio. Il mattino dopo, alle quattro, si è ripartiti per Baghdad, ma ancora una volta il gruppo non è stato portato in ambasciata, ma nella sede centrale dell’intelligence iracheno. Lì si è svolto un nuovo interrogatorio, alla presenza però in questo caso dell’ambasciatrice italiana. Da parte nostra è stata ribadita la motivazione del viaggio. Alla fine ci è stato detto, a parole e con nessun documento scritto, che l’Associazione è riconosciuta in Italia ma non in Iraq. Non si capisce però allora perché nei precedenti viaggi il gruppo è stato scortato verso la meta dai servizi. Inoltre, non è stato emanato nei nostri confronti alcun decreto di espulsione.

Il motivo evidentemente è un altro: la pressione della Turchia sul governo iracheno a isolare la popolazione yazida e a impedire il ritorno di molti profughi in luoghi abitati da loro da millenni. Una montagna considerata strategica perché situata al confine a ovest con il Rojava e a nord proprio con la Turchia, che continua a colpire con i droni un popolo che nel 2014 ha subito un genocidio riconosciuto dall’ONU e dal parlamento europeo, ma che ha saputo riconquistare la propria terra sconfiggendo l’ISIS e costruendo una forma di governo del territorio ispirata alla democrazia di base, a una concreta parità tra uomo e donna, all’ecologia umana e ambientale.

Per questo, nonostante il rientro anticipato imposto senza motivi dal governo iracheno, la nostra Associazione continuerà a sostenere la popolazione yazida, soprattutto con i progetti per l’istruzione e la sanità, i due principi cardine su cui può rinascere una società dopo essere stata distrutta.

Pensiamo che sia urgente anche il riconoscimento del genocidio da parte del parlamento italiano.

Associazione Italiana Verso il Kurdistan

 

 

Dal 2022, l’Associazione Verso il Kurdistan Odv ha fatto quattro viaggi, organizzati in delegazioni, per portare aiuti concreti alla popolazione yazida, finanziando soprattutto la costruzione di presidi sanitari e in questo momento la costruzione di un ospedale – l’ospedale di Duhla, in una zona di 30 mila abitanti totalmente sprovvista di qualsivoglia struttura sanitaria – oltre ad altri aiuti per le scuole. Istruzione e sanità, i due principi base da cui può partire la rinascita di una società. Nelle delegazioni sono sempre stati presenti medici, operatori sanitari, sindacalisti e persone impegnate nel lavoro sociale.

Nel 2022, la prima delegazione, nella quale erano presenti Zerocalcare, che a Shengal ha dedicato una delle sue opere, e la giornalista Chiara Cruciati, che poi ha scritto il libro “La montagna sola” dedicato sempre alla storia della popolazione yazida, ha incontrato difficoltà ad alcuni check point presidiati da milizie locali. A quel punto due agenti dei servizi segreti iracheni hanno accompagnato i componenti della delegazione a Shengal e sono rimasti lì con loro per due settimane, ufficialmente a tutela degli stessi.

Nel 2023, la delegazione è stata scortata, negli ultimi cento chilometri, sempre da due agenti: dopo una faticosa trattativa, ha avuto il permesso di rimanere fino al giorno della partenza stabilita.

Nel 2024, la delegazione è arrivata a Shengal senza nessun problema.

Quest’anno invece è capitato il sequestro per due giorni e una notte dei/delle componenti della delegazione da parte dei servizi segreti iracheni, come si trova scritto in maniera dettagliata nel comunicato dell’Associazione Verso il Kurdistan. Semplicemente una cosa inaccettabile, anche perché alla fine non è stata contestata alcuna accusa e non è stato emesso nessun decreto di espulsione.

Il contesto

L’Associazione Verso il Kurdistan ha organizzato il viaggio di quattro delegazioni a partire dal 2022 in Iraq, nel distretto di Shenga (Sinjar in arabo), dove vive la popolazione yazida (o ezida), da millenni. Gli yazidi sono stati sottoposti, nel corso della Storia a diversi massacri, ferman li chiamano loro, ma sono sempre stati tenacemente determinati a rimanere su quella che considerano da millenni la loro terra.

L’ultimo massacro, avvenuto il 3 agosto del 2014, ha visto come loro carnefice l’ISIS (o Daesh, come viene chiamato in Medio Oriente). Un vero e proprio genocidio, riconosciuto dall’ONU, dal Parlamento europeo e in agenda da ormai troppo tempo presso il Parlamento italiano.

Migliaia di uomini uccisi, migliaia di donne e bambini resi schiavi.

Decine di migliaia di soldati iracheni e 12.000 peshmerga, che teoricamente erano schierati a difesa della popolazione yazida, sono fuggiti lasciando le armi ai millecinquecento miliziani del califfato che avevano scatenato l’attacco contro Shengal.

Gli e le yazide sopravvissuti sono fuggiti verso le montagne, complessivamente in 350.000: il loro esodo. Lì hanno trovato poche decine di militanti del PKK, che li hanno aiutati ad aprirsi un varco verso la Siria, ma anche a costituirsi in unità di autodifesa maschili e femminili. Queste formazioni nel 2017 sono riuscite a riprendersi la città di Shengal, cacciando l’ISIS. Da allora si sono date una forma di autogoverno territoriale, fondato sui principi del confederalismo democratico: democrazia di base, assoluta parità tra uomo e donna, ecologia ambientale e sociale.

Faticosamente poi, gli/le yazide stanno ritornando dai campi profughi e hanno cominciato a costruirsi delle piccole case in mattoni partendo dalle tende donate dall’UNHCR. Perché l’ISIS prima e i bombardamenti americani contro lo Stato Islamico poi, hanno distrutto quasi tutto.

A questa popolazione, l’Associazione Verso il Kurdistan, che in precedenza aveva finanziato la costruzione di un presidio sanitario nel villaggio di Serdest e aveva contribuito a realizzare alcuni progetti (la ristrutturazione di due asili per l’infanzia, una scuola di computer e di lingua madre, una sartoria per le donne), ha dedicato i fondi raccolti con donazioni o attraverso le sue campagne di sensibilizzazione.

 

 

A Kabul, una giovane artista usa l’arte per dare voce al silenzio delle donne

amu.tv Sharif Amiry 8 giugno 2025

KABUL — In un paese in cui alle donne è stato impedito di accedere all’istruzione, al lavoro e alla libertà di espressione, una giovane artista si rivolge alla pittura e alla tela per parlare a nome di coloro che non possono più farlo.

Con colori audaci e pennellate decise, Amna Yousufi, una giovane pittrice di Kabul, afferma di usare la sua arte per documentare le lotte invisibili delle donne, dai matrimoni forzati alla perdita dello spazio pubblico.

“In questa opprimente oscurità, l’arte è la mia unica finestra: un modo per far sentire al mondo il dolore di cui non possiamo più parlare”, ha dichiarato in un’intervista.

Yousufi ha iniziato a dipingere molto prima del ritorno al potere dei talebani nel 2021, ma afferma che il suo lavoro ha assunto un’urgenza ancora maggiore dopo la presa del potere da parte del gruppo.

“Dopo che i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan, ho capito che l’arte poteva essere uno strumento di resistenza, un modo per esprimere il dolore e le realtà che abbiamo troppa paura di dire ad alta voce”, ha affermato. “Questi dipinti sono diventati un linguaggio per le voci che sono state messe a tacere”.

Il suo lavoro riflette le esperienze vissute dalle donne afghane, ritraendo temi come la violenza domestica, il velo forzato e le restrizioni alla libertà di movimento e all’istruzione. Molti dei suoi soggetti appaiono senza volto o nascosti da veli, un motivo visivo che, a suo dire, rappresenta sia la cancellazione che la sopravvivenza.

“Questo è il mio messaggio a tutte le donne, in Afghanistan o altrove, che vivono nell’ombra”, ha aggiunto.

Sebbene le sue opere non possano essere esposte al pubblico a causa delle attuali restrizioni, alcune delle sue opere sono circolate silenziosamente online e tramite reti private. Attiviste per i diritti delle donne ed educatrici descrivono iniziative come quella di Yousufi come atti vitali di sfida e memoria.

Sotto il regime talebano, le rappresentazioni di esseri viventi – in particolare donne – sono state scoraggiate o addirittura vietate, e il gruppo ha definito le voci delle donne “awrah”, un termine usato per giustificare il loro silenzio negli spazi pubblici.

Tuttavia, Yousufi continua a dipingere – non per le gallerie, dice, ma per la memoria.

“Ogni linea, ogni colore”, ha detto, “è un modo per impedire che il nostro silenzio diventi permanente”.

I talebani minacciano le famiglie delle impiegate ONU nel tentativo di bloccare il loro lavoro, affermano le dipendenti

 

amu.tv Ahmad Azizi 7 giugno 2025

KABUL — Diverse donne impiegate dalle agenzie delle Nazioni Unite in Afghanistan affermano che i talebani hanno intensificato le minacce contro le loro famiglie nel tentativo di costringerle a lasciare il lavoro, sollevando allarme per la sicurezza degli operatori umanitari e il futuro delle operazioni di aiuto internazionale nel Paese.

In interviste con Amu TV, due donne – che hanno richiesto l’anonimato per motivi di sicurezza – hanno descritto molestie sistematiche, tra cui ripetute visite di individui affiliati ai talebani alle loro case. Hanno affermato che gli uomini hanno minacciato verbalmente di arresto e persino di morte se le donne avessero continuato a lavorare.

“I talebani hanno minacciato la mia famiglia, dicendo che se non avessi smesso di lavorare, non solo io, ma anche i miei parenti avremmo dovuto affrontare gravi conseguenze”, ha dichiarato una dipendente delle Nazioni Unite. “Alcune delle minacce sono state fatte direttamente, altre per telefono”.

Un’altra donna ha confermato che la sua famiglia era stata avvertita che i parenti maschi sarebbero stati ritenuti responsabili se fosse tornata al suo posto.

I talebani non hanno risposto alle ripetute richieste di commento su queste notizie.

La questione emerge mentre i Talebani continuano a imporre ampie restrizioni ai diritti delle donne, in particolare in materia di istruzione, lavoro e vita pubblica, da quando hanno ripreso il potere nell’agosto 2021. Mentre il regime ha impedito alla maggior parte delle donne afghane di lavorare per ONG nazionali e internazionali, al personale femminile delle Nazioni Unite erano state precedentemente concesse limitate eccezioni, sebbene anche queste tutele ora appaiano sempre più precarie.

“Quando i Talebani sono venuti nel nostro ufficio, eravamo terrorizzate. Ci hanno puntato le armi contro. Eravamo tutti sotto shock. Dopo di che, sono venuti a casa nostra diverse volte in abiti civili. Hanno avvertito mio padre e gli hanno fatto firmare un impegno, dicendo che se fossimo tornate al lavoro, avremmo potuto essere imprigionati e persino minacciati di morte”, ha dichiarato un dipendente dell’UNAMA.

Gli esperti di diritti umani affermano che queste minacce segnalano una crescente intolleranza anche nei confronti delle donne che lavorano nelle istituzioni internazionali. La pressione, avvertono, potrebbe ostacolare gravemente la fornitura di aiuti umanitari in un Paese in cui milioni di persone dipendono dall’assistenza per la sopravvivenza di base.

“Questo livello di intimidazione non solo viola il diritto internazionale, ma mette direttamente a repentaglio le operazioni umanitarie”, ha affermato un analista dello sviluppo che ha chiesto di rimanere anonimo data la delicatezza della questione.

Precedenti resoconti hanno espresso preoccupazioni simili. A fine maggio, l’Independent ha citato fonti a Kabul secondo cui uomini armati non identificati avevano seguito dipendenti ONU donne dai loro uffici alle loro case e costretto i familiari maschi a firmare impegni scritti e videoregistrati per impedire loro di tornare al lavoro.

Mentre i Talebani hanno sistematicamente smentito tali segnalazioni o si sono rifiutati di commentare, la crescente documentazione di molestie e minacce ha sollevato urgenti interrogativi tra le agenzie internazionali sulla sicurezza del loro personale femminile locale e sul futuro della loro presenza in Afghanistan nel suo complesso.

I turisti aiutano a mascherare l’oppressione delle donne da parte dei talebani in Afghanistan

8am.media Mohammad 29 maggio 2025

Donne e ragazze in Afghanistan accusano i turisti stranieri di insabbiare l’immagine dei Talebani, sostenendo che entrano nel Paese su invito diretto dei Talebani. Secondo queste donne, i turisti stranieri, cercando di attirare l’attenzione e godersi le loro esperienze di viaggio, ignorano deliberatamente la sofferenza e la privazione delle donne private di tutti i loro diritti umani. Sottolineano che la situazione reale delle donne in Afghanistan è molto più cupa di quella rappresentata dai media.

Diverse donne e ragazze in Afghanistan, che vivono sotto le oppressive restrizioni imposte dai Talebani, accusano i turisti stranieri, in particolare le turiste, di distorcere la realtà in nome del piacere e della sicurezza personale durante i loro viaggi in Afghanistan. Sostengono che questi turisti non solo ignorano le terribili circostanze che affrontano le donne, ma entrano anche nel Paese con il supporto diretto e l’invito dei Talebani.

Marwa, una donna che ha sperimentato personalmente le restrizioni imposte dai Talebani, afferma che i turisti stranieri, consapevolmente o inconsapevolmente, sono diventati parte della campagna propagandistica dei Talebani per normalizzare la situazione in Afghanistan. Sottolinea che molti di questi turisti, alla ricerca di “mi piace” e “commenti” sui social media, producono contenuti superficiali e banali, ignorando la sofferenza e le privazioni delle donne afghane e presentando l’immagine dei talebani come normale al mondo.

Marwa afferma: “Ciò che i turisti affermano non corrisponde alla realtà dell’Afghanistan odierno. L’Afghanistan è diventato una prigione per ragazze e donne, e i giovani migrano per sfuggire a questa situazione. Quando le donne straniere vengono in Afghanistan, vengono fornite loro delle strutture. Se non lodano loro questa situazione, chi lo farà?”

Sakina afferma che la vita di una donna in Afghanistan non può essere compresa semplicemente visitando edifici storici, luoghi di svago o mercati colorati. Aggiunge che, pur essendo consapevoli delle severe restrizioni imposte dai talebani, i turisti ignorano queste realtà nei video e nelle immagini che condividono dell’Afghanistan, presentando le condizioni del Paese in un modo che avvantaggia i talebani.

Sakina afferma: “Se i turisti stranieri non stanno insabbiando l’immagine dei talebani, perché, pur essendo a conoscenza dei divieti e delle restrizioni imposti alle donne dai talebani, si scattano foto con loro e parlano di sicurezza?”

Sottolinea che la caduta del precedente governo e la presa del potere da parte dei talebani hanno posto fine a oltre il 90% dei conflitti in Afghanistan, alimentati dagli stessi talebani, ma questo non equivale alla sicurezza generale del Paese.

Sajida, un’altra donna, considera il comportamento dei turisti stranieri un insulto al dolore e alla sofferenza delle donne afghane e le esorta a smettere di insabbiare l’immagine dei talebani. Afferma: “I talebani sfruttano la presenza di turisti stranieri per presentare un’immagine migliore e più accettabile di sé sui media globali. Per questo motivo, li trattano con gentilezza e forniscono tutti i servizi di viaggio necessari”.

Aggiunge: “I turisti stranieri, pubblicando immagini positive sui loro social media, ignorano la sofferenza delle donne afghane. Possono anche essere venuti per vedere l’Afghanistan e sperimentare qualcosa di nuovo, ma il loro comportamento normalizza i crimini dei talebani. Scattano foto e sorridono accanto a coloro le cui mani sono sporche del sangue del popolo afghano fino ai gomiti, e i cui crimini continuano ancora oggi”.

Nel frattempo, alcune attiviste per i diritti delle donne credono anche che l’ingresso dei turisti stranieri in Afghanistan sia meticolosamente pianificato per normalizzare la situazione sotto il regime talebano. Queste attiviste invitano la comunità internazionale a guardare oltre le immagini fabbricate e orchestrate e a riconoscere l’amara e dolorosa realtà della vita delle donne afghane e a reagire di conseguenza.

Roqia Saei, attivista per i diritti delle donne, afferma: “Le donne in Afghanistan non hanno libertà sociali o personali e vivono nelle peggiori condizioni psicologiche ed economiche. Non esiste alcuna istituzione che le sostenga. I talebani sono la causa principale di questa situazione, eppure, in una crisi così grave e terrificante, alcune turiste straniere, supportate dai talebani, si recano nelle province, scattano foto e video e descrivono la situazione come del tutto normale, sostenendo che la condizione delle donne afghane sia buona. Se affermano che la condizione delle donne è buona, perché i tassi di suicidio e femminicidio sono aumentati?”

In seguito alla diffusione di questi video, membri talebani e i loro sostenitori li hanno ripubblicati sui social media, presentandoli come simboli dei progressi e dei successi del loro governo. Tuttavia, accanto a questa narrazione, persistono dure realtà. In diversi casi, le forze di sicurezza talebane hanno arrestato e molestato turiste locali, in particolare giovani, perché avevano i capelli lunghi o non avevano la barba.

In precedenza, decine di turiste straniere avevano visitato l’Afghanistan, suscitando reazioni significative. Una di queste, Whitney Wright, nota attrice americana di film per adulti, si era recata nell’Afghanistan controllato dai talebani ed era stata accolta calorosamente.

Toyosi Osideinde, una turista britannica trentenne, ha affermato durante il suo viaggio in Afghanistan di aver avuto una relazione personale con un membro armato dei talebani. Ha descritto la sua esperienza, affermando di essere “sensibile e di sapere cosa fare”.

Secondo le statistiche dell’Autorità Nazionale di Statistica e Informazione dei talebani, nei primi due mesi del 2025 (21 marzo – 20 maggio), oltre 5.000 cittadini stranieri sono entrati in Afghanistan attraverso valichi di frontiera e aeroporti. L’agenzia ha riferito che 168 di questi erano donne, la maggior parte delle quali viaggiava per visitare siti storici e ricreativi.

Queste visite si verificano nonostante la maggior parte dei paesi e dei siti web di viaggi inserisca l’Afghanistan in cima alle proprie liste di “avvertenze di viaggio complete”, sconsigliando di viaggiare a causa della “situazione di sicurezza instabile”. Queste fonti sottolineano che i turisti che viaggiano in Afghanistan rischiano tutto e raccomandano vivamente di evitare di recarsi nel Paese.

Inoltre, autorevoli siti web di viaggi internazionali, tra cui il programma di allerta viaggi del Dipartimento di Stato americano, il programma di sicurezza viaggi della Nuova Zelanda e i ministeri degli Esteri di Regno Unito, Francia, Canada e Australia, hanno posto l’Afghanistan al livello di allerta viaggi più alto, sottolineando che i loro cittadini non dovrebbero recarsi in Afghanistan in nessuna circostanza.

Secondo le raccomandazioni di queste istituzioni, i turisti che viaggiano in Afghanistan corrono gravi rischi, tra cui insicurezza, attacchi terroristici, rapimenti, mancanza di servizi consolari e assenza di supporto diplomatico. Inoltre, le severe restrizioni alle libertà individuali imposte dai talebani aumentano il livello di minacce alla sicurezza contro i turisti stranieri, creando opportunità per il loro sfruttamento.

“Afghanistan. Sharia. Donne”: l’evento di Med-Or con Maria Bashir

med-or.org 27maggio 2025

Nella sede della LUISS Guido Carli di viale Pola si è svolto l’evento promosso da Med-Or Italian Foundation con Maria Bashir

Lunedì 26 maggio, alle ore 15:00, presso la Sala delle Colonne della sede LUISS di Viale Pola si è tenuto l’evento dal titolo “Afghanistan. Sharia. Donne. Una straordinaria testimonianza”, promosso dalla Med-Or Italian Foundation in collaborazione con la LUISS School of Government.

Un incontro per riflettere sulle condizioni delle donne afghane sotto il regime talebano e sulla forza di chi continua a lottare per la giustizia, anche dall’esilio.

L’iniziativa è stata aperta dai saluti del Prof. Gaetano Quagliariello, Dean della Luiss School of Government. Sono seguiti gli interventi del Presidente della Med-Or Italian Foundation, Marco Minniti, dell’avvocato Federica Mondani, consigliere del ministro della Difesa, e di Maria Bashir, prima donna a ricoprire il ruolo di Procuratrice Capo in Afghanistan.

Figura simbolo dell’emancipazione femminile in uno dei contesti più difficili al mondo, Maria Bashir ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti delle donne, sfidando apertamente il regime talebano. Magistrata di fama internazionale, ha proseguito la sua attività educativa anche durante i periodi di repressione, offrendo insegnamento clandestino alle giovani ragazze. Costretta all’esilio dopo il ritorno dei talebani nel 2021, oggi vive tra Italia e Germania e continua a battersi come attivista e punto di riferimento globale per la promozione della dignità e dell’uguaglianza.

L’evento ha rappresentato un’occasione unica per ascoltare la testimonianza diretta di una donna che, con coraggio e determinazione, ha sfidato la paura per dare voce a chi non può parlare.

 

Il leader talebano dichiara che l’obbedienza ai suoi ordini è “obbligatoria” nel messaggio dell’Eid al-Adha

amu.tv Ahmad Azizi 4 giugno 2025

Il leader talebano Hibatullah Akhundzada ha utilizzato il suo messaggio annuale per l’Eid al-Adha*per riaffermare la sua assoluta autorità, dichiarando che l’obbedienza ai suoi ordini è “obbligatoria ed essenziale” per tutti.

Nel messaggio, pubblicato mercoledì dal vice portavoce talebano Hamdullah Fitrat, Akhundzada ha anche invitato i membri talebani a rimanere uniti nel perseguire quella che ha definito l’attuazione della “legge della Sharia” e il consolidamento del “sistema islamico”.

Il messaggio ha esortato religiosi, anziani della comunità e intellettuali a sostenere la visione di governo dei talebani, consigliando loro di contribuire a plasmare l’opinione pubblica e a prevenire quella che ha definito “sedizione e corruzione”. Akhundzada ha definito le loro dichiarazioni pubbliche e i loro scritti come fondamentali per il rafforzamento del potere talebano.

Akhundzada ha inoltre ordinato ai giudici talebani di basare le loro sentenze rigorosamente sulla natura del reato, piuttosto che sulla posizione sociale dell’imputato. Ha affermato che l’applicazione delle decisioni legali basate sulla Sharia è fondamentale per onorare il sacrificio dei combattenti talebani uccisi durante gli anni di insurrezione del gruppo.
Ha inoltre incaricato diversi ministeri talebani, compresi quelli che sovrintendono agli affari religiosi, all’applicazione del vizio e della virtù e all’istruzione superiore, di consultare il clero e di concentrare il proprio lavoro sulla promozione della pietà e sul rafforzamento delle fondamenta ideologiche del regime.

Sul piano economico, Akhundzada ha fatto appello agli imprenditori afghani affinché si adoperino per l’autosufficienza economica, osservando che “la continuazione del nostro governo dipende dall’economia”. Ha inoltre invitato il Ministero per i Rifugiati a fornire aiuti e supporto al reinsediamento degli afghani di ritorno dai paesi vicini, nonostante le persistenti lamentele dei rimpatriati sulla mancanza di servizi di base, opportunità di lavoro e accesso all’istruzione, in particolare per le ragazze.

Ha ammonito il personale civile e militare talebano a non interferire nei rispettivi doveri, suggerendo che tale comportamento genera “sfiducia, disordine e frustrazione”.

Nella parte finale del suo messaggio, Akhundzada ha denunciato la guerra in corso a Gaza come una “grave tragedia umana”, esprimendo la solidarietà dei talebani con la popolazione di Gaza.
Dal ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021, Akhundzada ha emanato oltre 80 decreti – molti dei quali scritti, ma alcuni solo oralmente – che hanno drasticamente limitato i diritti e le libertà di donne e ragazze. Questi editti hanno imposto ampie restrizioni all’istruzione, al lavoro, alle libertà personali e alla partecipazione pubblica, suscitando la condanna di gruppi per i diritti umani e governi stranieri.

I critici in Afghanistan sostengono che i Talebani stiano usando la retorica religiosa per imporre le proprie interpretazioni dell’Islam a una società eterogenea. Nonostante gli appelli di Akhundzada per giustizia e ordine, gli osservatori dei media e gli esperti legali affermano che i Talebani continuano a detenere critici, inclusi giornalisti e studiosi religiosi, spesso senza accuse formali.

Due organizzazioni per la libertà di stampa hanno confermato ad Amu che almeno 15 giornalisti e operatori dei media sono attualmente detenuti dai Talebani, insieme a tre religiosi noti per aver criticato il gruppo. Secondo quanto riferito, diversi di loro sono stati condannati a due o tre anni di carcere.

Un detenuto rilasciato di recente, che ha parlato a condizione di anonimato per motivi di sicurezza, ha affermato che i talebani “non tollerano il dissenso” e puniscono i critici con “l’arresto e la minaccia di repressione”

*Nell’Islam, la ʿīd al-aḍḥā, nota anche come ʿīd al-naḥr oppure ʿīd al-qurbān, è la festa celebrata ogni anno nel mese lunare di Dhū l Ḥijja, in cui ha luogo il pellegrinaggio canonico, detto ḥajj.

Maria Bashir: “L’Occidente ha tradito l’Afghanistan. Le ragazze avevano i libri sotto al burqa”

lastampa.it Francesca Paci 1 giugno 2025

La procuratrice: «Quando gli Usa hanno lasciato Kabul, Putin ha avuto campo libero»

Maria Bashir: «L’Occidente ha tradito l’Afghanistan. Le ragazze avevano i libri sotto al burqa. Quando gli Usa hanno lasciato Kabul, Putin ha avuto campo libero».
Intervista alla prima donna procuratrice dell’Afghanistan. Da quattro anni in esilio.
«E quando la speranza mi abbandona? Allora penso. Ricordo quei pomeriggi a Herat, quando, interdetta dal lavoro e segregata in casa, aspettavo che arrivassero le mie allieve, intabarrate nel burqa sotto cui nascondevano i libri, per scendere insieme in cantina e fare lezione. C’erano ragazze di ogni età. Studiavamo l’alfabeto, la matematica, la letteratura, volevo che fossero pronte per il giorno in cui avremmo avuto in mano il Paese. Ero sicura che a un certo punto i talebani se ne sarebbero andati».
Maria Bashir, prima e unica donna procuratrice nell’Afghanistan contemporaneo, puntella l’incertezza dell’esilio con le immagini dei suoi 54 anni, un condensato di ambizione, orgoglio, delusione, resilienza. Parla, composta nel morbido velo nero, a margine di un evento della fondazione Med-Or.
Racconta. È stata una bambina determinata a studiare nella Kabul aperta agli hippies di mezzo mondo ma ancora chiusa e patriarcale. È stata magistrata a Herat prima che, nel 1995, gli studenti coranici sigillassero l’orizzonte fino al terremoto delle Torri Gemelle.
È stata l’avanguardia dell’emancipazione femminile nei vent’anni in cui pareva che il Paese potesse ripartire, incorniciata nel 2011 dalla copertina di “Time” come una delle cento persone più influenti del mondo.
È stata tanto e, al netto della cittadinanza italiana riconosciutale dal presidente Sergio Mattarella, si sente nulla Maria Bashir: un’esule partita a rotta di collo quattro anni fa con l’ultimo aereo decollato da una Kabul perduta, lasciata dalla coalizione occidentale a quei mullah che aveva combattuto.
• A che punto è oggi Kabul?
A un punto morto. Il nero è sempre più nero, le donne non possono più studiare, non possono uscire di casa. Nessuno può più nulla in Afghanistan.
• Com’è cambiata la sua vita dall’estate del 2021, quando l’ultimo aereo occidentale decollato da Kabul ha spento la luce su dieci anni di speranze e il suo paese è ripiombato sotto il giogo talebano?
È come se fossi tornata indietro di decenni. La mia vita di donna attiva che faceva tante cose come procuratrice e avvocata è finita. Quando ho lasciato casa mia, nell’estate del 2021, non ho neppure staccato la luce, non ho fatto in tempo a chiudere la porta. C’era un muro in salotto, con i quadri di tutti i miei premi, la mia vita. Non ho potuto portare nulla con me, sono scappata come una ladra, di notte: se fossi rimasta mi avrebbero fatto a pezzi, letteralmente.
• Sente di essere stata tradita dall’occidente?
Devo ammetterlo, sì. Io, come tanti, ci ho creduto. Ho creduto che saremmo diventati un Paese normale. L’occidente ci ha portato tanta speranza, ci ha liberati dai talebani e poi ci ha abbandonati: ci ha riconsegnati ai nostri aguzzini. Tutte le mie studentesse, quelle che istruivo nella cantina di casa, avrebbero dovuto lavorare per il futuro e invece, nella migliore delle ipotesi, sono fuggite all’estero: nella peggiore vivono oggi chiuse in casa, depresse, mi chiamano e mi chiedono quando finirà la notte.
• Crede che nel 2021, oltre a consegnare gli afgani ai talebani, l’occidente abbia dato il via libera a quanti erano pronti a sfidarne la tenuta militare e morale sui diritti umani, da Putin a Netanyahu?
È esattamente così. Quando l’occidente ha lasciato Kabul, la Russia ha capito di avere campo libero in Ucraina. Per noi, Paesi non del primo mondo, l’Onu, i tribunali internazionali e le mille carte dei diritti dell’uomo non valgono. Che peso giuridico e morale hanno i palestinesi ammazzati da Netanyahu? La lezione è chiara, i nostri figli valgono meno dei figli del mondo occidentale.
• Da magistrata che ha dedicato la sua vita professionale alla difesa delle donne, di cosa hanno più bisogno oggi, in assenza della libertà?
L’istruzione: aiutateci a far studiare le donne, borse di studio, corsi, anche online. Spesso quella delle donne è una bandiera buona per le campagne social, un “I like” e via. Faccio appello alle europee, italiane, alla premier Giorgia Meloni: immaginate che vostra figlia non possa più andare a scuola né uscire di casa, mettetevi nei nostri panni.
• Una giudice è quasi apostasia per l’ortodossia islamica, dove una donna vale metà. Come le è venuto in mente?
Sin da quando ero bambina volevo che fosse fatta giustizia. Se assistevo a un torto volevo intervenire, volevo cambiare la storia di quella ingiustizia. Ricordo il giorno in cui mi iscrissi all’università: tutti si mettevano in fila allo sportello del corso in medicina, io scelsi legge, ero l’unica donna.
• E se sua figlia, costretta per anni a studiare in casa per le minacce, seguisse la sua stessa strada di magistrata?
La mia vita, il mio lavoro e la mia lotta sono passi sulla strada tracciata per mia figlia e tutte le altre come lei, che possano studiare, crescere, contribuire, quando sarà possibile, al futuro dell’Afghanistan. Che siano magistrate o altro. Ci sono Paesi in cui essere donna è molto difficile ma lo è anche essere cittadine. Mia figlia oggi è in Canada, ha studiato in Italia, è una persona completa che vive lontano da casa.
• Cita spesso l’“apartheid di genere” per indicare la discriminazione delle donne afgane, un’espressione usata anche dalla premio nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi. C’è una strada, comune, che le donne possono percorrere?
L’unità, qui, in Europa, come nel mio Paese. Guardate noi, la nostra storia, la strada, i blocchi stradali, lo stallo. Le donne devono, dovrebbero capire che la battaglia è una, a Roma come a Kabul e a New York.
• Si aspetta qualcosa dall’America di Donald Trump?
Vorrei mettermi le mani nei capelli. Di Trump non sappiamo nulla, né cosa pensa quando si sveglia né cosa dirà nel corso della giornata. Da afgana voglio ricordare che è stato lui a venderci la prima volta, ad avviare i negoziati con i talebani al tempo del suo mandato numero uno. Oggi penso al sistema Maga e penso che gli Stati Uniti volevano una specie di Maga per l’Afghanistan, come se fosse possibile con uno slogan Make Afghanistan Great Again. Ci ha rovinati, l’America ci ha rovinati e dovrebbe rimetterci in piedi.
• Qual è l’episodio più spaventoso che ricorda nella sua vita di momenti di paura?
Ce ne sono stati tanti, ogni giorno della mia vita di giudice ho ricevuto lettere minatorie, dicevano “ti ammazziamo come un cane”. Non avevo paura per me, ne avevo per i miei figli. Il giorno peggiore è stato forse quando hanno messo una bomba sotto casa mia a Herat. All’epoca andavo in giro con 24 guardie corpo e avevo la macchina blindata. Esplose tutto il quartiere, crollò il muro del palazzo davanti alla mia abitazione, avevo paura per gli uomini che mi proteggevano, uno di loro perse le dita dei piedi. I miei figli per fortuna erano lontani, alla partita di calcio, ma non ci sono più partite giocabili a Kabul…».

Le donne afghane senza età: Aziza, Farzana e la scuola negata

Domani, 28 maggio 2025, di Chiara De Stefano Intersos

I diritti e l’autonomia tra fame e freddo

Nei villaggi rurali del sud del paese le persone non conoscono la loro età, le donne contano gli anni dal giorno del loro matrimonio e l’unico obiettivo per il futuro è sopravvivere. A nord e a ovest del paese, nelle grandi città come Kabul e Herat, le donne a 12 anni sono costrette ad abbandonare la scuola e a smettere di sognare. A Roma, in piazza Testaccio, dal 28 maggio al 19 giugno la mostra “Vite senza tempo” della fotografa Cinzia Canneri testimonia la realtà: al seguito dell’organizzazione umanitaria INTERSOS

Aziza ha cinque figli e un volto dall’età indefinibile. Viene da un villaggio della provincia di Zabul, nel sud dell’Afghanistan. Non sa quando è nata, e se le viene chiesto risponde: «Dieci anni dal giorno del mio matrimonio». Sono passati dieci anni dall’evento cruciale della sua vita: il giorno che è stata data in sposa è quello in cui il tempo ha cominciato a scorrere. L’anno zero della sua esistenza.

Vale per lei, vale per la maggior parte delle donne. È la normalità in queste aree dove il ritorno al potere dei Talebani nell’estate del 2021 ha inasprito le condizioni di vita delle donne, ma non le ha cambiate poi tanto rispetto al passato. L’obbligo del burqa, l’accompagnatore necessario per uscire di casa, lo studio consentito solo per pochi anni – ma che di fatto, qui, in moltissime non cominciano nemmeno – sono parte della cultura dell’Afghanistan meridionale da decenni.

I villaggi del sud

Qui al sud, tra i muri giallo ocra dei villaggi rurali, che, quando d’inverno si imbiancano rimangono quasi del tutto isolati, l’unità di misura del tempo che passa, della vita che scorre, non sono le ore, i giorni, gli anni. Ma gli eventi, quando ci sono. Le persone non sanno quando sono nate e non sanno cosa sarà di loro il giorno dopo. Sanno solo quello che gli succede. In quei posti, passato, presente e futuro sono impastati tra di loro in un’unica dimensione: basta non morire di fame, di freddo, di malattia. Ma di fame, di freddo, di parto e di malattie facilmente curabili in altre aree del mondo, si muore troppo spesso.

Ora Aziza è nella sala d’attesa nel centro Barkozai, un presidio sanitario allestito dall’organizzazione umanitaria Intersos, con il sostegno dell’Unione europea, per assistere la popolazione dei villaggi della zona. L’ala femminile del centro è stracolma di donne incinte, mamme con neonati e con bambini malnutriti che hanno bisogno della terapia, o sono in attesa delle vaccinazioni.

Dall’ostetrica

Sta aspettando l’ostetrica con la quale parlerà della decisione, maturata insieme a suo marito, di non avere più figli. Non sanno come sfamarli. Quando entra nella stanza e si stende sul lettino, Aziza mostra il volto che prima era nascosto dal burqa. Nonostante la pelle seccata dal sole, si intuisce che è molto giovane, si vede dagli occhi e anche dal sorriso. Ma lo sguardo è assente, forse impaurito. L’ostetrica di Intersos, una donna giovane e paziente (che, nonostante il divieto per le donne, può lavorare grazie alla deroga sulle attività sanitarie), spiega che Aziza non ha solo enormi problemi economici, come la maggior parte delle famiglie della zona, ma anche grosse difficoltà psicologiche.

Finita la visita, Aziza si riveste frettolosamente. Per arrivare a casa deve percorrere sentieri di terra e rocce, non sa esattamente quanto ci metterà e per questo preme per andar via subito. È impaziente di tornare dai figli più grandi rimasti a casa, tra quelle mura di fango e fieno che sembrano potersi sgretolare da un momento all’altro.

Le case dei villaggi rurali sono tutte simili: all’interno delle mura di cinta c’è un grande spazio con qualche utensile da lavoro, qualche animale, un angolo con una buca per andare in bagno e poco altro. Le stanze coperte da un tetto sono due o tre, hanno qualche telo sul pavimento su cui dormire. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità. L’immagine riporta a migliaia di anni nel passato, passato che qui però è il tempo presente, l’unico tempo a disposizione.

Sogni per il futuro? «Avere da mangiare per tutta la famiglia», risponde con un sorriso sereno un’altra donna, vicina di casa di Aziza. Lei di figli ne ha tredici, una è morta di fame quando era molto piccola e altre tre, ancora bambine, sono già promesse spose.

Sogni per il futuro. Altri, più vasti, sarebbero quelli di tante donne e ragazze – in particolare quelle che vivono in città, soprattutto a nord e ovest del paese – che hanno visto interrompersi il loro percorso di studi e restringersi, fino quasi a scomparire, gli spazi di autonomia e autodeterminazione. I sogni delle giovani operatrici sanitarie di Intersos, che, come tante altre studentesse sono state costrette a lasciare, per volere del governo, gli studi universitari; e i sogni delle bambine che non possono più andare a scuola dopo i dodici anni età. Perché così stabilisce una legge che nel 2021, con poche righe, ha riscritto il senso del tempo per le donne afgane.

Lo studio

Farzana ha quasi dodici anni. Vive a Herat, nell’Afghanistan occidentale, è figlia di un commerciante e di una dottoressa. È stata la prima della classe per tutto il suo corso di studi, ma non ha passato gli esami finali. Bocciata. Quando sua madre, incredula, le ha chiesto spiegazioni, lei ha ammesso di averlo fatto apposta: “Volevo solo continuare ad andare scuola”, ha detto.

Per Farzana sbagliare di proposito tutti i test è stato l’unico modo per rimanere aggrappata alla vita che voleva. E poco le è importato che, per ribellarsi a quella legge, ha dovuto condannare sé stessa al paradosso di continuare a vivere nel passato per poter sognare un futuro.