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Autore: CisdaETS

L’ONU sospende le operazioni di soccorso

L’ONU sospende le operazioni di soccorso al confine tra Afghanistan e Iran
Siyar Sirat, AMU Tv, 5 novembre 2025L?
Le Nazioni Unite e i suoi partner umanitari hanno sospeso le loro operazioni a Islam Qala, un importante valico di frontiera tra Afghanistan e Iran, a seguito delle nuove restrizioni imposte dai talebani che impediscono alle donne che lavorano con le Nazioni Unite e le ONG di operare nel sito, ha confermato mercoledì ad Amu la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA).

La sospensione avviene in un momento in cui il numero di afghani deportati o rimpatriati dall’Iran è in forte aumento, molti dei quali in condizioni umanitarie disastrose. Secondo le Nazioni Unite, oltre il 60% di coloro che arrivano a Islam Qala sono donne e bambini, e quasi un terzo delle famiglie che rientrano è guidato da donne.

“Queste restrizioni creano sia sfide operative immediate che rischi aggiuntivi per i rimpatriati, in particolare donne e ragazze”, ha affermato l’UNAMA in una dichiarazione condivisa con Amu. “Senza personale femminile, non possiamo assistere collettivamente donne e bambini che tornano in patria in condizioni di dignità e rispetto”.

Agenzie delle Nazioni Unite e ONG hanno operato a Islam Qala per fornire servizi essenziali ai rimpatriati, tra cui cibo, assistenza medica, supporto psicosociale e trasporto di emergenza. L’esclusione del personale femminile da queste attività ha di fatto paralizzato molte componenti della risposta umanitaria che tengono conto delle differenze di genere.

Un nuovo livello di restrizioni

Il valico di frontiera è stato un punto di ingresso umanitario cruciale, soprattutto da quando il Pakistan ha avviato una campagna di deportazioni di massa contro i cittadini afghani privi di documenti a ottobre. Anche l’Iran ha continuato le deportazioni, rimpatriando migliaia di afghani ogni settimana.

Sebbene i talebani abbiano ripetutamente imposto divieti alle donne afghane di lavorare con ONG e Nazioni Unite dal dicembre 2022, le agenzie umanitarie sono riuscite in molti casi a negoziare esenzioni, in particolare in settori come la sanità e l’istruzione, o per lavori che coinvolgono donne e bambini. L’applicazione del divieto ai valichi di frontiera segna un nuovo livello di restrizione, che colpisce uno dei gruppi più vulnerabili: le famiglie sfollate che fanno ritorno dalle loro case.

“I partner umanitari delle Nazioni Unite e delle ONG stanno collaborando con le autorità de facto e sperano che si trovino soluzioni che consentano di riprendere tutte le operazioni in modo sicuro, culturalmente sensibile e basato sui principi”, si legge nella dichiarazione.

I gruppi per i diritti umani e le organizzazioni umanitarie denunciano da tempo che i divieti imposti dai talebani alle donne di lavorare non solo violano i principi umanitari internazionali, ma limitano anche gravemente la fornitura di aiuti in un paese in cui più di due terzi della popolazione dipende da qualche forma di assistenza.

La situazione a Islam Qala rischia ora di aggravare la crisi umanitaria, poiché migliaia di rimpatriati, molti dei quali non hanno casa, cibo o mezzi di sostentamento, si trovano ad affrontare un futuro incerto nell’Afghanistan occidentale.

La generazione Z in Afghanistan

La trasformazione dell’identità e il futuro della generazione Z in Afghanistan: tra due mondi, alla ricerca del domani

Shafayee Shafayee, 8AM media, 4 novembre 2025

Fatima ha diciassette anni. Quattro anni fa, ogni mattina sedeva in classe accanto alle sue amiche, disegnando silenziosamente mappe nella sua mente, mappe che la portavano a un sogno: diventare medico e curare i malati. Ora, passa la maggior parte del tempo a guardare fuori dalla finestra della sua stanza, a osservare una strada che non ha più il diritto di percorrere. È una degli 1,4 milioni di ragazze afghane a cui è stato vietato di frequentare la scuola dal ritorno al potere dei talebani. Questa non è solo la storia di una ragazza; è la storia di un’intera generazione intrappolata nella frattura della storia, una generazione che un tempo ha assaporato la libertà, ha avuto accesso a internet e al mondo esterno, e poi, da un giorno all’altro, è stata ripiombata in un’oscurità medievale che nemmeno i loro genitori avevano mai sperimentato appieno.

Una nazione giovane, un vecchio regime

Ovunque si vada in Afghanistan, si vedono giovani. L’età media nel paese è di soli diciassette anni, il che significa che la maggior parte degli afghani sono studenti o alle soglie del mondo del lavoro. Circa il 43% dei 42 milioni di abitanti dell’Afghanistan ha meno di quindici anni, oltre 20 milioni di giovani vite che avrebbero dovuto essere la forza trainante del futuro della nazione, ma che ora sono intrappolate nella disperazione e nella miseria. Questa non è una statistica che può essere trascurata. Nessun altro paese della regione ha una popolazione così giovane. Avrebbe potuto essere la risorsa più grande dell’Afghanistan: una vasta forza lavoro, una creatività sconfinata, un’energia illimitata. Invece, è diventata la sfida più scoraggiante del paese.

L’Afghanistan è una terra gravata dalla memoria, eppure abitata da giovani spensierati. Un paese dove secoli di guerra, geografia e destino hanno gravato pesantemente sulle sue spalle, ora ospita una generazione che non appartiene né interamente al passato né al futuro. La Generazione Z in Afghanistan si trova a cavallo tra due mondi, tra tecnologia e tradizione, esilio e patria, silenzio e resistenza, alla ricerca di un nuovo significato dell’esistenza. Questa generazione, che costituisce quasi il 60% della popolazione, è cresciuta tra esplosioni ed esodo, ed è diventata maggiorenne nell’era digitale, in preda a una crisi d’identità. Sono cresciuti in un paese dove le scuole sono state bruciate ma i social media sono ancora vivi; dove i libri sono scarsi, ma gli smartphone si trovano in quasi ogni casa. Lo scontro tra queste due realtà ha creato per loro due narrazioni di vita parallele: una confinata entro confini, segnata da paura e restrizioni; l’altra sconfinata, esistente nel regno virtuale, definita da immaginazione e libertà.

Questi giovani non possono essere paragonati alla generazione dei loro genitori. Sono cresciuti nel ventennio sperimentale della Repubblica, un periodo che, nonostante la corruzione e il caos, ha concesso un breve respiro di libertà. Dal 2002 al 2021, oltre 3,8 milioni di ragazze hanno frequentato la scuola per la prima volta. Questa cifra non è solo un numero; rappresenta milioni di famiglie che, per la prima volta, hanno visto le proprie figlie imparare a leggere e scrivere e, soprattutto, a sognare.

Un tempo le università erano piene di donne. Più di 100.000 studentesse erano iscritte in università pubbliche e private in tutto l’Afghanistan. Oltre 2.400 donne erano docenti. A Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, giovani donne camminavano per le strade con i libri sottobraccio, uno spettacolo che ora sembra un sogno lontano. Questa generazione è cresciuta con i cellulari e internet. Erano attive su Instagram e Facebook, guardavano serie televisive turche e indiane e ascoltavano musica. Il loro mondo si estendeva ben oltre le montagne dell’Hindu Kush.

Caduta libera

E poi, tutto è crollato. Il 15 agosto 2021, il giorno in cui i talebani sono entrati a Kabul, inizialmente avevano promesso che questa volta sarebbe stato diverso. Ma una promessa dopo l’altra è stata infranta. Le scuole femminili oltre la sesta elementare sono state chiuse. Le università sono state prima soggette a restrizioni, poi completamente chiuse. Alle donne è stato impedito di lavorare nelle organizzazioni internazionali. Persino i parchi sono diventati off-limits per loro.

Per ordine del leader supremo dei talebani, le porte delle scuole sono state chiuse a 1,4 milioni di ragazze. Mille giorni di istruzione negata significano tre miliardi di ore di apprendimento perse, tempo che non tornerà mai più. Questa tragedia non riguarda solo le ragazze. I ragazzi, che avrebbero dovuto crescere e imparare insieme alle loro sorelle e compagne di classe, ora assistono alla distruzione di metà della loro società. Sanno che senza la partecipazione delle donne, l’Afghanistan non ha futuro.

Oltre i confini dell’Afghanistan, si sta svolgendo un’altra storia. Milioni di giovani afghani fuggiti dal Paese ora vagano per terre straniere. Oltre 2,6 milioni di rifugiati afghani sono ufficialmente registrati, di cui 2,2 milioni residenti solo in Iran e Pakistan. Ma la realtà è ancora più cupa. Si stima che circa tre milioni di afghani vivano in Iran e forse un altro milione risieda illegalmente in Pakistan e in altri Paesi. Questa generazione in esilio vive con una doppia identità, né pienamente afghana né pienamente appartenente alle nazioni ospitanti. La loro lingua è il dari o il pashtu, ma parlata con un accento che non si sente più a Kabul. La loro cultura rimane afghana, ma si fonde con quella delle società in cui ora vivono. In esilio, nei campi profughi in Pakistan e Iran, o nelle stanze silenziose dell’Europa, stanno costruendo una nuova lingua. Una lingua in cui dolore e speranza si intrecciano. Una lingua globale, ma radicata nella sofferenza locale.

L’opportunità strategica dimenticata

La Generazione Z in Afghanistan non è solo un fenomeno culturale; rappresenta una questione strategica per il futuro della nazione. In un mondo in cui le trasformazioni politiche sono plasmate dai movimenti sociali, questa generazione potrebbe diventare il principale agente di cambiamento o la più grande vittima del silenzio. Nonostante l’accesso alla tecnologia e alle reti globali, rimane priva di supporto strutturale e politico. Nessun programma nazionale di istruzione o sviluppo è stato progettato per comprenderli o rafforzarli.

Mentre il resto del mondo investe nell’istruzione digitale e nell’imprenditorialità giovanile, l’Afghanistan sta tragicamente perdendo il suo “motore del cambiamento”. Ogni giovane che fugge dal Paese e ogni ragazza a cui viene negata l’istruzione distruggono un pezzo del futuro della nazione.

Il costo che tutti pagano

Le conseguenze di questa catastrofe vanno ben oltre i singoli individui. Una società che perde metà del suo potenziale umano è condannata alla povertà e all’arretratezza. Come può esistere un sistema sanitario se non si formano medici donne? Come può funzionare un’economia quando a metà della forza lavoro è impedito di partecipare? Ma al di là dell’economia, questa è una tragedia umana. Ogni ragazza privata dell’istruzione oggi è un’insegnante, un medico, un ingegnere o un leader perso domani. E ogni ragazzo che cresce senza la presenza delle ragazze impara che le donne valgono meno, perpetuando un ciclo infinito di discriminazione.

Un futuro incerto

La domanda ora è: quale destino attende questa generazione nel futuro dell’Afghanistan? Coloro che studiano nelle scuole segrete diventeranno un giorno i leader di un movimento per il cambiamento? Coloro che vivono in esilio torneranno per ricostruire la loro patria? O questa generazione rimarrà sospesa per sempre tra due mondi?

La storia ci ha insegnato che nessun regime può reprimere i suoi giovani all’infinito. I sovietici hanno imparato questa lezione in Afghanistan. La Repubblica, nonostante tutti i suoi difetti, è riuscita a mantenere viva la speranza. E ora i talebani devono rendersi conto che non possono mettere a tacere 20 milioni di giovani per sempre.

Fatima è ancora seduta dietro la finestra, eppure lei e milioni di persone come lei rimangono luci tremolanti nell’oscurità. Le loro voci potrebbero non essere udite oggi, ma la storia dell’Afghanistan dimostra che queste scintille alla fine si trasformano in incendi che nessuno può spegnere.

La domanda non è se il cambiamento avverrà, ma quando e a quale costo.

Alla fine, il futuro dell’Afghanistan non sarà plasmato dai suoi politici dai capelli grigi, ma dalle menti e dai cuori della Generazione Z. Se ne avessero la possibilità, potrebbero riscrivere la storia, una storia fondata non sul sangue e sulla guerra, ma sulla conoscenza e sulla coesistenza.

Nota: questo articolo si basa su dati delle Nazioni Unite, dell’UNICEF, della Banca Mondiale e su rapporti di organizzazioni per i diritti umani.

 

Comunicato Hawca. Terremoto in Afghanistan: servono aiuti

Hawca, Cisda, 4 novembre 2025

Un potente terremoto di magnitudo 6,3 ha colpito le regioni settentrionali dell’Afghanistan, in particolare le province di Samangan e Balkh, nelle prime ore di lunedì 12 Aqrab (3 novembre). Secondo le prime stime, più di 50 persone hanno perso la vita e oltre 550 sono rimaste ferite.

Questo tragico evento ha causato un grave disagio psicologico ed emotivo tra le comunità colpite. Il numero di feriti è molto elevato, mentre i servizi medici rimangono insufficienti. Molte famiglie hanno perso le loro case di fango e argilla e attualmente affrontano il gelo senza alcun riparo. Testimoni riferiscono che i bambini rischiano di morire di freddo.

Il nostro rappresentante sul campo è riuscito a raggiungere la zona con grande difficoltà, poiché le strade sono state danneggiate dal terremoto. Ci ha riferito che le persone, soprattutto donne e bambini, hanno urgente bisogno di indumenti caldi, rifugi temporanei, medicine, cibo e acqua potabile.

Fonti locali indicano che il governo non è stato finora in grado di adottare misure efficaci, poiché le attrezzature necessarie per la pulizia delle strade non sono disponibili. Inoltre, l’elettricità importata è stata interrotta e persino l’ospedale provinciale di Samangan ha subito danni, con gravi ripercussioni sui servizi sanitari.

In queste difficili circostanze, senza un’assistenza immediata per donne e bambini, si prevede che il numero delle vittime aumenterà drasticamente.

Invitiamo sinceramente la comunità internazionale, le organizzazioni umanitarie e i nostri partner ad agire con urgenza e a fornire supporto per soddisfare i bisogni immediati della popolazione colpita.

Il vostro sostegno e la vostra solidarietà sono la speranza per la sopravvivenza di queste persone colpite dal disastro.

Team di Hawca

PER AIUTARE LE POPOLAZIONI COLPITE DAL TERREMOTO FAI UN BONIFICO BANCARIO A CISDA

Beneficiario:
COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNEAFGHANE ONLUS*
BANCA POPOLARE ETICA – Filiale di Milano
IBAN: IT74Y0501801600000011136660
Causale: terremoto Afghanistan

*Attenzione: in base alle nuove normative bancarie il nome del beneficiario del bonifico deve corrispondere esattamente all’intestatario del conto per cui va scritto come indicato sopra (donneafghane tutto attaccato e onlus invece di ETS)

 

I talebani sono immersi nel lusso, la popolazione nella povertà e nell’indigenza

Zakir, Hambastagi, 10 ottobre 2025

Con il ritorno dei talebani, il dolore e la sofferenza della popolazione si sono moltiplicati. La crescente disoccupazione, la pressione fiscale e le crudeli richieste di denaro, nonché il trattamento brutale che ne deriva, hanno tolto l’ultima speranza a chi lotta per la sopravvivenza a mani vuote. La maggior parte dei piccoli imprenditori è stata distrutta o sta pensando di fuggire da questo inferno. Nonostante tutta questa miseria, i funzionari talebani mangiano ogni giorno nei ristoranti più lussuosi e, come i loro fratelli jihadisti, affermano sfacciatamente: “Non contrastate i doni di Dio!” o “Non siamo responsabili del vostro sostentamento!”

Questi mostri, che sono tornati a governare il popolo con il denaro e la forza dell’America e dell’Occidente, inizialmente hanno fatto circolare sui media alcune foto drammatiche dei tavoli dei ministeri e del palazzo presidenziale per ingannare l’opinione pubblica, come se fossero disgustati dal lusso e dall’aristocrazia della corrotta repubblica di Karzai e degli Awqaf e, invece di sette tipi di riso e carne, mangiassero lo stesso cibo semplice del popolo. Ma questa finzione è finita molto presto. Dal ministro al comandante di distretto, tutti vanno nei posti più lussuosi a pranzo e a cena.

Non molto tempo fa, un famoso YouTuber americano “Sunny” durante un viaggio in Afghanistan ha visitato il ristorante “Ziafat” di Shahr-e-Naw a Kabul e gli è stato mostrato un menu in cui un piatto costava 24.400 afghani. Ha detto sorpreso: “Sebbene ci siano poveri e indigenti in ogni angolo di questa città, qui c’è anche un hotel per milionari. Chissà chi ci mangia!

Alla fine del suo discorso, la telecamera mostra un combattente talebano armato che lascia il banchetto dopo aver mangiato del pane.

Per sfatare la falsa maschera di “servitori del popolo” che i leader talebani indossano, ho visitato diversi ristoranti famosi a Kabul. Ovunque ho trovato seduti ai tavoli solo talebani con barba, fianchi e pance sporgenti, che ordinavano piatti costosi, la maggior parte di loro impegnata a mangiare “Mulong”, “Maahiche” e altri snack. Fuori, decine di bambini che raccoglievano spazzatura e mendicanti affamati che guardavano con desiderio questi governanti oppressivi, sperando nel pane avanzato o qualche soldo. Ma quando questi predatori uscivano dal ristorante, trattavano questi poveri con un disprezzo tale da far tremare il cuore.

Fuori da uno di questi luoghi, Musawar vagava con sua sorella Somayeh, alla ricerca di un pezzo di pane o di una lattina di soda vuota. Gli ho chiesto della loro vita e Musawar ha risposto: “Veniamo da Helmand. Mio padre vende acqua, io e mia sorella raccogliamo lattine vuote e scatole di cartone. Veniamo qui la maggior parte delle volte sperando che qualcuno ci dia pane o soldi, ma nessuno nemmeno ci guarda. Quando escono dall’hotel e chiediamo qualcosa, ci dicono con uno stuzzicadenti in bocca: ‘Andatevene, non avvelenate il nostro pane'”.

Ogni giorno a Shahr-e-Naw, Kabul, centro dei negozi e dei ristoranti di lusso del Paese, i leader talebani, le mafie terriere e i narcotrafficanti girano liberamente,  mentre a pochi passi di distanza decine di poveri lavoratori siedono per strada aspettando un lavoro, pensando a come riempire la pancia vuota dei loro figli.

Uno di loro, Hussain Ali, residente nella provincia di Sar-e-Pul, racconta: “Aspetto qui da giorni, ma non c’è lavoro. Facevo l’operaio edile in Iran e mandavo soldi alla mia famiglia. Non torno a casa dal giorno in cui ho attraversato il confine. Ho fame dalla mattina alla sera, a volte prendo in prestito una teiera e del pane da questo samovar finché non trovo i soldi. Non c’è lavoro a Sar-e-Pul, e da quando sono arrivati ​​questi (i talebani), la nostra situazione è peggiorata. Ci molestano con mille scuse”.

L’oppressione dei talebani non ha colpito solo lavoratori, netturbini e mendicanti, ma anche venditori ambulanti, tassisti e persino donne che vendono oggetti rubati. Ogni giorno, i talebani estorcono denaro a queste povere persone con la forza e le molestie. Ad esempio, le donne che vendono beni rubati ai bordi della strada con i loro bambini piccoli, senza alcun riparo o comodità, sono costrette a pagare loro le tasse sotto la minaccia delle armi.

Ho parlato con una di queste donne con il pretesto di comprare merce rubata. Con il viso stanco e la voce sofferente, mi ha detto: “Da quando sono arrivati ​​questi pidocchi, non c’è più lavoro né pace. Ogni settimana dobbiamo pagare duecento afghani al distretto solo per questo pezzo di pane. Ci hanno reso la vita un inferno. Lavoriamo con i nostri bambini sotto il sole e la pioggia, non mendichiamo, ma queste persone senza scrupoli ci costringono a pagare. Loro stessi sono immersi nel piacere e i soldati talebani molestano le nostre figlie con il pretesto di cacciarci via da qui. Mentre la loro missione è promuovere il bene e il male, molestano, picchiano e ammoniscono la gente con il pretesto del male, ma queste persone approfittano della nostra costrizione e amano venire a divertirsi con noi ogni minuto con qualsiasi pretesto!

 


Governi fantoccio e mercenari stanno succhiando l’ultima linfa agli oppressi, saccheggiando le risorse naturali e accrescendo la loro ricchezza. I talebani cercano di presentarsi come “servitori della nazione” progetti vistosi e demagogici, ma dietro le quinte sfruttano il popolo e la patria in ogni modo possibile. Nonostante le dichiarazioni di indipendenza, sono attualmente impegnati a negoziare per consegnare Bagram ai padroni americani e sacrificare il popolo con i loro trattati infidi.

L’unico modo per sfuggire a questa situazione è rovesciare questi traditori corrotti e sfruttatori e instaurare un governo veramente popolare e democratico che serva gli interessi della classe operaia e delle masse povere.

 

Gettata indietro nel passato


Khujasta Haqnazar,  8AM Media, 1 novembre 2025

Il primo giorno in cui internet non c’era più, mi sono sentita come intrappolata su un’isola silenziosa. Nessun messaggio è arrivato, nessuna chiamata è avvenuta. Nessuna notizia, solo io, alle prese con il mio silenzio e la mia ansia. La situazione mi ha ricordato quel lunedì di due settimane prima, il giorno in cui il Wi-Fi era saltato, lasciandoci sedute impotenti con le nostre lezioni e i nostri sogni. Ma questa volta, il disastro ha colpito più duramente, l’intero Paese è sprofondato nell’oscurità e nel silenzio assoluto per due giorni, e una vecchia ferita si è riaperta.

Imprigionata tra invisibili sbarre

Persino le reti mobili erano cadute. Non potevamo nemmeno chiamare gli amici in altre province. Per controllare i nostri parenti, dovevamo andare a trovarli di persona. Le nostre preoccupazioni si facevano più pesanti, sapendo che anche i nostri cari all’estero non avevano più nostre notizie. Quando finalmente la connessione è stata ripristinata, ci hanno raccontato di aver passato le notti a piangere, a fissare le nostre foto, temendo di non sentire mai più le nostre voci.

Quei due giorni di silenzio non furono affatto facili. Avevo finito tutti i miei libri cartacei e quelli digitali erano bloccati dietro lo schermo sbarrato di Telegram. La nostra unica fonte di distrazione era la televisione, piena di notizie cupe e domande senza risposta: perché questo blackout? Quanto durerà? Diventerà permanente? Mi sentivo imprigionato tra invisibili sbarre di ferro, incapace di raggiungere nessuno. Pensavo di avere ancora una voce, ma nessuno poteva sentirmi.

I miei amici hanno condiviso storie simili; tutti erano intrappolati nella morsa di quello stesso silenzio soffocante. Uno ha scritto dopo il ripristino di internet: “Ho passato questi tre giorni a leggere libri e mi è sembrato di essere tornato indietro nel tempo”. Un altro, che vive all’estero, ha detto: “Eravamo terrorizzati che fosse scoppiata la guerra in Afghanistan e che tu potessi essere stata ferita”. Tutti i nostri amici fuori dal Paese erano profondamente preoccupati.

Il nostro ponte con il mondo

Una delle mie studentesse ha scritto della sua stanchezza e depressione, dicendo: “Internet è la nostra unica via di fuga da queste restrizioni, l’ultima finestra di speranza”. Sì, per la mia studentessa, e per tutti noi, Internet è una delle poche fonti di speranza rimaste. Non è esagerato dire che è il nostro ponte, il nostro mezzo per connetterci, per far sentire la nostra voce e per inviare i nostri messaggi al mondo. Per molti come me, questa non è stata solo un’interruzione tecnica, è stata una ferita allo spirito.

Qualcuno ha definito l’interruzione “il periodo più difficile della mia vita”, e un altro l’ha paragonata a una catastrofe storica: “A Nagasaki, in Giappone, è stata sganciata una bomba atomica, e i suoi effetti persistono ancora. Ma in Afghanistan sono state usate due bombe atomiche: una è la privazione dell’istruzione femminile, e l’altra è il blackout di internet“. Quei due giorni di silenzio hanno gravato profondamente sulle nostre vite personali e sui nostri percorsi individuali, costringendo molti di noi a una dolorosa presa di coscienza.

Forse le nostre madri e nonne direbbero: “Anche noi una volta vivevamo senza internet”. Ma c’è un mondo di differenza. Loro vivevano nel loro tempo, senza sapere cosa fosse internet, forse senza nemmeno immaginarlo. Noi, invece, siamo stati catapultati indietro, dall’oggi all’ieri. Qualcosa di impossibile, eppure è successo. Passare dall’ieri all’oggi è naturale, ma essere trascinati dall’oggi all’ieri è un incubo, che viviamo ripetutamente, ogni volta che un nuovo decreto ci getta in un nuovo orrore. Eppure, nonostante tutto, abbiamo sempre detto all’unisono: non si torna al passato.

 

 

Il ritorno delle donne in piazza

“L’immagine migliore che abbia visto negli ultimi quattro anni”, il commento moltissimi afghani. Una protesta contro i talebani

Javad Naji, Afghanistan Internazionale, 2 novembre 2025
Le strade di Kabul, che per più di quattro anni sono state un rifugio per violenti combattenti talebani, guardie morali e responsabili di implacabile e violenta repressione delle donne, hanno visto sabato una straordinaria affluenza di migliaia di uomini e donne venuti ad accogliere la squadra di futsal, un evento senza precedenti che ha sorpreso e colto molti di sorpresa.

Le immagini mostrano le strade della capitale gremite di gente, con uomini e donne uno accanto all’altra; un evento che non si era mai visto nelle strade di Kabul da quando i talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan.
La presenza delle donne nelle strade di Kabul ha avuto un impatto notevole sui social media.

Il primo campionato nella storia del futsal

La squadra di futsal Under 17 dell’Afghanistan ha sconfitto l’Iran per 2-1 nella finale del Campionato asiatico dei Giochi giovanili del 2025, diventando campione del torneo.
I giocatori della squadra giovanile afghana di futsal sono tornati a Kabul dopo aver vinto il campionato e una grande folla è scesa in piazza sabato mattina; i festeggiamenti sono proseguiti fino a sabato sera con balli e gioia da parte dei cittadini.
Niloufar Moradi, attivista per i diritti delle donne, ha scritto su Axe che i talebani possono anche essere al potere oggi, ma non potranno mai fermare la cultura, l’unità e la felicità condivisa del popolo.


Un utente con il nickname “Quma” ha pubblicato una foto delle donne su X e ha scritto: “La foto migliore che abbia visto negli ultimi quattro anni”.
Negli ultimi quattro anni talebani hanno vietato la presenza di uomini e donne nello stesso luogo e hanno fatto molti arresti con l’accusa di aver violato questo divieto.
La giornalista Zahra Joya ha affermato che le donne si sono unite agli uomini per dare il benvenuto alla squadra di futsal maschile under 17, nonostante tale partecipazione fosse proibita durante il regime talebano.
Shahgol Rezaei, membro del parlamento del precedente governo, ha definito la presenza di donne e uomini “una splendida manifestazione di un Afghanistan felice”.
Ha descritto la presenza di donne e uomini come “gloriosa ed entusiasta” e ha affermato: “È così che si definisce il vero Afghanistan”.
Safar Rahimi, un utente di Facebook, ha scritto: “È da molto tempo che non siamo così felici.

Cena eccezionale

Il giornalista Anwar Saadat Yar ha pubblicato un video sulla presenza di donne e uomini nella parte occidentale di Kabul e ha scritto: “Una cena eccezionale a Dasht-e-Barchi, un momento in cui il suono della chiamata alla preghiera, dell’entusiasmo e della gioia ha echeggiato nella parte occidentale di Kabul”.
L’attivista sociale Yasin Samim ha affermato che la presenza di una donna di 64 anni che cammina con un bastone venuta alla Federazione calcistica afghana per accogliere gli atleti è stata “la parte più interessante di questa magnifica accoglienza pubblica”.
Il signor Samimam ha scritto che questa donna ha regalato a ogni atleta un mazzo di fiori.
“Uomini e donne sono uno accanto all’altro”, ha detto Khalid Qaderi, giornalista e poeta che è stato imprigionato dai talebani per un certo periodo.

Ballando contro i talebani

Fuochi d’artificio, balli e applausi hanno fatto parte della celebrazione. Le immagini mostrano alcuni cittadini per le strade che urlano, ballano e infrangono le rigide regole dei talebani.
Ehsan Erfan ha pubblicato un video di persone che ballavano e gioivano, commentando: “Oggi c’è stata una grande agitazione a Barchi. I giovani hanno ballato e gioito, proprio davanti ai talebani”.

“Un grido contro il silenzio imposto dai talebani e la discriminazione di genere”
“Nella parte occidentale di Kabul, centinaia di uomini e donne sono scesi in piazza con passione e coraggio per dare il benvenuto ai campioni di futsal; un grido contro il silenzio imposto dai talebani e la discriminazione di genere”, ha scritto Fahim Fitrat, reporter di Axe.
Ha affermato: “Ogni volta che le persone vogliono, scrivono la storia”.
Humaira Qaderi, poetessa e scrittrice, ha affermato che le donne sono scese in piazza a Kabul e gli uomini ne erano felici. Ha scritto su X: “Vorrei che gli uomini non si limitassero a commuoversi per il dolore delle donne. Cosa possono fare i talebani con un’onda simile?”

Protesta civile contro i talebani

L’attivista politica Bahar Mehr ha affermato che la grande partecipazione, soprattutto femminile, è stata un simbolo di protesta civile contro i talebani. Ha scritto su X che i talebani “hanno tolto ogni libertà, opportunità e il diritto di essere presenti in pubblico. Avete ravvivato la speranza per il futuro”.

I talebani hanno dato il benvenuto alla squadra di futsal

Diversi funzionari talebani hanno accolto con favore il campionato della squadra afghana di futsal pubblicando messaggi negli ultimi due giorni.
Anche alcuni funzionari dell’amministrazione talebana si sono recati all’aeroporto di Kabul per dare il benvenuto ai giocatori della squadra di futsal.

Abdul Matin Qane, portavoce del Ministero degli Interni dei talebani, ha affermato che i membri della squadra giovanile di futsal sono un simbolo di unità, fratellanza ed empatia tra i diversi gruppi etnici del Paese. Ha sottolineato che con questo campionato, la squadra di futsal diffonde il messaggio di unità e integrità del popolo afghano nel mondo attraverso lo sport.
Dopo la cerimonia iniziale all’aeroporto di Kabul, i campioni afghani di futsal si sono recati prima allo stadio Ghazi nel centro della città e poi nella zona di Dasht-e-Barchi, nella parte occidentale della capitale.

 

 

 

 

Gli afghani bloccati al confine di Torkham chiedono la riapertura mentre continuano le deportazioni

amu.tv Bais Hayat 2 novembre 2025

Centinaia di afghani restano bloccati al valico di frontiera di Torkham, tra Afghanistan e Pakistan, poiché le tensioni diplomatiche e le deportazioni di massa hanno di fatto sigillato una delle vie di transito più importanti della regione.

Il valico di Torkham è rimasto chiuso al commercio e ai viaggiatori nelle ultime tre settimane. È stato riaperto solo per i migranti espulsi sabato 1° novembre.

Alcune delle persone bloccate al confine, tra cui viaggiatori, commercianti e rimpatriati, affermano di dover sopportare un peggioramento delle condizioni e sollecitano entrambi i governi a riaprire immediatamente i valichi. Il Pakistan ha riaperto brevemente il valico di Torkham sabato, ma lo ha fatto solo per facilitare l’espulsione forzata di migranti afghani privi di documenti.

Molti dei deportati raccontano di essere stati maltrattati dalle autorità pakistane e di essere stati rimandati indietro senza averi. “Il governo pakistano ci ha trattato duramente”, ha detto Daud, un migrante deportato arrivato con la sua famiglia. “Ci hanno imprigionato. Siamo arrivati ​​solo con i vestiti che indossavamo. Tutti i nostri averi sono stati abbandonati”.

Sono trascorse più di tre settimane da quando i principali valichi di frontiera tra i due Paesi sono tornati pienamente operativi. Centinaia di camion carichi di merci commerciali rimangono bloccati su entrambi i lati, bloccando gli scambi commerciali e sollevando preoccupazioni per le ricadute economiche e umanitarie.

Parlando con Amu, diversi rimpatriati hanno chiesto assistenza urgente, tra cui l’accesso a un alloggio, al lavoro e all’istruzione per i loro figli. “Abbiamo bisogno di lavoro. Ho otto figli”, ha detto uno di loro. “Devono esserci opportunità per loro di studiare”.

Nonostante le segnalazioni di trattative in corso tra funzionari afghani e pakistani, i valichi di frontiera – tra cui Torkham, Spin Boldak, Angur Ada, Ghulam Khan e Dand-e-Patan – rimangono chiusi al traffico regolare. Le chiusure hanno interrotto il commercio regionale, causato perdite finanziarie e bloccato i passeggeri che non hanno i mezzi per attendere a tempo indeterminato.

“Siamo qui da quasi un mese”, ha detto Mohammad Asif, un viaggiatore in attesa a Torkham. “Abbiamo visti e passaporti validi, ma non si muove nulla. I camion della frutta stanno marcendo, la gente ha finito i soldi e non sappiamo quando apriranno i cancelli. Tutto è fermo”.

Il Pakistan ha annunciato un’ampia repressione degli stranieri irregolari all’inizio di questo autunno, dando a oltre un milione di afghani tempo fino al 1° novembre per lasciare il Paese, pena la detenzione e l’espulsione. La decisione ha innescato un’ondata di rimpatri, molti dei quali forzati, mettendo a dura prova le già limitate risorse interne all’Afghanistan.

Gli osservatori affermano che le chiusure delle frontiere riflettono non solo le pressioni logistiche derivanti dalle espulsioni, ma anche il deterioramento dei rapporti tra Islamabad e le autorità talebane di Kabul. Una riapertura completa, suggeriscono gli analisti, potrebbe dipendere dai progressi nella risoluzione delle controversie politiche e di sicurezza tra le due parti.

 

 

La sinistra ha paura della laicità?

noidonne.org Monica Lanfranco 27 ottobre 2025

Quando è ripartito il dibattito sul divieto del velo in Italia, come avviene ad intervalli più o meno regolari quando ci sono proposte di legge più o meno propagandistiche sull’argomento, è tornato anche l’immancabile appello contro l’islamofobia da parte di chi è contrario al divieto: l’islamofobia sarebbe il sentimento che anima chi è critico sulla copertura del corpo femminile, imposta nei paesi a maggioranza religiosa islamica.
Sono andata nei giorni scorsi a riprendere le fonti che, da almeno due decenni, riporto nei vari articoli e saggi sul tema, voci autorevoli di attiviste e studiose che lavorano per la laicità nei loro paesi di provenienza (quasi tutte sono riparate in Europa, perché in patria sarebbero in carcere o morte): Maryam Namazie, Merieme Helie Lucas, Inna Shevchenko, Gita Sahgal, che spiegano perché il relativismo della sinistra e di parte del movimento femminista (“è la loro cultura, la laicità occidentale è imperialismo, le islamiche si devono liberare da sole, la taglia 42 è il nostro burka”) sia un danno enorme per la liberazione dal patriarcato fondamentalista, di qualunque religione si tratti e ad ogni latitudine. Volevo riportarle per ricondividere le voci che mettono in luce il pericolo di parlare di ‘fobia’ nel caso della religione: in alcuni paesi del mondo la critica alla religione viene identificata con la blasfemia, e punita fino alla morte.
Poi, al mattino presto del 13 ottobre 2025, ho assistito ad alcune fasi del rilascio degli ultimi 20 ostaggi vivi israeliani, grazie alle dirette disponibili online. Nelle strade di Gaza c’erano solo uomini, giovani e non: le pochissime donne erano tutte velate, qualcuna anche con il niqab, presenze scure e uniformi nel mare di uomini che vivevano le fasi concitate dell’evento in quella terra martoriata.
Una terra nella quale, oltre alla carneficina operata dall’esercito israeliano, le donne hanno subìto da sempre, con l’insediamento di Hamas, la specifica violenza che le condanna al destino legato al loro sesso in ogni luogo dove c’è la guerra e dove c’è il fondamentalismo: lo stupro, che in guerra diventa arma usata tra uomini per punire il nemico attraverso la violenza più inumana che un uomo compia sull’altra da sé.
Come ci insegna il Tribunale delle donne dell’ex Iugoslavia oltre alla violenza sessuale le donne che ne sono vittime rischiano di essere abbandonate dalla loro famiglia d’origine a causa della violenza che hanno subìto.
Nel recente timido report di Terre des Hommes sulla condizione femminile in Palestina si afferma, dati alla mano, che a Gaza la situazione delle donne e delle bambine si è aggravata durante i due anni di guerra, senza dire però che anche prima era un inferno: spose bambine, limitazione delle cure mediche, divieto di accesso all’istruzione erano, e sono, pratiche coerenti e strutturali del fondamentalismo islamico, in Palestina con la feroce dittatura di Hamas, in Nigeria con quella di Boko Haram, in Iraq con i Talebani, in Iran con i fondamentalisti che incarcerano e uccidono le ragazze che si oppongono al velo, solo per citare le situazioni più note.
Molte critiche in Italia, da sinistra e in alcuni settori del femminismo, si sono levate contro la legge francese del 2004, approvata a larga maggioranza dopo un lungo dibattito pubblico non solo dalla destra ma anche dai socialisti, che vieta i segni religiosi ostensibili, come il velo islamico, la croce, la kippah e il turbante sikh nelle scuole pubbliche.
Nel 2006 a Genova, invitata dalla rivista Marea, Mimouna Hajam della associazione Ni putes ni soumise raccontò di come quella legge aiutasse le giovani donne delle famiglie musulmane nel loro processo di liberazione dalle catene del fondamentalismo anche domestico. In Italia la proposta, che la destra presenta malamente in chiave propagantistica ‘anti islam’, è criticata a sinistra perché soffia sul fuoco del razzismo, ed è ovviamente da rigettare per questo.
Però attenzione: è pericoloso aggirare l’ostacolo dicendo che una legge c’è, la 152 del 1975, relativa al divieto di portare il casco o copertura integrale in una logica di tutela della sicurezza. Qui non si tratta di sicurezza: lo spiega molto bene la reazione dell’imam Massimo Abdallah Cozzolino, guida dell’associazione culturale islamica Zayd Ibn Thabit. Il religioso ha dichiarato: “Non sono contrario a misure che tutelino la sicurezza pubblica, ma mi oppongo a qualsiasi iniziativa che rischi di colpire l’identità religiosa di una comunità. In quel caso, si andrebbe contro i principi costituzionali a cui tutti, spesso, si richiamano. La libertà religiosa garantisce a ciascuno il diritto di esprimere la propria fede, le proprie pratiche e simboli, purché nel rispetto delle leggi e dei valori comuni”.
E’ questo il punto. Per usare la lucida analisi di Raffaele Carcano che parlò di relazioni pericolose tra sinistra e islam “il problema è che gli esseri umani (e le organizzazioni in cui si uniscono) hanno molte identità, e assumere certe posizioni anziché altre finisce quindi per definire quale delle diverse identità è ritenuta prioritaria. Come ha sottolineato Kenan Malik, sostenere che i leader musulmani non devono essere sottoposti alle stesse crude domande di chiunque altro è difficilmente un buon argomento in favore delle pari opportunità. Ma una corrente consistente della sinistra non si riconosce più in tale scopo, se coinvolge una religione di minoranza. Non è più per l’emancipazione di tutte le donne ma per il sostegno all’hijiabizzazione di quelle musulmane, che fu il provvedimento centrale della politica khomeinista e che ovunque è l’obbiettivo numero uno di tutti gli islamisti, sciiti o sunniti che siano. Non più per la libertà di espressione, ma per il politicamente corretto. Non più per la laicità, ma per la deroga al principio di uguaglianza e per la concessione di privilegi comunitaristi. L’incondizionato sostegno alla causa palestinese la porta a sostenere gli estremisti di Hamas, e pazienza se i laici palestinesi sono costretti al silenzio o all’esilio. Se la priorità è la laicità, non fai sconti a nessun politico e a nessuna religione. La storia insegna che se non scegli questa strada stai sottovalutando gli effetti collaterali. Come la sinistra iraniana ha tragicamente sperimentato sulla propria pelle”.

Venti paesi europei chiedono di rimpatriare gli afgani

internazionale.it 28 ottobre 2025

TURCHIA IRAN AFGHANISTAN migranti copy copy

In una lettera indirizzata al commissario europeo per gli affari interni e la migrazione Magnus Brunner, venti paesi dell’Unione hanno chiesto di facilitare i rimpatri dei richiedenti asilo afgani nel loro paese di origine.

I paesi che hanno firmato la lettera sostengono che manchi un accordo con l’Afghanistan sul rimpatrio dei cittadini, ma non si esprimono sul regime dei taliban, che hanno preso il potere nel 2021, dopo il ritiro delle truppe statunitensi.

L’iniziativa è guidata dalla ministra belga per l’asilo e la migrazione Anneleen Van Bossuyt e appoggiata da altri 19 paesi europei: Italia, Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Slovacchia e Svezia. Il gruppo chiede alla Commissione europea di considerare la questione dei rimpatri come una priorità.

La proposta prevede inoltre un ruolo centrale di Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere interne, nel coordinamento e nel sostegno ai rimpatri volontari, anche attraverso programmi di reintegrazione finanziati dall’Unione europea, e chiede di dare priorità nei rimpatri forzati “dei soggetti pericolosi o criminali”.

Le Nazioni Unite continuano a raccomandare di non rimpatriare le persone in Afghanistan, ricordando che ci sono violazioni dei diritti umani “gravi e sistematiche”.

Dalla loro presa del potere nel 2021 l’unica a riconoscere legittimità al governo dei taliban è stata la Russia. Nonostante questo il governo tedesco del conservatore Friedrich Merz è stato vicino a concludere un accordo con Kabul per il rimpatrio degli afgani, che costituiscono il secondo gruppo più numeroso di richiedenti asilo in Germania. A luglio, il governo di Merz ha organizzato un volo di rimpatrio di 81 afgani.

Questo articolo è tratto dalla newsletter Frontiere.

 

Senza guerriglia molti affari

Enrico Campofreda  dal suo Blog 27 ottobre 2025

Fibrilla il Parlamento turco, e ancor più il governo, per la ritirata definitiva del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) che nella scorsa primavera ha chiuso il capitolo della lotta armata in Anatolia assieme ai fratelli delle Unità di protezione del Popolo (Ypg). Migrano tutti nel Kurdistan iracheno, fra i monti di Qandil, da decenni casa e casamatta della leadership kurda. Il Pkk ha decretato da maggio scorso il suo addio alle armi, anzi le ha pure simbolicamente bruciate in piena estate. Le Ypg le trasportano altrove, senza rivendicare l’autonomia della regione denominata Rojava. Un autogoverno da difendere con l’autogestione del territorio e della comunità e, quando occorreva, a colpi di mitra. Ma questo è il passato. Quella lotta era diventata impari, contro l’esercito di Ankara, e sullo scacchiere internazionale. Poiché fino a quando l’Isis agiva sul territorio siriano giungevano rifornimenti e armamenti statunitensi, poi è prevalso il graduale e inesorabile abbandono. Col mutare del quadro politico in Siria, il fronte anti Asad ha preso il potere e guarda a una transizione-trasformazione del territorio rimasto a lungo avamposto delle alleanze iraniane con Hezbollah libanese e Hamas palestinese. L’attuale Israele, che ha inferto duri colpi a entrambi, incarna la variabile impazzita col suo piano d’inglobare terre dei vicini. Non solo i palestinesi aggrediti con una peggiore Nakba che sa d’annientamento totale, ma a scapito appunto delle debolezze libanesi e siriane. Sostituendo Washington, Tel Aviv lancia l’amo del sostegno a senso unico verso i kurdi dell’ex Rojava, lusingandoli e illudendoli come sta facendo coi drusi. Appoggi, sovvenzioni, protezioni per usarne talune avversioni a proprio vantaggio. I leader del Pkk non si fanno irretire, però restano isolati in luoghi mai risultati centrali per lo stesso progetto dibattuto oltre quindici anni or sono da Erdoğan e Öcalan. In seguito congelato e di fatto reso praticabile in pochi mesi da chi aveva sempre avversato la grande minoranza kurda, il capo nazionalista Deviet Bahçeli, ora ferreo amico del presidente.

I combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che si sarebbero ritirati dalla Turchia con le loro armi, sull’attenti durante una cerimonia nella zona di Qandil, nell’Iraq settentrionale, domenica 26 ottobre 2025. (AP Photo/Rashid Yahya)

Un accordo tattico per i due fronti. Utile all’Alleanza del popolo (Akp più Mhp) vincitrice delle elezioni nel 2018 e 2023, ma messa sotto pressione sui temi dell’economia, dell’autocrazia e della sicurezza dal Partito Repubblicano (Chp). Utile per il vicolo cieco in cui era finita la lotta armata, foriera solo di carcere e repressione a detta del medesimo leader storico Öcalan. Fra le sue richieste l’attuazione di quell’autonomia locale nelle aree del nord-est anatolico dove i rappresentanti kurdi sono eletti con ampie maggioranze ma subiscono commissariamenti, repressioni, arresti. E l’altamente simbolico utilizzo della lingua kurda nelle stesse assemblee istituzionali come il Meclis. Proprio dello stallo di tali procedure s’è lamentato il portavoce kurdo nella conferenza stampa di ieri a Qandil, per tacere delle istanze di scarcerazione di reclusi eccellenti: Öcalan da ventisei anni, Demirtaş da quasi un decennio. I politici turchi plaudono convinti che tutto s’appianerà e guardano soprattutto i vantaggi dell’insperata pacificazione che risolleva la linea del ‘sultano’ tenuta a galla solo dal perpetuo suo moto diplomatico, ma che necessita d’un potenziamento sul claudicante fronte economico a lungo strapazzato da una straziante inflazione. Una piaga per la patria e i cittadini. Perciò politologi e analisti, ricordando le pazzesche ricadute finanziarie sulle casse interne (finora sono stati spesi 1,8 trilioni di dollari per la “lotta al terrorismo”), prospettano un futuro stabilizzato da progetti che potrebbero creare in tre anni più di 500.000 posti di lavoro. Evidentemente non indirizzati a reclutamenti dei Ministeri della Difesa e dell’Interno, come accadeva nella Turchia iper militarizzata degli esecutivi repubblicani ed erdoğaniani, bensì per agricoltura, turismo, servizi. E investimenti privati proprio nella depressa regione del nord-est. Quanto questa via sarà inclusiva e partecipativa per la gente kurda è la scommessa in atto. Al tempo stesso la pacificazione è la carta che lo Stato gioca a favore di due obiettivi al centro ai programmi di grandezza di Erdoğan.

Quello di fare della Turchia un grande ‘hub energetico’ proiettato sui continenti europeo, asiatico e africano. Convogliando dai luoghi di estrazione: Paesi del Golfo e Libia fino al Caucaso e Mar Nero idrocarburi e gas, e fungendo da ponte di connessione e distribuzione. Chiusa la fase in cui i guerriglieri facevano saltare i condotti, il gasdotto transanatolico TANAP che trasporta 16 miliardi di metri cubi all’anno in Europa, TurkStream (31,5 miliardi di metri cubi nell’Europa sud-orientale), l’oleodotto BTC Baku–Tbilisi–Ceyhan fornitore di 1,2 milioni di barili al giorno, sono esempi già esistenti in predicato di ulteriori implementazioni. Cui s’unisce il sogno sempre vivo di Mavi Vatan, la Patria blu. Cavallo di battaglia, pardon, vascello d’assalto della marina turca e del nazionalismo anatolico già all’epoca dei golpe militari, è tornata in auge fra gli ammiragli (dal suo ripropositore Cem Gürdeniz) con funzione di difesa delle cosiddette Zone Economiche Esclusive, tratti di mare di competenza delle nazioni prospicienti che nel Mediterraneo orientale vede penalizzata la costa anatolica per il ruolo giocato dalle isole greche e da Cipro. Al di là delle diatribe, comunque di non poco conto se si pensa alla gestione dei giacimenti di gas nello spazio di mare che interessano e coinvolgono Egitto, Gaza (l’unica diseredata e senza diritti) Israele, Libano, Cipro, Turchia e Grecia, Mavi Vatan su cui punta Ankara riguarda i traffici marittimi fra Mediterraneo, Oceano Indiano e Pacifico. Un affarone su cui dagli inizi del Millennio sta puntando la Cina per salvaguardare la sua linea commerciale diretta e per conto terzi nella ‘Via della seta’. Un impegno che per impotenza di capitali mercantili non coinvolge la Grecia e neppure un’Italia che ha svilito qualsiasi attività commerciale e infrastrutturale marittima ad ampio respiro. Per ora Middle Corridor (rotta commerciale dal sud-est asiatico e Cina attraverso Kazakistan, Mar Caspio, Georgia, Turchia) funge già da affidabile ponte terrestre, ha trasportato 4,5 milioni di tonnellate di merci nel 2024 e alla fine di quest’anno supererà i 6 milioni. Dopo guerriglie interne striscianti e conflitti locali combattuti o mimati la Turchia senza terrorismo è pronta a cercare nuovi spazi di grandezza. Neo o post ottomani si vedrà.