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Autore: CisdaETS

Afghanistan e Pakistan hanno concordato un nuovo cessate il fuoco

Il Post, 19 ottobre 2025

Nella notte tra sabato e domenica Afghanistan e Pakistan hanno concordato un cessate il fuoco immediato, dopo che i rappresentanti dei due paesi si sono incontrati a Doha, la capitale del Qatar. Le decisione è stata presa dopo una settimana di scontri e bombardamenti lungo i confini contesi tra i due stati. Il ministero degli Esteri del Qatar ha fatto sapere che i colloqui hanno portato a stabilire nuove regole per provare ad avere una pace duratura, che saranno perfezionate nei prossimi giorni.

Le attività militari erano iniziate dopo che il Pakistan aveva accusato l’Afghanistan di dare protezione al gruppo terroristico dei talebani pakistani, noto come TTP. Il Pakistan aveva condotto alcuni bombardamenti aerei lungo la frontiera, mentre l’Afghanistan aveva risposto accusando il governo pakistano di proteggere combattenti legati all’ISIS. La tensione era ulteriormente aumentata dopo un attentato suicida vicino al confine, che aveva ucciso una decina di soldati pakistani. Mercoledì era entrato in vigore un primo cessate il fuoco di 48 ore, ma c’erano stati ugualmente attacchi da parte dell’esercito pakistano.

 

Ue. 20 Paesi chiedono il rimpatrio degli afgani irregolari

Notizie Geopolitiche, 19 ottobre 2025, di Guido Keller

BERLINO. Per l’Unhcr sussiste il pericolo di ritorsioni da parte dei talebani al potere. Nonostante questo una ventina di paesi europei, tra cui l’Italia, hanno sottoscritto una richiesta al commissario europeo per gli Affari interni e le migrazioni, l’austriaco Magnus Brunner, per chiedere il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini afghani senza permesso di soggiorno o asilo, “in particolare di quelli che rappresentano una minaccia per l’ordine pubblico”.
A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Ad essi si è aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’Ue, è un paese Schengen.
In particolare, come riporta l’AdnKronos, il ministro belga per l’Asilo e la migrazione Annaleen van Bossuyt ha lamentato i disordini che si verificano nei centri di accoglienza e ha parlato di una “necessità urgente di agire”.
A Colonia e in altre città tedesche si sono tenuti sit-in contro i rimpatri degli afgani: in luglio il governo tedesco aveva espulso e portato in Afghanistan 81 individui con un volo della Qatar Airways partito da Lipsia e, come aveva precisato il ministro dell’Interno tedesco Alexander Dobrindt, si trattava di “uomini afghani che sono tenuti legalmente ad abbandonare il Paese e che hanno precedenti penali. Tutte le loro richieste di asilo sono state legalmente respinte senza ulteriori ricorsi legali”.
Il commissario Ue per i Diritti umani, Volker Türk, aveva chiesto nell’occasione di fermare i rimpatri, e contro la decisione del governo tedesco si erano scagliati l’Onu e Amnesty International, la quale aveva riferito del rischio di “persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti o altri danni irreparabili” una volta giunti in Afghanistan.
Che la situazione nel paese asiatico sia difficile non c’è dubbio, basti pensare agli attentati di pochi giorni fa a Kabul costati la vita a decine di persone, tuttavia il fatto che gli afgani siano, come ha riportato van Bossuyt, “al secondo posto per probabilità di commettere incidenti gravi nei nostri centri di accoglienza” e che comunque in diversi siano incorsi in reati non gioca a favore dell’intera comunità.
Il governo tedesco aveva dato ad ogni afgano in fase di rimpatrio mille euro al fine di aggirare la norma che vieta l’espulsione degli indigenti.
Ad oggi l’unico paese a riconoscere il governo dei talebani è la Russia, dal 3 luglio scorso.

Rafforzare le relazioni con i talebani: come l’India ha superato il Pakistan

Zan Times, 15 ottobre 2025, di Omid Sharafat

Mentre le tensioni tra i talebani e Islamabad si intensificano, stiamo assistendo a un’accoglienza senza precedenti da parte di Nuova Delhi al ministro degli esteri dei talebani, insieme all’annuncio dell’India di voler potenziare la propria presenza diplomatica a Kabul al livello di un’ambasciata.

Nell’estate del 2021, dopo che i Talebani presero il controllo di Kabul, la percezione generale era che Islamabad fosse la netta vincitrice e Nuova Delhi la perdente nella lunga rivalità tra India e Pakistan per l’influenza in Afghanistan. Dagli anni ’90 al 2021, il Pakistan non solo aveva contribuito a fondare i Talebani, ma ne era rimasto il principale sostenitore, mentre l’India aveva sostenuto l’Alleanza del Nord durante gli anni ’90 e aveva mantenuto ottimi rapporti con il governo centrale di Kabul durante il periodo repubblicano.

Tuttavia, negli ultimi quattro anni, abbiamo assistito a una graduale trasformazione nelle relazioni di entrambi i paesi con i talebani, mentre il Pakistan è passato dalla retorica e dagli scontri minori ai bombardamenti veri e propri di Kabul e Kandahar.

Il processo di miglioramento delle relazioni tra India e talebani

Dopo il 15 agosto 2021 e la presa del potere da parte dei talebani, il Pakistan – insieme a Russia, Iran e Cina – è stato tra i pochi Paesi a proseguire le proprie attività diplomatiche in Afghanistan. L’India, in linea con i Paesi occidentali, ha chiuso la sua ambasciata a Kabul.

La visita del generale Faiz Hameed, allora capo dell’agenzia di intelligence pakistana (ISI), a Kabul all’inizio di settembre 2021 – e una foto ampiamente diffusa che lo ritrae sorridente con una piccola tazza di tè in mano in città – è stata interpretata come un simbolo del trionfo e del dominio del Pakistan sull’Afghanistan. Tuttavia, le relazioni tra Pakistan e talebani non sono progredite come previsto, mentre l’India ha gradualmente iniziato a interagire con i talebani.

Nel marzo 2023, il Ministro degli Esteri talebano Amir Khan Muttaqi annunciò la riapertura delle ambasciate di diversi paesi della regione a Kabul, tra cui quella dell’India. Tuttavia, le loro attività diplomatiche si limitarono ad affari tecnici e umanitari e contribuirono ben poco a ridurre l’isolamento internazionale dei talebani.

Il 27 aprile 2025, il rappresentante speciale dell’India per l’Afghanistan, Anand Prakash, ha visitato Kabul. Durante l’incontro con Amir Khan Muttaqi, il diplomatico indiano ha espresso preoccupazione per la potenziale presenza di gruppi terroristici sul suolo afghano e ha sottolineato la necessità di un governo inclusivo in Afghanistan.

Il 16 maggio 2025, il Ministro degli Esteri indiano S. Jaishankar ha avuto la sua prima conversazione telefonica con Amir Khan Muttaqi, durante la quale ha ringraziato i talebani per aver condannato l’attacco terroristico di Pahalgam, nel Jammu e Kashmir. L’attacco di Pahalgam, che ha causato la morte di 26 turisti ed è stato rivendicato dal gruppo “Resistenza del Kashmir”, ha innescato una serie di attacchi missilistici e attentati di rappresaglia tra India e Pakistan.

Il significato di quella telefonata era chiaro: l’India era soddisfatta della posizione dei talebani durante la crisi tra India e Pakistan, e i talebani non si schieravano dalla parte di Islamabad.

Nel frattempo, l’ambasciata dell’ex governo afghano a Nuova Delhi era rimasta chiusa dall’ottobre 2023 a causa della mancanza di sostegno da parte del governo indiano. Successivamente, i diplomatici talebani hanno preso il controllo dei consolati afghani di Mumbai e Hyderabad.

Dopo il suo recente incontro con Amir Khan Muttaqi, Jaishankar ha annunciato che le attività diplomatiche dell’India in Afghanistan sarebbero state elevate al livello di un’ambasciata. Ospitare Amir Khan Muttaqi e riaprire l’ambasciata a Kabul equivale di fatto al riconoscimento del governo talebano, sebbene l’India non abbia ancora rilasciato dichiarazioni in merito al riconoscimento formale.

Tuttavia, il riconoscimento da parte del Ministro degli Esteri talebano che il Kashmir fa parte dell’India ha irritato il Pakistan. I crescenti legami dei talebani con l’India, insieme ai recenti scontri militari e ai bombardamenti di Kabul e Kandahar, indicano che, contrariamente alle aspettative, i talebani si stanno allineando con l’India, mentre il Pakistan mostra apertamente la sua frustrazione per l’incapacità di gestire i talebani.

Contesto delle relazioni tra India e Talebani

Negli anni ’90, l’India chiuse la sua ambasciata in Afghanistan dopo che i Talebani presero il controllo di Kabul. Dal punto di vista di Nuova Delhi, i Talebani erano visti come un gruppo per procura creato e sostenuto dai servizi segreti pakistani, che rappresentava una minaccia diretta agli interessi dell’India. In quel periodo, Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti furono gli unici paesi a riconoscere formalmente il governo talebano.

Per contrastare la crescente influenza del Pakistan nella regione e proteggere i propri interessi strategici, l’India si è allineata con l’Iran e la Russia sostenendo l’Alleanza del Nord. Dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001 e la caduta del regime talebano, l’India ha riaperto la sua ambasciata a Kabul e ha instaurato strette relazioni con il nuovo governo.

Durante i due decenni di conflitto tra i Talebani e la Repubblica Islamica dell’Afghanistan e i suoi alleati occidentali guidati dalla NATO, l’India ha considerato i Talebani come un alleato del Pakistan. Nuova Delhi ha costantemente condannato i Talebani e i loro alleati per una serie di attacchi terroristici contro le missioni diplomatiche indiane in Afghanistan.

Nel frattempo, durante i 20 anni di presenza militare degli Stati Uniti e della NATO in Afghanistan, la leadership talebana ha continuato a ricevere un forte sostegno dal Pakistan. Il movimento operava attraverso strutture come la Shura di Quetta e la Shura di Miran Shah e godeva del sostegno di intelligence, finanziario e logistico di Islamabad. Il Pakistan, a sua volta, ha dovuto affrontare ripetute critiche da parte dei suoi alleati occidentali, compresi gli Stati Uniti, per il sostegno ai talebani. In alcuni casi, tali critiche hanno portato alla sospensione o alla riduzione degli aiuti esteri.

I fattori alla base del cambiamento di approccio dell’India

In generale, due fattori principali spiegano il cambiamento di atteggiamento dell’India nei confronti dei talebani: il mutamento della geopolitica regionale e la crescente distanza dei talebani dal Pakistan.

Il panorama geopolitico regionale si è trasformato dopo il ritiro della NATO e degli Stati Uniti dall’Afghanistan. In questa nuova era, potenze regionali chiave come Cina, Russia e Iran – tutte con relazioni conflittuali con Washington – sono diventate stretti partner dei Talebani. La Russia ha formalmente riconosciuto il governo talebano, mentre Cina, Iran e diversi paesi dell’Asia centrale e arabi hanno anch’essi sviluppato stretti legami con il gruppo.

Dato questo contesto regionale riconfigurato – in cui non esiste più un forte movimento di resistenza interna contro i Talebani e gli Stati confinanti hanno preferito l’impegno allo scontro – l’India ha adottato un approccio pragmatico nei confronti dei Talebani. Nuova Delhi ora cerca di interagire con i Talebani nel tentativo di contrastare l’influenza del Pakistan in Afghanistan e proteggere i propri interessi strategici.

Questo cambiamento coincide anche con il graduale allontanamento dell’India dagli Stati Uniti e con un miglioramento delle sue relazioni con la Cina, mentre i legami del Pakistan con Washington si sono nuovamente rafforzati. In effetti, nella dicotomia Cina-USA, Islamabad è ora percepita come più vicina a Washington che a Pechino.

Un altro fattore cruciale è l’escalation della tensione tra Pakistan e Talebani. Dal ritorno dei Talebani al potere nel 2021, la violenza e gli attacchi del Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP) sono aumentati drasticamente in Pakistan. Le ripetute richieste del Pakistan ai Talebani afghani di frenare il TTP non hanno prodotto risultati tangibili.

Questa tensione persistente è culminata nell’attacco aereo pakistano su Kabul il 9 ottobre, presumibilmente mirato a uccidere il leader del TTP, Mawlawii Noor Wali Mehsud. L’attacco è fallito e Mehsud è sopravvissuto, innescando scontri di confine diffusi tra le forze talebane e le truppe pakistane.

Il Pakistan, da parte sua, accusa il TTP e altri gruppi militanti che operano contro di esso di essere sostenuti dall’India e di utilizzare presumibilmente il suolo afghano per compiere attacchi all’interno del Pakistan.

La sfida dei valori contrastanti

Il crescente coinvolgimento dell’India con il governo talebano ha suscitato critiche sia in Afghanistan che all’interno dell’India stessa. Molti osservatori vedono una contraddizione intrinseca tra una nazione democratica che si avvicina sempre di più a un movimento così estremista.

Dal punto di vista degli ambienti politici e intellettuali afghani, i Talebani sono considerati un gruppo terroristico ed estremista che non rappresenta il popolo afghano né costituisce un governo legittimo. Per molti in Afghanistan, l’India, da tempo considerata un amico fidato dell’Afghanistan, non dovrebbe legittimare i Talebani, poiché ciò potrebbe mettere a repentaglio le future relazioni tra le due nazioni.

D’altro canto, molti critici in India sostengono che stendere il tappeto rosso per un leader terrorista che non mostra alcun rispetto per i diritti delle donne, rifiuta le elezioni e nega la partecipazione pubblica è in netto contrasto con i valori pluralistici e democratici dell’India.

Un chiaro esempio di questo conflitto di valori si è verificato quando nessuna donna era presente alla conferenza stampa di Amir Khan Muttaqi a Nuova Delhi, suscitando una diffusa indignazione da parte dei politici indiani e degli attivisti della società civile. La reazione ha costretto il ministro degli Esteri talebano a tenere una seconda conferenza stampa alla presenza di donne, una concessione simbolica che ha sottolineato il profondo divario ideologico tra le due parti.

In termini di ideologia e valori, i Talebani hanno molto più in comune con il governo del Pakistan che con quello dell’India. Pertanto, nonostante l’attuale confronto militare senza precedenti, ci si aspetta che il Pakistan continui a impegnarsi per influenzare e rimodellare la leadership talebana, in particolare moderando o sostituendo gli elementi più ribelli all’interno del movimento.

Omid Sharafat è lo pseudonimo di un ex professore universitario di Kabul e ricercatore di relazioni internazionali.

[Trad. automatica]

Nebbia di guerra Gli scontri armati tra Pakistan e Afghanistan, e il fragile equilibrio tra le potenze asiatiche

Linkiesta, 16 ottobre 2025, di Gianni Vernetti

I combattimenti tra i talebani l’esercito di Islamabad potrebbero provocare uno stravolgimento dell’ordine politico in una regione su cui convergono gli interessi di India e Cina (e, in misura minore, Iran)

Sta per esplodere un nuovo conflitto in Asia. Si tratta dei pesanti scontri iniziati pochi giorni fa fra l’esercito del Pakistan e le formazioni armate dei talebani al governo dell’Afghanistan, un conflitto a tutto campo che fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile alla luce dell’alleanza di lunga data fra il Pakistan e i talebani, peraltro rafforzatasi dopo il ritiro occidentale dall’Afghanistan dell’agosto del 2021. Proprio ieri è stato annunciato un cessate il fuoco di quarantotto ore per fermare – sia pure temporaneamente – uno dei confronti armati più gravi degli ultimi anni.

Gli scontri a fuoco alla frontiera fra i due Paesi sono iniziati l’11 e il 12 ottobre. Ci sono stati violenti combattimenti fra i talebani e le forze di sicurezza pakistane, che hanno causato decine di morti e la chiusura di diversi valichi di frontiera, fra cui lo strategico Passo Khyber – un passo di montagna che collega il Pakistan con l’Afghanistan.

Gli scontri sono dilagati dopo che il l’esercito di Islamabad aveva effettuato attacchi senza precedenti con droni nel centro di Kabul e raid aerei nell’est del Paese, per rispondere agli attacchi terroristici del gruppo Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp) che il governo del Pakistan sostiene essere armato e protetto da Kabul.

Gli scontri, secondo il portavoce del governo dei talebani Zabihullah Mujahid, hanno provocato l’uccisione di cinquantotto soldati pakistani e di decine di miliziani afghani.

Il rischio di un conflitto armato fra Afghanistan e Pakistan potrebbe mutare in modo radicale gli equilibri dell’intera regione, a cominciare dai progetti della Repubblica popolare cinese nel subcontinente.

Non è un mistero che dopo il precipitoso ritiro delle forze occidentali da Kabul, la Cina abbia rapidamente colmato il vuoto posizionandosi come il principale interlocutore del nascente governo talebano, ospitando diverse volte la nuova leadership talebana a Pechino e ottenendo anche diverse concessioni minerarie. L’esercito Popolare vorrebbe anche ottenere in concessione da Kabul una parte della base militare di Bagram per presunte operazioni umanitarie, fatto che ha spinto pochi giorni fa l’amministrazione degli Stati Uniti a rivendicare nuovamente la base e l’aeroporto militare che per vent’anni è stato il cuore della presenza americana nel Paese.

In più, la Cina sta cercando in ogni modo di includere Kabul nel Corridoio Economico Cina-Pakistan (Cpec), quella fitta rete di infrastrutture stradali e ferroviarie che garantirà a Pechino lo sbocco sull’Oceano Indiano grazie al nuovo porto in costruzione a Gwadar.

Ma l’obiettivo di Pechino è più ampio e ambizioso: realizzare un’ampia area di influenza sino-islamista, includendo l’Afghanistan nella rete di alleanza cinesi del grande Medio Oriente, oggi ben radicata in Pakistan e Iran.

L’Iran è riuscito a sopravvivere alle sanzioni occidentali grazie alla vendita, praticamente esclusiva, del proprio greggio alla Cina. Il Pakistan è da anni il più importante alleato in tutta l’Asia della Repubblica popolare cinese: sia in termini economici e commerciali sia sul fronte militare e della sicurezza. Non è un segreto che nel recente confronto militare del marzo 2025, che ha visto contrapporsi per cinque giorni gli eserciti di India e Pakistan, in seguito al terribile attacco terroristico di Palgaham nel Kashmir indiano, la Cina abbia fornito assistenza militare e di intelligence alle forze armate di Islamabad.

Ma ora c’è aria di cambiamento ed è nuovamente l’India al centro del grande gioco che si sta svolgendo fra le montagne afghane e il subcontinente.

Il ministro degli Esteri talebano, Amir Khan Muttaqi, è in questi giorni a New Delhi per una visita di una settimana per tentare di rompere l’isolamento internazionale del Paese e realizzare intese economiche e di sviluppo con il governo indiano.

Le recenti e forti tensioni con il Pakistan potrebbero dunque produrre un’inedito avvicinamento di Kabul a New Delhi e il ministro degli Affari esteri indiano Jaishankar ha già annunciato che la missione a Kabul diventerà a brevissimo un’ambasciata a tutti gli effetti.

“Abbastanza bene”: le donne afghane chiedono giustizia al tribunale popolare di Madrid

Zan Times, 11 ottobre 2025 di Zahra Nader

Per Zarmina Paryani, imprigionata due volte dai talebani, il Tribunale popolare per le donne afghane era più di un semplice procedimento legale.

È stato un atto di libertà, racconta allo Zan Times. Il tribunale si è riunito dall’8 al 10 ottobre a Madrid. I giudici hanno ritenuto che le prove e le testimonianze presentate durante le udienze dimostrassero “una campagna coordinata di persecuzione di genere a livello statale, condotta con l’intento di cancellare le donne dalla vita pubblica”. Si sono impegnati a emettere un verdetto completo entro due mesi.

Per sopravvissute come Zarmina Paryani, quel riconoscimento è stato un riconoscimento a lungo ricercato dalle donne e da altri gruppi oppressi in Afghanistan, a lungo negato dai talebani. “Per me è stato sufficiente”, dice in un messaggio vocale su WhatsApp. “I talebani temono che parliamo dei loro crimini. Ma quel giorno in tribunale, ho parlato davanti a giudici internazionali. Per me è stato sufficiente”.

Durante le udienze tenutesi nella silenziosa sala dell’Ilustre Colegio de la Abogacía de Madrid, decine di persone hanno ascoltato, tra cui giudici, avvocati, attivisti ed esiliati afghani. Alcuni si sono asciugati le lacrime mentre Zarmina Paryani, ora 26enne, ricordava la notte in cui le forze talebane hanno fatto irruzione nell’appartamento che condivideva con le sorelle, uno spazio dove le giovani donne si riunivano per pianificare le loro proteste per i diritti delle donne. La loro ultima protesta ha avuto luogo il 16 gennaio 2022, tre giorni prima del loro arresto.

“Quando hanno iniziato a bussare, sapevamo che erano i talebani”, ha detto Zarmina al tribunale. “Poi hanno iniziato a scalciare e urlare. Ogni calcio alla porta era come un calcio nel nostro corpo, nella nostra anima”.

Le sorelle spensero le luci e si nascosero in una camera da letto, ma i talebani iniziarono a sfondare la porta dell’appartamento. Quando Zarmina vide un soldato armato nel loro soggiorno che la guardava, pensò che la morte fosse l’unica via di fuga: “L’unica via che riuscii a trovare era saltare dalla finestra del nostro appartamento al terzo piano”.

Si è ferita ai fianchi, ma è sopravvissuta alla caduta. “Un soldato talebano mi ha puntato la pistola contro e ha urlato: ‘Non muoverti o sparo!’ Quella notte, nemmeno la morte mi ha dato asilo”, ha detto durante la sua testimonianza.

Prima del loro arresto, sua sorella Tamana Paryani, attivista per i diritti delle donne, aveva registrato un breve video di richiesta di aiuto e lo aveva inviato a un amico che lo aveva pubblicato online dopo essere stati portati via dai talebani. Il video è diventato virale e Zarmina crede che abbia salvato loro la vita: “Quel video è diventato l’arma che ha impedito ai talebani di ucciderci”.

Zarmina Paryani è stata una delle oltre due dozzine di donne afghane che hanno testimoniato davanti al tribunale, alcune di persona, altre online o tramite dichiarazioni registrate. Hanno parlato da tutto l’Afghanistan e dall’esilio, da Kabul, Herat, Mazar-i-Sharif, Kandahar e dai campi profughi in Pakistan e Iran.

Alcuni, tra cui Zarmina Paryani e l’attivista Hoda Khamosh, hanno parlato con i loro veri nomi, a volto scoperto, in modo che tutti potessero vedere, mentre la cerimonia veniva trasmessa in diretta. Altri indossavano maschere nere, occhiali da sole e sciarpe per nascondere la propria identità, nel timore di ritorsioni da parte dei talebani. Alcuni hanno persino chiesto che le telecamere venissero spente durante la loro testimonianza.

Hanno raccontato storie di torture, prigionia, matrimoni forzati e umiliazioni; di divieti di lavoro e di istruzione; e di vita sotto le regole e i decreti dei talebani che negano i loro diritti umani fondamentali.

Una delle testimoni era una giornalista che aveva lavorato nei media afghani per vent’anni. Ha descritto come, dopo il ritorno dei talebani, le donne siano state prima licenziate dalle redazioni con il pretesto di “tagli al bilancio”, per poi essere gradualmente eliminate dal panorama mediatico.

Quando lei e altri giornalisti hanno cercato di tenere una conferenza stampa per evidenziare la loro situazione, le forze talebane hanno fatto irruzione nella sede prima che iniziasse. “Ci hanno maledetto, dicendo che li facevamo apparire come demoni agli occhi del mondo. Ci hanno rinchiusi in una stanza e ci hanno minacciato di prigione se avessimo parlato di nuovo”, ha raccontato al tribunale.

Quella notte non è tornata a casa. Le forze talebane avevano fatto irruzione nella sua abitazione e picchiato suo marito e suo figlio mentre la cercavano. “Oggi parlo con una mascherina, eppure ho ancora paura”, ha detto. “Alle donne non è permesso parlare. Ci dicono: ‘Non alzate la voce, è proibito; copritevi il viso’. Le ragazze vengono rapite con la forza e fatte sparire, mentre la gente rimane in silenzio per paura. Per favore, portate le nostre voci a chiunque abbia il potere di ascoltarci”.

Un’altra giovane donna, che ha testimoniato dall’Afghanistan tramite un file audio registrato, ha parlato della totale cancellazione delle donne afghane. “Non abbiamo diritti politici, né diritto di voto né diritto di essere rappresentate in parlamento. Non possiamo nemmeno essere presenti negli uffici governativi o protestare pacificamente”, ha detto. “Non ci hanno solo portato via l’istruzione, ci hanno portato via la vita stessa. Ma vi sono grata che mi stiate ascoltando. Anche se non cambia nulla, il fatto che vi prendiate il tempo di ascoltarci significa molto per me e per le altre ragazze”.

Al termine delle udienze, il 10 ottobre l’avvocato afghano Ghizaal Haress ha letto le osservazioni conclusive della dichiarazione preliminare, assicurando alle donne afghane di essere state “ascoltate”. La commissione ha annunciato che avrebbe valutato la condotta dei talebani come crimini contro l’umanità o persecuzione di genere.

Il tribunale è stato convocato su richiesta di quattro organizzazioni della società civile afghana (Rawadari, l’Organizzazione per i diritti umani e la democrazia in Afghanistan (AHRDO), l’Organizzazione per la ricerca politica e gli studi sullo sviluppo (DROPS) e Human Rights Defenders Plus) con l’obiettivo di “rendere testimonianza, cercare di ottenere responsabilità e sfidare la tirannia e la sua normalizzazione”.

I talebani furono formalmente invitati e le notifiche inviate alla Direzione per i diritti umani del Ministero degli Affari Esteri, con i nomi dei singoli leader accusati, furono accompagnate dall’offerta di presentare una difesa, ma non risposero mai.

Per Zarmina, parlare apertamente non è facile. “I ricordi del carcere sono come una ferita che non si è mai rimarginata, ogni volta che provi a respingerla, si riapre”, racconta allo Zan Times. “Ma questo dolore deve essere raccontato, perché tante donne come noi hanno subito gli stessi orrori: carcere, torture, matrimoni forzati, umiliazioni”.

“Nella nostra società, ci si aspetta che tu rimanga in silenzio”, dice. “Ma ora che siamo fuori dall’Afghanistan, tutto ciò che vogliamo è raccontare le nostre storie dolorose, così che un giorno nessuna donna dovrà vivere quello che abbiamo vissuto noi”.

Zahra Nader è caporedattrice di Zan Times.]

[Trad. automatica]

 

Il destino disperato delle venditrici ambulanti di Mazar

Lida Bariz, Zan Times, 6 ottobre 2025

I dolci venti autunnali sollevano la polvere lungo le strade di Mazar-e-Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, facendola danzare nell’aria. Sotto il sole cocente, su una strada che porta al Santuario, donne con i burqa scoloriti stendono su teli di plastica abiti di seconda mano che profumano di povertà e vetustà. Mentre la maggior parte dei passanti passa indifferente alle merci in vendita, alcuni toccano il tessuto degli abiti e poi offrono qualche afghani per articoli specifici.

Tra la fila di venditrici c’è un’anziana donna di nome Marjan. Ha la schiena curva, le mani screpolate e le rughe sul viso ricordano le pagine consumate di un libro. La polvere si è depositata tra le pieghe del suo burqa consumato mentre sistema una modesta quantità di camicie e pantaloni, tenendo d’occhio con ansia i clienti.

A mezzogiorno, Marjan si tira un telone ruvido sulla testa per ripararsi dal sole cocente. Il marito di Marjan è morto, lasciandola a mantenere una famiglia di cinque persone. Le sue spalle curve simboleggiano tutto il peso di quel fardello.

“Sono Marjan, una vedova sulla cinquantina. Faccio questo lavoro da otto anni”, dice a bassa voce. Oltre alla lotta per portare il pane alla sua famiglia, deve anche prendersi cura di un figlio disabile.

Nonostante lavori dall’alba al tramonto ogni giorno, non riesce comunque a coprire tutte le spese domestiche. Questa difficoltà ha spinto gli altri tre figli a mendicare per le strade di Mazar-e-Sharif. Dopo lunghe e faticose giornate, Marjan torna spesso a casa a mani vuote, il che significa che tutta la famiglia è affamata mentre si rannicchia a letto.
“Ci sono giorni in cui non abbiamo niente a casa. Se abbiamo la farina, non c’è sale; se c’è sale, non c’è sapone”, spiega. “Ci hanno persino staccato la corrente perché non riuscivo a pagare la bolletta. Passiamo le notti al buio”.

Marjan porge la mano, mostrando ossa che non si sono mai risistemate correttamente dopo essersi rotte: “Non posso lavare i vestiti per la gente. Anche la mia vista sta peggiorando. Il medico dice che devo operarmi, ma dove troverò i soldi?”

Ogni giorno espone la sua piccola bancarella in strada, sperando di non incontrare i funzionari comunali e i parcheggiatori che l’hanno ripetutamente costretta a fare i bagagli. Secondo Marjan, questi funzionari estorcono denaro alle venditrici, chiedendo loro di continuare a vendere.
“Dicono: ‘Date 20 afghani’. Non ho ancora guadagnato nemmeno 10 afghani: dove posso procurarmeli? Se rifiuto, buttano il mio telo in strada”, racconta Marjan.

Guadagnare almeno un pezzo di fame

Tra i venditori ambulanti che lavorano con Marjan c’è Fariha, che vende anche abiti di seconda mano. È arrivata tre mesi fa. Come le altre donne, spera di guadagnare abbastanza vendendo una serie ordinata di abiti colorati per comprare il pane per i suoi figli.

Deve vendere la sua merce per strada perché non può permettersi gli affitti dei negozi in città. “Compro vestiti dalla gente, ogni capo costa dai 30 ai 120 afghani, e poi li rivendo a 200 o 250”, racconta Fariha allo Zan Times.

Sebbene Fariha sorrida mentre parla, non riesce a nascondere la sua preoccupazione. Come Marjan, viene estorta dai funzionari comunali. “Ogni giorno dobbiamo essere pronti a chiudere la nostra bancarella. A volte i talebani vengono e dicono: ‘Pagate 300 afghani’. Se non paghiamo, ci cacciano via”, racconta.

A pochi passi di distanza, una bambina è in piedi accanto a una piccola distesa di vestiti per bambini. Il vento le svolazza la sciarpa floreale e lei la morde tra i denti mentre i suoi occhi cercano un cliente che compri uno dei suoi abiti di seconda mano. Nasreen, 12 anni, è cresciuta a Mazar-e-Sharif. La povertà e la disabilità del padre l’hanno spinta a vivere per le strade della città quando aveva otto anni per contribuire al sostentamento della famiglia.

“Ho fatto la prima elementare. Poi mio padre mi ha detto che dovevo aiutarlo. Ora non vado più a scuola. So contare i soldi, ma non so leggere né scrivere”, racconta, con la voce infantile invecchiata dal duro lavoro e dal dolore.

Nasreen guarda lontano e parla di sogni persi tra il rumore della strada e il peso della povertà. Come milioni di altri bambini in Afghanistan, desidera ardentemente andare a scuola e studiare in modo da poter, per usare le sue parole, “crescere e diventare una donna istruita”. Invece, se ne sta sul ciglio della strada pensando solo a guadagnare abbastanza per un pezzo di pane, lontana dai giochi d’infanzia e dalle aule dei suoi sogni.

Le spese quotidiane della famiglia di 10 persone di Nasreen dipendono dalla sua piccola bancarella. “Guadagniamo fino a 500 afghani al giorno. L’affitto della nostra casa costa 2.000 afghani”, spiega. “Se il mercato è cattivo per un giorno, soffriamo tutti la fame”.

I clacson delle auto risuonano mentre le donne contrattano con i clienti che esaminano attentamente i vestiti e cercano di fare affari. Mentre una cliente mette qualche moneta nelle mani di una bambina, una donna lì vicino grida: “Dai, dai, paga! Si sta facendo tardi”. È lei ad accumulare. Le donne non osano protestare mentre consegnano i loro guadagni. protestano.

Una delle clienti quel giorno si chiama Marwa e sta cercando vestiti per bambini.
“I vestiti nuovi nei negozi costano 1.500 afghani. Non possiamo permettercelo. Qui possiamo comprare qualcosa per 100 afghani. Magari è di seconda mano, ma con la situazione economica in cui viviamo non c’è altra scelta”, dice.

Marwa aggiunge che le piacerebbe comprare vestiti nuovi, ma deve anche pensare al cibo e ad altre spese, ed è per questo che è venuta qui. Prende un vestito verde dal telo di plastica, lo esamina e dice: “Non sono l’unica; molte famiglie sono così. Compriamo di seconda mano perché dobbiamo. A volte si può trovare qualcosa di carino. Ma alcune persone sono maleducate: vengono, buttano tutto in giro e non comprano niente. È una molestia”.

La strada è l’unico posto di lavoro

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, quest’anno in Afghanistan oltre 22 milioni di persone avranno bisogno di assistenza umanitaria. Tra le più vulnerabili ci sono le donne capofamiglia, soprattutto nelle grandi città. Dalla presa del potere da parte dei talebani, la partecipazione economica delle donne è scesa al livello più basso e la disoccupazione è aumentata vertiginosamente, spingendo molte di loro in una situazione di povertà estrema.

Con la scomparsa dei posti di lavoro, molte donne e ragazze si sono rivolte al lavoro informale, poiché rappresentano i pochi mezzi di sostentamento che non sono ancora stati loro esplicitamente vietati.

Il caldo supera i 38 gradi mentre il sole raggiunge lo zenit. Il sudore le cola sul viso mentre sistema la sua piccola bancarella. Per pasto ha solo un pezzo di pane secco:
“Ne ho mangiato metà al mattino e l’altra metà con acqua calda a pranzo”.

La sua figura curva scompare nella strada affollata, un telone strappato a tracolla, una scia di polvere alle spalle. Il rumore del traffico continua mentre altre donne si preparano a sistemare le loro bancarelle il giorno dopo. Queste strade sono il loro unico posto di lavoro, anche se la città stessa a malapena si accorge della loro presenza.

I nomi degli intervistati e del giornalista sono stati cambiati per proteggere la loro identità.

Un meccanismo investigativo indipendente per l’Afghanistan

Matteo Piccioli, Jurist News, 8 ottobre 2025

L’ONU istituisce un meccanismo investigativo sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan

Martedì, un esperto delle Nazioni Unite ha accolto con favore la decisione presa all’unanimità durante la 48a sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di istituire un meccanismo investigativo indipendente per l’Afghanistan. La decisione estende e rafforza anche il mandato del relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan.

Il relatore speciale, Richard Bennet, ha dichiarato: “L’istituzione di questo nuovo meccanismo segna una pietra miliare significativa nella ricerca della verità, della giustizia e della responsabilità per il popolo afghano”. Il meccanismo dovrebbe agevolare la raccolta di prove di gravi crimini e violazioni dei diritti, un passo decisivo verso il perseguimento penale dei crimini internazionali.

L’Unione Europea ha presentato la risoluzione, co-sponsorizzata da 50 Paesi. L’Ambasciatrice Lotte Knudsen, capo della delegazione dell’UE presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha affermato che la risoluzione risponde alle preoccupazioni recentemente espresse dall’Alto Commissario per i diritti umani in merito alle violazioni dei diritti umani in Afghanistan, tra cui la situazione allarmante delle donne, delle minoranze, dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti. Questa risoluzione fa anche seguito all’appello di 107 organizzazioni per i diritti umani a istituire un meccanismo internazionale per chiamare l’Afghanistan a rispondere delle proprie azioni.

 

Bennet ha affermato:

La creazione del Meccanismo Investigativo Indipendente completerà l’importante lavoro della Corte Penale Internazionale e dovrebbe essere accompagnata da un impegno fermo e continuo nel perseguire l’accertamento delle responsabilità attraverso tutte le vie disponibili. L’accertamento delle responsabilità è un elemento essenziale per costruire un futuro per l’Afghanistan radicato nella giustizia, nell’uguaglianza e nello stato di diritto.

Il procuratore della CPI ha avviato le indagini sulla situazione in Afghanistan nel 2020. Tali indagini sono riprese nel 2022 e, due anni dopo, diversi Stati hanno deferito l’Afghanistan alla CPI per indagini sui diritti delle donne. A febbraio, i Talebani hanno respinto la giurisdizione della CPI, dichiarando nulla l’adesione allo Statuto di Roma. Ciononostante, a luglio, l’Ufficio del Procuratore della CPI ha emesso due mandati di arresto contro Haibatullah Akhundzada, il leader supremo dei Talebani, e Abdul Hakim Haqqani, il giudice capo dei Talebani.

I due mandati di arresto sono stati emessi alla luce di fondati motivi per ritenere che entrambi i leader siano responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione per motivi di genere ai sensi dell’articolo 7(1)(h) dello Statuto di Roma . Bennet ha spiegato che gli Stati devono sostenere la codificazione dell’apartheid di genere come crimine internazionale per garantire giustizia e responsabilità.

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Volker Türk, ha recentemente pubblicato il rapporto annuale sulla situazione in Afghanistan (A/HRC/60/23). Il rapporto ha evidenziato la crisi umanitaria in corso nel Paese, nonché l’indiscussa persecuzione di donne e ragazze. Gli esperti hanno concluso che vi è una persecuzione di genere in corso contro donne e ragazze, riscontrando che sono escluse dall’istruzione e dalle opportunità di lavoro, poiché le autorità introducono decreti per escludere le donne dalla vita pubblica e dal dibattito pubblico. Il diritto delle donne a non essere discriminate in base al genere è sancito dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne ( CEDAW ), ratificata dall’Afghanistan nel 2003.

Femminismo, non razzismo!

شفق همراه, Razm Ara Hawash, 3 ottobre 2025

In un paese come l’Afghanistan dove le strutture sociali, politiche e intellettuali sono fortemente maschili ed etniche, il femminismo non è solo un approccio alla parità di genere ma un modo per criticare il potere, il dominio e la discriminazione in tutte le sue forme.

Ma con il tempo assistiamo all’emergere di una sorta di “femminismo dimostrativo” che invece di criticare le strutture di oppressione, è diventato il braccio pubblicitario delle forze politiche, etniche e religiose. Questa tendenza deviata, che può essere chiamata “femminismo etnico” o “femminismo nazionale”, contraddice di fatto lo spirito liberatorio del femminismo.

Cos’è il femminismo?

Il femminismo è fondamentalmente una lotta per porre fine all’oppressione di genere, alla disuguaglianza strutturale e all’esclusione sistematica delle donne dal processo decisionale e dalla vita sociale. Il movimento femminista non si limita a lottare per il diritto delle donne all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione politica, ma cerca anche di combattere le radici della discriminazione di genere, nella cultura, nella religione, nella politica e nel potere.

Il vero femminismo critica il potere oppressivo comunque si manifesti, sia in nome della religione, dell’etnia, della politica o della tradizione; anche se quel potere deriva dalla “propria comunità”, anche se appare sotto forma di “capo popolare” o di “eroe nazionale”.

Cos’è il femminismo etnico?

Il femminismo nazionalista è quando le donne sostengono gli uomini invece di opporsi alle strutture di potere maschile, diventano strumento dei leader etnici o religiosi; non solo non criticano la struttura maschile all’interno della propria razza o religione, ma la giustificano, la nascondono e persino l’abbelliscono.

Nel femminismo etnico, la questione dell’oppressione contro le donne non viene vista da una prospettiva generale e strutturale, ma solo da una prospettiva etnica. Cioè, una donna oppressa è riconosciuta come vittima solo quando è di un’altra tribù. Ma quando sono gli uomini della propria tribù a violare i diritti delle donne, si fa silenzio, si giustificano o si tollerano.

Quando le donne difendono i guerrieri

Esempi di femminismo razzista si possono vedere nelle narrazioni che fanno dei leader e signori della guerra che si dichiarano a favore delle donne ma il loro comportamento è pieno di crimini, stupri, repressione e rimozione delle donne dagli spazi pubblici. Queste donne, con narrazioni e ricordi personali o argomenti non documentati, cercano di giustificare il volto duro, misogino e oppressivo dei loro leader etnici.

Questo modo di vedere non solo diventa il centro del femminile, ma è profondamente al servizio della riproduzione del potere maschile. In tali narrazioni le donne vengono sminuite a esseri passivi che devono ricorrere ai leader maschi per accedere ai loro diritti; come se l’istruzione, il lavoro o la libertà fossero doni che solo gli uomini possono concedere, non diritti intrinseci delle donne.

Questo genere di femminismo, invece di essere la voce degli oppressi, è diventato la voce del potere etnico. Non parla di donne fatte a pezzi sotto i razzi dei leader jihadisti, né di corpi stuprati nei campi di guerra, né di ragazze private di istruzione, presenza sociale e partecipazione.

Invece di criticare la violenza, il femminismo etnico la giustifica con termini come “eroismo”, “leadership”, o “difesa della religione e della nazione”. Queste donne, a volte consapevolmente e a volte per ignoranza politica, diventano gli strumenti per ripulire l’immagine dei criminali etnici.

Il pericolo di distorcere la lotta delle donne

Uno dei danni più grandi che il femminismo etnico porta alla lotta delle donne è la distorsione dell’essenza di questa lotta, che diventa non più costruttiva e critica nei confronti del potere maschile ma invece sottomessa e dipendente dagli uomini potenti. Nelle loro narrazioni, una donna valida è una donna che sostiene la nazione, fedele ai leader maschi e silenziosa circa la violenza domestica.

L’istruzione delle donne, in questo discorso, è dovuto alla “gentilezza” dei leader maschi, non un diritto umano. La libertà è un “dono”, non un principio fondamentale. E il silenzio contro i crimini del proprio popolo è segno di lealtà, non tradimento della verità.

Il vero femminismo è nemico della mitologia

Il vero femminismo è nemico di tutti i miti che si sono costruiti sui concetti di eliminazione, soppressione e sangue, per cui molti leader non sono considerati eroi ma parte di un sistema di oppressione e violenza. In questo femminismo, etnia, religione o storia politica di un leader non possono essere una giustificazione per ignorare la violenza sulle donne.

Il femminismo, che non può difendere le donne vittime di guerre civili, le donne vittime di abusi sistematici, le donne rimosse dagli spazi pubblici, non è femminismo: è complice del sistema maschile, sebbene parli alle donne.

O con le donne, o con il potere degli uomini

In definitiva, il femminismo richiede una scelta chiara: o stare dalla parte delle donne e delle vittime di ingiustizie strutturali, o stare con le strutture di potere che le hanno rese vittime.
Non è possibile difendere i diritti delle donne e contemporaneamente elogiare le figure che sono alla base dell’esclusione della donna dalla vita sociale e politica.

Il femminismo non è uno strumento di potere etnico, né una copertura della violenza, ma invece è la voce delle donne che vogliono decidere, vivere e fare la storia senza mediazione maschile, senza alcun potere esterno.

Quindi è ora di essere chiare: diciamo “no” al femminismo etnico

ONU: oltre nove milioni di persone in Afghanistan affrontano una grave insicurezza alimentare

Gli esperti umanitari hanno avvertito che le persone più vulnerabili, in particolare donne e bambini, nelle zone colpite dal terremoto, rischiano di trovarsi ad affrontare livelli di fame catastrofici se non verranno forniti fondi urgenti

JANS, Rawa, 10 ottobre 2025

Secondo quanto riportato giovedì dai media locali, secondo le Nazioni Unite, più di nove milioni di persone in Afghanistan stanno affrontando una grave insicurezza alimentare e la malnutrizione sta peggiorando, minacciando i bambini e le famiglie vulnerabili in tutto il Paese.

Il Programma Alimentare Mondiale (WFP) ha lanciato l’allarme: il recente terremoto ha aggravato una già grave crisi alimentare e nutrizionale in Afghanistan. Nel suo rapporto pubblicato giovedì, il WFP ha affermato che oltre nove persone stanno affrontando una grave insicurezza alimentare, mentre la grave malnutrizione tra bambini e madri ha raggiunto livelli record, secondo quanto riportato dalla principale agenzia di stampa afghana Khaama Press.

Secondo il rapporto, la regione dell’Afghanistan orientale, in particolare le province di Kunar e Nangarhar, è stata la più colpita. Queste aree erano già affette da grave malnutrizione prima dei terremoti in Afghanistan e le condizioni sono ora ulteriormente peggiorate.

Il ritorno degli afghani dopo il rimpatrio dal Pakistan ha ulteriormente aumentato la pressione sulle scarse risorse umanitarie, peggiorando la situazione sia per gli sfollati sia per le comunità ospitanti.

Finora, il WFP ha fornito assistenza alimentare d’emergenza a oltre 58.000 persone nelle province di Kunar, Laghman e Nangarhar. Tuttavia, l’agenzia ha avvertito che molte aree montuose remote rimangono isolate a causa del terreno accidentato, delle strade dissestate e delle comunicazioni deboli.

L’agenzia ha dichiarato che la carenza di fondi sta limitando gravemente la sua capacità di risposta. Con le risorse attuali, gli aiuti possono essere forniti solo a meno di un milione di persone al mese, con un deficit di finanziamento di circa 622 milioni di dollari per i prossimi sei mesi. Gli esperti umanitari hanno avvertito che le persone più vulnerabili, in particolare donne e bambini, nelle zone colpite dal terremoto, rischiano di trovarsi ad affrontare livelli di fame catastrofici se non verranno forniti fondi urgenti.

Il mese scorso, il WFP ha segnalato che la fame in Afghanistan sta aumentando rapidamente e ha aumentato la richiesta di finanziamenti urgenti per fornire aiuti prima che l’inverno isoli le comunità vulnerabili in tutto il paese. Il 18 settembre, il WFP ha dichiarato che sono necessari finanziamenti urgenti per fornire cibo prima che l’inverno isoli i villaggi remoti, lasciando le famiglie senza rifornimenti essenziali.

La vicedirettrice esecutiva del WFP, Rania Dagash Kamara, ha dichiarato che i bisogni restano “vasti e immediati” e ha avvertito che milioni di altri afghani potrebbero essere spinti verso la fame estrema nei prossimi mesi se non verranno fornite nuove risorse.

La crisi è stata ulteriormente aggravata dalla decisione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) di sospendere i programmi di assistenza in denaro in tutto il Paese dopo il 9 settembre, in seguito alle restrizioni imposte al personale femminile.

Libere, ovunque

Lotta all’apartheid di genere, per la difesa delle donne dal fondamentalismo

Beatrice Biliato, Mosaico di Pace, ottobre 2025

Costrette da oltre cento proibizioni e provvedimenti farneticanti a rimanere chiuse e nascoste nelle loro case senza alcuna possibilità di partecipare alla vita sociale, le donne afghane vivono oggi, dopo quasi quattro anni di governo talebano, una condizione sempre più insostenibile.

Donne e bambine sono ridotte in condizione di schiavitù domestica, private di ogni diritto fondamentale e di qualunque libertà: non possono studiare, non possono uscire di casa da sole, non possono fare sentire la propria voce in pubblico né possono mostrare il proprio volto, non hanno diritto alle cure sanitarie in mancanza di medici donne, vengono uccise se manifestano per i loro diritti e lapidate se ritenute adultere. 2,2 milioni di ragazze sono state private dell’istruzione secondaria, oltre 100.000 giovani sono state espulse dalle università. Con un recente provvedimento sono state chiuse anche le scuole di ostetricia e di assistenti sanitarie, ultima possibilità rimasta alle ragazze di potersi dedicare a una professione e alle partorienti di essere assistite.

La salute di tutte le donne afghane è a grave rischio, soprattutto se sole: possono essere curate solo da donne e non possono recarsi in ospedale senza un uomo che le accompagni. Alle donne è proibito qualsiasi lavoro fuori casa, anche se in un ambiente solo femminile come quello delle parrucchiere. Persino lavorare nelle ONG nazionali e internazionali è vietato e una stretta sempre crescente sta avendo anche la professione di giornalista, una delle poche ancora permesse.

Alle donne è ormai vietata qualsiasi cosa, anche se a loro riservata: l’accesso ai parchi, ai bagni pubblici e ai bar, praticare sport o viaggiare senza un tutore maschio. Il loro corpo deve essere coperto completamente, comprese le mani. Nell’ottobre 2024 i talebani sono andati oltre, promulgando una legge che proibisce alle donne di parlare tra loro in pubblico, le loro voci non devono essere udite dalle altre donne nemmeno durante le preghiere. Infine, hanno preteso la chiusura di tutte le finestre delle case che davano su ambienti frequentati dalle donne.

Il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio fa rispettare queste regole con una stretta sorveglianza, pena le percosse o l’arresto, anche per padri o mariti. Le donne sono terrorizzate per gli arresti e le condizioni di reclusione. Quando sono portate nei posti di polizia, soprattutto se si tratta di donne che protestano, vengono spogliate e fotografate con la minaccia di rendere pubbliche le loro foto così da compromettere la loro reputazione e quella delle loro famiglie. Il solo fatto di passare una notte nel posto di polizia le espone al rifiuto e alle rappresaglie della famiglia.

Sono riprese le fustigazioni pubbliche, spesso con l’accusa di adulterio, ma viene considerato tale qualsiasi ribellione al marito o tentativo di fare scelte autonome.

La disperazione è profonda e alcune, non essendo più in grado di tollerare le ingiustizie, hanno posto fine alla loro vita. Dal ritorno dei talebani, l’ONU ha registrato almeno 150 suicidi di donne costrette a matrimoni precoci.

Resistenze

Le donne afghane non hanno mai smesso di resistere coraggiosamente. Nei primi tempi hanno manifestato per strada o in casa, usando internet per filmarsi, ma ora è molto pericoloso. Per non perdere la speranza e reagire, cercano continuamente nuovi modi di aggirare le leggi, studiano di nascosto e leggono insieme in casa e online, inventano attività e lavori per sfamare le loro famiglie, modi per guadagnarsi da vivere attraverso progetti guidati da donne e, non meno importante, continuano a farsi belle sotto il burqa. In sostanza, rimangono in vita nonostante tutti i tentativi di annientarle.

Questa completa soppressione dei più elementari diritti umani delle donne e degli individui LGBTQI+ non è semplicemente dovuto a cattiverie o a eccessi casuali: è frutto di una visione dei talebani che vede nella discriminazione delle donne un aspetto cardine del loro dominio, un deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne viste come fonte di ogni male, secondo la loro interpretazione della sharia.

Ecco perché si parla di vero e proprio Apartheid di Genere (ADG) quando si tratta del regime talebano, perché questa è la precisa definizione del crimine perpetrato dai talebani. Ma questo crimine ancora non esiste ufficialmente, non c’è nell’elenco dei crimini internazionali definiti dal Trattato di Roma che consente alla Corte Penale Internazionale (CPI) di intraprendere un’azione penale. E non esiste ancora una convenzione riconosciuta da tutti gli Stati dell’Onu a cui si possa appellare la Conte di Giustizia internazionale (CGI) per condannare quel crimine.

Perciò il CISDA (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane), associandosi al movimento più generale che vuole combattere l’ADG in Afghanistan e nel mondo, già da alcuni mesi ha lanciato la Campagna Stop apartheid di genere – Stop fondamentalismi, che chiede proprio che l’ADG sia inserito come crimine nuovo e specifico all’interno della Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità che è in preparazione della 6a Commissione dell’Onu, alla quale ha inviato una propria definizione di ADG che tiene conto non solo dei diritti delle donne ma anche delle persone LGBTQI+, nell’ambito dei contributi che anche la società civile è stata invitata a proporre.

Analogamente, è stata fatta richiesta che l’ADG venga inserito all’interno dello Statuto di Roma che verrà ridefinito nei prossimi mesi.

In Italia

La Campagna, inoltre, chiama in causa direttamente il governo italiano con una Petizione (già firmata da più di duemila persone e ottanta associazioni) con la quale chiediamo che l’Italia adotti azioni coerenti con le Convenzioni e i Trattati internazionali sottoscritti a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne. In particolare, si chiede che:

  • sostenga l’introduzione dell’Apartheid di Genere nella proposta di Convenzione per la Prevenzione e la Punizione dei Crimini contro l’Umanità in preparazione all’ONU

  • denunci l’apartheid di genere in atto in Afghanistan e quindi non riconosca la legittimità, giuridica di fatto, del governo talebano

  • impedisca l’agibilità politica ai talebani nei consessi internazionali

  • sostenga le associazioni della società civile afghane non compromesse con i talebani e con i signori della guerra.

Infine, si unisca agli oltre 20 Paesi che hanno deferito l’Afghanistan alla CGI per le numerose violazioni della CEDAW (Convention on the Elimination of all form of Discrimination against Women – Trattato adottato dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1979) e si associ ai 7 stati che hanno sollecitato la CPI a indagare per i gravi crimini dei talebani, appoggiandone le richieste di incriminazione.

Le denunce ai tribunali internazionali sono passi importanti non perché pensiamo che una condanna dei talebani sarebbe sufficiente per farli cambiare – se rinunciassero alla loro ideologia avrebbero finito di esistere – ma una condanna renderebbe evidente che la politica di riconoscimento del governo talebano che tutti gli stati stanno portando avanti va contro i principi di tutela dei diritti umani e dei diritti delle donne ratificati con le Convenzioni internazionali. Restituirebbe, quindi, giustizia e forza alle lotte e alla resistenza delle donne afghane.

Perché non dobbiamo dimenticare che, per difendere i diritti delle donne, di tutte le donne nel mondo, bisogna battere il fondamentalismo, in Afghanistan, in Iran e ovunque. Quindi, non ci si può accordare con i talebani, come ha fatto l’Onu stesso con la Conferenza di Doha del maggio scorso, quando ha accettato le loro condizioni che escludono qualsiasi apertura verso i diritti delle donne afghane. Questo impegno diplomatico alle loro condizioni sta diventando“la nuova normalità”.

Ma non è questo l’aiuto che chiedono le donne afghane, le ragazze sulla cui pelle passa questa normalità. Chiedono una lotta coerente contro il fondamentalismo!

È per questo che la campagna per il riconoscimento dell’ADG come un crimine contro l’umanità e per la condanna del governo talebano ha un grande valore. È un freno ai tentativi della politica di accettare come inevitabile quel governo reazionario e fondamentalista dimenticando la sofferenza delle donne.