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Autore: CisdaETS

I bambini lavoratori vengono radunati, picchiati e imprigionati dai talebani

In Afghanistan oggi i più giovani e i più poveri sono intrappolati tra la fame in casa e la violenza per strada. I bambini lavoratori, già oberati dal sostentamento delle loro famiglie, rischiano l’arresto, i lavori forzati e il rischio di sparizione sotto in custodia dei talebani

Yalda Amini e Mahtab Safi, Zan Times, 2o novembre 2025

Haron aveva cinque anni quando iniziò a lavorare per le strade di Kabul. Ora che ha 11 anni, vende calzini da un cesto intrecciato e porta con sé una piccola bilancia affinché le persone possano pesarsi. Nei giorni migliori guadagna 200 afghani, appena sufficienti per sfamare la sua famiglia di sei persone, che comprende il padre paralizzato e la madre a cui non è permesso lavorare fuori casa.

Sogna di andare a scuola come gli altri bambini, ma sa che non è possibile, date le sue responsabilità nel provvedere alla famiglia. In questi giorni, la sua più grande paura non è la fame, sono i talebani. È stato arrestato sei volte dallo scorso inverno.

Haron è tra il numero crescente di bambini costretti a vivere per strada a causa della fame, che minaccia circa 23 milioni di persone in Afghanistan, tra cui 12 milioni di bambini, secondo l’UNICEF. Una volta in strada, diventano bersaglio dei talebani e della loro lunga campagna di “rastrellamento dei mendicanti”. Con oltre 800.000 bambini che si prevede saranno deportati in Afghanistan da Iran e Pakistan solo quest’anno, il numero di bambini vulnerabili che vivono per strada è in aumento, così come i pericoli che corrono.

“Rastrellare i mendicanti”

Zan Times ha parlato con alcuni di questi bambini arrestati dai talebani, che hanno raccontato le loro esperienze di arresto, lavori forzati e brutali percosse da parte delle forze talebane. Alcuni hanno trascorso fino a 15 notti in prigione. Tutti i bambini raccontano storie simili, rivelando un modello di violenza all’interno di centri di detenzione come Badam Bagh, dove bambini di appena nove anni raccontano di aver visto teste spaccate a causa delle percosse.

Haron ricorda ognuno dei suoi sei arresti. Il primo fu a Pul-e-Sorkh. “Stavo vendendo calzini quando diversi talebani mi chiamarono”, racconta. “Quando andai da loro, mi misero nella loro Ranger e mi portarono in prigione”. Trascorse 15 giorni in detenzione. I suoi genitori lo cercarono per tutta la prima notte, finché non trovarono altri bambini di strada che dissero loro che era stato rapito dai talebani.

Basandosi sulle sue esperienze e su quelle di altri mendicanti di strada, Haron racconta a Zan Times come funziona la repressione a Kabul: i bambini, sia mendicanti che lavoratori di strada, vengono portati a Badam Bagh, una prigione femminile che ora ospita anche minori. Alcuni dei bambini sono trasferiti da Badam Bagh a Qasaba. Due amici di Haron, Murtaza e Nasir, “sono ancora dispersi” dopo essere stati trasferiti a Qasaba, racconta.

La campagna per “rastrellare i mendicanti” ha ricevuto un’accelerazione nell’aprile 2024, quando il leader talebano ha approvato la legge sulla raccolta dei mendicanti e sulla prevenzione dell’accattonaggio. In base a questa legge, chiunque abbia “cibo a sufficienza per un giorno” è considerato un criminale se trovato a mendicare.

La commissione incaricata dell’attuazione della legge è guidata dal vice-ministro antidroga del Ministero dell’Interno talebano. Nell’ottobre 2024, il suo leader ha dichiarato alla radio e televisione nazionale afghana che le autorità avevano rastrellato circa 58.000 mendicanti in tutto il Paese, tra cui un gran numero di bambini. La trasmissione mostrava file di bambini spaventati, alcuni apparentemente non più grandi di cinque anni, che fissavano direttamente la telecamera.

I funzionari hanno affermato che i detenuti sono classificati come “indigenti”, “professionisti” o “in rete”, e che i loro dati biometrici sono stati raccolti e archiviati in un database. Coloro che sono sospettati di essere “professionisti” e “in rete” rischiano punizioni, affermano.

Violenze e lavori forzati

Secondo Haron e altri bambini intervistati da Zan Times, le condizioni a Badam Bagh sono dure e violente. “Ci hanno fatto pulire i muri”, racconta l’undicenne, descrivendo il lavoro forzato imposto ai bambini al loro arrivo nel centro di detenzione. I bambini che disobbediscono o “lavorano troppo lentamente”, aggiunge, vengono trasferiti a Qasaba.

Ricorda di aver sentito anche le urla delle donne. “Anche le mendicanti venivano portate lì”, racconta. “Potevamo sentire il rumore delle loro percosse”. Haron e altri due bambini detenuti raccontano di aver visto ragazzi picchiati fino a spaccarsi il cranio. “Un ragazzo è stato picchiato così forte che gli è scoppiato un occhio”, ricorda Haron. In prigione era presente un solo medico. A nessun detenuto era permesso accedere a cure mediche esterne.

Il cibo era scarso: ogni 24 ore tre persone condividevano una pagnotta di pane secco e una ciotola di lenticchie. “Nessuno di noi era sazio”, racconta.

Durante la detenzione, le forze talebane hanno preso le impronte digitali e fotografato i bambini con la forza. “Ci hanno afferrato per il colletto per i dati biometrici”, racconta Haron. “Ci hanno detto che ci avrebbero dato le tessere di aiuto, ma non ci hanno dato nulla”. Hanno anche confiscato i beni dei bambini e la paghetta. “Ci hanno preso tutto”, racconta. “Quando ci hanno rilasciato, non ci hanno restituito nulla”.

Questa inchiesta fa seguito a un precedente articolo di Zan Times su come una donna, detenuta per “accattonaggio”, abbia assistito alla morte di due bambini in custodia dei talebani. La donna ha dichiarato a Zan Times che le guardie hanno picchiato i ragazzi con dei cavi “fino alla morte”, ricordando come i detenuti fossero minacciati di percosse se avessero protestato o parlato.

La legge dei talebani sembra prevedere che i detenuti muoiano in custodia. L’articolo 25 della legge del 2024 delinea le procedure di sepoltura per chiunque muoia in detenzione senza che vi siano parenti che ne reclamino il corpo.

Costretti dalla fame all’accattonaggio

Per molte famiglie, la fame a casa non lascia altra scelta che mandare i figli in strada, anche a rischio di essere arrestati dai talebani. Esmat, un bambino lavoratore di nove anni a Kabul, ha trascorso 10 giorni a Badam Bagh. È stato rilasciato dopo che i suoi genitori hanno implorato i funzionari talebani e firmato una garanzia. “Ci hanno detto di non lavorare più per strada”, racconta. Ma né lui né i suoi genitori hanno ricevuto assistenza.

Salima deve mandare il figlio dodicenne a raccogliere la spazzatura perché non le è permesso lavorare e suo marito è scomparso 12 anni fa. “A volte mio figlio piange”, racconta allo Zan Times. “Lo picchiano. È molto difficile mandarlo fuori con un carrello a rovistare tra i rifiuti. Ma non ho altra scelta”. Nessuna agenzia umanitaria o ufficio talebano le ha offerto aiuto.

La pressione sulle famiglie sta aumentando in tutto l’Afghanistan. Secondo Save the Children, i bambini vengono deportati in Afghanistan dall’Iran al ritmo di uno ogni 30 secondi. Migliaia di questi bambini arrivano soli e molti sono nati all’estero e non hanno mai vissuto in Afghanistan. Tornano in un Paese alle prese con fame, sfollamenti interni di massa, terremoti e siccità causati dai cambiamenti climatici nel nord, che stanno distruggendo i raccolti e prosciugando le fonti d’acqua.

A Kandahar, Ali, 12 anni, racconta che la sua famiglia di 13 persone è stata rimpatriata forzatamente da Karachi sei mesi fa. Suo padre è paralizzato, il che rende Ali il principale sostentamento della famiglia. “Esco di casa alle cinque del mattino e resto fuori fino alle undici di sera”, racconta. Raccoglie lattine in un sacco. “Guadagno dai 60 ai 70 afghani al giorno. Compriamo pane secco. A volte dormiamo affamati. Il nostro affitto costa 2.500 afghani e siamo sempre indebitati”.

Quindici bambini lavoratori intervistati da Zan Times a Kabul, Kandahar e Jawzjan affermano di essere i principali fornitori di cibo per le loro famiglie.

Uno di questi è Ahmed, 11 anni, che vende sambusa per le strade di Sheberghan. Suo padre è partito per l’Iran dopo la presa del potere da parte dei talebani e da allora la sua famiglia non ha più sue notizie. Non potendo permettersi le cure mediche per una ferita alla gamba, Ahmed sopravvive per strada con 60 afghani al giorno. “Voglio crescere e andare in Iran a trovare mio padre”, dice.

Come Ahmed, Saboor, 12 anni, vive a Sherberghan. Raccoglie lattine insieme ai suoi due fratelli minori. “Ci sono troppi ragazzi che raccolgono lattine ormai”, dice. “Quando qualcuno lancia una lattina, tutti corrono”. Anche suo padre è partito per l’Iran e non è mai tornato. “Indossiamo sempre i vestiti vecchi della gente”, dice. Sogna di andare a scuola e che sua sorella malnutrita torni in salute.

L’Afghanistan è oggi un paese in cui i più giovani e i più poveri sono intrappolati tra la fame in casa e la violenza per strada. I bambini lavoratori, già oberati dal sostentamento delle loro famiglie, rischiano l’arresto, i lavori forzati e il rischio di sparizione sotto la custodia dei talebani.

Per Haron, ogni giorno porta con sé la stessa paura. Continua a vendere calzini, sperando che i Rangers non si fermino più per lui.

I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati e dell’autore. Mahtab Safi è lo pseudonimo di un giornalista dello Zan Times in Afghanistan. Sana Atef e Hura Omar hanno contribuito a questo articolo.

 

Siccità inesorabile in Afghanistan: gli agricoltori in una crisi senza precedenti

Avizha Khorshid, 8M Media, 20 novembre 2025
Gli agricoltori afghani lamentano il calo dei livelli idrici e l’aggravarsi della siccità. Sottolineano che la scarsità d’acqua ha causato un calo senza precedenti delle rese, una diffusa moria di bestiame e un forte aumento dei prezzi di cibo e mangimi, una situazione che ha spinto le comunità rurali in una crisi di sostentamento e nella fame. Allo stesso tempo, esperti economici e ambientali avvertono che, se questa tendenza dovesse continuare, potrebbe infliggere un duro colpo all’economia nazionale e, senza un’immediata assistenza globale e una gestione scientifica delle risorse idriche, la portata di questo disastro non potrà che aumentare.

Siccità senza precedenti

Alcuni agricoltori hanno dichiarato all’Hasht-e Subh Daily che la siccità di quest’anno ha causato danni molto maggiori alle loro terre e al loro bestiame rispetto agli anni precedenti.

Naseer, uno degli agricoltori del distretto di Jalrez, nella provincia di Maidan Wardak, ha espresso preoccupazione per la grave siccità che ha ridotto la produzione agricola e causato la perdita di circa 200 capi di bestiame. Ha aggiunto che la scarsità d’acqua e l’aumento del costo del cibo e del foraggio hanno messo a dura prova i loro mezzi di sussistenza.

L’agricoltore ha aggiunto: “Coltiviamo principalmente grano e fagioli. Quest’anno, a causa della grave siccità, la nostra produzione è scesa dal 100% a circa il 70%. Abbiamo anche perso circa 200 capi di bestiame. Il prezzo del foraggio è aumentato, tanto che, mentre prima un’unità di foraggio costava circa 8.000 Afghani, ora ha raggiunto gli 8.200 Afghani. Questo calo della produzione e l’aumento delle spese hanno esercitato una forte pressione sulle famiglie e ridotto il potere d’acquisto di agricoltori e proprietari di frutteti”.

Osman Momand, un altro agricoltore del distretto di Darah Noor, nella provincia di Nangarhar, ha spiegato che circa l’80% dei terreni agricoli della provincia è prosciugato e il 95% dei raccolti è stato danneggiato. Ha sottolineato che l’inaridimento delle sorgenti e la scarsità d’acqua hanno privato il 70% della popolazione dell’accesso all’acqua potabile, spingendola verso una grave carestia.

Momand ha aggiunto che la carenza di foraggio ha paralizzato l’allevamento del bestiame e molte persone sono state costrette a vendere i propri animali per coprire le spese. Ha sottolineato: “Attualmente, circa l’80% della popolazione soffre la fame e la carenza di cibo. In inverno, non abbiamo foraggio per gli animali a causa della grave siccità. Siamo stati costretti a chiedere prestiti. Personalmente, ho venduto due mucche e una capra, e la maggior parte del bestiame è stata venduta per garantire il foraggio per gli animali rimanenti. Il problema principale è la diminuzione delle fonti d’acqua. I pozzi si sono prosciugati e il livello delle falde acquifere in montagna è diminuito. Personalmente, avevo cinque animali e ne ho venduti tre”.

Fondamentali gli aiuti per gestire la crisi idrica

Nel frattempo, gli esperti economici e ambientali, mettendo in guardia dal persistere della siccità, chiedono un maggiore aiuto internazionale e misure fondamentali per gestire la crisi idrica dell’Afghanistan.

Azarakhsh Hafizi, esperto economico, ha affermato che nei paesi in cui non esistono sistemi di irrigazione precisi e moderni e non è stata implementata l’irrigazione a goccia, la siccità e la scarsità d’acqua possono causare disastri su larga scala nel settore agricolo. Ha aggiunto che tra le conseguenze di questa situazione rientrano la riduzione della produzione agricola, il calo del potere d’acquisto di agricoltori e proprietari di frutteti e gli effetti negativi generali sull’economia nazionale, soprattutto in un paese come l’Afghanistan che dipende fortemente dai prodotti agricoli e dai beni primari.

Hafizi ha dichiarato: “Quando si verifica la siccità, il suo impatto sul nostro Paese raddoppia perché non esiste un sistema adeguato per l’irrigazione di frutteti e terreni agricoli. Per contrastare questa crisi, è necessario adottare misure fondamentali, tra cui immagazzinare acqua in inverno, costruire dighe di deviazione e gestire correttamente le risorse idriche”.

Sayed Mohammad Sulaimankhil, esperto ambientale, ha sottolineato che l’Afghanistan perde oltre 400 miliardi di dollari all’anno a causa della siccità. Ha aggiunto che il cambiamento climatico non è un fenomeno che può essere controllato solo attraverso le conoscenze di base delle persone o degli agricoltori. Sulaimankhil ha sottolineato che questo problema richiede cooperazione internazionale e sostegno finanziario affinché le comunità rurali possano essere rafforzate, adattarsi agli impatti della siccità e ridurre l’entità dei danni.

L’esperto ambientale ha affermato: “Le strategie per affrontare la siccità rientrano in due categorie. La prima è il sostegno internazionale, attraverso il quale la comunità globale può assistere l’Afghanistan, finanziariamente e tecnicamente, nell’affrontare e adattarsi ai cambiamenti climatici. La seconda include strategie regionali e locali attraverso le quali le comunità stesse possono adattarsi alla siccità con metodi basati sulla comunità. Ad esempio, distribuendo agli agricoltori sementi migliorate resistenti alla siccità, formandoli su metodi di coltivazione adatti a condizioni di scarsità d’acqua e selezionando colture resistenti”.

Conseguenze del cambiamento climatico

Questo avviene mentre l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha annunciato che l’Afghanistan sta affrontando una delle peggiori siccità degli ultimi decenni. Secondo questo rapporto, quest’anno i prodotti agricoli sono andati distrutti, il bestiame è rimasto senza foraggio e centinaia di famiglie sono state costrette ad abbandonare le proprie case in cerca di acqua e cibo.

In precedenza, il Programma Alimentare Mondiale (WFP) e l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) avevano dichiarato in due rapporti separati che l’Afghanistan stava affrontando una delle peggiori crisi alimentari al mondo. Secondo questi rapporti, l’Afghanistan è tra i 10 paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici al mondo.

Queste preoccupazioni sono state sollevate durante la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP30), in programma dal 10 al 21 novembre 2025 nella città di Belém, in Brasile, per discutere misure come la limitazione dell’aumento della temperatura globale a 1,5 gradi Celsius, il supporto alle comunità vulnerabili nell’adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici e il raggiungimento di emissioni nette pari a zero entro il 2050.

Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea

A fine ottobre la Commissione europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul

Beatrice Biliato, Altreconomia, 18 novembre 2025

L’Unione europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi.

Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi.

L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa.

Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro.

E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto.

La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan sono stati ceduti nelle loro mani.

Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani.

Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan.

Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan.

Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei.

Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’Ue”.

A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’Ue, è un Paese Schengen.

Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche ai Paesi occidentali in quanto giustificata da esigenze pragmatiche.

Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei.

A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan.

Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa Ue continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’Ue con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante Ue per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’Ue a portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani- offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli.

È quanto del resto ha ribadito il Parlamento europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee.

In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba.

Missioni diplomatiche dell’Afghanistan: hanno validità legale?

La continuità delle missioni diplomatiche dell’Afghanistan: perché gli Stati ospitanti non possono invalidare i diplomatici dell’era repubblicana
Sirio, 8AM Media, 16 novembre 2025

I recenti dibattiti sul futuro di diverse ambasciate afghane all’estero, in particolare in Australia, hanno riportato l’attenzione sulla natura giuridica e politica della rappresentanza legittima dell’Afghanistan. Sono emerse idee errate secondo cui gli Stati ospitanti possono rifiutare unilateralmente di rinnovare le credenziali degli ambasciatori nominati durante la Repubblica o porre fine alle loro missioni. Tali supposizioni non sono in linea né con il diritto internazionale. né con le norme consolidate codificate nelle Convenzioni di Vienna.

Il diritto internazionale opera una chiara distinzione tra Stato e governo. Lo Stato dell’Afghanistan, in quanto entità giuridica sovrana nel sistema internazionale, continua ad esistere indipendentemente dai rivolgimenti politici interni. Ciò che è accaduto in Afghanistan nel 2021 è stato il crollo di un governo legittimo e l’ascesa di un regime autoritario, non lo scioglimento dello Stato afghano. Per questo motivo, le missioni diplomatiche nominate durante la Repubblica rimangono i rappresentanti legittimi del popolo afghano e nessun regime autoritario o illegittimo può rivendicare o imporre la successione su di esse.

La Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 afferma esplicitamente che l’accettazione di un ambasciatore viene valutata solo nel momento in cui lo Stato di invio presenta la sua richiesta di accordo. Dopo che un ambasciatore è stato formalmente accettato, la sua missione può terminare solo attraverso una dichiarazione ufficiale di “persona non grata”, una misura con un peso politico significativo e invocata solo in circostanze eccezionali. Un cambio di potere nello Stato di invio, soprattutto quando la nuova autorità non è riconosciuta, non costituisce mai un motivo valido per una tale dichiarazione. Pertanto, l’affermazione secondo cui un paese ospitante può rifiutare di rinnovare le credenziali di un ambasciatore o interrompere la sua missione a causa degli eventi politici interni dell’Afghanistan non ha alcun fondamento giuridico valido ed è contraria alle norme diplomatiche consolidate.

Al di là di questi principi giuridici, esiste una realtà innegabile: nessun governo al mondo, ad eccezione della Russia, riconosce il regime autoritario dei talebani. In assenza di tale riconoscimento, il regime non ha né il diritto di nominare rappresentanti diplomatici. né l’autorità di sostituire o invalidare le missioni legittime dello Stato afghano. Allo stesso modo, gli Stati ospitanti non hanno alcuna base giuridica o politica per accettare diplomatici nominati dai talebani, poiché ciò equivarrebbe a un riconoscimento indiretto del regime, un’azione incompatibile con gli impegni in materia di diritti umani e i principi di politica estera di molte nazioni.

La dimensione umana della questione non deve essere oscurata dai dibattiti giuridici. Le ambasciate afghane all’estero, che continuano a operare sotto la guida di diplomatici nominati dalla precedente Repubblica, rimangono un’ancora di salvezza fondamentale per migliaia di cittadini afghani. Le persone si affidano a queste missioni per ottenere passaporti, registrazioni di nascita, verifiche di documenti accademici e legali, certificati di matrimonio, attestati di identità e decine di altri servizi essenziali. La chiusura o l’indebolimento di queste missioni lascerebbe i cittadini afghani in uno stato di apolidia amministrativa, privandoli dei loro diritti più fondamentali, un risultato che contraddice i principi fondamentali dei diritti umani e mina la responsabilità morale e legale degli Stati ospitanti di proteggere le popolazioni vulnerabili.

Da un punto di vista politico, qualsiasi azione che possa essere interpretata, direttamente o indirettamente, come allineata alle preferenze del regime autoritario dei talebani non fa altro che indebolire il popolo afghano e rafforzare le rivendicazioni di legittimità del regime. Tali misure consentirebbero di fatto ai talebani di presentare la chiusura o il declassamento di queste ambasciate come una forma di “riconoscimento implicito”, nonostante le ripetute dichiarazioni della comunità internazionale secondo cui il regime viola sistematicamente i diritti umani e manca di qualsiasi legittimità politica.

Nell’attuale panorama politico, nessun governo ha riconosciuto i talebani come governo legittimo dell’Afghanistan. Le interazioni che alcuni paesi intrattengono occasionalmente con il gruppo sono strettamente de facto: limitate, tecniche e temporanee. Questi rapporti sono motivati principalmente da imperativi di sicurezza, tra cui la lotta al terrorismo, il controllo degli stupefacenti, la gestione delle migrazioni e la sicurezza delle frontiere, o da necessità economiche a breve termine. Tali contatti non costituiscono un riconoscimento politico e non possono conferire ai talebani alcuna autorità sulle missioni diplomatiche dell’Afghanistan. Accettare i rappresentanti nominati dai talebani equivarrebbe, in effetti, a un riconoscimento indiretto, un atto fondamentalmente in contrasto con i principi dei diritti umani, gli standard di politica estera degli Stati democratici e le considerazioni etiche della comunità internazionale. Non sorprende che tali rapporti con i talebani siano in gran parte limitati a regimi autoritari, repressivi o chiusi, privi di valori democratici.

Di conseguenza, la conclusione è chiara e fondata: tutte le ambasciate e le missioni diplomatiche afghane amministrate dai diplomatici dell’era repubblicana rimangono i rappresentanti legittimi del popolo afghano nel sistema internazionale fino a quando non sarà istituito in Afghanistan un governo legittimo, eletto e riconosciuto a livello internazionale. Nessuno Stato ospitante ha il diritto di interrompere il loro mandato sulla base degli sviluppi politici interni in Afghanistan, né può sostituirli con rappresentanti nominati dal regime talebano. Il funzionamento continuativo di queste ambasciate è una necessità legale, etica e umanitaria. Una politica internazionale sana richiede che queste missioni mantengano le loro funzioni legittime in modo che i cittadini afghani all’estero non perdano la loro identità legale o l’accesso alla documentazione essenziale.

 

Dai red carpet alla geopolitica

Cinematografo, 15 novembre 2025, di Marco Spagnoli

Social SurfingGli influencer, con un linguaggio fintamente “autentico”, sono ormai potenti strumenti per plasmare la percezione pubblica, soprattutto tra i più giovani

“La vita quotidiana dell’Afghanistan è funestata dalla povertà e da restrizioni per le donne cui è stata limitata la possibilità di avere un’educazione e di svolgere funzioni pubbliche”. Questa frase a dir poco eufemistica e riduttiva nella migliore delle ipotesi che, di fatto, nega e, forse, perfino avalla involontariamente la violenza, l’oscurantismo e l’orrore della condizione delle donne e, dunque, della società nello sventurato paese asiatico è parte di una serie di video con sinuosa musica jazz di sottofondo e una tazza di caffè in mano volti a spiegarci come va il mondo (davvero) e come potete sapere qualcosa di ogni nazione sulla Terra a partire dall’Afghanistan… (lettera A).

L’elegante e avvenente autrice è una giovane autodichiarata “nerd” di politica internazionale dall’accento, dai modi e dalla spocchia colonialista tipicamente british che in altri video ci insegna anche, forse, con migliore fortuna le buone maniere a tavola. Una clip visionata da oltre 350.000 persone con commenti entusiastici dove non si tiene conto che in due minuti non si può raccontare la complessità della Storia e della politica e non si deve, laddove è necessario, tacere dinanzi all’orrore della dittatura e della sopraffazione quotidiana. Del resto, come stupirsi?

In un’era in cui i media tradizionali sono sotto costante attacco su ogni fronte e perfino quotidiani rispettati raccontano, con dovizia di dettagli da tempesta ormonale, gli inseguimenti di avvenenti influencer di star hollywoodiane, anziché scrivere una qualche considerazione sul contenuto del film in cui è presente quell’attore, questa è la nuova normalità. Hai un problema come un’invasione, un genocidio, una società tribale che bastona le donne, impedisce alle bambine di studiare e spaccia oppio in tutto il mondo? Ci pensano gli influencer che dopo avere ammazzato il giornalismo serio, oggi, si fanno pagare per riscrivere a colpi di video cretini e ammiccanti la geopolitica internazionale.

Una mossa che avrebbe lasciato esterrefatto pure Goebbels e che oggi, invece, è lì a portata di mano per autocrati, assassini, dittatori, generali senza scrupoli: negli ultimi dieci anni, la comunicazione politica e militare ha, di fatto, subito una trasformazione radicale. Se un tempo la propaganda passava principalmente attraverso i media tradizionali, oggi si sfruttano figure carismatiche sui social media per veicolare messaggi mirati. Gli influencer – con milioni di follower e un linguaggio diretto, emotivo e fintamente “autentico” – sono diventati strumenti potenti per plasmare la percezione pubblica, soprattutto tra i più giovani. Israele e i talebani, pur operando in contesti e con obiettivi molto diversi, hanno entrambi utilizzato questa strategia per “rinnegare” o reinterpretare narrazioni storiche e fatti documentati, cercando di sostituirli con versioni più favorevoli ai propri interessi.

Verosimilmente il video citato all’inizio di questo articolo non è parte dell’aberrante operazione di maquillage istituzionale di Kabul, ma poco importa: l’esito è, in fin dei conti, molto simile a quello di chi suggerisce più o meno esplicitamente che l’Afghanistan sia un bel posto dove andare a fare una vacanza e che i talebani – in fondo – sono solo ragazzi “che hanno sbagliato”, ma che oggi stanno ritrovando la retta via. Dopo la riconquista dell’Afghanistan nell’agosto 2021, questi ultimi hanno ben compreso l’importanza di controllare o comunque provare ad influenzare la narrazione internazionale.

Oltre ai portavoce ufficiali, hanno iniziato a utilizzare figure popolari sui social – spesso giovani afghani o simpatizzanti all’estero – per diffondere un’immagine “normalizzata” del loro governo. Racconti di vita quotidiana: influencer che mostrano mercati pieni, scuole “aperte” (solo per maschi), e città, finalmente, “sicure” sotto il nuovo regime dove i bambini danzano felici in cerchio a piedi nudi. “Reportage” (Oriana Fallaci perdonaci…) dove viene minimizzata o negata ogni forma di restrizione sui diritti delle donne, della repressione delle minoranze etniche e religiose, e delle esecuzioni sommarie documentate da ONG.

Tutto questo con il linguaggio comune e “fresco” dei TikToker che scherzano pure sulle esecuzioni e fanno parodie dei rapimenti pur di celebrare il nuovo regime che si presenta come nazionalista” e “anticorruzione”, cancellando la memoria delle violenze degli anni ’90 e dei primi anni 2000. Ovviamente entrando nel campo della comunicazione internazionale così come i simpatizzanti di estrema destra dell’AFD in Germania veicolano messaggi agghiaccianti con belle ragazze e bei ragazzi che ballano al ritmo della techno, qui ci troviamo a vedere utilizzati influencer che non vivono in Afghanistan, ma operano da Paesi occidentali, parlando in inglese o in lingue europee per raggiungere un pubblico internazionale evitando la censura, usando un linguaggio accessibile e con grande autenticità e freschezza negare gli abusi, le violenze e i soprusi soprattutto nei confronti delle donne, delle ragazze, delle studentesse rispedite a calci (ahimé non figurati…) indietro nel medioevo 2.0.

In luoghi dove giornalisti accreditati non possono entrare o dove vengono seriamente minacciati (vedi il caso Cecilia Sala), ecco che si pagano un po’ di influencer per dire che a Gaza si sta benissimo e non ci sono problemi di carestia, che l’Afghanistan è un paese bellissimo, che la Corea del Nord è una nazione dove fare le vacanze e dove non c’è overtourism… Come sia possibile essere arrivati a questo è un altro paio di maniche: l’autenticità percepita degli influencer fa sì (questo nel mondo del cinema succede oramai da tempo) che siano visti come “persone comuni” e non come portavoce ufficiali e tantomeno a pagamento. Al tempo stesso, i contenuti social raggiungono milioni di persone in poche ore e gli algoritmi rafforzano le convinzioni preesistenti, riducendo l’esposizione a fonti contrarie.

Eppoi c’è anche un bias cognitivo: così come in politica un sound byte, ovvero una dichiarazione è più efficace di un lungo discorso, le immagini e i video brevi, da toni forti, accattivanti, rassicuranti e perfino sexy colpiscono più delle analisi lunghe e complesse. In più l’assenza di giornalisti indipendenti impedisce di verificare la veridicità delle affermazioni degli influencer, che oltre a fotografare una cosa per un’altra, ripetono come nella Fattoria degli Animali di Orwell frasi che hanno letto prestampate nei loro profumati e grassi contratti. Il risultato è una narrazione alternativa che, pur contestata da osservatori e organizzazioni internazionali, riesce a sedimentarsi nell’immaginario di milioni di persone, influenzando la percezione della realtà e, potenzialmente, le decisioni politiche e diplomatiche.

Un cambio di paradigma inquietante che, pur essendo stato denunciato nella sua fenomenologia dalla stampa internazionale, ONG e da tante istituzioni, segna l’inizio di un’epoca inquietante in cui tutti parlano di tutti, ma mentre una cosa (forse non meno grave) è mandare la gente a vedere un film non riuscito o a banalizzare il gusto e l’estetica artistica, un’altra è legittimare la violenza, il sopruso e la giustizia sommaria contro donne, bambini, dissidenti, innocenti.

E dire che, come ci ricorda il giornalista (vero) Edoardo Giribaldi, in un articolo pubblicato sull’Huffington Post, “trent’anni fa il governo dei talebani eliminava televisioni e antenne paraboliche: nel 1998, infatti, i Talebani incaricavano il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio di ‘distruggere’ ogni tipo di televisore, registratore, videocassetta ed antenna parabolica in mano alla popolazione. Le autorità governative ritenevano che tramite i media le persone potessero venire indotte in comportamenti che violassero le interpretazioni talebane del Corano e della Shari’a. Mentre oggi si sfruttano le nuove piattaforme per ripulire la propria immagine agli occhi della comunità internazionale”.

Una nuova propaganda subdola e difficile da eliminare che oltre ad avere danneggiato la cultura, oggi, continua ad erodere la Storia. Come ci avevano avvertito Ray Bradbury e George Orwell… e non è più (solo) fantascienza.

La guerra segreta della CIA ai papaveri afghani, il piano costoso poi fallito

La V0ce di New York, 15 novembre 2025, di Dania Ceragioli

Per vent’anni, nei cieli dell’Afghanistan non sono caduti soltanto missili e ordigni. Fra un bombardamento e l’altro, spesso si diffondevano minuscoli semi di papavero: miliardi di granelli protettivi per indebolire il traffico di eroina. Non era una leggenda contadina, ma una delle operazioni più riservate condotte dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, un programma che, come raccontato dal The Washington Post , avrebbe dovuto trasformare il cuore dell’economia dell’oppio afghano intervenendo direttamente sulla genetica delle coltivazioni.

Dal 2004 al 2015, la CIA ha lanciato dall’alto sementi selezionate per generare piante quasi private degli alcaloidi necessari alla produzione di droga. Una strategia definita da alcune fonti del giornale americano come un tentativo “creativo e non militare” per indebolire la base finanziaria dei talebani, e allo stesso tempo tagliare alla principale fonte di “polvere bianca” destinata ai mercati europei e asiatici.

In base a quanto riportato, quattordici persone che erano a conoscenza dell’operazione, tutte rimaste rigorosamente anonime, hanno confermato che l’iniziativa fu autorizzata direttamente dall’ex presidente George W. Bush attraverso un documento classificato. Il programma prevedeva voli notturni, spesso con aerei cargo britannici, per disperdere i microscopici bambini senza essere intercettati e senza attirare l’attenzione degli agricoltori.

Le piante nate da quei semi non solo avevano un contenuto di morfina insignificante, ma erano anche progettate per germogliare prima e produrre fiori più appariscenti, così da indurre i contadini a conservarne e ripiantarne i derivati. L’obiettivo dichiarato era quello di far incrociare le nuove piantagioni con quelle locali, facendole divenire nel tempo dominanti e indebolendo il raccolto dei trafficanti.

Fonti citate dal quotidiano sostengono che in alcuni periodi, in particolare tra il 2007 e il 2011, l’ambizioso progetto sembrò funzionare: le superfici coltivate diminuivano sensibilmente, e le intercettazioni registravano la frustrazione dei produttori. Qualcuno lo definisce un raro esempio di “pensiero fuori dagli schemi” all’interno della guerra alla droga.

Il piano era talmente riservato che, perfino alti funzionari del Pentagono e del Dipartimento di Stato affermano di non esserne mai stati informati. Intanto, il costo dell’operazione lievitava: tanto che negli anni finali la CIA tentò di coinvolgere altre agenzie per coprire spese come carburante e manutenzione. Gli Stati Uniti, dal 2001, si stima abbiano speso circa 9 miliardi di dollari nel contrasto alla lotta all’eroina che uscì dalla Nazione,

La segretezza non impedì però la diffusione dei sospetti nelle campagne afghane: per anni si mormorò che “gli stranieri avrebbero adulterato i campi”, modificando fertilizzanti o spargendo sostanze sconosciute. Una versione che, alla luce dei fatti, non era così distante dalla realtà.

Il contesto, ricostruito dal Washington Post , appareva come un intrico di responsabilità sovrapposte, tensione tra le diversi organismi federali e profonde divergenze con gli alleati: alcuni spingevano per l’irrorazione di erbicidi, altri mettevano in guardia dai possibili danni alle comunità rurali e altri ancora, ritenevano invece prioritario mantenere il controllo militare delle aree sensibili.

L’intera strategia antidroga in Afghanistan, osservano vari funzionari citati, fu minata da dispute politiche, dall’instabilità del governo Karzai e da un’economia che faceva dell’oppio un pilastro quasi insostituibile. Mentre Washington combatteva per ridurre i raccolti, i talebani continuavano ad autofinanziare la loro insurrezione grazie al “gasdotto dell’eroina”.

Alla fine, il programma dei semi “sterili” non resistette ai tagli di bilancio, quando venne chiuso, nel 2015, i raccolti avevano ricominciato a crescere. Un rapporto del 2018 dell’ispettorato speciale statunitense per la ricostruzione del Paese che non era stato informato dell’operazione segreta, concluse che nessuna delle iniziative antinarcotici americane aveva provocato “riduzioni durature” della produzione di oppio.

Quando gli USA lasciano il territorio nel 2021, la sostanza rappresentava ancora fino al 14% del PIL afghano e anche il divieto imposto dai talebani nel 2022 ha solo temporaneamente fermato le coltivazioni, poi rimbalzate l’anno successivo, spostandosi verso altre regioni.

Il fragile diritto all’apprendimento: come ai bambini afghani viene sistematicamente negata l’istruzione in Iran

Zan Times, 14 novembre 2025, di Homa Majid

Ho accompagnato una donna afghana di nome Maryam al Dipartimento dell’Istruzione del suo distretto e alla scuola che un tempo frequentava suo figlio dodicenne, Mohammad. Originaria di Mazar-e-Sharif, Maryam vive in Iran da 24 anni. Quest’anno, a suo figlio è stata negata l’iscrizione. Maryam sperava che avere un cittadino iraniano al suo fianco potesse facilitare la procedura.

Portava con sé una lettera di raccomandazione rilasciata dal Ministero dell’Interno, che suo marito aveva ottenuto dopo aver trascorso 10 estenuanti giorni in fila e suppliche presso l’ufficio responsabile del rilascio di questi certificati per i bambini afghani. Maryam consegnò la lettera al funzionario responsabile delle scuole primarie e chiese una raccomandazione scritta affinché Mohammad potesse essere iscritto alla sua ex scuola, la Be’sat Elementary.

Il funzionario ha chiesto i documenti della famiglia: quelli di Maryam, di suo marito e di Mohammad. Il marito aveva un passaporto, ma lei e suo figlio avevano solo le ricevute del censimento, che sono documenti di registrazione temporanei. Dopo aver esaminato tutti i documenti, il funzionario ha detto senza mezzi termini: “Le scuole non iscrivono persone con due tipi diversi di documenti”.

Maryam chiese: “Allora perché il Ministero degli Interni ci ha dato questa lettera di segnalazione?”

Il funzionario alzò le spalle. “Non so nemmeno perché vi lascino stare qui”, rispose. “In ogni caso, vostro figlio non verrà iscritto.”

Decenni di incertezza
Negli ultimi quattro decenni, l’istruzione dei bambini afghani in Iran è stata segnata da una costante incertezza. Nonostante l’adesione del governo iraniano alla Convenzione sui diritti dell’infanzia all’inizio del 1994, il diritto all’istruzione dei bambini rifugiati è stato ripetutamente minato dall’orientamento delle politiche statali verso i cittadini stranieri.

In alcuni anni, alle scuole è stato imposto di accettare tutti i bambini, indipendentemente dal fatto che avessero o meno documenti ufficiali. In altri, soprattutto di recente, le autorità hanno imposto severe restrizioni al diritto all’istruzione in base allo status di residenza delle famiglie. Anche la possibilità per i bambini afghani di studiare gratuitamente o di pagare tasse aggiuntive per “studenti stranieri” è variata arbitrariamente di anno in anno.

Dal 2006, il numero di studenti non iraniani nelle scuole iraniane è aumentato costantemente. Quest’anno, a seguito dell’espulsione di massa degli afghani dall’Iran, le iscrizioni degli studenti afghani sono diminuite di oltre il 50%. Il 4 novembre, il Ministero dell’Interno ha annunciato: “L’anno scorso, c’erano 700.000 studenti afghani nelle nostre scuole. Di questi, 280.000 hanno lasciato l’Iran e quest’anno solo circa 320.000 rimangono iscritti”.

Labirinto burocratico
A fine settembre, le autorità hanno modificato le regole di iscrizione all’istruzione per i bambini in possesso di cedolini del censimento. Se un genitore era in possesso di documenti di residenza validi, come una carta di rifugiato Amayesh, un passaporto familiare o un passaporto di residenza, poteva ottenere una lettera di segnalazione per il proprio figlio da un centro designato a Eslamshahr. La lettera di Mohammad era stata emessa in base a questa politica.

Confidando nella validità dell’annuncio di settembre, insistemmo, sostenendo che Mohammad aveva diritto all’iscrizione. Il funzionario ci disse di aspettare fuori mentre controllava la capienza della scuola. Trascorsero dieci minuti, poi venti, senza una parola. Finalmente, un uomo di grado superiore passò di lì, notò i nostri volti ansiosi e capì che l’impiegato ci stava deliberatamente ritardando. Prese la lettera di presentazione, firmò sul retro e scrisse:

“Al caro preside di [nome della scuola], la prego di iscrivere Mohammad … in sesta elementare.”

Il volto di Maryam si illuminò all’istante, cancellando la stanchezza che aveva provato fino a quel momento. Ci avviammo verso la scuola, speranzosi che questo lungo e umiliante processo potesse finalmente concludersi con successo.

Un certificato senza credibilità

Il preside non era a scuola, quindi siamo andati a trovare il segretario scolastico. Quando ha visto la lettera di presentazione e la nota scritta sul retro, ha chiesto i documenti di Maryam e poi ha ripetuto la stessa scusa che avevamo sentito in segreteria: “Non iscriviamo studenti con due tipi di documenti diversi”.

Maryam protestò: “Ci avevate detto che se avessimo portato una lettera di raccomandazione il problema sarebbe stato risolto”. L’impiegato rispose che la decisione spettava al preside. Chiedemmo quando sarebbe tornato. “Un’ora, due ore… forse non tornerà affatto”, fu la risposta.

Maryam e io ci siamo seduti sulle sedie nel corridoio e abbiamo iniziato a parlare. Le ho chiesto cosa le fosse successo durante gli ultimi mesi di turbolenze che i residenti afghani hanno sopportato in Iran. Lei ha risposto: “Eravamo terribilmente preoccupati di essere costretti a lasciare l’Iran. Ormai non ricordo quasi più l’Afghanistan. I miei figli sono nati qui e non l’hanno mai visto. Ogni volta che si presentava la possibilità di andarsene, Mohammad chiedeva se poteva andare a scuola lì. Gli abbiamo detto che la maggior parte delle scuole in Afghanistan sono religiose e che bisogna indossare un lungi e una camicia lunga. Lui diceva sempre che non voleva andarci”.

Suonò la campanella della ricreazione. Bambini bassi e irrequieti uscirono dalle aule e corsero in cortile a giocare. Tra loro notai due o tre bambini afghani. Dissi a Maryam che avevo notato quanto la scuola sembrasse vuota. Mi spiegò che era perché “quest’anno non hanno iscritto molti bambini afghani. Molti dei nostri connazionali vivono in questa zona di Teheran, quindi questa scuola aveva molti alunni afghani. Ma quest’anno non ne è stato iscritto quasi nessuno. Mohammad ha studiato in questa stessa scuola per cinque anni”.

Preoccupata per il probabile rifiuto del preside, Maryam si sentiva disperata: “Voglio dire loro che pulirò la vostra scuola gratis, accettate pure mio figlio”. Le dissi: “Non offrite niente del genere. Abbiamo una lettera ufficiale del Ministero degli Interni firmata da uno dei direttori dell’istruzione. Non dovete loro nulla. Pagheremo anche le tasse richieste”. Chiesi a Maryam di lasciarmi parlare se il preside fosse tornato a scuola.

Dopo un’ora o due di attesa, si è presentato il preside. Gli abbiamo mostrato la lettera di presentazione e i documenti e abbiamo sentito la stessa risposta data dal suo impiegato: “Non iscriviamo persone con documentazione mista. Mi dispiace”. Ho chiesto al preside: “Quindi la lettera del Ministero dell’Interno e la firma del signor X non hanno alcun significato?”

Lui rispose: “Rilasciano le loro autorizzazioni, ma poi un paio di giorni dopo vengono a fare delle ispezioni e mi criticano per aver iscritto un bambino con documenti incompleti o con una scheda del censimento; questo mi crea problemi. Solo lo scorso giugno, su 350 alunni afghani della mia scuola, a 330 è stata negata la pagella finale, nonostante fossero stati ufficialmente registrati”.

Ho detto: “Non si possono avere doppi standard. Il padre del ragazzo ha passato 10 giorni, dalle due del mattino alle due del pomeriggio, in fila a Eslamshahr per ottenere questo documento che ora dici non essere valido. Si è affidato a quello che hai detto. Per favore, permetti a Mohammad di completare il suo ultimo anno di scuola primaria nella stessa scuola dove ha già trascorso cinque anni. Perché è colpa del bambino se le diverse agenzie non riescono a concordare le proprie regole?”

[Trad. automatica]

Australia: i talebani afghani potrebbero dover affrontare nuove sanzioni

Human Rights Watch, 12 novembre 2025, Comunicato stampa

I regolamenti modificati consentiranno di agire contro chi viola i diritti e promuoveranno la responsabilità

Le modifiche proposte dal governo australiano alle sue norme sulle sanzioni rappresentano un passo importante verso l’assunzione di responsabilità da parte dei funzionari talebani e di altri responsabili di gravi abusi in Afghanistan , ha affermato Human Rights Watch in una recente comunicazione al governo australiano.

Il Regolamento sulle Sanzioni Autonome modificato introduce nuovi criteri di inserimento nell’elenco specifici per l’Afghanistan e consentirà al governo australiano di imporre sanzioni mirate e divieti di viaggio a individui ed entità in Afghanistan che siano coinvolti, responsabili o complici dell’oppressione di donne, ragazze e gruppi minoritari, o dell’oppressione in generale. Permetterà inoltre di imporre sanzioni contro chiunque comprometta il buon governo e lo stato di diritto in Afghanistan.

“È fondamentale che il governo australiano intervenga contro i leader talebani responsabili della violazione dei diritti delle donne e delle ragazze e di altri gravi abusi in Afghanistan”, ha affermato Daniela Gavshon , direttrice per l’Australia di Human Rights Watch. “Le modifiche apportate alle norme sulle sanzioni consentiranno all’Australia di unirsi ad altri paesi che stanno già adottando misure per contrastare la diffusa e sistematica oppressione dei talebani”.

Da quando hanno preso il controllo del Paese nell’agosto 2021, i Talebani hanno intensificato i loro attacchi ai diritti delle donne e delle ragazze, il che equivale al crimine contro l’umanità della persecuzione di genere. Esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani e attivisti afghani per i diritti delle donne hanno descritto le violazioni sistematiche e strutturali dei Talebani contro donne e ragazze come “ apartheid di genere “.

Le autorità talebane hanno inoltre progressivamente limitato lo spazio civico, attuato una censura su larga scala e arrestato e torturato giornalisti e attivisti. Lesbiche, gay, bisessuali e transgender afghani, e le persone che non si conformano alle rigide norme di genere in Afghanistan, si trovano ad affrontare una situazione sempre più disperata e gravi minacce alla loro sicurezza e alla loro vita sotto il controllo dei talebani. Inoltre, gruppi affiliati allo Stato Islamico (ISIS) hanno effettuato attentati contro gli sciiti di etnia Hazara e altre, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

“Il governo australiano dovrebbe utilizzare sanzioni mirate come importante strumento di politica estera contro i talebani per sollecitare l’assunzione di responsabilità per i gravi abusi”, ha affermato Gavshon. “Imporre sanzioni ai leader autori di abusi è una delle numerose misure che possono aumentare il costo delle violazioni dei diritti umani in Afghanistan e altrove”.

I talebani arrestano e poi rilasciano una dottoressa durante una nuova repressione delle donne a Herat

amu.tv, 10 novembre 2025, di  Ahmad Azizi

Fonti locali hanno riferito che i talebani hanno arrestato e poi rilasciato una chirurga a Herat, nell’ambito di una nuova stretta sull’abbigliamento femminile e sull’accesso agli spazi pubblici, comprese le strutture mediche.

La dottoressa Shabnam Fazli, chirurgo generale presso l’ospedale regionale di Herat, è stata arrestata dai funzionari talebani nei pressi dell’ospedale all’inizio di questa settimana, secondo quanto riferito da alcune fonti ad Amu. Suo marito, Quddus Khatibi, ha successivamente confermato l’arresto sulla sua pagina Facebook. Nel frattempo è stata rilasciata.

L’incidente segue le nuove restrizioni imposte dai talebani, che impongono a pazienti e medici di indossare il burqa negli ospedali pubblici. Sebbene la direzione talebana per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio di Herat abbia negato di aver emanato tale direttiva, diversi testimoni oculari e il personale ospedaliero affermano che l’applicazione è già iniziata.

Fonti affermano che la situazione è degenerata quando a una donna incinta, che aveva già subito due tagli cesarei, è stato negato l’ingresso al Gozargah Maternity Hospital perché non indossava il burqa. Mentre soffriva per le doglie fuori dalla struttura, il suo utero si è rotto. La sua famiglia, disperata, l’ha trasportata in risciò in un altro ospedale, il Rezai Regional Maternity Hospital.

Quando è stata sottoposta a un intervento chirurgico d’urgenza, il suo bambino non ancora nato era morto a causa di un’emorragia interna e della mancanza di ossigeno, hanno spiegato le fonti. La donna è attualmente in coma e rimane ricoverata in terapia intensiva, hanno aggiunto le fonti.

Il caso ha suscitato indignazione tra i professionisti del settore medico e i sostenitori dei diritti delle donne, i quali affermano che le rigide norme di abbigliamento dei talebani mettono in pericolo vite umane e violano l’etica medica di base.

“Non si tratta di cultura o tradizione, ma di controllo”, ha affermato un medico di Herat che ha chiesto di rimanere anonimo per timore di ritorsioni. “Quando l’accesso all’assistenza sanitaria diventa condizionato da ciò che una donna indossa, si perdono delle vite”.

Da quando sono tornati al potere nel 2021, i Talebani hanno reintrodotto una serie di restrizioni di genere simili a quelle applicate durante il loro primo regime negli anni ’90. Alle donne è ora vietato accedere alla maggior parte dei lavori, all’istruzione secondaria e superiore e spesso sono obbligate a viaggiare con un tutore maschio. La visibilità pubblica è ulteriormente limitata dai codici di abbigliamento che impongono l’uso di indumenti che coprano il viso, come il burqa.

Le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani hanno ripetutamente chiesto ai talebani di revocare queste politiche, avvertendo che esse equivalgono a una “persecuzione di genere” e potrebbero costituire crimini secondo il diritto internazionale.

Nonostante le pressioni internazionali, i talebani continuano a sostenere che le loro politiche sono in linea con la loro interpretazione della legge islamica.

[Trad. automatica]

Iraq al voto, in ballo ci sono anche gli equilibri di potere nel Kurdistan spaccato

Il manifesto, 12 novembre 2025 di Maysoon Majidi

Asia occidentale La regione autonoma senza governo da un anno, la rivalità Kdp e PuK rende debole la voce curda a livelli nazionale. Nelle urne è sfida diretta tra Barzani e Talabani. Ma la fiducia della popolazione nelle istituzioni è in netto calo

La Regione del Kurdistan, formalmente autonoma dal 2005, è governata da due partiti che si dividono il potere tra Erbil e Sulaymaniyya, il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) e l’Unione patriottica del Kurdistan (PuK), che controllano quasi ogni aspetto della vita pubblica. Nati come movimenti di liberazione, oggi sono diventati veri e propri sistemi di potere, basati su reti clientelari e familiari.

Il Kdp, guidato dalla famiglia Barzani, controlla Erbil e Duhok, mentre il PuK, erede della famiglia Talabani, domina Sulaymaniyya. Entrambi gestiscono in modo diretto le istituzioni, l’esercito, la polizia, i media e una parte significativa dell’economia. Una sorta di due ministati all’interno della regione stessa. Quest sistema clientelare ha garantito stabilità ma anche corruzione diffusa, mancanza di meritocrazia e scarsa libertà di critica.

IN IRAQ, IL VOTO NAZIONALE del 2025 si intreccia con la continua crisi politica del Kurdistan, dove i due principali partiti osservano con attenzione l’esito elettorale mentre la regione resta senza un governo pienamente operativo dalle elezioni del 2024. Secondo la Commissione elettorale, la partecipazione nella regione curda è scesa dal 69% del 2018 al 55% del 2021. In quella tornata, il Kdp che aveva ottenuto 39 seggi e il PuK con 23 si erano affermati come le due principali forze politiche del Kurdistan. Tuttavia, a oggi, i due partiti non sono ancora riusciti a trovare un accordo per la formazione del nuovo esecutivo né ad eleggere il presidente e i vicepresidenti del Parlamento regionale. Lo stallo riflette un equilibrio sempre più fragile e una frattura profonda tra Erbil e Sulaymaniyya, non solo politica ma anche economica e territoriale. Le tensioni si intrecciano con la gestione delle risorse, dei salari pubblici e con il controllo delle aree al confine con l’Iran.

In un contesto in cui la popolazione curda mostra crescente sfiducia verso le istituzioni, il prolungato vuoto di governo rischia di aggravare la crisi di rappresentanza e di legittimità dell’intera classe politica curda. Nel frattempo, i due leader, Masrour Barzani e Bafel Talabani, hanno trasformato la campagna per le elezioni federali dell’11 novembre in un confronto diretto. Il Kdp punta a raggiungere un milione di voti, obiettivo che servirebbe a consolidare il proprio peso a Baghdad e non solo.

«LA FORZA DEL PARTITO a Baghdad è la forza del Kurdistan. Il nostro obiettivo è l’attuazione del federalismo e della Costituzione», ha dichiarato Barzani, accusando i governi iracheni di non aver mai rispettato il principio di equilibrio sancito dalla Carta. Un richiamo all’autonomia ripreso anche dal leader storico del partito, Masoud Barzani, promotore del referendum d’indipendenza del 2017 mai attuato: «Nel 2002 ci incontrammo alla conferenza dell’opposizione a Londra e concordammo su tre principi fondamentali: che l’Iraq fosse governato con partenariato, equilibrio e consenso. Ma purtroppo ciò non è stato realizzato».

Dal canto suo, Bafel Talabani, presidente del PuK, ha promesso che il suo partito «non entrerà in alcun governo finché non avremo la certezza che tutte le città del Kurdistan siano viste e servite allo stesso modo». Un messaggio diretto al Kdp, accusato di concentrare potere e risorse nella sola Erbil. Talabani, erede politico di una famiglia storicamente più vicina a Baghdad, punta a rafforzare i legami con il Coordination Framework, l’alleanza sciita filo-iraniana che sostiene il primo ministro Mohammed Shia’ al-Sudani, e a mantenere relazioni strategiche con Teheran.

Le divisioni tra Kdp e PuK si riflettono così anche a livello nazionale: il primo più vicino ad Ankara e in rapporti pragmatici con il governo centrale, il secondo più allineato all’Iran e alle forze sciite dominanti. Questa frammentazione continua a indebolire la rappresentanza curda nel parlamento iracheno, dove la voce di Erbil e quella di Sulaymaniyya spesso si annullano a vicenda.

A QUASI VENT’ANNI dalla proclamazione dell’autonomia, il Kurdistan iracheno vive una delle sue fasi più delicate. La paralisi istituzionale, il malcontento popolare e la competizione tra le dinastie Barzani e Talabani rischiano di erodere quel fragile equilibrio su cui si è costruita la regione. E mentre l’Iraq torna alle urne tra sfiducia e disillusione, nel nord del paese, la loro rivalità continua a indebolire la posizione politica dei curdi nel parlamento iracheno, impedendo una voce unitaria nelle negoziazioni federali e nella difesa dell’autonomia regionale.

In un Iraq attraversato da stanchezza politica, promesse mancate e sfiducia crescente, anche il Kurdistan sembra oggi alla ricerca di una nuova legittimità e di una leadership capace di superare le logiche del potere dinastico.