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Autore: CisdaETS

Francia e Germania in campo, le spie europee tornano a Kabul

it.insideover.com Giuseppe Gagliano 13 dicembre 2025

Quattro anni dopo il ritorno dei talebani al potere, Kabul non è più solo la capitale di un Emirato isolato. È tornata a essere un crocevia di spie, emissari, intermediari. Tra gli attori più attivi ci sono i servizi di informazione esteri di Francia e Germania, decisi a ricostruire, in silenzio, la loro rete di influenza dopo il disastro del ritiro occidentale del 2021. Non è un ritorno nostalgico, ma una mossa che intreccia sicurezza, equilibri regionali e interessi economici.

Il ritorno discreto di Parigi e Berlino
Dalla metà del 2024 funzionari francesi e tedeschi sono tornati a operare sul terreno, spesso dietro coperture diplomatiche o umanitarie. Il loro obiettivo principale è chiaro: penetrare i livelli più alti della gerarchia talebana, arrivare il più vicino possibile al cerchio che circonda il capo supremo, il mullah Hibatullah Akhundzada, che governa dall’ombra a Kandahar. Chi riesce a stabilire rapporti con quegli ambienti ottiene informazioni preziose su lotte interne, rapporti con gruppi armati, orientamento reale della leadership.

Francia e Germania non si muovono in ordine sparso. Le loro strutture di informazione hanno una lunga abitudine alla cooperazione, dalle operazioni congiunte di ascolto elettronico in Medio Oriente alle missioni in Sahel. A Kabul lo schema si ripete: condivisione di basi logistiche, incrocio di fonti, divisione dei compiti tra chi ha più esperienza linguistica e chi dispone di strumenti tecnici più avanzati.

Le cicatrici del 2021 e il conto aperto con Kabul
Questo ritorno avviene sullo sfondo di una ferita ancora aperta. Per oltre un decennio la Francia aveva costruito, assieme al vecchio servizio di sicurezza afghano, una struttura di cooperazione che impiegava decine di agenti locali, pagati per individuare minacce e proteggere le truppe dispiegate nelle provincie. La Germania, dal canto suo, aveva integrato i propri ufficiali di informazione nei comandi della missione atlantica, soprattutto nella zona settentrionale.

Il crollo improvviso del governo di Kabul nel 2021 travolse queste reti. Una parte degli agenti afghani fu evacuata in fretta, grazie a operazioni speciali condotte da Parigi e Berlino, ma molti altri furono lasciati indietro, costretti alla fuga verso Pakistan e Iran o nascosti in patria. Ne nacquero polemiche, inchieste giornalistiche, ricorsi giudiziari. In Germania i servizi furono accusati di aver sottovalutato la rapidità dell’offensiva talebana, in Francia di aver abbandonato collaboratori che avevano rischiato la vita per anni.

Quella sconfitta, però, ha prodotto una lezione: i servizi europei vogliono tornare a “vedere” l’Afghanistan direttamente, senza dipendere solo dalle analisi dei partner d’oltreoceano.

L’Afghanistan come nodo della sicurezza globale
Perché tanto interesse oggi per un Paese impoverito, isolato e devastato? Perché l’Afghanistan è di nuovo un nodo critico della sicurezza globale. La nuova dirigenza talebana è attraversata da divisioni: da un lato i rigoristi ossessionati dal controllo sociale, dall’altro figure più pragmatiche preoccupate per il collasso economico. A questo si aggiungono la presenza di cellule legate alla vecchia rete di Al Qaida e l’attività crescente di gruppi che si richiamano allo Stato islamico con base nella regione.

Per le capitali europee questo significa rischio di nuovi attentati, flussi di combattenti verso altre aree di crisi, pressione migratoria, instabilità ai confini di Pakistan e Asia centrale. Per questo Francia e Germania vogliono fonti interne al sistema talebano: non solo per anticipare minacce, ma anche per capire quali fazioni possono essere influenzate, contenute o isolate.

Il gioco delle potenze e la sfida a Cina e vicini

Il ritorno dei servizi francesi e tedeschi si inserisce in un confronto più ampio. La Cina ha investito in concessioni minerarie e infrastrutture, interessata alle immense risorse di rame, terre rare e altre materie prime strategiche. Il Pakistan cerca di manovrare i talebani per garantirsi profondità strategica e contenere i propri gruppi ribelli. L’India prova ad aprire canali, temendo che Kabul torni a essere retrovia di formazioni ostili al suo territorio.

In questo mosaico, Parigi e Berlino non possono permettersi di essere cieche. Le informazioni raccolte a Kabul e Kandahar servono non solo a prevenire attentati in Europa, ma anche a capire come l’intreccio tra Cina, Russia, Pakistan e India plasmerà le rotte commerciali e i flussi energetici della regione. Avere una propria capacità di lettura significa evitare di dipendere totalmente dagli alleati d’oltreoceano e difendere margini di autonomia strategica.

La dimensione geoeconomica del ritorno
L’Afghanistan, pur in rovina, occupa una posizione chiave: tra Asia centrale, subcontinente indiano e corridoi che collegano il Golfo, la Cina e la Russia. La stabilità, anche minima, del Paese influenza vie di transito per merci, progetti di oleodotti e gasdotti, linee ferroviarie pensate per aggirare strozzature marittime.

Per Francia e Germania, che restano economie esportatrici dipendenti da materie prime estere, la conoscenza dettagliata di queste dinamiche è un patrimonio strategico. Capire chi controlla i valichi, quali milizie tassano i convogli, quali accordi economici il governo talebano negozia con Pechino o Mosca significa avere anticipo sulle trasformazioni delle catene di approvvigionamento. La “guerra economica” passa ormai anche da valli e passi montani dove una colonna di camion può valere più di un reparto corazzato.

Sicurezza, diplomazia e l’ambiguità permanente
Il rientro europeo a Kabul non si limita ai servizi segreti. L’Unione ha riaperto una rappresentanza, affidando a una società privata la protezione fisica di diplomatici e funzionari. Ma al centro della scena restano gli apparati di informazione, veri architetti di un ritorno che deve essere visibile quel tanto che basta per dialogare, e invisibile quel tanto che serve per non provocare la reazione del servizio di sicurezza talebano, noto per la sua durezza.

È un gioco pericoloso: ogni reclutamento di un funzionario talebano può trasformarsi in scandalo se emerge, alimentare la propaganda antioccidentale e provocare nuove repressioni in un Paese già allo stremo. Ma, dal punto di vista di Parigi e Berlino, l’alternativa sarebbe rinunciare a qualsiasi capacità di influenza in un’area dove tutti gli altri si muovono per guadagnare terreno.

In questo senso il ritorno dei servizi francesi e tedeschi a Kabul racconta molto più dell’Afghanistan. Racconta di un’Europa che, pur esitante e divisa, ha capito di non potersi ritirare dal mondo delle guerre invisibili se vuole difendere i propri interessi, la propria sicurezza e la propria autonomia economica in un sistema internazionale sempre più duro e competitivo.

 

 

 

I talebani chiudono con la forza il rifugio di Mehbooba Siraj

afintl.com 10 dicembre 2025

I talebani hanno chiuso con la forza la casa rifugio della nota attivista per i diritti delle donne Mahbubeh Siraj a Kabul. Il rifugio ospitava donne e bambini vittime di violenza.
Mahbubeh Siraj è una delle poche attiviste che ha sostenuto il dialogo con i talebani.
Si è recata regolarmente in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani ed è stata accusata da molte donne e difensori dei diritti umani di “insabbiare” i talebani.
Fonti affermano che la signora Siraj ha interagito e collaborato con i talebani per mantenere in funzione la sua casa rifugio.
Afghanistan International ha ricevuto un messaggio dalla signora Siraj in cui esprime con forza rabbia e delusione per l’azione dei talebani.
In questo messaggio indirizzato alle attiviste, ha affermato che i talebani hanno chiuso con la forza la sua casa sicura, dove vivevano 33 donne e bambini.
“Ero affranta e ho perso la mia battaglia”, ha scritto disperata.
La signora Siraj ha sottolineato che mantenere una casa sicura “non è stata solo la mia lotta, ma la lotta di molte donne afghane. Sono devastata”.
Negli ultimi due decenni, decine di case rifugio sono state operative a Kabul e in diverse province. Donne non accompagnate, vittime di violenza domestica e senzatetto vivevano in queste case con i loro figli. Dopo l’ascesa al potere dei talebani, anche alcune attiviste e attivisti per i diritti umani si sono rifugiati in queste case. Alcune organizzazioni internazionali hanno sostenuto le case rifugio a Kabul e nelle province.
Mahbooba Siraj è stata una delle poche attiviste vicine ai talebani. Ha incontrato e parlato a stretto contatto con i funzionari talebani. Ha sostenuto l’interazione e la cooperazione con i talebani in occasione di incontri internazionali. Ha ripetutamente difeso la sicurezza e il governo dei talebani in Afghanistan in interviste con i media internazionali. Queste posizioni sono state ampiamente criticate dalle attiviste per i diritti delle donne.

La sentenza del TPP sulle donne dell’Afghanistan Tu sei qui:

permanentpeoplestribunal.org Gianni Tognoni * 11 dicembre 2025


La 55a sessione del TPP sulle donne afghane, le cui udienze pubbliche si sono svolte a Madrid dall’8 al 10 ottobre 2025, si è conclusa con la lettura pubblica della sentenza, avvenuta l’11 dicembre 2025 presso l’International Institute of Social Studies (ISS) dell’Aia.

La significativa presenza di rappresentanti di organizzazioni internazionali, tra cui Richard Bennett (UN Special Rapporteur on the situation of human rights in Afghanistan), Reem Alsalem (UN Special Rapporteur on Violence Against Women and Girls), Ivana Krstic (Vice-Chair of Working Group on discrimination against women and girls), Prof. Mustapha Sheikh (University of Leeds School of Languages, Cultures and Societies), Prof. Rebecca Cook (University of Toronto – Law School), Helena Ann Kennedy (Member of the House of Lords of the UK) e la Dottoressa Shirin Ebadi (Iranian Nobel Laureate) che hanno accettato di offrire un loro commento alla decisione della giuria del TPP è un segno importante della rilevanza anche istituzionale di questo evento, che è stato preparato da un periodo molto intenso di ricerca e di mobilitazione che ha coinvolto una rete estesa della comunità afgana, dell’accademia e della società civile di molti paesi (video della sessione di Madrid).

Sembra opportuno – senza entrare nel merito specifico dell’articolazione dei contenuti fattuali e dottrinali di un testo che può considerarsi di riferimento per una conoscenza critica e complessiva della situazione delle donne dell’Afghanistan -, sottolineare alcuni punti che fanno di questa sentenza una delle espressioni più esemplari dell’attualità politica e culturale del lavoro e del ruolo del TPP, in un tempo di crisi e incertezze profonde che chiamano in causa il diritto internazionale.

La qualificazione della repressione dei diritti delle donne afgane nei termini più severi del diritto esistente rimanda a scenari che indicano la gravità e le implicazioni di quanto sta succedendo, ormai da anni, in modo infinitamente palese in Afghanistan. L’esistenza stessa delle donne come soggetti di diritti umani, individuali e collettivi, è ‘semplicemente’, e perciò tanto più drammaticamente, negata: in un intero paese, che è anche, nella forma di governo attuale, il prodotto di una storia geopolitica tragica che ha visto le ‘grandi potenze’ tra le protagoniste più negative. Il diritto internazionale è presente come impotenza. Con l’aggravante che i più recenti sviluppi sembrano più interessati a riconoscerle autorità di fatto, per le più diverse ragioni, ma senza ‘interferire’.

E questo accade in una regione nella quale, in parallelo cronologico, ma come esempio impensabile di un altro mondo possibile, un altro popolo di donne, nel Rojava ha inventato un modello di società democratica che a sua volta stenta ad essere riconosciuta come l’unico futuro possibile. Ed è importante in questo senso che la sentenza che oggi viene presentata sia considerata insieme a quella su Rojava.

Fa parte della logica e della prassi di intervento del TPP pensare che il diritto dei popoli ha come criterio prioritario di guardare al loro progetto di futuro per giudicare quale è il senso di un giudizio sui loro repressori: è la sfida, permanente, che da ormai 50 anni, ad Algeri, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, che i popoli pongono, nei modi più diversi, al diritto internazionale che ha radici, ma soprattutto criteri di azione in un passato, di poteri statali ed economici, per i quali la vita e la creatività dei popoli sono un disturbo. Ancor di più quando le categorie politico-giuridiche si intrecciano con quelle delle numerose forme di patriarcato.

*Gianni Tognoni  Segretario generale

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I diritti umani sono raggiungibili solo smantellando le catene dell’imperialismo e del fondamentalismo!

rawa.org 10 dicembre 2025

 

La nostra società è attanagliata da un disgusto e un odio così profondi nei confronti del dominio reazionario dei talebani che basta una scintilla per scatenare la tempesta di rabbia popolare.

L’Afghanistan, l'”inferno” creato dagli Stati Uniti e dall’Occidente, brucia ogni giorno nel fuoco di una nuova forma di oppressione. In questa terra, la ferita di Farkhunda non si era ancora rimarginata quando un’altra Farkhunda è diventata vittima della cultura misogina e del fascismo religioso dei Talebani e dei loro sostenitori finanziari; l’inimicizia dei Talebani verso le donne e la loro eliminazione da ogni sfera della vita si allarga ogni giorno di più; punizioni ed esecuzioni pubbliche medievali sono diventate la preoccupazione quotidiana dei Talebani assetati di sangue; ragazze e ragazzi, sotto il peso di una povertà mortale, disoccupazione, pressione psicologica, insulti e violenze, privazione del lavoro e dell’istruzione, si suicidano, e migliaia di altre sofferenze hanno trasformato questo Paese in una prigione in cui il suo popolo è schiacciato in ogni momento. La nostra società è attanagliata da un disgusto e un odio così profondi verso il dominio reazionario dei Talebani che basta una scintilla perché la tempesta di rabbia popolare esploda.

Mentre le donne afghane, ferite e semivive, vengono calpestate dagli zoccoli dei carnefici talebani, i loro padroni e sostenitori stranieri, che un tempo gridavano “diritti umani”, “democrazia” e “diritti delle donne”, non solo sono rimasti in silenzio di fronte a questa palese oppressione, ma con rara sfacciataggine sostengono questi criminali e inviano loro sacchi di dollari; aprono loro ambasciate e consolati e accolgono gli assassini del nostro popolo con tappeti rossi. Questo palese tradimento del nostro popolo da parte delle potenze imperialiste, e il loro orribile genocidio e fascismo in collaborazione con i sionisti di Gaza, hanno dimostrato per la millesima volta che per questi macellai dell’umanità, i “diritti umani” sono solo un’arma per intrappolare altre nazioni, e loro stessi deridono questo valore umano in stile hitleriano.

Come organizzazione politica, abbiamo ripetutamente sottolineato che giustizia, libertà, democrazia e diritti umani non si ottengono con suppliche e suppliche, né sono doni che i paesi saccheggiatori e occupanti ci concedono. Acquisire questi valori e garantirne la durata è possibile solo attraverso la consapevolezza, l’organizzazione e la lotta degli oppressi. Abbiamo visto come la “libertà” e i “diritti umani” sottili e falsi, promossi durante i vent’anni di occupazione dagli Stati Uniti/NATO e dai loro lacchè afghani, siano svaniti da un giorno all’altro, consegnando l’Afghanistan in blocco al gruppo di barbari che avevano allevato. Imperialismo e fondamentalismo sono due facce della stessa medaglia, e negli ultimi cento anni abbiamo ripetutamente assistito al fatto che i paesi dominanti, in particolare gli Stati Uniti, hanno usato quest’arma contro governi, organizzazioni e movimenti progressisti e di sinistra, sostenendo e armando i nemici della libertà e della giustizia.

Nonostante tutti questi tradimenti e crimini, l’avidità degli Stati Uniti e dell’Occidente nei confronti dell’Afghanistan non è ancora finita. Per questo motivo, i loro servi jihadisti, i tecnocrati fuggitivi e alcune donne che si sono vendute, traditrici dei diritti delle donne e oggetti decorativi di conferenze, ricevono ogni giorno medaglie con titoli diversi da istituzioni famigerate e insanguinate, e vengono promossi affinché in un futuro governo fantoccio e vuoto possano, come in passato, salvaguardare i propri interessi. Il popolo afghano deve stare attento a non lasciarsi ingannare dagli slogan etnici spudoratamente lanciati dai traditori occidentali per ottenere prestigio, e deve respingere unitamente questi elementi mercenari e agenti stranieri. Questi slogan traditori e separatisti servono solo a rafforzare il regime sanguinario e traditore dei talebani, e non fanno nulla per curare le innumerevoli ferite del nostro popolo oppresso e sofferente.

Nel frattempo, le nostre donne progressiste e in lotta non devono permettere che i loro successi vengano saccheggiati da poche donne che fanno affari e pressioni sui talebani e sui jihadisti, come Naheed Farid, Shukria Barakzai, Fawzia Koofi, Manizha Bakhtari, Nargis Nehan, Shaharzad Akbar, Asila Wardak, Sima Samar, Habiba Sarabi, Shinkai Karokhail e altre marionette occidentali. Per ottenere la vittoria, è necessario espellere dai loro ranghi e smascherare i veri e sporchi volti di coloro che minano la causa dei diritti delle donne.

L’Associazione Rivoluzionaria delle Donne d’Afghanistan (RAWA) ritiene che la durata di vita dei gruppi mercenari e reazionari non sia lunga e che non possano continuare per sempre il loro vergognoso dominio a spese dei loro padroni stranieri. Pertanto, ispirati dall’eroica ed epica resistenza del popolo di Gaza, è nostro dovere sconfiggere i burattini degli Stati Uniti, del Pakistan, dell’Arabia Saudita, dell’Iran, della Turchia, del Qatar ecc. e, realizzando la libertà, la giustizia e la democrazia basate sulla laicità, ottenere i nostri diritti umani.

Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA)

Il vice capo dell’UNAMA afferma che i talebani continuano a perdere opportunità di impegno

amu.tv 10 dicembre 2025

Il vice capo dell’UNAMA, Georgette Gagnon, ha dichiarato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che i talebani continuano a perdere o a respingere opportunità cruciali di impegnarsi a livello multilaterale con la comunità internazionale, avvertendo che questo persistente rifiuto rischia di provocare un ulteriore disimpegno, in particolare da parte dei paesi donatori, sempre più frustrati dalla mancanza di una cooperazione significativa.

Gagnon ha affermato che i principi di dignità, uguaglianza e giustizia sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani rimangono profondamente rilevanti per gli afghani, che continuano a subire “crisi multiple” sotto enorme pressione. Ha sottolineato che la resilienza del popolo afghano è notevole, ma “sottoposta a forti pressioni”, e richiede urgente attenzione internazionale e un sostegno costante.

Gagnon ha sottolineato che donne e ragazze rimangono sistematicamente escluse da quasi tutti gli aspetti della vita pubblica. I divieti all’istruzione secondaria e universitaria sono ormai entrati nel loro quarto anno, privando l’Afghanistan di future donne medico, imprenditrici, insegnanti e leader. Anche la libertà dei media si sta riducendo, con i giornalisti che subiscono intimidazioni, arresti e censura, limitando ulteriormente il dibattito pubblico e negando agli afghani voce nelle decisioni che plasmano il loro futuro, ha affermato.

Ha descritto le diffuse violazioni della vita quotidiana attraverso l’applicazione della “legge morale” dei talebani e ha sottolineato che le violazioni dei diritti umani sono solo una dimensione della crisi. L’Afghanistan sta inoltre affrontando un’emergenza umanitaria di proporzioni sconcertanti, con oltre 23 milioni di persone che si prevede necessiteranno di assistenza nel 2026.

Secondo quanto riportato, ad aggravare la crisi è l’afflusso massiccio di rimpatriati: quasi 2,5 milioni di afghani sono tornati dall’Iran e dal Pakistan nel 2025, molti involontariamente, con un aumento demografico del 6%. La maggior parte arriva con pochi beni in comunità già prive di lavoro e servizi di base, ha affermato.

Ha aggiunto che, nonostante una crescita stimata del PIL del 4,5%, la Banca Mondiale prevede un calo del 4% del reddito pro capite, segnando il terzo anno consecutivo di contrazione.

Gagnon ha osservato che, sebbene la nuova Strategia Nazionale di Sviluppo dei Talebani enfatizzi l’autosufficienza economica e il transito commerciale, queste ambizioni sono minate da politiche che scoraggiano gli investimenti e limitano la partecipazione economica, soprattutto per le donne. Molte donne qualificate rimpatriate potrebbero contribuire a rilanciare l’economia, ha affermato, ma non possono farlo.

Ha condannato il divieto permanente di accesso alle sedi delle Nazioni Unite per il personale femminile, definendolo una violazione dei diritti umani e della Carta delle Nazioni Unite e un ostacolo diretto alla capacità della missione di svolgere il proprio mandato. L’UNAMA ha ripetutamente sollevato la questione, ha affermato, esortando i membri del Consiglio di Sicurezza a garantire che la situazione “non si normalizzi”.

Gagnon ha anche indicato l’improvvisa interruzione delle telecomunicazioni a livello nazionale da parte dei Talebani all’inizio di quest’anno come un esempio lampante di governance guidata da divisioni interne e impulsi ideologici. Il blackout ha avuto conseguenze potenzialmente letali, interrompendo l’accesso all’assistenza sanitaria, ai servizi di emergenza, alle operazioni commerciali, agli sforzi umanitari e alle comunicazioni tra la comunità diplomatica a Kabul e le rispettive capitali, ha affermato.

La decisione è stata infine revocata da quella che ha descritto come la “fazione più pragmatica” all’interno dei Talebani.

“Questo incidente fornisce un’istantanea vivida”, ha affermato Gagnon, sottolineando la lotta in corso tra coloro che, all’interno delle autorità talebane, cercano l’isolamento e coloro che riconoscono che l’Afghanistan “non può sopravvivere” senza un collegamento internazionale.

Riaffermando l’obiettivo condiviso della comunità internazionale, stabilito nella Risoluzione 2721 del Consiglio di Sicurezza e Valutazione Indipendente del 2023, Gagnon ha affermato che l’obiettivo è un Afghanistan in pace e pienamente reintegrato nella comunità internazionale una volta che avrà adempiuto ai suoi obblighi internazionali. “L’obiettivo non è la reintegrazione dell’Afghanistan sotto le autorità di fatto come sono attualmente”, ha sottolineato.

Ha affermato che le Nazioni Unite rimangono impegnate in un impegno pragmatico e basato sui principi e hanno proposto una tabella di marcia politica attraverso il processo di Doha per affrontare gli ostacoli che impediscono la reintegrazione dell’Afghanistan, tra cui la governance, gli impegni antiterrorismo e la tutela dei diritti umani.

 

 

Afghanistan, fallimento Usa da 914 miliardi di dollari

Remocontro, 6 gennaio 2025

Poco meno di mille miliardi di dollari, un Trilione, 1 e 12 zeri. Vent’anni di intervento americano in Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 calcolati dalla la struttura del Dipartimento di Stato Usa incaricata di fornire una contabilità sistemica dei costi della missione militare e politica durata dal 2001 al 2021.

Guerra lunga, costosa e persa
Dati del rapporto dello ‘Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction’ (Sigar)*. La guerra più duratura della storia americana che si è conclusa con un clamoroso fallimento e con la riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, detronizzati nel 2001 dall’operazione Enduring Freedom e tornati al potere dopo una lunga guerriglia contro il governo di Kabul e dopo che il negoziato diretto tra gli Usa e gli studenti coranici nella prima amministrazione di Trump pose le basi del ritiro Usa e al disastro consumatosi nell’agosto 2021, ricostruisce Inside Over.

Ma Andrea Muratore va oltre
Non solo soldi, ma uomini e credibilità. «Circa 2.500 uomini sul campo nella ‘tomba degli imperi’ (prima ci cadde l’Unione sovietica), tra stipendi, organizzazione militare e armamenti. I dati del Dipartimento della Difesa, e del Congressional Research Service imputano circa un terzo delle spese agli stipendi e poco meno di un quarto a logistica e sostegno operativo alle truppe. Nel picco di Enduring Freedom, dal 2010 al 2012, durante il mandato di Barack Obama il conflitto afghano arrivò a costare 100 miliardi di dollari annui al contribuente statunitense. Una spesa colossale, se si pensa che allora la spesa afghana degli Usa era superiore all’intero budget militare della Federazione Russa.

La ricostruzione fallita
Un forte peso l’hanno avuto le politiche di privatizzazione della guerra e di molti servizi decise dall’amministrazione di George W. Bush, in Afghanistan come in Iraq, nella strategia interventista neoconservatrice di Donald Rumsfeld e Dick Cheney. Washington strapagò appalti e commesse a imprese private per fornitura di servizi estremamente ben retribuiti che impattarono sul costo della guerra. Peggio ancora: secondo queste ricerche sono stati almeno 148,2 miliardi di dollari i fondi stanziati dal 2002 in avanti per ricostruire lo Stato afghano, per tre quinti circa (88,8 miliardi) destinati all’addestramento e al rilancio delle forze armate di Kabul al servizio dei presidenti Hamid Karzai e Ashraf Ghani, che però alla prova dei fatti si sciolsero come neve al sole di fronte al ritorno dei Talebani nel 2021.

Costi indiretti, si raddoppia
I costi indiretti: fino a 2.300 miliardi di dollari. «Ma l’Afghanistan non è diventato uno Stato solido, non ha ritrovato un’unità nazionale nel nuovo corso filo-americano, è rimasto tribalizzato e decentralizzato e piagato da corruzioni e inefficienze», denuncia Muratore. «Lo State-building americano è collassato di fronte al rilancio dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan che da quattro anni controlla il Paese». Con gli oltre 3,5 miliardi di dollari spesi dopo il disastroso ritiro del 2021,, compresi i 7 miliardi di dollari di armi abbandonate dalle truppe Usa nell’agosto rovente di quell’anno e una quota, enorme, di fondi sprecati in corruzione. Tra i 26 e i 29 miliardi sarebbero stati infatti drenati da frodi, mala progettazione e ruberie.

Pozzo senza fondo
«Un pozzo senza fondo che ha consumato risorse e portato a una perdita pesante di vite umane senza migliorare la sicurezza dell’Afghanistan né, men che meno, quella degli Usa». Un fallimento a tutto campo di cui il rapporto Sigar calcola solo i costi diretti. Secondo un report della Brown University, nota AntiWar, «il costo reale della guerra degli Stati Uniti in Afghanistan superi i 2,3 trilioni di dollari, un totale che tiene conto delle cure ai veterani, degli interessi pagati sul debito contratto per finanziare la guerra e di altri fattori».

Un costo pagato dai contribuenti americani e dal popolo afghano intrappolato in una guerra senza fine. Da cui è uscita la situazione ante 2001: i Talebani al potere, gli Usa fuori. Celebrazione definitiva di un fallimento senza ammende.

*info sul rapporto SIGAR 

Il fallimento morale del mondo nel prevenire la violenza contro le donne afghane

Zan Times, 3 dicembre 2025 di Omid Sharafat

Mentre il mondo celebra il 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, le donne afghane subiscono le peggiori forme di violenza sotto il regime talebano da oltre quattro anni. Sembra che i governi e le istituzioni che affermano di difendere i diritti umani, insieme ai difensori dei diritti delle donne, abbiano subito un profondo fallimento morale di fronte a ciò che sta accadendo alle donne in Afghanistan.

Sebbene la comunità internazionale – ad eccezione della Russia – non abbia formalmente riconosciuto il governo dei Talebani, nella pratica continua a interagire con il gruppo in qualità di autorità de facto. La continua interazione politica e diplomatica tra le potenze regionali e globali e i Talebani, l’espansione del controllo talebano sulle missioni estere dell’Afghanistan e il crescente numero di visite ufficiali e incontri con rappresentanti talebani hanno incoraggiato il gruppo a commettere diffuse violazioni dei diritti umani, in particolare atti di violenza contro le donne.

Negli ultimi quattro anni, i Talebani hanno emanato centinaia di decreti restrittivi contro donne e ragazze, vietando loro l’istruzione, il lavoro, lo sport, i viaggi e persino la libera circolazione fuori casa, di fatto escludendole da ogni sfera della vita pubblica. Inoltre, numerosi rapporti hanno documentato matrimoni forzati, aggressioni sessuali, torture e omicidi perpetrati da combattenti e funzionari talebani.

Tuttavia, la comunità internazionale non ha adottato alcuna misura significativa ed efficace per porre fine a questi abusi.

Perché il 25 novembre è stato scelto come giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Dal 1980, le attiviste per i diritti delle donne hanno celebrato il 25 novembre come giornata di resistenza contro la violenza di genere. La commemorazione è incentrata sulla memoria delle tre sorelle Mirabal, brutalmente assassinate nel 1960 dal dittatore della Repubblica Dominicana. Il loro assassinio è diventato il fondamento simbolico di questa campagna globale.

Il 20 dicembre 1993, con la Risoluzione 48/104, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, creando un quadro internazionale per sradicare la violenza contro le donne in tutto il mondo. In un passo complementare, il 7 febbraio 2000, l’Assemblea Generale designò ufficialmente il 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, adottando la Risoluzione 54/134.

Con questa designazione, le Nazioni Unite hanno invitato i governi, gli organismi internazionali e le organizzazioni della società civile a unire gli sforzi ogni anno in questa giornata, coordinando le attività volte a sensibilizzare e a promuovere la lotta per porre fine alla violenza contro le donne.

Il divario tra retorica e realtà

La comunità internazionale, compresi i paesi della regione, sembra intrappolata in una contraddizione tra ciò che proclama e ciò che effettivamente fa nel suo impegno con i Talebani. Nelle dichiarazioni pubbliche, i governi subordinano costantemente il riconoscimento dei Talebani e un impegno più approfondito alla formazione di un governo inclusivo e al rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze. Ma nella pratica, i diritti delle donne sono diventati una questione marginale, quasi simbolica.

I governi, guidati da politiche realistiche, danno priorità ai propri interessi nazionali quando trattano con i Talebani. Pur comprendendo questa realtà, i Talebani non hanno mostrato alcuna volontà di rispettare i diritti delle donne, né vi è alcun segno che intendano farlo in futuro.

Questo divario crescente tra posizioni dichiarate e politiche effettive comporta conseguenze sia per gli Stati che per la comunità internazionale:

Le conseguenze delle posizioni dichiarate dalla comunità internazionale

Le posizioni retoriche e pubbliche della comunità internazionale hanno quantomeno generato simpatia e solidarietà a livello globale nei confronti delle donne afghane. In questo contesto, sono emerse, e continuano a emergere, diverse iniziative significative a sostegno dei diritti delle donne afghane. Questi sforzi possono essere riassunti in diversi ambiti chiave:

  1. Sostenere l’istruzione online e ampliare le opportunità di borse di studio per le donne e le ragazze afghane.
  2. Fornire piattaforme in cui attivisti e sopravvissuti alla violenza dei talebani possano parlare in forum e istituzioni internazionali.
  3. Sostenere l’organizzazione di tribunali popolari che cerchino di accertare le responsabilità degli abusi dei talebani.
  4. Sostenere conferenze, raduni e proteste organizzate dalle donne afghane.
  5. Imposizione di sanzioni ed emissione di mandati di arresto nei confronti di alcuni leader talebani.

Le conseguenze delle politiche effettive della comunità internazionale

Il comportamento pratico e l’impegno concreto della comunità internazionale nei confronti dei Talebani trasmettono un messaggio molto diverso, che suggerisce che i diritti umani e i diritti delle donne siano in gran parte preoccupazioni simboliche, mentre gli interessi nazionali in materia di sicurezza, economia e politica hanno la precedenza. Sulla base di questa realtà, si possono identificare le seguenti conseguenze chiave dell’attuale approccio del mondo nei confronti dei Talebani:

  1. Mancata priorità ai diritti delle donne nei negoziati con i talebani.
  2. Nessuna sospensione di aiuti, accordi o cooperazione è condizionata al rispetto dei diritti delle donne.
  3. Ridurre il sostegno alle donne afghane a gesti civici simbolici, privi di applicazione o di un seguito significativo.
  4. Continuazione, approfondimento ed espansione delle violazioni dei diritti delle donne, insieme all’aumento della violenza di genere contro le donne afghane da parte dei talebani.
  5. Rendendo le celebrazioni globali, come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in gran parte simboliche e inefficaci

Pertanto, è chiaro che qualsiasi cambiamento nel trattamento delle donne da parte dei Talebani dipende dalle politiche concrete della comunità internazionale nei confronti del gruppo, non dalle sue posizioni dichiarate o retoriche. La conseguenza logica di questo divario tra parole e azioni è duplice: da un lato, le donne afghane rimangono indifese di fronte alla crescente violenza dei Talebani; dall’altro, gli slogan umanitari e per i diritti umani diventano vuoti e privi di significato.

In definitiva, il fallimento morale della comunità internazionale nei confronti delle donne afghane è inequivocabile, e il danno reputazionale per i governi e le istituzioni che affermano di difendere i diritti umani e i diritti delle donne è tanto profondo quanto vergognoso.

Omid Sharafat è lo pseudonimo di un ex professore universitario di Kabul e ricercatore di relazioni internazionali.

[Trad. automatica]

 

Pkk: Ankara deve rilasciare Öcalan

The Epoch Times Italia, 3 dicembre 2025

Ankara esclude categoricamente la liberazione di Öcalan

La dirigenza del Partito dei Lavoratori del Kurdistan denuncia lo stallo nel processo di distensione con Ankara e l’intenzione della Turchia di tenere in carcere il suo capo, Abdullah Öcalan

Un comandante del movimento clandestino curdo Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), Amad Malazgirt, ha dichiarato all’agenzia di stampa francese Afp che il processo diplomatico con la Turchia ha raggiunto un punto di stallo. Parlando da un bunker tra le montagne Qandil, nel nord dell’Iraq, ha infatti dichiarato: «tutte le misure avviate dal capo Abdullah Öcalan sono state attuate. Non verranno intraprese ulteriori azioni. D’ora in avanti aspetteremo lo Stato turco».
Negli ultimi mesi, il popolo curdo aveva infatti iniziato ad attuare gli impegni presi per l’instaurazione della pace con la Turchia, incluso l’avvio di passi formali per il disarmo e il ritiro dei suoi combattenti. La scorsa settimana, una delegazione di legislatori turchi, istituita per promuovere il processo di pace, ha visitato Öcalan nella sua cella nel carcere dell’isola di Imrali.
Malazgirt ha posto alla Turchia due condizioni fondamentali per la continuazione dell’accordo: il rilascio di Öcalan e il riconoscimento costituzionale e ufficiale del popolo curdo da parte della Turchia. Anche il comandante Serda Mazlum Gabar ha ribadito ad Afp la richiesta di rilascio di Öcalan: «Finché il nostro capo sarà imprigionato, il popolo curdo non potrà essere libero».
Ma attualmente non esiste alcuna indicazione rispetto al rilascio di Öcalan. Al contrario, in recenti dichiarazioni ufficiali, la Turchia ha confermato l’intenzione di tenerlo in carcere. Nel maggio di quest’anno, dopo l’annuncio del Pkk sul disarmo, il ministro della Giustizia turco, Yılmaz Tunç, ha categoricamente escluso ogni possibilità di rilascio di Öcalan.
Inoltre, nel luglio 2025, la Turchia ha presentato al Consiglio d’Europa un documento ufficiale secondo cui i prigionieri condannati all’ergastolo, incluso Öcalan, non avranno diritto alla libertà vigilata, bloccando così legalmente la possibilità di un rilascio con la condizionale.

 

 

AFGHANISTAN: 13ENNE GIUSTIZIA IN PUBBLICO L’UOMO CHE HA UCCISO 13 MEMBRI DELLA SUA FAMIGLIA

Nessuno tocchi Caino, 3 dicembre 2025
Un ragazzino di 13 anni il 2 dicembre 2025 ha giustiziato in uno stadio afghano l’uomo ritenuto responsabile dell’uccisione della sua famiglia.
I Talebani hanno organizzato l’esecuzione pubblica nello stadio di cricket di Khost, alla presenza di circa 80mila spettatori.
L’uomo giustiziato è stato identificato come Mangal, figlio di Talah Khan, che era stato riconosciuto colpevole degli omicidi di 13 membri della stessa famiglia, tra cui nove bambini e la madre, commessi circa 10 mesi fa nei distretti di Ali Shir e Terezio.
Il condannato, insieme a un complice, aveva fatto irruzione nella loro casa facendo una strage.
Ai familiari delle vittime era stata offerta la possibilità di perdonare l’uomo, risparmiandogli la vita. Loro hanno scelto la pena di morte, ha riferito il tribunale. E così, davanti allo stadio colmo di spettatori, il ragazzino ha sparato tre colpi, mentre qualcuno urlava “Allahu Akbar”.
La Corte Suprema dei Talebani ha detto che Mangal era stato accusato dell’omicidio di Abdul Rahman, residente a Khost, commesso con un Kalashnikov.
Tra i presenti, Mujib Rahman Rahmani, residente di Khost, ha definito lo spettacolo “macabro”, ma allo stesso tempo “necessario”: secondo lui, queste esecuzioni potrebbero “avere effetti positivi, perché nessuno oserebbe più uccidere in futuro”.
Per evitare riprese, le autorità avevano vietato l’ingresso nello stadio di qualsiasi telefono con fotocamera.
I Talebani hanno ripreso le punizioni corporali e le esecuzioni pubbliche da quando sono tornati al potere nell’agosto 2021. Quella praticata a Khost segna almeno l’undicesima esecuzione pubblica confermata da allora, secondo i dati della Corte Suprema afghana.

(Fonte: Amu, Fanpage, 03/12/ 2025)

Nessun Paese ha ancora davvero raggiunto la parità di genere. Ed è piuttosto paradossale

Luce! La nazione, 2 dicembre 2025, di Marianna Grazi

A trent’anni dalla Conferenza sui diritti delle donne e delle ragazze di Pechino, l’Atlante 2025 di WeWorld fotografa il momento più promettente e più fragile della storia: nessun Paese ha raggiunto la piena parità, che pure è un obiettivo che sembra sempre a un passo

A trent’anni dalla storica conferenza mondiale sui diritti delle donne di Pechino, ci si sarebbe aspettati un bilancio diverso. Invece, il nuovo atlante di WeWorld, “Claiming Space”, racconta un mondo dove la parità di genere resta un obiettivo sempre a un passo da raggiungere, ma mai davvero toccato. Nessun Paese l’ha raggiunta pienamente. Un paradosso che emerge chiaramente dai dati: mai come oggi le donne hanno avuto accesso a opportunità prima impensabili, eppure mai come ora i loro diritti appaiono fragili, intrecciandosi con crisi economiche e conflitti.

L’Atlas è stato presentato il 27 novembre a Roma, durante l’evento “Claiming Space: ripensare il genere nella cooperazione allo sviluppo e negli interventi umanitari” organizzato insieme all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Oltre ai rappresentanti di Aics e WeWorld, sono intervenute in collegamento le esperte da Afghanistan e Kenya, portando testimonianze dirette da contesti in cui i diritti femminili sono messi alla prova ogni giorno.

l bilancio globale: progresso e regressione
Il nuovo Atlas non si limita a fotografare l’esistente ma mette nero su bianco la distanza tra ciò che è stato fatto e ciò che ancora manca. E parla con numeri difficili da ignorare:

• 1 donna o ragazza su 10 vive in povertà estrema (con meno di 2,15 dollari al giorno); • 119 milioni di ragazze sono ancora fuori dalla scuola; • Ogni 10 minuti una donna o una ragazza viene uccisa da un partner o un familiare; • Il 70% delle donne in contesti umanitari subisce violenza di genere; • Oltre 200 milioni non hanno accesso a contraccettivi sicuri, e gli aborti non sicuri causano 39.000 morti prevenibili ogni anno; • Ogni due minuti una donna muore per cause legate alla gravidanza o al parto; • Le donne godono in media di solo il 64% dei diritti legali degli uomini e guadagnano il 20% in meno a parità di lavoro.

“Le disuguaglianze si aggravano soprattutto nei contesti più fragili, dove crisi economiche, tagli e ideologie conservatrici minacciano i diritti sessuali e riproduttivi”, avverte Stefania Piccinelli, direttrice della Cooperazione Internazionale di WeWorld. La regressione dei diritti, aggiunge, è ormai “un fatto politico, non solo sociale”, e richiede una leadership femminista capace di riportare equità e giustizia al centro del dibattito globale: “Non possiamo permettere che i diritti diventino privilegi, né che i progressi ottenuti vengano smantellati. Trent’anni dopo la Piattaforma d’Azione di Pechino, ci troviamo in un momento paradossale: da un lato, le conquiste legislative e i movimenti dal basso hanno aperto spazi nuovi per milioni di donne e ragazze; dall’altro, vediamo il ritorno di politiche reazionarie, ideologie patriarcali e ondate di intolleranza che minano decenni di lotte femministe”.

Cosa funziona: le soluzioni già in atto
Il valore dell’Atlas, però, non è solo quello di portare una fotografia puntuale della situazione mondiale ma sta anche nello spazio dedicato alle soluzioni. Il rapporto segue le quattro aree chiave della Gender and Protection Global Strategic Plan 2024–2030 – equità, contrasto alla violenza, salute sessuale e riproduttiva, partecipazione – e le illustra attraverso le buone pratiche nate nei 20 Paesi in cui WeWorld opera.

In Afghanistan, dove le restrizioni colpiscono duramente donne e ragazze, i progetti combinano trasferimenti in denaro per il cibo, formazione agricola e un coinvolgimento diretto delle donne nella progettazione degli interventi. In Kenya, con il progetto Imara, sta nascendo il primo centro antiviolenza della contea di Narok, grazie a una collaborazione stretta tra istituzioni, polizia e comunità locali. Interventi simili in Mali e Palestina uniscono protezione, leadership femminile e inclusione economica.

Un cambio di passo necessario
Il filo rosso del lavoro di WeWorld è l’approccio gender-transformative: non aggiungere la prospettiva di genere, ma cambiare le strutture che generano disuguaglianza. “L’uguaglianza non è un tema settoriale, ma un motore di sviluppo, pace e giustizia”, ha ricordato il direttore di AICS, Marco Riccardo Rusconi.

Per questo WeWorld richiama governi e istituzioni a una nuova agenda femminista globale: fondi stabili per le organizzazioni guidate da donne, leadership locale riconosciuta, trasparenza, approcci multisettoriali e il coraggio politico necessario per non lasciare che i diritti conquistati vengano smantellati.

Il messaggio finale dell’Atlas 2025 è chiaro: i diritti delle donne non sono un traguardo da celebrare, ma un impegno quotidiano. Rafforzare voci, leadership e autonomia femminile è l’unica via per una società davvero equa e sostenibile.