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Autore: CisdaETS

Dai red carpet alla geopolitica

Cinematografo, 15 novembre 2025, di Marco Spagnoli

Social SurfingGli influencer, con un linguaggio fintamente “autentico”, sono ormai potenti strumenti per plasmare la percezione pubblica, soprattutto tra i più giovani

“La vita quotidiana dell’Afghanistan è funestata dalla povertà e da restrizioni per le donne cui è stata limitata la possibilità di avere un’educazione e di svolgere funzioni pubbliche”. Questa frase a dir poco eufemistica e riduttiva nella migliore delle ipotesi che, di fatto, nega e, forse, perfino avalla involontariamente la violenza, l’oscurantismo e l’orrore della condizione delle donne e, dunque, della società nello sventurato paese asiatico è parte di una serie di video con sinuosa musica jazz di sottofondo e una tazza di caffè in mano volti a spiegarci come va il mondo (davvero) e come potete sapere qualcosa di ogni nazione sulla Terra a partire dall’Afghanistan… (lettera A).

L’elegante e avvenente autrice è una giovane autodichiarata “nerd” di politica internazionale dall’accento, dai modi e dalla spocchia colonialista tipicamente british che in altri video ci insegna anche, forse, con migliore fortuna le buone maniere a tavola. Una clip visionata da oltre 350.000 persone con commenti entusiastici dove non si tiene conto che in due minuti non si può raccontare la complessità della Storia e della politica e non si deve, laddove è necessario, tacere dinanzi all’orrore della dittatura e della sopraffazione quotidiana. Del resto, come stupirsi?

In un’era in cui i media tradizionali sono sotto costante attacco su ogni fronte e perfino quotidiani rispettati raccontano, con dovizia di dettagli da tempesta ormonale, gli inseguimenti di avvenenti influencer di star hollywoodiane, anziché scrivere una qualche considerazione sul contenuto del film in cui è presente quell’attore, questa è la nuova normalità. Hai un problema come un’invasione, un genocidio, una società tribale che bastona le donne, impedisce alle bambine di studiare e spaccia oppio in tutto il mondo? Ci pensano gli influencer che dopo avere ammazzato il giornalismo serio, oggi, si fanno pagare per riscrivere a colpi di video cretini e ammiccanti la geopolitica internazionale.

Una mossa che avrebbe lasciato esterrefatto pure Goebbels e che oggi, invece, è lì a portata di mano per autocrati, assassini, dittatori, generali senza scrupoli: negli ultimi dieci anni, la comunicazione politica e militare ha, di fatto, subito una trasformazione radicale. Se un tempo la propaganda passava principalmente attraverso i media tradizionali, oggi si sfruttano figure carismatiche sui social media per veicolare messaggi mirati. Gli influencer – con milioni di follower e un linguaggio diretto, emotivo e fintamente “autentico” – sono diventati strumenti potenti per plasmare la percezione pubblica, soprattutto tra i più giovani. Israele e i talebani, pur operando in contesti e con obiettivi molto diversi, hanno entrambi utilizzato questa strategia per “rinnegare” o reinterpretare narrazioni storiche e fatti documentati, cercando di sostituirli con versioni più favorevoli ai propri interessi.

Verosimilmente il video citato all’inizio di questo articolo non è parte dell’aberrante operazione di maquillage istituzionale di Kabul, ma poco importa: l’esito è, in fin dei conti, molto simile a quello di chi suggerisce più o meno esplicitamente che l’Afghanistan sia un bel posto dove andare a fare una vacanza e che i talebani – in fondo – sono solo ragazzi “che hanno sbagliato”, ma che oggi stanno ritrovando la retta via. Dopo la riconquista dell’Afghanistan nell’agosto 2021, questi ultimi hanno ben compreso l’importanza di controllare o comunque provare ad influenzare la narrazione internazionale.

Oltre ai portavoce ufficiali, hanno iniziato a utilizzare figure popolari sui social – spesso giovani afghani o simpatizzanti all’estero – per diffondere un’immagine “normalizzata” del loro governo. Racconti di vita quotidiana: influencer che mostrano mercati pieni, scuole “aperte” (solo per maschi), e città, finalmente, “sicure” sotto il nuovo regime dove i bambini danzano felici in cerchio a piedi nudi. “Reportage” (Oriana Fallaci perdonaci…) dove viene minimizzata o negata ogni forma di restrizione sui diritti delle donne, della repressione delle minoranze etniche e religiose, e delle esecuzioni sommarie documentate da ONG.

Tutto questo con il linguaggio comune e “fresco” dei TikToker che scherzano pure sulle esecuzioni e fanno parodie dei rapimenti pur di celebrare il nuovo regime che si presenta come nazionalista” e “anticorruzione”, cancellando la memoria delle violenze degli anni ’90 e dei primi anni 2000. Ovviamente entrando nel campo della comunicazione internazionale così come i simpatizzanti di estrema destra dell’AFD in Germania veicolano messaggi agghiaccianti con belle ragazze e bei ragazzi che ballano al ritmo della techno, qui ci troviamo a vedere utilizzati influencer che non vivono in Afghanistan, ma operano da Paesi occidentali, parlando in inglese o in lingue europee per raggiungere un pubblico internazionale evitando la censura, usando un linguaggio accessibile e con grande autenticità e freschezza negare gli abusi, le violenze e i soprusi soprattutto nei confronti delle donne, delle ragazze, delle studentesse rispedite a calci (ahimé non figurati…) indietro nel medioevo 2.0.

In luoghi dove giornalisti accreditati non possono entrare o dove vengono seriamente minacciati (vedi il caso Cecilia Sala), ecco che si pagano un po’ di influencer per dire che a Gaza si sta benissimo e non ci sono problemi di carestia, che l’Afghanistan è un paese bellissimo, che la Corea del Nord è una nazione dove fare le vacanze e dove non c’è overtourism… Come sia possibile essere arrivati a questo è un altro paio di maniche: l’autenticità percepita degli influencer fa sì (questo nel mondo del cinema succede oramai da tempo) che siano visti come “persone comuni” e non come portavoce ufficiali e tantomeno a pagamento. Al tempo stesso, i contenuti social raggiungono milioni di persone in poche ore e gli algoritmi rafforzano le convinzioni preesistenti, riducendo l’esposizione a fonti contrarie.

Eppoi c’è anche un bias cognitivo: così come in politica un sound byte, ovvero una dichiarazione è più efficace di un lungo discorso, le immagini e i video brevi, da toni forti, accattivanti, rassicuranti e perfino sexy colpiscono più delle analisi lunghe e complesse. In più l’assenza di giornalisti indipendenti impedisce di verificare la veridicità delle affermazioni degli influencer, che oltre a fotografare una cosa per un’altra, ripetono come nella Fattoria degli Animali di Orwell frasi che hanno letto prestampate nei loro profumati e grassi contratti. Il risultato è una narrazione alternativa che, pur contestata da osservatori e organizzazioni internazionali, riesce a sedimentarsi nell’immaginario di milioni di persone, influenzando la percezione della realtà e, potenzialmente, le decisioni politiche e diplomatiche.

Un cambio di paradigma inquietante che, pur essendo stato denunciato nella sua fenomenologia dalla stampa internazionale, ONG e da tante istituzioni, segna l’inizio di un’epoca inquietante in cui tutti parlano di tutti, ma mentre una cosa (forse non meno grave) è mandare la gente a vedere un film non riuscito o a banalizzare il gusto e l’estetica artistica, un’altra è legittimare la violenza, il sopruso e la giustizia sommaria contro donne, bambini, dissidenti, innocenti.

E dire che, come ci ricorda il giornalista (vero) Edoardo Giribaldi, in un articolo pubblicato sull’Huffington Post, “trent’anni fa il governo dei talebani eliminava televisioni e antenne paraboliche: nel 1998, infatti, i Talebani incaricavano il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio di ‘distruggere’ ogni tipo di televisore, registratore, videocassetta ed antenna parabolica in mano alla popolazione. Le autorità governative ritenevano che tramite i media le persone potessero venire indotte in comportamenti che violassero le interpretazioni talebane del Corano e della Shari’a. Mentre oggi si sfruttano le nuove piattaforme per ripulire la propria immagine agli occhi della comunità internazionale”.

Una nuova propaganda subdola e difficile da eliminare che oltre ad avere danneggiato la cultura, oggi, continua ad erodere la Storia. Come ci avevano avvertito Ray Bradbury e George Orwell… e non è più (solo) fantascienza.

La guerra segreta della CIA ai papaveri afghani, il piano costoso poi fallito

La V0ce di New York, 15 novembre 2025, di Dania Ceragioli

Per vent’anni, nei cieli dell’Afghanistan non sono caduti soltanto missili e ordigni. Fra un bombardamento e l’altro, spesso si diffondevano minuscoli semi di papavero: miliardi di granelli protettivi per indebolire il traffico di eroina. Non era una leggenda contadina, ma una delle operazioni più riservate condotte dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, un programma che, come raccontato dal The Washington Post , avrebbe dovuto trasformare il cuore dell’economia dell’oppio afghano intervenendo direttamente sulla genetica delle coltivazioni.

Dal 2004 al 2015, la CIA ha lanciato dall’alto sementi selezionate per generare piante quasi private degli alcaloidi necessari alla produzione di droga. Una strategia definita da alcune fonti del giornale americano come un tentativo “creativo e non militare” per indebolire la base finanziaria dei talebani, e allo stesso tempo tagliare alla principale fonte di “polvere bianca” destinata ai mercati europei e asiatici.

In base a quanto riportato, quattordici persone che erano a conoscenza dell’operazione, tutte rimaste rigorosamente anonime, hanno confermato che l’iniziativa fu autorizzata direttamente dall’ex presidente George W. Bush attraverso un documento classificato. Il programma prevedeva voli notturni, spesso con aerei cargo britannici, per disperdere i microscopici bambini senza essere intercettati e senza attirare l’attenzione degli agricoltori.

Le piante nate da quei semi non solo avevano un contenuto di morfina insignificante, ma erano anche progettate per germogliare prima e produrre fiori più appariscenti, così da indurre i contadini a conservarne e ripiantarne i derivati. L’obiettivo dichiarato era quello di far incrociare le nuove piantagioni con quelle locali, facendole divenire nel tempo dominanti e indebolendo il raccolto dei trafficanti.

Fonti citate dal quotidiano sostengono che in alcuni periodi, in particolare tra il 2007 e il 2011, l’ambizioso progetto sembrò funzionare: le superfici coltivate diminuivano sensibilmente, e le intercettazioni registravano la frustrazione dei produttori. Qualcuno lo definisce un raro esempio di “pensiero fuori dagli schemi” all’interno della guerra alla droga.

Il piano era talmente riservato che, perfino alti funzionari del Pentagono e del Dipartimento di Stato affermano di non esserne mai stati informati. Intanto, il costo dell’operazione lievitava: tanto che negli anni finali la CIA tentò di coinvolgere altre agenzie per coprire spese come carburante e manutenzione. Gli Stati Uniti, dal 2001, si stima abbiano speso circa 9 miliardi di dollari nel contrasto alla lotta all’eroina che uscì dalla Nazione,

La segretezza non impedì però la diffusione dei sospetti nelle campagne afghane: per anni si mormorò che “gli stranieri avrebbero adulterato i campi”, modificando fertilizzanti o spargendo sostanze sconosciute. Una versione che, alla luce dei fatti, non era così distante dalla realtà.

Il contesto, ricostruito dal Washington Post , appareva come un intrico di responsabilità sovrapposte, tensione tra le diversi organismi federali e profonde divergenze con gli alleati: alcuni spingevano per l’irrorazione di erbicidi, altri mettevano in guardia dai possibili danni alle comunità rurali e altri ancora, ritenevano invece prioritario mantenere il controllo militare delle aree sensibili.

L’intera strategia antidroga in Afghanistan, osservano vari funzionari citati, fu minata da dispute politiche, dall’instabilità del governo Karzai e da un’economia che faceva dell’oppio un pilastro quasi insostituibile. Mentre Washington combatteva per ridurre i raccolti, i talebani continuavano ad autofinanziare la loro insurrezione grazie al “gasdotto dell’eroina”.

Alla fine, il programma dei semi “sterili” non resistette ai tagli di bilancio, quando venne chiuso, nel 2015, i raccolti avevano ricominciato a crescere. Un rapporto del 2018 dell’ispettorato speciale statunitense per la ricostruzione del Paese che non era stato informato dell’operazione segreta, concluse che nessuna delle iniziative antinarcotici americane aveva provocato “riduzioni durature” della produzione di oppio.

Quando gli USA lasciano il territorio nel 2021, la sostanza rappresentava ancora fino al 14% del PIL afghano e anche il divieto imposto dai talebani nel 2022 ha solo temporaneamente fermato le coltivazioni, poi rimbalzate l’anno successivo, spostandosi verso altre regioni.

Il fragile diritto all’apprendimento: come ai bambini afghani viene sistematicamente negata l’istruzione in Iran

Zan Times, 14 novembre 2025, di Homa Majid

Ho accompagnato una donna afghana di nome Maryam al Dipartimento dell’Istruzione del suo distretto e alla scuola che un tempo frequentava suo figlio dodicenne, Mohammad. Originaria di Mazar-e-Sharif, Maryam vive in Iran da 24 anni. Quest’anno, a suo figlio è stata negata l’iscrizione. Maryam sperava che avere un cittadino iraniano al suo fianco potesse facilitare la procedura.

Portava con sé una lettera di raccomandazione rilasciata dal Ministero dell’Interno, che suo marito aveva ottenuto dopo aver trascorso 10 estenuanti giorni in fila e suppliche presso l’ufficio responsabile del rilascio di questi certificati per i bambini afghani. Maryam consegnò la lettera al funzionario responsabile delle scuole primarie e chiese una raccomandazione scritta affinché Mohammad potesse essere iscritto alla sua ex scuola, la Be’sat Elementary.

Il funzionario ha chiesto i documenti della famiglia: quelli di Maryam, di suo marito e di Mohammad. Il marito aveva un passaporto, ma lei e suo figlio avevano solo le ricevute del censimento, che sono documenti di registrazione temporanei. Dopo aver esaminato tutti i documenti, il funzionario ha detto senza mezzi termini: “Le scuole non iscrivono persone con due tipi diversi di documenti”.

Maryam chiese: “Allora perché il Ministero degli Interni ci ha dato questa lettera di segnalazione?”

Il funzionario alzò le spalle. “Non so nemmeno perché vi lascino stare qui”, rispose. “In ogni caso, vostro figlio non verrà iscritto.”

Decenni di incertezza
Negli ultimi quattro decenni, l’istruzione dei bambini afghani in Iran è stata segnata da una costante incertezza. Nonostante l’adesione del governo iraniano alla Convenzione sui diritti dell’infanzia all’inizio del 1994, il diritto all’istruzione dei bambini rifugiati è stato ripetutamente minato dall’orientamento delle politiche statali verso i cittadini stranieri.

In alcuni anni, alle scuole è stato imposto di accettare tutti i bambini, indipendentemente dal fatto che avessero o meno documenti ufficiali. In altri, soprattutto di recente, le autorità hanno imposto severe restrizioni al diritto all’istruzione in base allo status di residenza delle famiglie. Anche la possibilità per i bambini afghani di studiare gratuitamente o di pagare tasse aggiuntive per “studenti stranieri” è variata arbitrariamente di anno in anno.

Dal 2006, il numero di studenti non iraniani nelle scuole iraniane è aumentato costantemente. Quest’anno, a seguito dell’espulsione di massa degli afghani dall’Iran, le iscrizioni degli studenti afghani sono diminuite di oltre il 50%. Il 4 novembre, il Ministero dell’Interno ha annunciato: “L’anno scorso, c’erano 700.000 studenti afghani nelle nostre scuole. Di questi, 280.000 hanno lasciato l’Iran e quest’anno solo circa 320.000 rimangono iscritti”.

Labirinto burocratico
A fine settembre, le autorità hanno modificato le regole di iscrizione all’istruzione per i bambini in possesso di cedolini del censimento. Se un genitore era in possesso di documenti di residenza validi, come una carta di rifugiato Amayesh, un passaporto familiare o un passaporto di residenza, poteva ottenere una lettera di segnalazione per il proprio figlio da un centro designato a Eslamshahr. La lettera di Mohammad era stata emessa in base a questa politica.

Confidando nella validità dell’annuncio di settembre, insistemmo, sostenendo che Mohammad aveva diritto all’iscrizione. Il funzionario ci disse di aspettare fuori mentre controllava la capienza della scuola. Trascorsero dieci minuti, poi venti, senza una parola. Finalmente, un uomo di grado superiore passò di lì, notò i nostri volti ansiosi e capì che l’impiegato ci stava deliberatamente ritardando. Prese la lettera di presentazione, firmò sul retro e scrisse:

“Al caro preside di [nome della scuola], la prego di iscrivere Mohammad … in sesta elementare.”

Il volto di Maryam si illuminò all’istante, cancellando la stanchezza che aveva provato fino a quel momento. Ci avviammo verso la scuola, speranzosi che questo lungo e umiliante processo potesse finalmente concludersi con successo.

Un certificato senza credibilità

Il preside non era a scuola, quindi siamo andati a trovare il segretario scolastico. Quando ha visto la lettera di presentazione e la nota scritta sul retro, ha chiesto i documenti di Maryam e poi ha ripetuto la stessa scusa che avevamo sentito in segreteria: “Non iscriviamo studenti con due tipi di documenti diversi”.

Maryam protestò: “Ci avevate detto che se avessimo portato una lettera di raccomandazione il problema sarebbe stato risolto”. L’impiegato rispose che la decisione spettava al preside. Chiedemmo quando sarebbe tornato. “Un’ora, due ore… forse non tornerà affatto”, fu la risposta.

Maryam e io ci siamo seduti sulle sedie nel corridoio e abbiamo iniziato a parlare. Le ho chiesto cosa le fosse successo durante gli ultimi mesi di turbolenze che i residenti afghani hanno sopportato in Iran. Lei ha risposto: “Eravamo terribilmente preoccupati di essere costretti a lasciare l’Iran. Ormai non ricordo quasi più l’Afghanistan. I miei figli sono nati qui e non l’hanno mai visto. Ogni volta che si presentava la possibilità di andarsene, Mohammad chiedeva se poteva andare a scuola lì. Gli abbiamo detto che la maggior parte delle scuole in Afghanistan sono religiose e che bisogna indossare un lungi e una camicia lunga. Lui diceva sempre che non voleva andarci”.

Suonò la campanella della ricreazione. Bambini bassi e irrequieti uscirono dalle aule e corsero in cortile a giocare. Tra loro notai due o tre bambini afghani. Dissi a Maryam che avevo notato quanto la scuola sembrasse vuota. Mi spiegò che era perché “quest’anno non hanno iscritto molti bambini afghani. Molti dei nostri connazionali vivono in questa zona di Teheran, quindi questa scuola aveva molti alunni afghani. Ma quest’anno non ne è stato iscritto quasi nessuno. Mohammad ha studiato in questa stessa scuola per cinque anni”.

Preoccupata per il probabile rifiuto del preside, Maryam si sentiva disperata: “Voglio dire loro che pulirò la vostra scuola gratis, accettate pure mio figlio”. Le dissi: “Non offrite niente del genere. Abbiamo una lettera ufficiale del Ministero degli Interni firmata da uno dei direttori dell’istruzione. Non dovete loro nulla. Pagheremo anche le tasse richieste”. Chiesi a Maryam di lasciarmi parlare se il preside fosse tornato a scuola.

Dopo un’ora o due di attesa, si è presentato il preside. Gli abbiamo mostrato la lettera di presentazione e i documenti e abbiamo sentito la stessa risposta data dal suo impiegato: “Non iscriviamo persone con documentazione mista. Mi dispiace”. Ho chiesto al preside: “Quindi la lettera del Ministero dell’Interno e la firma del signor X non hanno alcun significato?”

Lui rispose: “Rilasciano le loro autorizzazioni, ma poi un paio di giorni dopo vengono a fare delle ispezioni e mi criticano per aver iscritto un bambino con documenti incompleti o con una scheda del censimento; questo mi crea problemi. Solo lo scorso giugno, su 350 alunni afghani della mia scuola, a 330 è stata negata la pagella finale, nonostante fossero stati ufficialmente registrati”.

Ho detto: “Non si possono avere doppi standard. Il padre del ragazzo ha passato 10 giorni, dalle due del mattino alle due del pomeriggio, in fila a Eslamshahr per ottenere questo documento che ora dici non essere valido. Si è affidato a quello che hai detto. Per favore, permetti a Mohammad di completare il suo ultimo anno di scuola primaria nella stessa scuola dove ha già trascorso cinque anni. Perché è colpa del bambino se le diverse agenzie non riescono a concordare le proprie regole?”

[Trad. automatica]

Australia: i talebani afghani potrebbero dover affrontare nuove sanzioni

Human Rights Watch, 12 novembre 2025, Comunicato stampa

I regolamenti modificati consentiranno di agire contro chi viola i diritti e promuoveranno la responsabilità

Le modifiche proposte dal governo australiano alle sue norme sulle sanzioni rappresentano un passo importante verso l’assunzione di responsabilità da parte dei funzionari talebani e di altri responsabili di gravi abusi in Afghanistan , ha affermato Human Rights Watch in una recente comunicazione al governo australiano.

Il Regolamento sulle Sanzioni Autonome modificato introduce nuovi criteri di inserimento nell’elenco specifici per l’Afghanistan e consentirà al governo australiano di imporre sanzioni mirate e divieti di viaggio a individui ed entità in Afghanistan che siano coinvolti, responsabili o complici dell’oppressione di donne, ragazze e gruppi minoritari, o dell’oppressione in generale. Permetterà inoltre di imporre sanzioni contro chiunque comprometta il buon governo e lo stato di diritto in Afghanistan.

“È fondamentale che il governo australiano intervenga contro i leader talebani responsabili della violazione dei diritti delle donne e delle ragazze e di altri gravi abusi in Afghanistan”, ha affermato Daniela Gavshon , direttrice per l’Australia di Human Rights Watch. “Le modifiche apportate alle norme sulle sanzioni consentiranno all’Australia di unirsi ad altri paesi che stanno già adottando misure per contrastare la diffusa e sistematica oppressione dei talebani”.

Da quando hanno preso il controllo del Paese nell’agosto 2021, i Talebani hanno intensificato i loro attacchi ai diritti delle donne e delle ragazze, il che equivale al crimine contro l’umanità della persecuzione di genere. Esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani e attivisti afghani per i diritti delle donne hanno descritto le violazioni sistematiche e strutturali dei Talebani contro donne e ragazze come “ apartheid di genere “.

Le autorità talebane hanno inoltre progressivamente limitato lo spazio civico, attuato una censura su larga scala e arrestato e torturato giornalisti e attivisti. Lesbiche, gay, bisessuali e transgender afghani, e le persone che non si conformano alle rigide norme di genere in Afghanistan, si trovano ad affrontare una situazione sempre più disperata e gravi minacce alla loro sicurezza e alla loro vita sotto il controllo dei talebani. Inoltre, gruppi affiliati allo Stato Islamico (ISIS) hanno effettuato attentati contro gli sciiti di etnia Hazara e altre, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

“Il governo australiano dovrebbe utilizzare sanzioni mirate come importante strumento di politica estera contro i talebani per sollecitare l’assunzione di responsabilità per i gravi abusi”, ha affermato Gavshon. “Imporre sanzioni ai leader autori di abusi è una delle numerose misure che possono aumentare il costo delle violazioni dei diritti umani in Afghanistan e altrove”.

I talebani arrestano e poi rilasciano una dottoressa durante una nuova repressione delle donne a Herat

amu.tv, 10 novembre 2025, di  Ahmad Azizi

Fonti locali hanno riferito che i talebani hanno arrestato e poi rilasciato una chirurga a Herat, nell’ambito di una nuova stretta sull’abbigliamento femminile e sull’accesso agli spazi pubblici, comprese le strutture mediche.

La dottoressa Shabnam Fazli, chirurgo generale presso l’ospedale regionale di Herat, è stata arrestata dai funzionari talebani nei pressi dell’ospedale all’inizio di questa settimana, secondo quanto riferito da alcune fonti ad Amu. Suo marito, Quddus Khatibi, ha successivamente confermato l’arresto sulla sua pagina Facebook. Nel frattempo è stata rilasciata.

L’incidente segue le nuove restrizioni imposte dai talebani, che impongono a pazienti e medici di indossare il burqa negli ospedali pubblici. Sebbene la direzione talebana per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio di Herat abbia negato di aver emanato tale direttiva, diversi testimoni oculari e il personale ospedaliero affermano che l’applicazione è già iniziata.

Fonti affermano che la situazione è degenerata quando a una donna incinta, che aveva già subito due tagli cesarei, è stato negato l’ingresso al Gozargah Maternity Hospital perché non indossava il burqa. Mentre soffriva per le doglie fuori dalla struttura, il suo utero si è rotto. La sua famiglia, disperata, l’ha trasportata in risciò in un altro ospedale, il Rezai Regional Maternity Hospital.

Quando è stata sottoposta a un intervento chirurgico d’urgenza, il suo bambino non ancora nato era morto a causa di un’emorragia interna e della mancanza di ossigeno, hanno spiegato le fonti. La donna è attualmente in coma e rimane ricoverata in terapia intensiva, hanno aggiunto le fonti.

Il caso ha suscitato indignazione tra i professionisti del settore medico e i sostenitori dei diritti delle donne, i quali affermano che le rigide norme di abbigliamento dei talebani mettono in pericolo vite umane e violano l’etica medica di base.

“Non si tratta di cultura o tradizione, ma di controllo”, ha affermato un medico di Herat che ha chiesto di rimanere anonimo per timore di ritorsioni. “Quando l’accesso all’assistenza sanitaria diventa condizionato da ciò che una donna indossa, si perdono delle vite”.

Da quando sono tornati al potere nel 2021, i Talebani hanno reintrodotto una serie di restrizioni di genere simili a quelle applicate durante il loro primo regime negli anni ’90. Alle donne è ora vietato accedere alla maggior parte dei lavori, all’istruzione secondaria e superiore e spesso sono obbligate a viaggiare con un tutore maschio. La visibilità pubblica è ulteriormente limitata dai codici di abbigliamento che impongono l’uso di indumenti che coprano il viso, come il burqa.

Le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani hanno ripetutamente chiesto ai talebani di revocare queste politiche, avvertendo che esse equivalgono a una “persecuzione di genere” e potrebbero costituire crimini secondo il diritto internazionale.

Nonostante le pressioni internazionali, i talebani continuano a sostenere che le loro politiche sono in linea con la loro interpretazione della legge islamica.

[Trad. automatica]

Iraq al voto, in ballo ci sono anche gli equilibri di potere nel Kurdistan spaccato

Il manifesto, 12 novembre 2025 di Maysoon Majidi

Asia occidentale La regione autonoma senza governo da un anno, la rivalità Kdp e PuK rende debole la voce curda a livelli nazionale. Nelle urne è sfida diretta tra Barzani e Talabani. Ma la fiducia della popolazione nelle istituzioni è in netto calo

La Regione del Kurdistan, formalmente autonoma dal 2005, è governata da due partiti che si dividono il potere tra Erbil e Sulaymaniyya, il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) e l’Unione patriottica del Kurdistan (PuK), che controllano quasi ogni aspetto della vita pubblica. Nati come movimenti di liberazione, oggi sono diventati veri e propri sistemi di potere, basati su reti clientelari e familiari.

Il Kdp, guidato dalla famiglia Barzani, controlla Erbil e Duhok, mentre il PuK, erede della famiglia Talabani, domina Sulaymaniyya. Entrambi gestiscono in modo diretto le istituzioni, l’esercito, la polizia, i media e una parte significativa dell’economia. Una sorta di due ministati all’interno della regione stessa. Quest sistema clientelare ha garantito stabilità ma anche corruzione diffusa, mancanza di meritocrazia e scarsa libertà di critica.

IN IRAQ, IL VOTO NAZIONALE del 2025 si intreccia con la continua crisi politica del Kurdistan, dove i due principali partiti osservano con attenzione l’esito elettorale mentre la regione resta senza un governo pienamente operativo dalle elezioni del 2024. Secondo la Commissione elettorale, la partecipazione nella regione curda è scesa dal 69% del 2018 al 55% del 2021. In quella tornata, il Kdp che aveva ottenuto 39 seggi e il PuK con 23 si erano affermati come le due principali forze politiche del Kurdistan. Tuttavia, a oggi, i due partiti non sono ancora riusciti a trovare un accordo per la formazione del nuovo esecutivo né ad eleggere il presidente e i vicepresidenti del Parlamento regionale. Lo stallo riflette un equilibrio sempre più fragile e una frattura profonda tra Erbil e Sulaymaniyya, non solo politica ma anche economica e territoriale. Le tensioni si intrecciano con la gestione delle risorse, dei salari pubblici e con il controllo delle aree al confine con l’Iran.

In un contesto in cui la popolazione curda mostra crescente sfiducia verso le istituzioni, il prolungato vuoto di governo rischia di aggravare la crisi di rappresentanza e di legittimità dell’intera classe politica curda. Nel frattempo, i due leader, Masrour Barzani e Bafel Talabani, hanno trasformato la campagna per le elezioni federali dell’11 novembre in un confronto diretto. Il Kdp punta a raggiungere un milione di voti, obiettivo che servirebbe a consolidare il proprio peso a Baghdad e non solo.

«LA FORZA DEL PARTITO a Baghdad è la forza del Kurdistan. Il nostro obiettivo è l’attuazione del federalismo e della Costituzione», ha dichiarato Barzani, accusando i governi iracheni di non aver mai rispettato il principio di equilibrio sancito dalla Carta. Un richiamo all’autonomia ripreso anche dal leader storico del partito, Masoud Barzani, promotore del referendum d’indipendenza del 2017 mai attuato: «Nel 2002 ci incontrammo alla conferenza dell’opposizione a Londra e concordammo su tre principi fondamentali: che l’Iraq fosse governato con partenariato, equilibrio e consenso. Ma purtroppo ciò non è stato realizzato».

Dal canto suo, Bafel Talabani, presidente del PuK, ha promesso che il suo partito «non entrerà in alcun governo finché non avremo la certezza che tutte le città del Kurdistan siano viste e servite allo stesso modo». Un messaggio diretto al Kdp, accusato di concentrare potere e risorse nella sola Erbil. Talabani, erede politico di una famiglia storicamente più vicina a Baghdad, punta a rafforzare i legami con il Coordination Framework, l’alleanza sciita filo-iraniana che sostiene il primo ministro Mohammed Shia’ al-Sudani, e a mantenere relazioni strategiche con Teheran.

Le divisioni tra Kdp e PuK si riflettono così anche a livello nazionale: il primo più vicino ad Ankara e in rapporti pragmatici con il governo centrale, il secondo più allineato all’Iran e alle forze sciite dominanti. Questa frammentazione continua a indebolire la rappresentanza curda nel parlamento iracheno, dove la voce di Erbil e quella di Sulaymaniyya spesso si annullano a vicenda.

A QUASI VENT’ANNI dalla proclamazione dell’autonomia, il Kurdistan iracheno vive una delle sue fasi più delicate. La paralisi istituzionale, il malcontento popolare e la competizione tra le dinastie Barzani e Talabani rischiano di erodere quel fragile equilibrio su cui si è costruita la regione. E mentre l’Iraq torna alle urne tra sfiducia e disillusione, nel nord del paese, la loro rivalità continua a indebolire la posizione politica dei curdi nel parlamento iracheno, impedendo una voce unitaria nelle negoziazioni federali e nella difesa dell’autonomia regionale.

In un Iraq attraversato da stanchezza politica, promesse mancate e sfiducia crescente, anche il Kurdistan sembra oggi alla ricerca di una nuova legittimità e di una leadership capace di superare le logiche del potere dinastico.

Islamabad accusa talebani pakistani per l’attentato, Kabul chiude il commercio

Asia News, 12 novembre 2025

Dopo le 12 persone uccise dall’esplosione al tribunale distrettuale, il governo pakistano punta il dito contro Tehrik-i Taliban Pakistan (TTP), formazione accusata di agire col sostegno di Kabul e dell’India. In risposta, l’Afghanistan ha sospeso tutti gli scambi commerciali, bloccando anche le importazioni di farmaci. Mentre un rapporto dell’ONU denuncia una situazione umanitaria sempre più grave tra profughi afghani rimpatriati in estrema povertà e il 90% delle famiglie alla fame.

Islamabad (AsiaNews) – L’Afghanistan ha annunciato che non riprenderà i commerci con il Pakistan in seguito all’attentato che si è verificato ieri a Islamabad. Anche le importazioni di farmaci sono state bloccate, hanno riferito i talebani, nonostante nel Paese la stragrande maggioranza della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà.

Il ministro dell’Interno pakistano, sebbene abbia dichiarato che le autorità stiano “esaminando tutti gli aspetti” riguardo all’esplosione, ieri ha incolpato come responsabili “elementi sostenuti dall’India e agenti dei talebani afghani”, riferendosi ai Tehrik-i Taliban Pakistan, conosciuti come TTP, principali responsabili dell’aumento degli attentati terroristici negli ultimi anni. La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nel 2021 ha infatti galvanizzato i TTP che puntano a ricreare anche in Pakistan un Emirato islamico su modello di quello afghano.

L’attacco di ieri di fronte al tribunale distrettuale di Islamabad, in cui sono morte 12 persone, ha fatto riemergere una serie di preoccupazioni nell’opinione pubblica: nonostante le diverse operazioni delle forze di sicurezza lanciate nelle aree di confine nel tentativo di eliminare i gruppi terroristici legati al TTP, questi sembrano essere in grado di organizzare attentati nella capitale, che era considerata, come diversi altri centri urbani, un territorio tutto sommato sicuro.

Il TTP ha negato il proprio coinvolgimento, mentre una fazione separatista, la Jamaat-ul-Ahrar, ne ha poi in un primo momento rivendicato la responsabilità, poi smentita dal comandante del gruppo. La Jamaat-ul-Ahrar ha un rapporto conflittuale con i TTP: si era separata come fazione indipendente nel 2014 e aveva scelto come base operativa la provincia afghana di Nangarhar, per poi tornare tra i ranghi nel 2020, ma le recenti dichiarazioni mostrano come i TTP non siano un gruppo unitario, ma un insieme di milizie che a volte perseguono azioni in maniera indipendente. Nel 2022 il leader della Jamaat-ul-Ahrar, conosciuto come Abdul Wadi, era stato ucciso in Afghanistan.

L’attentato a Islamabad, inoltre, ha fatto seguito a un assalto a una scuola militare a Wana, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, epicentro delle violenze e degli scontri tra esercito pakistano e talebani. Secondo le autorità i combattenti che hanno preso d’assalto l’istituto (dove centinaia di studenti sono stati evacuati) volevano replicare gli attentati contro le scuole di Peshawar del 2014.

Nel frattempo, il mullah Baradar Akhund, vice ministro per gli Affari economici, ha dichiarato: “Per salvaguardare la dignità nazionale, gli interessi economici e i diritti dei nostri cittadini, i commercianti afghani dovrebbero ridurre al minimo i loro scambi commerciali con il Pakistan e cercare vie di transito alternative. Se, a partire da oggi, un commerciante dovesse incontrare problemi in Pakistan, il governo afghano non ascolterà le sue rimostranze né si occuperà delle sue questioni”. Nel corso della stessa conferenza stampa, il ministro dell’Industria e del Commercio, Nooruddin Azizi, ha rivelato che la chiusura del valico di Torkham, durata un mese, è costata ai commercianti afghani circa 200 milioni di dollari.

Le tensioni tra Pakistan e Afghanistan erano sfociate in un conflitto il mese scorso, a inizio ottobre, quando Islamabad ha lanciato una serie di attacchi, compreso il lancio di una serie di droni contro la capitale, Kabul. Sono poi scoppiati scontri transfrontalieri, a cui la mediazione del Qatar ha messo fine il 19 ottobre, ma una soluzione definitiva non è stata ancora trovata tra i due Paesi, e secondo gli esperti una de-escalation non sembra essere in vista.

Nel frattempo, però, le condizioni di vita della popolazione continuano a essere drammatiche: negli ultimi anni il Pakistan, per fare pressioni ai talebani affinché mettessero fine agli attentati dei TTP (una questione su cui Kabul dice di non avere potere) ha espulso milioni di profughi afghani che avevano trovato rifugio in Pakistan, in particolare dopo il 2021. Circa 4,5 milioni di persone sono rientrate a partire da settembre 2023.

Secondo un rapporto pubblicato oggi dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (UNDP), crisi sovrapposte (povertà cronica, rimpatri involontari su vasta scala, gli shock climatici e catastrofi naturali, il calo degli aiuti e l’esclusione delle donne dalla vita pubblica imposta dai talebani) hanno creato una “tempesta perfetta” che sta aggravando la povertà in tutto l’Afghanistan, al punto che 9 famiglie su 10 soffrono la fame. Più della metà delle famiglie che sono rientrate in Afghanistan rinuncia alle cure mediche per permettersi il cibo, mentre oltre il 90% ha contratto debiti per far fronte alla situazione. I debiti vanno dai 373 a 900 dollari, mentre uno stipendio medio in Afghanistan si attesta sui 100 dollari al mese. La disoccupazione è stimata tra l’80% e il 95% tra le famiglie rimpatriate, di cui una su quattro è guidata da donne, mentre circa il 30% dei bambini è costretto a lavorare. Il 75% delle famiglie rientrate risiede in aree rurali, dove i costi degli affitti sono aumentati dal 100% al 300% in alcune regioni.

Oltre 150.000 afghani sono tornati da Pakistan, Iran e Turchia in 15 giorni

RAWA News, 10 novembre 2025

I rimpatriati chiedono maggiore assistenza e la creazione di opportunità di lavoro.

Abdulmutalib Haqqani, portavoce del Ministero, ha dichiarato a TOLOnews: “Durante questo periodo, 24.787 famiglie sono tornate dal Pakistan, 1.251 dall’Iran e 6 dalla Turchia”.

Tra i rimpatriati non ci sono solo bambini, ma anche adulti come Noorullah e Mohammad Amir, che sono tornati nella loro patria per la prima volta e raccontano le dolorose esperienze di perdita di un rifugio durante la loro vita all’estero.

Noorullah, espulso dal Pakistan, ha dichiarato: “Siamo rimasti al confine per due settimane, poi una settimana a Kandahar e ora quattro giorni qui nel campo di Kabul. Finora, nessun mezzo è arrivato per riportarci nella nostra provincia”.

Mohammad Amir, un altro deportato dal Pakistan, ha raccontato: “La polizia pakistana veniva ogni giorno e ci dava delle scadenze. Un giorno ci dicevano che avevamo una settimana, il giorno dopo tre giorni. Alla fine, ci hanno costretti ad andarcene”.

Mullah Gul, anche lui deportato dal Pakistan, ha dichiarato a TOLOnews: “Il Pakistan ci ha trattato duramente, ci ha preso i soldi e i telefoni solo perché sono afghano?”

I rimpatriati chiedono maggiore assistenza e la creazione di opportunità di lavoro.

Abdulhamid, deportato dal Pakistan, ha dichiarato: “Ci sono molti problemi. Come faranno i nostri figli a sopravvivere a questo inverno? Abbiamo bisogno di aiuto, lavoro e un riparo”.

Gulbuddin, un altro deportato, ha affermato: “Dovrebbero aumentare gli aiuti, quello che stiamo ricevendo non è sufficiente”.

Sebbene il campo di rimpatrio di Kabul ospiti ancora oltre 7.000 persone, i funzionari dell’Emirato islamico hanno chiesto ai paesi vicini di porre fine alle deportazioni forzate dei rifugiati afghani.

[Trad. automatica]

 

 

Definitiva la sentenza CEDU: per Demirtas è la volta buona per la scarcerazione?

Contropiano, 10 novembre 2025, di Giovanni Di Fronzo

La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha respinto l’ultimo ricorso presentato dal Ministero della Giustizia turco contro la sentenza di scarcerazione per Demirtas e, di riflesso, per tutti i condannati nell’ambito del cosiddetto “processo Kobane”. Ora la sentenza è definitiva e, dal punto di vista della legalità formale turca, sarebbe solo da rendere esecutiva.

Dal punto di vista sostanziale, però, la decisione sarà prettamente politica. Ad esempio, nel caso di Osman Kavala, fondatore del ramo turco della Open Society Foundation di Soros e condannato all’ergastolo aggravato per i fatti di Piazza Taksim, la Turchia non sta applicando la sentenza di scarcerazione della CEDU e, a causa di questa decisione, ha una procedura di infrazione a proprio carico aperta.

A favore della scarcerazione è intervenuto ancora una volta uno dei due pilastri dell’alleanza di governo, quel Devlet Bahceli, fondatore dei “lupi grigi”, il quale, poco più di un anno fa chiedeva l’esecuzione della condanna a morte di Ocalan, la chiusura della corte costituzionale turca, colpevole di esprimersi a favore di Demirtas, e l’espulsione dal parlamento del sinistra filo-curda.

Dall’ottobre 2024 ha cambiato completamente posizione e ha cominciato a spingere forte per il compimento del processo di pace con il PKK. In questi giorni continua a chiedere che la commissione parlamentare istituita ad hoc si rechi ad Imarlai ad ascoltare direttamente Ocalan e su Demirtas ha affermato: ”Il suo rilascio sarebbe positivo per la Turchia”.

Anche dall’oppisizione repubblicana, attaulmente sotto torchio giudiziario, arrivano segnali definitivi. Il leader Ozgil Ozel ha chiesto apertamente scusa per il fatto che la maggior parte dei parlamentari repubblicani nel 2016 votarono a favore della revoca dell’imminutà parlamentare nei confronti dello stesso Demirtas e degli altri esponenti dell’allora Partito Democratico dei Popoli (HDP), dando il via libera al “processo Kobane” e a tanti altri processi.

Demirtas, da partre sua, dal carcere ha postato sui suoi social un manoscritto di ringraziamento: ”Il signor Devlet Bahçeli ha coraggiosamente infranto i tabù…, dimostrando che la pace non può essere costruita arrendendosi alla paura. Mi congratulo di cuore con lui e lo ringrazio sinceramente. Il signor Özgür Özel ha dato un ulteriore esempio di coraggio, dimostrando un atteggiamento virtuoso e autocritico. Mi congratulo di cuore con lui e lo ringrazio sinceramente. Tutti dovrebbero sapere ed essere certi di questo: se rimaniamo bloccati negli errori del passato mentre cerchiamo di voltare pagina insieme, ipotecheremo anche il nostro futuro. Né io, né alcun altro politico possiamo permetterci questo lusso, e non nutro alcun risentimento o rancore particolare nei confronti di nessuno… Il nostro dovere è sostenere il processo di pace senza esitazione. Ci impegneremo a risolvere insieme tutti i problemi rimanenti, con i mezzi e le condizioni della politica democratica, la pace prima di tutto”.

Successivamente, sempre sui suoi social, ha formulato un invito: ”Mi rivolgo a tutte le parti e ai principali attori del processo, al presidente Erdoğan, al leader dell’MHP Bahçeli e al leader fondatore del PKK Öcalan, come vostro fratello, come politico che lotta per la pace: vi prego di non rinunciare a compiere passi concreti, di non prestare attenzione a ciò che dicono gli altri, di avere fiducia in voi stessi e di credere che 86 milioni di persone attendono con ansia la pace”.

Leggendo fra le righe di questa dichiarazione, vi si potrebbe scorgere un tentativo di porsi all’opinione pubblica del paese come soggetto terzo fra la parte dello stato turco e quella del movimento curdo.

Chi continua a tenere un atteggiamento ambiguo è proprio Erdogan. Nei giorni scorsi ha incontrato la delegazione della sinistra filocurda che sta mediando con Ocalan, esprimendo valutazioni positive: ”Abbiamo avuto un incontro molto costruttivo, produttivo e promettente con loro. Speriamo di vederne l’impatto nei prossimi giorni”.

Però non si esprime mai sull’eventuale incontro della commissione parlamentare con Ocalan e sulla scarcerazione di Demirtas, rispetto alla quale non più tardi di un mese fa il suo Ministero della Giustizia ha presentato l’ultimo ricorso. Ovviamente, ammettere che il “processo Kobane” sia illegittimo ha un costo politico, ma non volerlo pagare significa esibire una concezione quantomeno strumentale del processo di pace.

Staremo a vedere. Ambienti della sinistra filocurda danno come imminente il rilascio di Demirtas e secondo Reuters, il parlamento sta preparando una legge ad hoc per riammettere in Turchia alcuni militanti del PKK che non si siano macchiati di reati di sangue, senza, però, decretare un’amnistia generale.

Da rimarcare che il vero banco di prova per il processo di pace rimane sempre la situazione legata all’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria a guida curda e la sua integrazione nelle strutture statali centrali a guida qaedista.

Su questo anche Bahceli è irremovibile: un’integrazione delle milizie a guida curda nell’esercito centrale nella forma di divisioni autonome, come perorato dal leader curdo Mazloum Abdi, rappresenterebbe una minaccia per la Turchia, che vuole la loro completa liquidazione agli ordini dei generali di Al-Golani.

La situazione, però, non va esattamente in quella direzione. Intervistato da Amberin Zaman per Al-Monitor, Sipan Hemo, un altro generale curdo, ha dichiarato che le Forze Democratiche Siriane si stanno preparando per la guerra contro il governo centrale, nel caso in cui i negoziati dovessero fallire.

Su questo capitolo, oltre alle mediazioni internazionali, fondamentale potrebbe essere l’apporto politico dello stesso Demirtas e di tutti i dirigenti curdi imprigionati proprio per aver espresso il loro sostegno alle milizie curdo-siriane.

L’impresa di trovare un accordo rimane comunque ardua a causa della natura settaria ed inaffidabile delle autorità di Damasco e dei tentativi di boicottaggio da parte di potenze straniere, che certamente non mancheranno. Israele, ad esempio, punta a tenere divisa la Siria e a destabilizzare la Turchia tramite il proprio appoggio strumentale alla causa curda.

Burqa o gabbia: le donne di Herat si ribellano al velo obbligatorio dei talebani

8am.media, 9 novembre 2025, di Amin Kawa

I talebani hanno intensificato la pressione sulle donne di Herat affinché impongano l’obbligo dell’hijab imposto dal gruppo. Alle donne che non indossano il burqa è stato impedito di entrare nelle istituzioni governative controllate dai talebani, compresi gli ospedali, e a coloro che si recano per prendersi cura di loro non è consentito l’ingresso. Allo stesso tempo, le insegnanti che insegnano alle bambine sotto la sesta elementare hanno ricevuto l’istruzione che se non indossano il burqa saranno considerate assenti e nessuno ha il diritto di sfidare questo ordine talebano. I talebani hanno persino costretto le studentesse delle scuole religiose sotto il loro controllo, che, secondo il gruppo, osservano già l’hijab completo e ricevono istruzione religiosa, a indossare il burqa. In risposta a queste restrizioni, diverse donne di Herat hanno protestato, bruciando il burqa come simbolo di coercizione e di gabbia, dichiarando che non si sottometteranno mai all’umiliazione e al silenzio.

Dopo aver imposto divieti su larga scala, i talebani hanno costretto donne e ragazze di Herat a indossare il burqa e il chador. Negli ultimi giorni, alle donne senza chadari è stato impedito di entrare nelle istituzioni governative controllate dai talebani, compresi gli ospedali, e nelle scuole religiose sono state costrette a osservare l’abbigliamento completo richiesto dal gruppo. Donne e ragazze affermano di non poter vivere in una “gabbia” e sottolineano di osservare già l’hijab completo richiesto dai talebani e di non poter sopportare una situazione ancora peggiore.

Nel frattempo, fonti affermano che negli ultimi giorni, alle donne e alle ragazze che si recano in ospedale viene negato l’ingresso perché non indossano il burqa. Secondo le fonti, la maggior parte di queste donne è malata e, nonostante le gravi condizioni fisiche, è costretta ad aspettare dietro le porte.

Una fonte racconta: “Sono andata in diversi uffici per sbrigare alcuni documenti. All’ospedale provinciale, donne e bambini malati venivano lasciati fuori dalla porta e la situazione era estremamente angosciante. A nessuno era permesso entrare. Una visitatrice, proveniente da un distretto remoto, teneva in braccio il suo bambino malato e non sapeva cosa fare. Ha chiesto preoccupata: quanto costa ora un burqa e dove possiamo procurarcene uno?”

Le fonti sottolineano inoltre che i presidi delle scuole femminili inferiori alla sesta elementare e delle scuole religiose femminili hanno ricevuto l’ordine di informare gli insegnanti che a nessuno è permesso entrare nella scuola senza indossare il burqa e che se violano questo ordine, saranno rimossi dal loro incarico.

Allo stesso tempo, un’insegnante di una scuola privata di Herat afferma di aver ricevuto una lettera ufficiale che impone loro di indossare il chadari. Secondo lei, nella Direzione Passaporti sotto il controllo dei talebani, alle donne che non indossano il burqa non verrà rilasciato il passaporto.

Alcune insegnanti di Herat hanno dichiarato di aver resistito ieri all’ordine dei talebani e di essersi rifiutate di indossare il burqa. Secondo loro, anche i presidi scolastici hanno appoggiato questa decisione delle insegnanti. Tuttavia, nella scuola religiosa “Ghiasia”, alle donne e alle ragazze senza burqa non è stato permesso l’ingresso.

Fonti affermano che giovedì della scorsa settimana e sabato di questa settimana, un gruppo di donne e ragazze ha protestato all’interno della scuola “Ghiasia” e ne ha chiuso il cancello. Secondo loro, circa 200-300 studentesse, che indossavano scialli da preghiera, aspettavano dietro l’ingresso, ma non sono state autorizzate a entrare. Poi, a causa del raduno delle ragazze, il vicolo della scuola è stato bloccato e hanno iniziato a gridare “Morte ai talebani”.

Una fonte aggiunge: “Oggi ho visto una delle preside ricevere una telefonata in cui le veniva detto: Domani, segnate come assente qualsiasi insegnante che si presenti senza burqa. Il suo viso è impallidito. Non indosserò il chadari-burqa e non andrò a scuola. Un mese dopo sarò licenziata, ma poi cosa dovrei fare? Come pagherò le mie spese di sostentamento? Indicatemi una strada – a me e ad altre donne come me – e la seguirò. Mezz’ora fa, la nostra scuola ci ha contattato e ci ha detto: Non incoraggiate le insegnanti a non indossare il chadari. Vedete, loro sanno esattamente chi chiamare e cosa dire. Naturalmente, da domani, anche nella nostra scuola, il chadari è stato dichiarato l’abbigliamento ufficiale”.

Reazione delle donne e delle ragazze che protestano

A seguito dell’intensificarsi delle pressioni dei talebani affinché indossassero il burqa, una donna di Herat, in risposta a questo ordine, ne ha dato fuoco a un burqa e ha dichiarato: “Sono una donna, non un’ombra. Non mettete a tacere la mia voce. Respirare è un nostro diritto. Il blu non è il colore della coercizione. Siamo ancora qui, ad aspettare il sole dietro questo telo. Dentro questo blu c’è una donna che sogna ancora. Portate il mio chadar al vento e restituitemi la mia voce. Sono una donna. Ho il diritto di respirare, il diritto di vedere e di non coprirmi lo sguardo”.

Anche le membri del Movimento per la Solidarietà e l’Unità delle Donne Afghane di Herat hanno bruciato il burqa imposto dai talebani in un atto simbolico e hanno danzato in segno di protesta contro l’obbligo di indossarlo. Il movimento ha annunciato in una dichiarazione: “Le donne afghane non si arrenderanno mai alla coercizione e all’umiliazione”.

Hoda Khamoosh, una delle donne che hanno protestato in risposta al nuovo ordine dei talebani a Herat, afferma che i talebani temono le voci e i pensieri delle donne e che negli ultimi quattro anni hanno agito duramente contro di loro.

Fariha Jaberi, membro dell’Afghanistan Women’s Justice Movement, commentando l’imposizione del burqa a Herat, afferma: “L’hijab, se scelto con il cuore, è dignità; ma se imposto per paura e coercizione, è una catena. Una catena alle mani e ai piedi di donne che vogliono solo essere umane”. Aggiunge che i talebani vogliono una società con una sola voce e un solo genere, ma “le donne non saranno messe a tacere”.

Bahar Khamoosh, una delle donne che hanno protestato in risposta all’ordine dei talebani di imporre il burqa a Herat, ha affermato che imporre l’hijab obbligatorio non significa solo coprire il volto, ma anche mettere a tacere metà della società. Ha aggiunto che con questo decreto i talebani non stanno difendendo la fede, ma si stanno nascondendo dietro la propria paura. Si nascondono sotto il burqa per nascondere il loro vero volto e vogliono soffocare le voci delle donne.

I Talebani, nella loro Legge per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, hanno definito il concetto di “hijab della Sharia” secondo la loro interpretazione. Secondo la Clausola 10 dell’Articolo 3 di questa legge, “l’hijab della Sharia si riferisce a un indumento che copre l’intero corpo e il viso di una donna, escluso l’uomo non mahram, e che non è sottile, corto o stretto”.

L’articolo 13 della Legge talebana per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio rende obbligatorio coprire tutte le parti del corpo di una donna. In questo articolo, ascoltare la voce delle donne attraverso altoparlanti, canti e recitazioni è descritto come “awrah”. L’articolo afferma: “Coprire l’intero corpo di una donna è obbligatorio. Nascondere il viso di una donna per paura della tentazione è necessario. Le voci femminili (cantare a voce alta, canti e recitazioni) in generale sono awrah. Gli abiti femminili non devono essere sottili, corti o attillati. Le donne musulmane sono obbligate a nascondere il proprio corpo e il proprio viso agli uomini non mahram”.

Nella clausola 6 dell’articolo 13, coprire il viso e il corpo di una donna è descritto come “obbligatorio”. La clausola afferma: “È obbligatorio coprire [i corpi] delle donne musulmane e delle donne giuste da quelle non credenti e immorali per paura della tentazione”.

Nel frattempo, Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, in un recente rapporto intitolato “Accesso alla giustizia e al sostegno per donne e ragazze e l’impatto di molteplici e intersecanti forme di discriminazione”, ha affermato che dal 2021 i Talebani hanno sistematicamente privato donne e ragazze di diritti fondamentali come l’istruzione, il lavoro, la libertà di movimento e la tutela giudiziaria, e hanno smantellato le precedenti istituzioni legali e di supporto. Secondo questo rapporto, sotto il controllo dei Talebani, il sistema giudiziario e legale dell’Afghanistan è diventato uno strumento di repressione, discriminazione di genere e violenza contro donne, ragazze e minoranze sessuali, e le donne si trovano ad affrontare ampie barriere economiche, sociali, culturali e linguistiche.

Inoltre, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto per Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dei talebani, e Abdul Hakim Haqqani, il capo della Corte suprema del regime, con l’accusa di “aver commesso crimini contro l’umanità”.

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