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Autore: CisdaETS

Iraq al voto, in ballo ci sono anche gli equilibri di potere nel Kurdistan spaccato

Il manifesto, 12 novembre 2025 di Maysoon Majidi

Asia occidentale La regione autonoma senza governo da un anno, la rivalità Kdp e PuK rende debole la voce curda a livelli nazionale. Nelle urne è sfida diretta tra Barzani e Talabani. Ma la fiducia della popolazione nelle istituzioni è in netto calo

La Regione del Kurdistan, formalmente autonoma dal 2005, è governata da due partiti che si dividono il potere tra Erbil e Sulaymaniyya, il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) e l’Unione patriottica del Kurdistan (PuK), che controllano quasi ogni aspetto della vita pubblica. Nati come movimenti di liberazione, oggi sono diventati veri e propri sistemi di potere, basati su reti clientelari e familiari.

Il Kdp, guidato dalla famiglia Barzani, controlla Erbil e Duhok, mentre il PuK, erede della famiglia Talabani, domina Sulaymaniyya. Entrambi gestiscono in modo diretto le istituzioni, l’esercito, la polizia, i media e una parte significativa dell’economia. Una sorta di due ministati all’interno della regione stessa. Quest sistema clientelare ha garantito stabilità ma anche corruzione diffusa, mancanza di meritocrazia e scarsa libertà di critica.

IN IRAQ, IL VOTO NAZIONALE del 2025 si intreccia con la continua crisi politica del Kurdistan, dove i due principali partiti osservano con attenzione l’esito elettorale mentre la regione resta senza un governo pienamente operativo dalle elezioni del 2024. Secondo la Commissione elettorale, la partecipazione nella regione curda è scesa dal 69% del 2018 al 55% del 2021. In quella tornata, il Kdp che aveva ottenuto 39 seggi e il PuK con 23 si erano affermati come le due principali forze politiche del Kurdistan. Tuttavia, a oggi, i due partiti non sono ancora riusciti a trovare un accordo per la formazione del nuovo esecutivo né ad eleggere il presidente e i vicepresidenti del Parlamento regionale. Lo stallo riflette un equilibrio sempre più fragile e una frattura profonda tra Erbil e Sulaymaniyya, non solo politica ma anche economica e territoriale. Le tensioni si intrecciano con la gestione delle risorse, dei salari pubblici e con il controllo delle aree al confine con l’Iran.

In un contesto in cui la popolazione curda mostra crescente sfiducia verso le istituzioni, il prolungato vuoto di governo rischia di aggravare la crisi di rappresentanza e di legittimità dell’intera classe politica curda. Nel frattempo, i due leader, Masrour Barzani e Bafel Talabani, hanno trasformato la campagna per le elezioni federali dell’11 novembre in un confronto diretto. Il Kdp punta a raggiungere un milione di voti, obiettivo che servirebbe a consolidare il proprio peso a Baghdad e non solo.

Erbil, 11 novembre. Il presidente del Kurdistan iracheno, Nechirvan Barzani, altro importante esponente della dinastia Barzani, mostra il pollice con i figli dopo aver votato (foto Ap)
«LA FORZA DEL PARTITO a Baghdad è la forza del Kurdistan. Il nostro obiettivo è l’attuazione del federalismo e della Costituzione», ha dichiarato Barzani, accusando i governi iracheni di non aver mai rispettato il principio di equilibrio sancito dalla Carta. Un richiamo all’autonomia ripreso anche dal leader storico del partito, Masoud Barzani, promotore del referendum d’indipendenza del 2017 mai attuato: «Nel 2002 ci incontrammo alla conferenza dell’opposizione a Londra e concordammo su tre principi fondamentali: che l’Iraq fosse governato con partenariato, equilibrio e consenso. Ma purtroppo ciò non è stato realizzato».

Dal canto suo, Bafel Talabani, presidente del PuK, ha promesso che il suo partito «non entrerà in alcun governo finché non avremo la certezza che tutte le città del Kurdistan siano viste e servite allo stesso modo». Un messaggio diretto al Kdp, accusato di concentrare potere e risorse nella sola Erbil. Talabani, erede politico di una famiglia storicamente più vicina a Baghdad, punta a rafforzare i legami con il Coordination Framework, l’alleanza sciita filo-iraniana che sostiene il primo ministro Mohammed Shia’ al-Sudani, e a mantenere relazioni strategiche con Teheran.

Le divisioni tra Kdp e PuK si riflettono così anche a livello nazionale: il primo più vicino ad Ankara e in rapporti pragmatici con il governo centrale, il secondo più allineato all’Iran e alle forze sciite dominanti. Questa frammentazione continua a indebolire la rappresentanza curda nel parlamento iracheno, dove la voce di Erbil e quella di Sulaymaniyya spesso si annullano a vicenda.

A QUASI VENT’ANNI dalla proclamazione dell’autonomia, il Kurdistan iracheno vive una delle sue fasi più delicate. La paralisi istituzionale, il malcontento popolare e la competizione tra le dinastie Barzani e Talabani rischiano di erodere quel fragile equilibrio su cui si è costruita la regione. E mentre l’Iraq torna alle urne tra sfiducia e disillusione, nel nord del paese, la loro rivalità continua a indebolire la posizione politica dei curdi nel parlamento iracheno, impedendo una voce unitaria nelle negoziazioni federali e nella difesa dell’autonomia regionale.

In un Iraq attraversato da stanchezza politica, promesse mancate e sfiducia crescente, anche il Kurdistan sembra oggi alla ricerca di una nuova legittimità e di una leadership capace di superare le logiche del potere dinastico.

Islamabad accusa talebani pakistani per l’attentato, Kabul chiude il commercio

Asia News, 12 novembre 2025

Dopo le 12 persone uccise dall’esplosione al tribunale distrettuale, il governo pakistano punta il dito contro Tehrik-i Taliban Pakistan (TTP), formazione accusata di agire col sostegno di Kabul e dell’India. In risposta, l’Afghanistan ha sospeso tutti gli scambi commerciali, bloccando anche le importazioni di farmaci. Mentre un rapporto dell’ONU denuncia una situazione umanitaria sempre più grave tra profughi afghani rimpatriati in estrema povertà e il 90% delle famiglie alla fame.

Islamabad (AsiaNews) – L’Afghanistan ha annunciato che non riprenderà i commerci con il Pakistan in seguito all’attentato che si è verificato ieri a Islamabad. Anche le importazioni di farmaci sono state bloccate, hanno riferito i talebani, nonostante nel Paese la stragrande maggioranza della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà.

Il ministro dell’Interno pakistano, sebbene abbia dichiarato che le autorità stiano “esaminando tutti gli aspetti” riguardo all’esplosione, ieri ha incolpato come responsabili “elementi sostenuti dall’India e agenti dei talebani afghani”, riferendosi ai Tehrik-i Taliban Pakistan, conosciuti come TTP, principali responsabili dell’aumento degli attentati terroristici negli ultimi anni. La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nel 2021 ha infatti galvanizzato i TTP che puntano a ricreare anche in Pakistan un Emirato islamico su modello di quello afghano.

L’attacco di ieri di fronte al tribunale distrettuale di Islamabad, in cui sono morte 12 persone, ha fatto riemergere una serie di preoccupazioni nell’opinione pubblica: nonostante le diverse operazioni delle forze di sicurezza lanciate nelle aree di confine nel tentativo di eliminare i gruppi terroristici legati al TTP, questi sembrano essere in grado di organizzare attentati nella capitale, che era considerata, come diversi altri centri urbani, un territorio tutto sommato sicuro.

Il TTP ha negato il proprio coinvolgimento, mentre una fazione separatista, la Jamaat-ul-Ahrar, ne ha poi in un primo momento rivendicato la responsabilità, poi smentita dal comandante del gruppo. La Jamaat-ul-Ahrar ha un rapporto conflittuale con i TTP: si era separata come fazione indipendente nel 2014 e aveva scelto come base operativa la provincia afghana di Nangarhar, per poi tornare tra i ranghi nel 2020, ma le recenti dichiarazioni mostrano come i TTP non siano un gruppo unitario, ma un insieme di milizie che a volte perseguono azioni in maniera indipendente. Nel 2022 il leader della Jamaat-ul-Ahrar, conosciuto come Abdul Wadi, era stato ucciso in Afghanistan.

L’attentato a Islamabad, inoltre, ha fatto seguito a un assalto a una scuola militare a Wana, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, epicentro delle violenze e degli scontri tra esercito pakistano e talebani. Secondo le autorità i combattenti che hanno preso d’assalto l’istituto (dove centinaia di studenti sono stati evacuati) volevano replicare gli attentati contro le scuole di Peshawar del 2014.

Nel frattempo, il mullah Baradar Akhund, vice ministro per gli Affari economici, ha dichiarato: “Per salvaguardare la dignità nazionale, gli interessi economici e i diritti dei nostri cittadini, i commercianti afghani dovrebbero ridurre al minimo i loro scambi commerciali con il Pakistan e cercare vie di transito alternative. Se, a partire da oggi, un commerciante dovesse incontrare problemi in Pakistan, il governo afghano non ascolterà le sue rimostranze né si occuperà delle sue questioni”. Nel corso della stessa conferenza stampa, il ministro dell’Industria e del Commercio, Nooruddin Azizi, ha rivelato che la chiusura del valico di Torkham, durata un mese, è costata ai commercianti afghani circa 200 milioni di dollari.

Le tensioni tra Pakistan e Afghanistan erano sfociate in un conflitto il mese scorso, a inizio ottobre, quando Islamabad ha lanciato una serie di attacchi, compreso il lancio di una serie di droni contro la capitale, Kabul. Sono poi scoppiati scontri transfrontalieri, a cui la mediazione del Qatar ha messo fine il 19 ottobre, ma una soluzione definitiva non è stata ancora trovata tra i due Paesi, e secondo gli esperti una de-escalation non sembra essere in vista.

Nel frattempo, però, le condizioni di vita della popolazione continuano a essere drammatiche: negli ultimi anni il Pakistan, per fare pressioni ai talebani affinché mettessero fine agli attentati dei TTP (una questione su cui Kabul dice di non avere potere) ha espulso milioni di profughi afghani che avevano trovato rifugio in Pakistan, in particolare dopo il 2021. Circa 4,5 milioni di persone sono rientrate a partire da settembre 2023.

Secondo un rapporto pubblicato oggi dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (UNDP), crisi sovrapposte (povertà cronica, rimpatri involontari su vasta scala, gli shock climatici e catastrofi naturali, il calo degli aiuti e l’esclusione delle donne dalla vita pubblica imposta dai talebani) hanno creato una “tempesta perfetta” che sta aggravando la povertà in tutto l’Afghanistan, al punto che 9 famiglie su 10 soffrono la fame. Più della metà delle famiglie che sono rientrate in Afghanistan rinuncia alle cure mediche per permettersi il cibo, mentre oltre il 90% ha contratto debiti per far fronte alla situazione. I debiti vanno dai 373 a 900 dollari, mentre uno stipendio medio in Afghanistan si attesta sui 100 dollari al mese. La disoccupazione è stimata tra l’80% e il 95% tra le famiglie rimpatriate, di cui una su quattro è guidata da donne, mentre circa il 30% dei bambini è costretto a lavorare. Il 75% delle famiglie rientrate risiede in aree rurali, dove i costi degli affitti sono aumentati dal 100% al 300% in alcune regioni.

Oltre 150.000 afghani sono tornati da Pakistan, Iran e Turchia in 15 giorni

RAWA News, 10 novembre 2025

I rimpatriati chiedono maggiore assistenza e la creazione di opportunità di lavoro.

Abdulmutalib Haqqani, portavoce del Ministero, ha dichiarato a TOLOnews: “Durante questo periodo, 24.787 famiglie sono tornate dal Pakistan, 1.251 dall’Iran e 6 dalla Turchia”.

Tra i rimpatriati non ci sono solo bambini, ma anche adulti come Noorullah e Mohammad Amir, che sono tornati nella loro patria per la prima volta e raccontano le dolorose esperienze di perdita di un rifugio durante la loro vita all’estero.

Noorullah, espulso dal Pakistan, ha dichiarato: “Siamo rimasti al confine per due settimane, poi una settimana a Kandahar e ora quattro giorni qui nel campo di Kabul. Finora, nessun mezzo è arrivato per riportarci nella nostra provincia”.

Mohammad Amir, un altro deportato dal Pakistan, ha raccontato: “La polizia pakistana veniva ogni giorno e ci dava delle scadenze. Un giorno ci dicevano che avevamo una settimana, il giorno dopo tre giorni. Alla fine, ci hanno costretti ad andarcene”.

Mullah Gul, anche lui deportato dal Pakistan, ha dichiarato a TOLOnews: “Il Pakistan ci ha trattato duramente, ci ha preso i soldi e i telefoni solo perché sono afghano?”

I rimpatriati chiedono maggiore assistenza e la creazione di opportunità di lavoro.

Abdulhamid, deportato dal Pakistan, ha dichiarato: “Ci sono molti problemi. Come faranno i nostri figli a sopravvivere a questo inverno? Abbiamo bisogno di aiuto, lavoro e un riparo”.

Gulbuddin, un altro deportato, ha affermato: “Dovrebbero aumentare gli aiuti, quello che stiamo ricevendo non è sufficiente”.

Sebbene il campo di rimpatrio di Kabul ospiti ancora oltre 7.000 persone, i funzionari dell’Emirato islamico hanno chiesto ai paesi vicini di porre fine alle deportazioni forzate dei rifugiati afghani.

[Trad. automatica]

 

 

Definitiva la sentenza CEDU: per Demirtas è la volta buona per la scarcerazione?

Contropiano, 10 novembre 2025, di Giovanni Di Fronzo

La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha respinto l’ultimo ricorso presentato dal Ministero della Giustizia turco contro la sentenza di scarcerazione per Demirtas e, di riflesso, per tutti i condannati nell’ambito del cosiddetto “processo Kobane”. Ora la sentenza è definitiva e, dal punto di vista della legalità formale turca, sarebbe solo da rendere esecutiva.

Dal punto di vista sostanziale, però, la decisione sarà prettamente politica. Ad esempio, nel caso di Osman Kavala, fondatore del ramo turco della Open Society Foundation di Soros e condannato all’ergastolo aggravato per i fatti di Piazza Taksim, la Turchia non sta applicando la sentenza di scarcerazione della CEDU e, a causa di questa decisione, ha una procedura di infrazione a proprio carico aperta.

A favore della scarcerazione è intervenuto ancora una volta uno dei due pilastri dell’alleanza di governo, quel Devlet Bahceli, fondatore dei “lupi grigi”, il quale, poco più di un anno fa chiedeva l’esecuzione della condanna a morte di Ocalan, la chiusura della corte costituzionale turca, colpevole di esprimersi a favore di Demirtas, e l’espulsione dal parlamento del sinistra filo-curda.

Dall’ottobre 2024 ha cambiato completamente posizione e ha cominciato a spingere forte per il compimento del processo di pace con il PKK. In questi giorni continua a chiedere che la commissione parlamentare istituita ad hoc si rechi ad Imarlai ad ascoltare direttamente Ocalan e su Demirtas ha affermato: ”Il suo rilascio sarebbe positivo per la Turchia”.

Anche dall’oppisizione repubblicana, attaulmente sotto torchio giudiziario, arrivano segnali definitivi. Il leader Ozgil Ozel ha chiesto apertamente scusa per il fatto che la maggior parte dei parlamentari repubblicani nel 2016 votarono a favore della revoca dell’imminutà parlamentare nei confronti dello stesso Demirtas e degli altri esponenti dell’allora Partito Democratico dei Popoli (HDP), dando il via libera al “processo Kobane” e a tanti altri processi.

Demirtas, da partre sua, dal carcere ha postato sui suoi social un manoscritto di ringraziamento: ”Il signor Devlet Bahçeli ha coraggiosamente infranto i tabù…, dimostrando che la pace non può essere costruita arrendendosi alla paura. Mi congratulo di cuore con lui e lo ringrazio sinceramente. Il signor Özgür Özel ha dato un ulteriore esempio di coraggio, dimostrando un atteggiamento virtuoso e autocritico. Mi congratulo di cuore con lui e lo ringrazio sinceramente. Tutti dovrebbero sapere ed essere certi di questo: se rimaniamo bloccati negli errori del passato mentre cerchiamo di voltare pagina insieme, ipotecheremo anche il nostro futuro. Né io, né alcun altro politico possiamo permetterci questo lusso, e non nutro alcun risentimento o rancore particolare nei confronti di nessuno… Il nostro dovere è sostenere il processo di pace senza esitazione. Ci impegneremo a risolvere insieme tutti i problemi rimanenti, con i mezzi e le condizioni della politica democratica, la pace prima di tutto”.

Successivamente, sempre sui suoi social, ha formulato un invito: ”Mi rivolgo a tutte le parti e ai principali attori del processo, al presidente Erdoğan, al leader dell’MHP Bahçeli e al leader fondatore del PKK Öcalan, come vostro fratello, come politico che lotta per la pace: vi prego di non rinunciare a compiere passi concreti, di non prestare attenzione a ciò che dicono gli altri, di avere fiducia in voi stessi e di credere che 86 milioni di persone attendono con ansia la pace”.

Leggendo fra le righe di questa dichiarazione, vi si potrebbe scorgere un tentativo di porsi all’opinione pubblica del paese come soggetto terzo fra la parte dello stato turco e quella del movimento curdo.

Chi continua a tenere un atteggiamento ambiguo è proprio Erdogan. Nei giorni scorsi ha incontrato la delegazione della sinistra filocurda che sta mediando con Ocalan, esprimendo valutazioni positive: ”Abbiamo avuto un incontro molto costruttivo, produttivo e promettente con loro. Speriamo di vederne l’impatto nei prossimi giorni”.

Però non si esprime mai sull’eventuale incontro della commissione parlamentare con Ocalan e sulla scarcerazione di Demirtas, rispetto alla quale non più tardi di un mese fa il suo Ministero della Giustizia ha presentato l’ultimo ricorso. Ovviamente, ammettere che il “processo Kobane” sia illegittimo ha un costo politico, ma non volerlo pagare significa esibire una concezione quantomeno strumentale del processo di pace.

Staremo a vedere. Ambienti della sinistra filocurda danno come imminente il rilascio di Demirtas e secondo Reuters, il parlamento sta preparando una legge ad hoc per riammettere in Turchia alcuni militanti del PKK che non si siano macchiati di reati di sangue, senza, però, decretare un’amnistia generale.

Da rimarcare che il vero banco di prova per il processo di pace rimane sempre la situazione legata all’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria a guida curda e la sua integrazione nelle strutture statali centrali a guida qaedista.

Su questo anche Bahceli è irremovibile: un’integrazione delle milizie a guida curda nell’esercito centrale nella forma di divisioni autonome, come perorato dal leader curdo Mazloum Abdi, rappresenterebbe una minaccia per la Turchia, che vuole la loro completa liquidazione agli ordini dei generali di Al-Golani.

La situazione, però, non va esattamente in quella direzione. Intervistato da Amberin Zaman per Al-Monitor, Sipan Hemo, un altro generale curdo, ha dichiarato che le Forze Democratiche Siriane si stanno preparando per la guerra contro il governo centrale, nel caso in cui i negoziati dovessero fallire.

Su questo capitolo, oltre alle mediazioni internazionali, fondamentale potrebbe essere l’apporto politico dello stesso Demirtas e di tutti i dirigenti curdi imprigionati proprio per aver espresso il loro sostegno alle milizie curdo-siriane.

L’impresa di trovare un accordo rimane comunque ardua a causa della natura settaria ed inaffidabile delle autorità di Damasco e dei tentativi di boicottaggio da parte di potenze straniere, che certamente non mancheranno. Israele, ad esempio, punta a tenere divisa la Siria e a destabilizzare la Turchia tramite il proprio appoggio strumentale alla causa curda.

Burqa o gabbia: le donne di Herat si ribellano al velo obbligatorio dei talebani

8am.media, 9 novembre 2025, di Amin Kawa

I talebani hanno intensificato la pressione sulle donne di Herat affinché impongano l’obbligo dell’hijab imposto dal gruppo. Alle donne che non indossano il burqa è stato impedito di entrare nelle istituzioni governative controllate dai talebani, compresi gli ospedali, e a coloro che si recano per prendersi cura di loro non è consentito l’ingresso. Allo stesso tempo, le insegnanti che insegnano alle bambine sotto la sesta elementare hanno ricevuto l’istruzione che se non indossano il burqa saranno considerate assenti e nessuno ha il diritto di sfidare questo ordine talebano. I talebani hanno persino costretto le studentesse delle scuole religiose sotto il loro controllo, che, secondo il gruppo, osservano già l’hijab completo e ricevono istruzione religiosa, a indossare il burqa. In risposta a queste restrizioni, diverse donne di Herat hanno protestato, bruciando il burqa come simbolo di coercizione e di gabbia, dichiarando che non si sottometteranno mai all’umiliazione e al silenzio.

Dopo aver imposto divieti su larga scala, i talebani hanno costretto donne e ragazze di Herat a indossare il burqa e il chador. Negli ultimi giorni, alle donne senza chadari è stato impedito di entrare nelle istituzioni governative controllate dai talebani, compresi gli ospedali, e nelle scuole religiose sono state costrette a osservare l’abbigliamento completo richiesto dal gruppo. Donne e ragazze affermano di non poter vivere in una “gabbia” e sottolineano di osservare già l’hijab completo richiesto dai talebani e di non poter sopportare una situazione ancora peggiore.

Nel frattempo, fonti affermano che negli ultimi giorni, alle donne e alle ragazze che si recano in ospedale viene negato l’ingresso perché non indossano il burqa. Secondo le fonti, la maggior parte di queste donne è malata e, nonostante le gravi condizioni fisiche, è costretta ad aspettare dietro le porte.

Una fonte racconta: “Sono andata in diversi uffici per sbrigare alcuni documenti. All’ospedale provinciale, donne e bambini malati venivano lasciati fuori dalla porta e la situazione era estremamente angosciante. A nessuno era permesso entrare. Una visitatrice, proveniente da un distretto remoto, teneva in braccio il suo bambino malato e non sapeva cosa fare. Ha chiesto preoccupata: quanto costa ora un burqa e dove possiamo procurarcene uno?”

Le fonti sottolineano inoltre che i presidi delle scuole femminili inferiori alla sesta elementare e delle scuole religiose femminili hanno ricevuto l’ordine di informare gli insegnanti che a nessuno è permesso entrare nella scuola senza indossare il burqa e che se violano questo ordine, saranno rimossi dal loro incarico.

Allo stesso tempo, un’insegnante di una scuola privata di Herat afferma di aver ricevuto una lettera ufficiale che impone loro di indossare il chadari. Secondo lei, nella Direzione Passaporti sotto il controllo dei talebani, alle donne che non indossano il burqa non verrà rilasciato il passaporto.

Alcune insegnanti di Herat hanno dichiarato di aver resistito ieri all’ordine dei talebani e di essersi rifiutate di indossare il burqa. Secondo loro, anche i presidi scolastici hanno appoggiato questa decisione delle insegnanti. Tuttavia, nella scuola religiosa “Ghiasia”, alle donne e alle ragazze senza burqa non è stato permesso l’ingresso.

Fonti affermano che giovedì della scorsa settimana e sabato di questa settimana, un gruppo di donne e ragazze ha protestato all’interno della scuola “Ghiasia” e ne ha chiuso il cancello. Secondo loro, circa 200-300 studentesse, che indossavano scialli da preghiera, aspettavano dietro l’ingresso, ma non sono state autorizzate a entrare. Poi, a causa del raduno delle ragazze, il vicolo della scuola è stato bloccato e hanno iniziato a gridare “Morte ai talebani”.

Una fonte aggiunge: “Oggi ho visto una delle preside ricevere una telefonata in cui le veniva detto: Domani, segnate come assente qualsiasi insegnante che si presenti senza burqa. Il suo viso è impallidito. Non indosserò il chadari-burqa e non andrò a scuola. Un mese dopo sarò licenziata, ma poi cosa dovrei fare? Come pagherò le mie spese di sostentamento? Indicatemi una strada – a me e ad altre donne come me – e la seguirò. Mezz’ora fa, la nostra scuola ci ha contattato e ci ha detto: Non incoraggiate le insegnanti a non indossare il chadari. Vedete, loro sanno esattamente chi chiamare e cosa dire. Naturalmente, da domani, anche nella nostra scuola, il chadari è stato dichiarato l’abbigliamento ufficiale”.

Reazione delle donne e delle ragazze che protestano

A seguito dell’intensificarsi delle pressioni dei talebani affinché indossassero il burqa, una donna di Herat, in risposta a questo ordine, ne ha dato fuoco a un burqa e ha dichiarato: “Sono una donna, non un’ombra. Non mettete a tacere la mia voce. Respirare è un nostro diritto. Il blu non è il colore della coercizione. Siamo ancora qui, ad aspettare il sole dietro questo telo. Dentro questo blu c’è una donna che sogna ancora. Portate il mio chadar al vento e restituitemi la mia voce. Sono una donna. Ho il diritto di respirare, il diritto di vedere e di non coprirmi lo sguardo”.

Anche le membri del Movimento per la Solidarietà e l’Unità delle Donne Afghane di Herat hanno bruciato il burqa imposto dai talebani in un atto simbolico e hanno danzato in segno di protesta contro l’obbligo di indossarlo. Il movimento ha annunciato in una dichiarazione: “Le donne afghane non si arrenderanno mai alla coercizione e all’umiliazione”.

Hoda Khamoosh, una delle donne che hanno protestato in risposta al nuovo ordine dei talebani a Herat, afferma che i talebani temono le voci e i pensieri delle donne e che negli ultimi quattro anni hanno agito duramente contro di loro.

Fariha Jaberi, membro dell’Afghanistan Women’s Justice Movement, commentando l’imposizione del burqa a Herat, afferma: “L’hijab, se scelto con il cuore, è dignità; ma se imposto per paura e coercizione, è una catena. Una catena alle mani e ai piedi di donne che vogliono solo essere umane”. Aggiunge che i talebani vogliono una società con una sola voce e un solo genere, ma “le donne non saranno messe a tacere”.

Bahar Khamoosh, una delle donne che hanno protestato in risposta all’ordine dei talebani di imporre il burqa a Herat, ha affermato che imporre l’hijab obbligatorio non significa solo coprire il volto, ma anche mettere a tacere metà della società. Ha aggiunto che con questo decreto i talebani non stanno difendendo la fede, ma si stanno nascondendo dietro la propria paura. Si nascondono sotto il burqa per nascondere il loro vero volto e vogliono soffocare le voci delle donne.

I Talebani, nella loro Legge per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, hanno definito il concetto di “hijab della Sharia” secondo la loro interpretazione. Secondo la Clausola 10 dell’Articolo 3 di questa legge, “l’hijab della Sharia si riferisce a un indumento che copre l’intero corpo e il viso di una donna, escluso l’uomo non mahram, e che non è sottile, corto o stretto”.

L’articolo 13 della Legge talebana per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio rende obbligatorio coprire tutte le parti del corpo di una donna. In questo articolo, ascoltare la voce delle donne attraverso altoparlanti, canti e recitazioni è descritto come “awrah”. L’articolo afferma: “Coprire l’intero corpo di una donna è obbligatorio. Nascondere il viso di una donna per paura della tentazione è necessario. Le voci femminili (cantare a voce alta, canti e recitazioni) in generale sono awrah. Gli abiti femminili non devono essere sottili, corti o attillati. Le donne musulmane sono obbligate a nascondere il proprio corpo e il proprio viso agli uomini non mahram”.

Nella clausola 6 dell’articolo 13, coprire il viso e il corpo di una donna è descritto come “obbligatorio”. La clausola afferma: “È obbligatorio coprire [i corpi] delle donne musulmane e delle donne giuste da quelle non credenti e immorali per paura della tentazione”.

Nel frattempo, Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, in un recente rapporto intitolato “Accesso alla giustizia e al sostegno per donne e ragazze e l’impatto di molteplici e intersecanti forme di discriminazione”, ha affermato che dal 2021 i Talebani hanno sistematicamente privato donne e ragazze di diritti fondamentali come l’istruzione, il lavoro, la libertà di movimento e la tutela giudiziaria, e hanno smantellato le precedenti istituzioni legali e di supporto. Secondo questo rapporto, sotto il controllo dei Talebani, il sistema giudiziario e legale dell’Afghanistan è diventato uno strumento di repressione, discriminazione di genere e violenza contro donne, ragazze e minoranze sessuali, e le donne si trovano ad affrontare ampie barriere economiche, sociali, culturali e linguistiche.

Inoltre, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto per Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dei talebani, e Abdul Hakim Haqqani, il capo della Corte suprema del regime, con l’accusa di “aver commesso crimini contro l’umanità”.

[Trad. automatica]

Influencer occidentali banalizzano la brutale realtà dell’Afghanistan

blue News, 10 novembre 2025, di Lea Oetiker

Sempre più influencer occidentali si recano in Afghanistan e nei loro video mostrano il lato ospitale del Paese. Gli osservatori criticano il fatto che il regime repressivo dei talebani venga ignorato.

Bevono tè con i talebani, sorridono alla macchina fotografica per foto e video, nuotano in laghi blu turchese o addirittura hanno appuntamenti con i combattenti della milizia.

Sempre più influencer – tra cui molte giovani donne – si recano in Afghanistan. I loro filmati ottengono centinaia di migliaia, a volte addirittura milioni, di visualizzazioni.

Anche il travel influencer Harry Jaggard ha visitato l’Afghanistan. Nei suoi video, descrive il Paese come il suo numero uno e sottolinea l’eccezionale cordialità della gente. I suoi contributi sono accolti con grande incoraggiamento e reazioni entusiaste nei commenti.

Da quando, quattro anni fa, i militanti islamisti talebani hanno ripreso il potere a Kabul, un numero impressionante di influencer dei Paesi occidentali è stato attirato in Afghanistan.

C’è anche un calcolo dietro questo fenomeno: mentre i giornalisti e gli osservatori dei diritti umani sono raramente ammessi nel Paese, gli influencer diffondono immagini che banalizzano, o addirittura normalizzano, il regime.

«Il turismo porta molti benefici a un Paese»
«Gli afghani sono calorosi e ospitali e non vedono l’ora di accogliere turisti di altri Paesi e interagire con loro», ha dichiarato il viceministro del turismo Quadratullah Jamal in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Associated Press (AP) all’inizio di giugno.

«Il turismo porta molti benefici a un Paese. Li abbiamo considerati e vogliamo che il nostro Paese li sfrutti appieno».

Il turismo è un’importante fonte di reddito per molti Paesi. In Afghanistan però l’isolamento internazionale, dovuto principalmente alle rigide restrizioni imposte dai talebani sulle donne, ha portato gran parte dei 41 milioni di abitanti a vivere in povertà.

Dato che è difficile attrarre investitori stranieri, il Governo riconosce comunque chiaramente il grande potenziale economico del turismo.

9.000 turisti nel 2024
«Attualmente stiamo generando entrate significative da questo settore e speriamo che continui a crescere in futuro», ha dichiarato Jamal. Che ha inoltre sottolineato che la spesa dei visitatori raggiunge più fasce della popolazione rispetto alle entrate provenienti da altri settori.

Sebbene il numero di visitatori sia ancora basso, è in aumento. L’anno scorso quasi 9.000 turisti stranieri hanno visitato l’Afghanistan, mentre nei primi tre mesi di quest’anno sono stati quasi 3.000, ha detto Jamal.

In Afghanistan esistono anche regole chiare per i turisti. Ad esempio è vietato avvicinare o filmare le donne. Molti utenti esprimono anche critiche nei video postati dai viaggiatori e dagli influencer sui social network, soprattutto in considerazione del fatto che il governo del Paese continua a discriminare massicciamente metà della popolazione.

Le donne sono ancora oppresse
Da quando i talebani hanno preso il potere, molti diritti fondamentali delle donne sono stati drasticamente limitati o completamente vietati. Le donne sono in gran parte bandite dalla vita pubblica e la loro libertà di movimento è fortemente ridotta.

Dall’introduzione della legge sulla virtù, avvenuta al più tardi nel 2024, sono in vigore codici di abbigliamento restrittivi e le donne possono uscire di casa solo completamente velate e accompagnate da un uomo.

Inoltre, non possono più andare a scuola a partire dalla sesta classe. Anche i saloni di bellezza sono stati chiusi. Studiare? Vietato. Lavorare? Quasi impossibile.

Non possono praticare sport, guidare, cantare o parlare ad alta voce in pubblico. La legge vieta anche agli autisti dei mezzi pubblici di trasportare le donne senza una scorta maschile.

Alla fine di dicembre 2024, i talebani hanno preso un’altra decisione controversa: un nuovo decreto vieta l’installazione di finestre negli edifici residenziali attraverso le quali si possano vedere le aree utilizzate dalle donne.

In futuro, i nuovi edifici non potranno più avere aperture che consentano di vedere cortili, cucine, pozzi dei vicini o altri luoghi solitamente frequentati dalle donne.

Regole anche per gli uomini
Le regole valgono anche per gli uomini: ad esempio, secondo la legge della virtù, devono indossare pantaloni al ginocchio e barba. Sono vietate le relazioni omosessuali, l’adulterio e il gioco d’azzardo, così come la produzione e la visione di video o immagini che ritraggono esseri viventi. Anche le preghiere mancate e la disobbedienza ai genitori possono essere punite.

Chiunque violi queste rigide regole deve aspettarsi avvertimenti, multe, carcere o altre sanzioni. Persino la morte.

Inoltre, i talebani hanno bloccato o severamente limitato l’accesso a internet in Afghanistan in diverse occasioni, tra cui nel settembre e nell’ottobre 2025. La ragione ufficiale addotta per l’interruzione è stata quella di impedire contenuti immorali.

Il DFAE sconsiglia di recarsi in Afghanistan
«I viaggi in Afghanistan e i soggiorni di qualsiasi tipo nel Paese sono sconsigliati a causa degli elevati rischi per la sicurezza», scrive una portavoce del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) su richiesta di blue News. La valutazione della situazione sarà riesaminata costantemente e, se necessario, modificata.

«I viaggiatori decidono la pianificazione e l’esecuzione di un viaggio sotto la propria responsabilità», prosegue. «Devono essere consapevoli che la Svizzera ha solo possibilità molto limitate – e a seconda della situazione, nessuna – di fornire assistenza nelle aree di crisi o di sostenere la loro partenza», ha dichiarato il portavoce a blue News.

Secondo gli attuali consigli di viaggio del DFAE, «la situazione rimane fragile e instabile. Combattimenti e attacchi possono avvenire ovunque e in qualsiasi momento. In tutto il Paese vi sono elevati rischi per la sicurezza: attacchi missilistici, attacchi terroristici, rapimenti e attacchi criminali violenti, tra cui stupri e rapine a mano armata».

Secondo le informazioni, i cittadini stranieri sono sempre più nel mirino delle autorità. Gli arresti avvengono sempre più spesso per sospette violazioni della legge o per non aver rispettato le tradizioni locali.

«In caso di rapimento, le autorità locali sono responsabili; il DFAE e le sue ambasciate e consolati all’estero hanno un’influenza limitata», ha dichiarato il portavoce.

«Alcune cose non mi sembravano moralmente giuste»
Perché le persone vogliono ancora recarsi in Afghanistan? Molti riferiscono di voler semplicemente vedere il Paese di persona.

Una turista ha raccontato all’AP che lei e il suo compagno hanno passato circa un anno a pensare di attraversare l’Afghanistan come parte di un viaggio in camper dal Regno Unito al Giappone. «Alcune cose non mi sembravano moralmente giuste», ha detto.

Ma una volta qui, hanno riferito di un popolo caldo, ospitale e accogliente e di paesaggi bellissimi. Non hanno avuto l’impressione che la loro presenza rappresentasse una forma di sostegno ai talebani. «Viaggiando si mettono i soldi nelle mani della gente e non del Governo», ha detto il turista.

La tiktoker che ha avuto un appuntamento con un talebano ha anche detto a «Der Spiegel» che con i suoi video voleva soprattutto mostrare i lati belli dell’Afghanistan, perché il Paese è troppo spesso associato alla violenza e ad altri aspetti negativi.

Gli influencer sono accecati dai talebani
Questo «turismo delle catastrofi non solo distorce sistematicamente la realtà sul campo, ma si prende anche gioco delle persone che devono vivere sotto un regime brutale», ha dichiarato a «Der Spiegel» la scrittrice tedesco-afghana Mina Jawad.

Gli influencer che viaggiano nel Paese non parlano la lingua locale e hanno poca idea dei costumi, delle tradizioni e del carattere del regime talebano. Questo permette ai talebani di elogiarsi come protettori delle donne.

Alcuni influencer si lasciano accecare dall’apparenza ingannevole e dipingono un quadro che fa comodo solo a chi è al potere: l’Afghanistan sembra essere un Paese tradizionalista, ma sicuro.

«Si tratta di travisamenti grotteschi, ma è proprio così che funziona la logica dei social media», dice Jawad. Molti di questi video le ricordano i diari di viaggio coloniali in cui i visitatori occidentali esplorano il «selvaggio Afghanistan».

Sotto i talebani il turismo è promosso da influencer occidentali


Aumentano i viaggiatori che scelgono l’Afghanistan, spinti dal fascino dell’esotico e dai racconti degli influencer. Ma ogni scatto condiviso rischia di oscurare la verità di un paese dove alle donne è negato tutto

Lucia Bellinello, Wired, 8 novembre 2025

Paesaggi mozzafiato. Cime coperte di neve e una natura incontaminata. Non siamo in Svizzera, ma tra le montagne dell’Afghanistan. Uno dei paesi meno liberi al mondo, dove il governo dei talebani ha abolito tutti i diritti politici e civili, introducendo di fatto l’apartheid di genere per le donne.

Cosa ci fanno degli influencer occidentali in Afghanistan?

Nonostante le gravi violazioni che hanno portato il governo dei talebani a non essere riconosciuto da nessuna nazione al mondo, ad eccezione della Russia, si sta registrando un curioso aumento degli influencer occidentali che visitano il paese. E che raccontano sui social una realtà edulcorata, fatta di paesaggi pittoreschi ed “esperienze culturali autentiche”, senza però menzionare le barbare condizioni di vita alle quali sono costrette le donne.

In alcuni casi, dietro a questi contenuti che diventano virali ci sarebbe la mano del governo locale, che sta cercando di attrarre turismo, denaro e legittimazione internazionale proprio grazie alla potenza del web. Una pratica che in parte ricorda quella del tourismwashing adottata da Israele, che di recente ha portato dieci influencer a Gaza per diffondere propaganda proprio da quei luoghi dove la stampa internazionale da quasi due anni non può più entrare.

Il turismo (e il tourismwashing) in aumento

Sebbene il numero di visitatori in Afghanistan sia ancora limitato, le cifre sono in aumento. Secondo le dichiarazioni del viceministro del Turismo Qudratullah Jamal, nel 2024 i visitatori stranieri sono stati quasi 9mila; circa 3mila nei primi tre mesi del 2025. Per fare un confronto, nel 2022 erano stati 2.300.

La guerra in Afghanistan lanciata dagli Stati Uniti nel 2001 dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle ha tenuto i turisti alla larga per molti anni. Il ritiro delle truppe americane e la salita al potere dei talebani, nell’agosto del 2021, hanno spinto il paese nel caos e migliaia di afghani alla fuga. Ma con la fine dell’insurrezione, lo spargimento di sangue si è in parte placato. E anche se i paesi occidentali continuano a sconsigliare i viaggi nell’Emirato islamico, c’è chi si avventura lo stesso. I turisti stranieri arrivano in aereo, in moto, in camper e persino in bicicletta. Arrivano da soli o accompagnati. E il governo talebano è molto felice di accoglierli.

“Attualmente ricaviamo un fatturato considerevole da questo settore e speriamo che cresca ulteriormente”, ha detto il vice ministro del turismo Qudratullah Jamal.

“Il 95% dei turisti ha un’opinione negativa dell’Afghanistan a causa delle informazioni errate diffuse dai media”, ha dichiarato Khobaib Ghofran, portavoce del ministero dell’Informazione e della Cultura di Kabul. E così si cerca di invertire questa tendenza.

Il governo talebano infatti promuove il turismo sui propri siti ufficiali e sui social network. E le agenzie turistiche locali (circa tremila) hanno lanciato campagne promozionali per farsi conoscere all’estero, talvolta con pubblicità di dubbio gusto.

Un video che calpesta la dignità di chi ha vissuto la violenza talebana

Ad esempio, ha fatto scalpore un video in cui si vedono tre uomini inginocchiati e con la testa coperta. Dietro di loro c’è un plotone di esecuzione con i fucili in mano. “Abbiamo un messaggio per l’America”, dice uno degli uomini in piedi, togliendo il sacco nero dalla testa di uno degli ostaggi. Da sotto il sacco spunta il sorriso sornione di un ragazzo occidentale, che dice, ridendo: “Welcome to Afghanistan”. L’agghiacciante spot pubblicitario è stato girato da un operatore turistico afghano-americano, Yosaf Aryubi, che vive tra la California e la capitale afghana Kabul. Con quel video, ha detto, voleva prendere in giro il modo in cui la maggior parte degli occidentali vede l’Afghanistan.

Di recente, poi, un influencer di viaggi britannico ha sollevato un polverone per aver incoraggiato altri viaggiatori a partecipare a un tour per soli uomini in Afghanistan, dove secondo lui si mangiano i migliori kebab del mondo e ci sono montagne maestose che fanno impallidire le Alpi svizzere. Nella caption di un video pubblicato sul suo profilo Instagram, seguito da 150mila persone, l’influencer ha scritto: “Dimentica Ibiza o Marbella, perché non vai in Afghanistan con gli amici quest’estate?”.

Per attrarre i turisti e dare l’impressione di stabilità, infatti, i talebani si affidano anche a youtuber e influencer, molti dei quali parlano di un paese sicuro, pittoresco e accogliente. Nella vita reale, però, la situazione è molto più complessa. Soprattutto per le donne.

La condizione delle donne in Afghanistan

L’Afghanistan è un paese che ha completamente escluso le donne dalla vita pubblica, vietando loro di frequentare scuole, università e spazi pubblici. Non possono lavorare in moltissimi settori e sono costrette a uscire di casa con il capo coperto e solo se accompagnate da un uomo. Con la chiusura delle palestre femminili e dei saloni di bellezza, gli spazi dove le donne possono incontrarsi al di fuori della propria casa sono sempre più limitati. Ma proprio per lanciare un segnale di apertura verso i visitatori stranieri, l’unico hotel a cinque stelle del paese, il Serena, dopo mesi di chiusura ha riaperto la spa e il salone femminile per le donne straniere. Per accedere ai servizi, le clienti devono mostrare il passaporto. Le locali invece non possono entrare.

“Le Nazioni Unite hanno definito l’Afghanistan sotto i talebani come un paese dove vige l’apartheid di genere”, ha detto Elaine Pearson, direttrice Asia di Human Rights Watch. E la corte penale internazionale ha addirittura emesso dei mandati di arresto contro due leader talebani per la persecuzione delle donne e delle ragazze.

L’isolamento dell’Afghanistan sulla scena internazionale, dovuto in larga parte alle gravi violazioni dei diritti umani, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita delle persone. Secondo Human Rights Watch, su una popolazione di 40 milioni di abitanti, più della metà nel 2024 ha avuto bisogno di assistenza umanitaria urgente; 12,4 milioni di persone sono affette da carenza alimentare e quasi tre milioni soffrono la fame in maniera grave.

La perdita del sostegno internazionale ha colpito duramente anche il sistema sanitario e molti programmi umanitari sono stati chiusi per mancanza di fondi. Inoltre, un rapporto del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite segnala la presenza di gruppi terroristici, considerati un potenziale fattore di instabilità nella regione.

La Farnesina sconsiglia i viaggi in Afghanistan a qualsiasi titolo e avverte che il rischio attentati in tutto il paese resta elevato.

Il punto di vista delle viaggiatrici occidentali

Tra gli influencer che negli ultimi anni hanno avuto la possibilità di visitare questa terra ci sono anche delle donne. Come Zoe Stephen, una travel vlogger britannica con migliaia di follower su Instagram, che sotto ai suoi post scrive: “La sicurezza è relativa. Può essere molto più sicuro viaggiare in Afghanistan che viaggiare in alcune capitali europee. Naturalmente, ci sono problemi e rischi specifici di cui bisogna tener conto”. E aggiunge: “Ogni volta che visito l’Afghanistan mi rendo sempre più conto di quanto i media siano polarizzati su questo paese, che non è solo la somma della sua politica. Non è che qui sia davvero così folle o pericoloso, ma è che la normalità e la quotidianità non fanno notizia”.

L’attivista e studiosa afghana Orzala Nemat, ricercatrice ospite presso il think tank londinese Royal United Services Institute (Rusi), ha definito preoccupante l’ondata di influencer stranieri in Afghanistan. “Quello che vediamo è una versione edulcorata e censurata del paese, che cancella la brutale realtà a cui sono costrette le donne sotto il regime talebano”, ha detto.

“In un momento in cui le ragazze e le donne afghane sono private dei loro diritti più elementari, è profondamente preoccupante e inaccettabile vedere qualcuno che si reca in Afghanistan e fa lobby a favore dei talebani”, ha affermato Niloofar Naeimi, attivista per i diritti umani che si occupa delle questioni relative alle donne afghane.

Di opinione contraria invece la turista franco-peruviana Ilary Gomez, che con il suo compagno britannico ha visitato l’Afghanistan in camper. “Alcune cose non mi sono sembrate moralmente giuste”, ha detto. Ma ha aggiunto di non credere che la loro presenza abbia rappresentato una forma di sostegno ai talebani. “Viaggiando si mettono i soldi nelle mani delle persone, non del governo”, ha argomentato Gomez.

Chi sono i turisti che visitano l’Afghanistan

Secondo quanto riferito dai funzionari locali, i visitatori stranieri provengono perlopiù da Cina, Russia, Irlanda, Polonia, Canada, Taiwan, Germania, Francia, Pakistan, Estonia e Svezia.

Molti si avventurano nel distretto di Bamiyan, a ovest di Kabul, per vedere i resti delle statue del Buddha, scolpite nelle rocce più di 1.600 anni fa e demolite all’inizio del 2001 dai talebani per motivi ideologici. La maggior parte delle visite avviene senza particolari problemi, ma in questo luogo nella primavera 2024 tre turisti spagnoli sono stati uccisi nel primo attacco mortale contro turisti stranieri da quando i talebani hanno ripreso il potere.

Un altro argomento sensibile è la distruzione dei reperti archeologici e delle opere d’arte antiche compiuta dai talebani all’inizio del 2001 nel museo nazionale dell’Afghanistan, a Kabul, uno dei luoghi più visitati dai turisti.

Un dilemma morale e la questione sicurezza

Il problema, dunque, non è mostrare le bellezze dell’Afghanistan, la sua storia millenaria o l’accoglienza della gente. Il vero problema, dicono gli esperti, è quello che non viene raccontato, ovvero la difficile quotidianità alla quale sono costrette le persone che vivono sotto un regime autoritario che impone l’apartheid di genere, reprime ogni forma di dissenso e limita diritti civili, politici e giuridici.

“Non è che si vogliano incolpare solo gli influencer. Il problema è la comunicazione superficiale fatta sui social”, ha commentato a Wired Eleonora Sacco, esperta di viaggi, fondatrice di Kukushka Tours, un operatore turistico specializzato in viaggi responsabili. “Gli influencer ovviamente hanno bisogno di fare visualizzazioni e contenuti accattivanti; dall’altro lato c’è un pubblico grandissimo che intercetta quei messaggi senza conoscere il contesto del paese. Di per sé magari non si tratta sempre di contenuti falsi o inesatti, ma se letti senza contesto portano a dei messaggi fuorvianti. Ciò non vuol dire che non si possa viaggiare in maniera sicura, o che non esistano zone relativamente sicure in paesi come l’Afghanistan o l’Iraq. Si può viaggiare in maniera sicura se sei nelle mani giuste, se sai dove stai andando, se hai buoni contatti, se conosci il contesto. Bisogna sempre tenere un comportamento e un abbigliamento adeguati, bisogna avere rispetto e comprensione delle usanze locali. Tutte cose che non si riescono a comunicare in un reel di venti secondi su Instagram”.

Se da un lato non è corretto accusare tutti coloro che visitano l’Afghanistan di simpatizzare con i talebani, bisogna ricordare che ogni immagine, ogni reel, ogni post contribuisce a costruire o distorcere la percezione di un luogo. E che non si è esenti dal rischio di contribuire, anche inconsapevolmente, a una campagna di propaganda per ripulire l’immagine di un paese dove le libertà e i diritti vengono gravemente calpestati ogni giorno. La domanda, allora, non è più soltanto “dove andiamo”, ma “che storia scegliamo di raccontare”. Perché viaggiare non è solo un privilegio, ma è un’azione che ha un impatto. Può generare conoscenza reciproca, empatia, solidarietà. Può portare benefici economici alle comunità o, al contrario, alimentare pratiche dannose che snaturano luoghi e tradizioni e, in alcuni casi, finanziare chi abusa del potere.

La differenza sta nel compiere scelte etiche e consapevoli, domandandosi sempre chi trae beneficio dalla nostra partenza.

I popoli dell’Afghanistan e del Pakistan hanno dolori e nemici comuni

 

I popoli dell’Afghanistan e del Pakistan sono intrappolati nello stesso circolo vizioso – vittime delle loro élite dominanti, militari e clericali che usano la religione e la guerra per il potere e il profitto. È tempo che i popoli di entrambi i paesi riconoscano il loro comune dolore, i loro nemici e il loro destino e si liberino dalle catene dell’estremismo e dello sfruttamento che le hanno ridotte in schiavitù per generazioni.

Keyvan, New Politics, 8 novembre 2025

Il 29 ottobre scorso l’Associated Press ha riferito del fallimento dei colloqui di pace tra il governo pakistano e il regime talebano tenutisi in Turchia; nel frattempo, è stato programmato un altro incontro. È ironico vedere due partiti guerrafondai parlare di pace – e ancora più ironico che il governo pakistano, che ha una lunga storia nella promozione e accoglienza di ogni tipo di fazione terroristica islamista, ora presenti un piano antiterrorismo ai talebani, che sono una sua creazione, e viceversa.

Le tensioni si sono riacutizzate quando il Pakistan ha effettuato attacchi aerei nel cuore di Kabul, vicino a piazza Macroryan, sostenendo di aver preso di mira Noor Wali Mehsud, il capo del Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP). Successivamente è emersa una registrazione audio di Mehsud, non verificata, dalla quale sembrava fosse vivo. Zabiullah Mujahid, portavoce ufficiale dei talebani, ha respinto le notizie su X, sostenendo che “va tutto bene” – mentre chiaramente non c’è nulla che vada bene. I talebani hanno reagito attaccando diversi posti di blocco dell’esercito pakistano lungo il confine e spingendo il Pakistan ad attacchi nei quali hanno perso la vita molti civili a Kandahar, Helmand, Paktika e ancora una volta a Kabul.

Il Pakistan ha affermato che i suoi attacchi avevano come obiettivo i militanti del TTP, presumibilmente protetti dai talebani afghani e sostenuti dalle agenzie indiane. Tuttavia, secondo un rapporto della BBC News pubblicato il 18 ottobre, che citava l’Afghan Cricket Board, tra i morti c’erano diversi civili – tra cui tre giocatori di cricket afghani e altre cinque persone – mentre altri sette sono rimasti feriti.

Ho partecipato alla cerimonia funebre di un parente della provincia di Parwan, ucciso nella seconda ondata di attacchi aerei su Kabul. Shakir, 22 anni, lavorava come conducente di tricicli per un’azienda che noleggia stoviglie. Aveva lasciato il suo villaggio a 13 anni per lavorare come addetto alle pulizie perché il loro piccolo appezzamento di terra non era sufficiente a mantenere la famiglia. Probabilmente né Shakir né la sua famiglia avevano mai sentito parlare del TTP né saprebbero dire qual è la capitale del Pakistan – eppure hanno perso il capofamiglia a causa del conflitto tra due mostri.

Il popolo pakistano si trova ad affrontare una tragedia simile. Ogni giorno civili perdono la vita in attentati suicidi, vittime delle stesse politiche alimentate dai gruppi fondamentalisti afghani e pakistani. I popoli di entrambi i paesi sono stati usati come carne da macello nelle guerre sporche degli Stati Uniti e della NATO, dell’ex Unione Sovietica, della Russia moderna e delle potenze regionali, nonché nei giochi di potere di generali e figure religiose.

Il fondamentalismo del Pakistan

La lunga storia d’amore del Pakistan con il fondamentalismo risale all’epoca di Zulfikar Ali Bhutto (1971-1977), una figura contraddittoria che indossava un berretto in stile Mao Zedong per far credere di avere ideali socialisti e allo stesso tempo si alleava con gruppi islamici. Durante il suo governo, il Pakistan addestrò gli afghani “Ikhwani” seguaci dell’ideologia egiziana dei Fratelli Musulmani, in seguito usati dalla CIA durante la Guerra Fredda. Bhutto inviò personaggi come Ahmad Shah Massoud e Gulbuddin Hekmatyar per destabilizzare il regime laico di Daud Khan, il primo reggente repubblicano dell’Afghanistan.

Il sanguinoso colpo di stato dell’aprile 1978 in Afghanistan, sostenuto dall’URSS, e la successiva occupazione sovietica – che commise alcuni dei crimini più efferati in nome del socialismo, del comunismo e dell’internazionalismo – fornirono al governo pakistano e alla CIA una comoda scusa per armare e alimentare ulteriormente i gruppi fondamentalisti islamici afghani. In seguito, per risentimento, questi gruppi divennero noti tra gli afghani come i “sette asini”, a causa della loro dipendenza dall’ISI pakistano. L’Unione Sovietica fece deragliare il potenziale percorso dell’Afghanistan verso la democrazia installando le sue fazioni fantoccio – Khalq e Parcham – durante gli anni ’70 e ’80. Oggi, la Federazione Russa sostiene ancora una volta i talebani, riconoscendo il loro regime e firmando accordi per “combattere l’Isis,” anche se in realtà cerca di trascinare i talebani nella propria sfera di influenza per allontanarli da Stati Uniti e NATO.

Il progetto fondamentalista si è espanso notevolmente nel 1978, sotto il dittatore militare Zia-ul-Haq. Il numero di collegi islamici (madrase) in Pakistan è salito alle stelle, passando da 700 negli anni ’70 a 40.000 negli anni 2000, generosamente finanziati dalla CIA e dalle monarchie arabe. Queste madrase hanno prodotto migliaia di jihadisti ed esportato estremismo in tutta la regione.

Il Pakistan ospita la più grande madrasa del mondo islamico, la Jamia Darul Uloom Haqqania, ad Akora Khattak, conosciuta come “Università della Jihad”, che segue la rigida ideologia Deobandi, radicata in un movimento un tempo incoraggiato dal Raj britannico per indebolire la resistenza laica e rivoluzionaria. La maggior parte dei leader talebani hanno studiato in questa madrasa e da essa ha preso il nome la Rete Haqqani.
Benazir Bhutto e il suo ministro degli interni (1993–1996), Naseerullah Babar, hanno ammesso con orgoglio il loro ruolo nella creazione dei talebani come loro rappresentanti. Umar Khan Ali Sherzai, console generale del Pakistan in Afghanistan durante il primo governo dei talebani, si vantò in seguito di aver contribuito all’insediamento del mullah Omar e di aver applicato ordini discriminatori, come quello di costringere i sikh afghani a indossare distintivi gialli.

L’Afghanistan sfruttato per decenni

Per decenni, le élite politiche e militari del Pakistan hanno trattato l’Afghanistan come una mucca da mungere. Durante la Guerra Fredda, l’establishment pakistano sottrasse un’enorme quota dei fondi e delle armi inviati dalla CIA e dai suoi alleati ai mujaheddin afghani. Durante la guerra civile degli anni ’90, l’equipaggiamento militare venne introdotto clandestinamente in Pakistan. Un tempo, tutti i finanziamenti delle ONG internazionali per l’Afghanistan passavano attraverso le banche pakistane, riversando milioni di dollari nella sua debole economia. Dopo l’11 settembre, il Pakistan ha guadagnato miliardi per aver concesso basi aeree e rotte di rifornimento alle forze statunitensi e della NATO. Prima del ritiro, gli Stati Uniti e la NATO hanno donato al Pakistan armamenti per un valore di 7 miliardi di dollari. Il governo pakistano ha guadagnato miliardi in più ospitando rifugiati afghani, facilitando le evacuazioni ed elaborando i visti, che ora costano agli afghani da 400 fino a 1.800 dollari sottobanco.

Il governo pakistano e i gruppi fondamentalisti godono da tempo di un rapporto reciprocamente vantaggioso, rafforzandosi a vicenda per reprimere il proprio popolo. Quando i talebani sono tornati al potere nell’agosto 2021, molti liberali pakistani hanno festeggiato. Ma la loro “vittoria” ha presto avvelenato entrambi i paesi.

In Afghanistan, le ragazze non possono andare a scuola, le donne non possono lavorare e i musicisti non possono esprimersi con la loro arte. In Pakistan accade qualcosa di simile: gli studenti sono stati massacrati, musicisti come Ali Haider e Haroon Bacha sono fuggiti per salvarsi la vita e gli attacchi estremisti sono diventati routine.
Mentre gli afghani sprofondano sempre più nella povertà a causa della guerra e della repressione, i pakistani non hanno di che sostentarsi a causa dello strangolamento economico inflitto dal FMI e altre istituzioni finanziarie.

I popoli dell’Afghanistan e del Pakistan sono intrappolati nello stesso circolo vizioso, vittime delle loro élite dominanti, militari e clericali che usano la religione e la guerra per il potere e il profitto. È tempo che i popoli di entrambi i paesi riconoscano il loro comune dolore, i loro nemici e il loro destino e si liberino dalle catene dell’estremismo e dello sfruttamento che le hanno ridotte in schiavitù per generazioni.

L’inno come arma di propaganda talebana


شفق همراه ,  Khalid Mohammadi, 7 novembre 2025

Il canto è un potente strumento di propaganda tra le forze talebane e i loro sostenitori. Oltre a usare il canto come mezzo per risollevare il morale delle loro truppe e trasmettere i loro messaggi ideologici, i talebani lo usano anche per minacciare altri paesi (tra cui Pakistan, Iran e Stati Uniti). Sebbene i talebani considerino la musica haram e proibita, cantare senza musica è diventato uno dei modi più efficaci per promuovere le opinioni del gruppo e mantenere vivo lo spirito militante tra le loro forze negli ultimi trent’anni.

Le canzoni talebane fanno parte della macchina “psicologica e propagandistica” del gruppo. I talebani sfruttano l’impatto del canto, del ritmo e della ripetizione possibili con i canti come mezzo per evocare “eccitazione e lealtà” e rafforzare il senso di solidarietà tra i loro combattenti. Di fatto l’inno per i talebani gioca lo stesso ruolo della musica militare per gli eserciti moderni. Questo semplice metodo ha aiutato i talebani a mantenere alto il morale delle loro forze durante lunghi anni di guerra e pressione.

Di recente, in una base militare talebana, un gruppo di cantanti ha intonato una poesia in lingua pashtu che avvertiva che la bandiera bianca dell'”Emirato Islamico dei Talebani” sarebbe stata issata a Lahore, in Pakistan. Parte della canzone recita: “Se non alzassi la bandiera bianca a Lahore, non sarei un bambino afghano. Se non vi lasciassi scappare, non sarei un bambino afghano”. La canzone è stata eseguita tra alti ufficiali talebani e molti militari in uniforme, e il pubblico l’ha ascoltata con entusiasmo. Alcune parti della canzone viene utilizzato un linguaggio offensivo esplicito nei confronti del Pakistan. Questa canzone anti-Pakistana è stata recitata in una delle basi militari talebane dopo essere passata attraverso i filtri del Ministero dell’Informazione e della Cultura.

La canzone è diventata popolare non solo lì ma anche sui social network e si è rapidamente diffusa tra i talebani e i loro fan sulla piattaforma X (ex Twitter).
Nel ripubblicarla, diversi utenti talebani hanno rimosso le parti offensive della canzone, evidenziando solo le parti che mettevano in guardia da un possibile attacco al Paese.

L’inno, scritto in pashtu e minaccioso per il Pakistan, giunge mentre le tensioni tra i talebani e Islamabad si sono intensificate negli ultimi mesi. (…)

Simboli di potere e onore

La minaccia attraverso il canto non si limita solo al Pakistan. A metà mese di quest’anno, Hamdullah Fattrat, il vice portavoce dei talebani, ha pubblicato una canzone sul suo account X in cui i membri talebani minacciavano gli Stati Uniti di attacchi suicidi, in risposta alle parole di Donald Trump che ha chiesto ai talebani di restituire la base di Bagram a Washington. Nel video si vedono quattro membri talebani cantare canzoni all’interno di una macchina Land Cruiser, dichiarando di essere pronti ad arruolarsi per compiere attacchi suicidi contro gli Stati Uniti.

Nella mentalità dei talebani, gli attacchi suicidi e le squadre suicide sono un simbolo di potere e onore. Hanno ripetutamente utilizzato queste forze per minacciare i loro avversari. Durante la guerra con gli Stati Uniti e la NATO, gli attacchi suicidi sono stati uno degli strumenti principali dei talebani, e ora il gruppo crede che, facendo nuovamente affidamento sullo stesso strumento, possa dimostrare la sua potenza contro i paesi della regione.
Due anni fa, quando le tensioni sui diritti idrici del fiume Helmand tra il governo talebano e l’Iran crescevano, una canzone talebana recitava: “Abbiamo il governo e il potere e riformeremo l’Iran. Il nostro leader Mullah Yaqub riformerà Teheran. Daremo il via a una grande e sanguinosa rivoluzione in Iran”. La canzone si riferiva agli attentatori suicidi talebani pronti a sacrificare la propria vita per il governo talebano.

Le minacce verbali e le canzoni di propaganda contro Iran, Pakistan e persino Stati Uniti dimostrano che i talebani non hanno abbandonato la letteratura jihadista e di guerra come parte della loro identità. Durante i quattro anni di ristabilimento dei talebani, le minacce di attacchi militari o suicidi attraverso le canzoni sono state ripetute più volte, e sembra che questa tendenza continuerà in futuro, data l’accettazione di tali produzioni da parte di alti dirigenti talebani.

Cento anni di propaganda attraverso gli inni

Durante i primi giorni del regime talebano, negli anni ’90, la stazione radio “Voice of Sharia” ha svolto un ruolo importante nella trasmissione di canzoni di propaganda. I talebani usavano la radio per trasmettere canzoni di guerra e di contenuto religioso per diffondere le proprie opinioni tra la gente. Con la caduta del governo talebano in seguito all’attacco della coalizione guidata dagli Stati Uniti nel 2001, questa tendenza si è interrotta per un po’; ma i talebani, tornati sul campo di battaglia con il supporto dell’esercito e dell’agenzia di intelligence militare pakistana (ISI), hanno fatto ancora una volta della canzone il loro principale strumento di propaganda.

Negli anni successivi, canzoni talebane con slogan come “lotta contro l’occupazione”, “jihad” e “stabilire la legge islamica” iniziarono a circolare tra la gente. Con l’aumento dell’accesso ai telefoni cellulari, queste canzoni vennero trasmesse tramite Bluetooth e WhatsApp tra combattenti e sostenitori talebani, svolgendo un ruolo importante nel rafforzare il loro spirito combattivo. I talebani producevano canzoni con risorse e spese minime, ma il loro impatto fu di gran lunga superiore a quello della propaganda ufficiale del governo repubblicano, prodotta con ingenti budget e attrezzature moderne.

Dopo la caduta della repubblica e il ritorno al potere dei Talebani, il gruppo ha preso il controllo dei media statali, tra cui la Radio e la Televisione Afghana. Da allora, i Talebani sono stati in grado di registrare e trasmettere le loro canzoni di propaganda con una qualità superiore utilizzando strutture all’avanguardia. Negli ultimi quattro anni, il Ministero dell’Informazione e della Cultura dei Talebani ha tenuto diversi recital di poesia, in cui alti funzionari, forze talebane e sostenitori hanno elogiato la guerra ventennale, i leader del gruppo e i Talebani. Molte di queste canzoni sono distribuite attraverso i media statali e i social media controllati dai Talebani.

Con il ritorno dei Talebani, il Ministero dell’Informazione e della Cultura del gruppo ha lanciato un programma per raccogliere e archiviare le più di 10.000 canzoni e naat [liriche] composte durante la guerra il cui contenuto principale è l’elogio della guerra dei Talebani, delle figure chiave del gruppo e degli attacchi esplosivi e suicidi.

Negli ultimi anni, i Talebani hanno utilizzato le canzoni come parte della loro guerra psicologica e della propaganda nello spazio digitale. Le loro canzoni, accompagnate da immagini del campo di battaglia, bandiere bianche e i volti delle loro truppe, vengono pubblicate su reti come X, Telegram, TikTok e YouTube, video prodotti con elementi essenziali ma carichi di emotività per avere un impatto psicologico sul pubblico.
Sono anche considerati una sorta di guerra psicologica contro gli oppositori e i “nemici” dei Talebani. Al contrario, l’opposizione ai Talebani non beneficia di un meccanismo di propaganda così coerente ed efficace e, nel campo di battaglia delle narrazioni, i Talebani hanno mantenuto la loro superiorità.

Con l’espansione delle attività culturali dei Talebani, il canto ha superato il livello militare ed è diventato parte integrante dell’atmosfera sociale dell’Afghanistan. Nelle scuole, negli istituti religiosi e nelle università, le canzoni di propaganda talebane hanno sostituito musica, inni e canti nazionali. Bambini e adolescenti sono esposti quotidianamente a parole come “jihad”, “martirio” e “nemico” e, di conseguenza, le menti delle nuove generazioni sono plasmate dall’ideologia del regime talebano.
Il canto è diventato parte integrante anche delle cerimonie ufficiali durante i programmi governativi, le occasioni religiose e le riunioni pubbliche. In questo modo, i Talebani non solo hanno ampliato il loro apparato di propaganda, ma hanno anche utilizzato le canzoni come strumento di ingegneria culturale della società e di riproduzione dell’identità collettiva.

Nel sistema di propaganda talebano, l’inno non è solo un canto religioso o culturale, ma uno strumento per ricostruire il potere, un tentativo di legittimare ideologicamente e mantenere alto il morale di forze che sono cresciute per anni in un clima di guerra, jihad e “nemicizzazione”.

“SHELTER FOR WOMEN”

CISDA, Report, ottobre 2025

Shelter for women” è un progetto gestito da una delle organizzazioni di donne che il CISDA appoggia  e sostiene economicamente. Questo è l’ultimo report che ci hanno inviato per tenerci aggiornate sull’iniziativa

Avviata nell’aprile 2022, questa iniziativa mira a offrire rifugio alle donne che subiscono abusi domestici, puntando a dare loro potere dotandole delle competenze per una vita indipendente ed economicamente autosufficiente con corsi educativi e professionali.

Negli ultimi 6 mesi il progetto ha ospitato con successo cinque donne e i loro nove figli, fornendo loro un ambiente sicuro, assistenza medica, sostentamento e corsi di formazione.

Operando come rifugio per le donne, questa iniziativa deve affrontare numerose sfide, in particolare per gli ostacoli posti dal governo autoproclamato, che ignora apertamente i diritti delle donne in modo riprovevole. La difficile situazione delle donne afghane sottolinea l’urgente necessità di tali iniziative per fornire rifugio e sostegno di fronte alle avversità.

Sfide del progetto

Operare nell’attuale panorama politico dominato dall’autoproclamato governo talebano pone sfide significative per il progetto Shelter for Women, con conseguenti ostacoli tecnici e di sicurezza.

L’ostacolo principale deriva dall’opposizione del governo talebano, che ha una posizione diffidente nei confronti delle organizzazioni umanitarie, percependole come canali di influenza straniera e perciò negando il ruolo fondamentale che queste organizzazioni svolgono nel sostenere la comunità, in particolare nell’affrontare questioni come la violenza contro le donne.

Il governo complica la realizzazione del progetto imponendo restrizioni alle iniziative rivolte alle donne, così minando la loro partecipazione attiva. Anche le organizzazioni con cui collaboriamo hanno rivelato ostacoli analoghi messi in atto dal governo, soprattutto ostacoli burocratici che impediscono risposte urgenti ai bisogni delle donne emarginate, pretendendo molteplici permessi e autorizzazioni per l’intervento.

Nonostante ciò, la nostra organizzazione rimane risoluta nell’impiegare diverse strategie per affrontare le problematiche delle donne, opponendosi agli ostacoli opposti al sostegno e all’assistenza.

Gli sforzi per salvaguardare le donne all’interno delle case sicure hanno finora prodotto risultati positivi, tuttavia il rischio di essere scoperte dai Talebani rappresenta una minaccia incombente. Perciò sono state implementate le misure di sicurezza: è stato necessario cambiare l’ubicazione del rifugio e affittare una nuova casa per consentire al progetto di continuare nella sua missione.

Siamo molto soddisfatte dei notevoli progressi nel nostro centro di accoglienza per donne, un faro di speranza in mezzo alla chiusura delle istituzioni educative e all’incertezza politica. Le donne hanno mostrato un notevole entusiasmo per i corsi educativi e professionali.

Degno di nota tra queste iniziative è il nostro programma di cucito, che ha conferito alle partecipanti competenze preziose, favorendo l’autosufficienza e l’indipendenza.

Corso di cucito per donne

Nel corso degli ultimi tre anni, tutti i giorni è stato condotto un corso di cucito esclusivamente per le donne residenti nella casa protetta. Le partecipanti hanno dimostrato un eccezionale livello di interesse nell’affinare le proprie capacità, convinte della possibilità che la conoscenza delle tecniche consentirà loro di trovare idee innovative e di conoscere la richiesta del mercato, come percorso significativo verso la loro emancipazione economica.

Le dimensioni ridotte della classe hanno consentito di fornire un’attenzione personalizzata a ogni allieva, soddisfacendo le esigenze individuali e affrontando eventuali dubbi o problemi.

Con la pesante responsabilità di dotare queste donne delle competenze necessarie per avviare piccole attività di cucito casalinghe entro i limiti di tempo previsti dal programma, l’insegnante si è sforzata di svolgere un corso completo, che comprende modelli di abbigliamento e tecniche di cucito che vanno dall’arte di tagliare e confezionare abiti da sposa e per occasioni celebrative al confezionamento di indumenti di abbigliamento quotidiano, un insieme di competenze diversificate e pertinenti alle richieste del mercato per fornire loro i mezzi per generare il proprio reddito una volta entrate nel mercato lavorativo.

Trasmettendo conoscenze, competenze e opportunità di sviluppo professionale, il progetto dà a queste donne la possibilità di liberarsi dall’oppressione subita e di prendere il controllo del proprio destino, e le studentesse sono orgogliose dei loro notevoli progressi ottenuti in breve tempo.

Il loro senso di responsabilità, generosità ed empatia è davvero ammirevole e profondamente apprezzato. Dimostra che questo progetto non solo le ha rafforzate economicamente, ma ha anche rafforzato il loro senso di solidarietà e l’impegno sociale.

Corso di alfabetizzazione per donne

L’istruzione è un diritto fondamentale intrinseco di ogni individuo e, nell’ambito di questo progetto, il nostro team ha dedicato sforzi essenziali per fornire opportunità educative alle donne afghane.

Alle donne iscritte a questi corsi viene offerta l’alfabetizzazione dai livelli elementari a quelli medi, con un’enfasi particolare sulla personalizzazione del curriculum per soddisfare le loro esigenze specifiche.

Il curriculum dei corsi comprende un ampio spettro di materie, partendo dagli elementi fondamentali come la padronanza dell’alfabeto, cruciale per le persone che necessitano di un’alfabetizzazione di base. Ma il progetto offre anche alle donne con livelli di alfabetizzazione più elevati la possibilità di affinare ulteriormente le proprie capacità.

Per tutta la durata del corso, alle partecipanti è stata fornita una serie di risorse educative, tra cui libri scolastici, letteratura e poesia e materiali didattici supplementari adattati alle esigenze specifiche, garantendo un’esperienza di apprendimento completa e arricchente.

La valutazione dopo sei mesi di frequenza ha rivelato un risultato notevole: le donne hanno acquisito in modo coerente e sostenibile competenze di alfabetizzazione, dimostrando un incrollabile entusiasmo per il loro percorso educativo. La loro capacità di leggere e scrivere testi ha evocato un profondo senso di soddisfazione e gioia, sottolineando il valore dell’istruzione sulle loro vite.

Per migliorare le problematiche educative e mentali delle donne, l’insegnante ha inserito una nuova attività nel corso: ogni donna scriverà la propria storia che poi verrà letta in classe da loro stesse. Dopo la lettura, le donne si sentiranno libere e sollevate.

Le attività hanno avuto un impatto molto positivo sul morale delle donne, rendendole più attive, fiduciose e motivate ad apprendere, trasformando la classe in un ambiente vivace e stimolante.

Attività per bambini

La presenza di bambini tra i beneficiari del rifugio ha evidenziato la necessità di creare un ambiente consono, promuovendo quotidianamente le loro capacità. Nel corso degli ultimi tre anni le lezioni si sono svolte con regolarità dalle 9:00 alle 16:00, offrendo un ambiente strutturato e favorevole alle loro esigenze educative e di sviluppo.

All’interno delle classi appositamente progettate, che fungono sia da spazio educativo che protettivo, i giovani studenti hanno corsi di alfabetizzazione e istruzione.

I bambini che frequentano questo centro hanno mostrato un notevole entusiasmo per la pittura e per l’apprendimento, dimostrando una notevole attitudine alla comprensione rapida e all’acquisizione di competenze. Il loro vivo interesse testimonia l’efficacia dei programmi educativi nell’ambito del progetto.

Per contribuire a migliorare il loro benessere emotivo sono stati acquistati giocattoli e oggetti didattici, rendendo la loro classe più colorata e piacevole, e sono state realizzate attività ricreative, come puzzle e giochi all’aperto. Queste attività sono state pensate per aiutare i bambini ad esprimersi, a ritrovare le proprie energie e a provare emozioni positive. Le circostanze difficili e dure che hanno sopportato li hanno resi tristi, quindi creare momenti di gioia e di gioco è essenziale.

Attività aggiuntive

Negli ultimi sei mesi, le donne si sono impegnate anche in una serie di attività diverse e arricchenti che hanno rafforzato sia le loro capacità che il morale.

Uno dei momenti salienti è stata la celebrazione della Giornata degli insegnanti, che è stata per loro un’esperienza incredibilmente gioiosa e memorabile. In questo giorno, le donne hanno preparato pasti deliziosi e speciali, indossato abiti nuovi e belli, ascoltato la musica, suonato strumenti e ballato.

Oltre a questo evento, sono state organizzate diverse altre attività, tra cui:

• Laboratori di arti e mestieri: le donne hanno creato pezzi artistici utilizzando materiali semplici, valorizzando la loro creatività e abilità manuali.

• Piccoli progetti di giardinaggio: curando un piccolo giardino all’interno del rifugio, le donne hanno acquisito esperienza nella cura delle piante e si sono divertite con la natura.

• Giochi e gare di gruppo: sono stati organizzati giochi educativi e divertenti per promuovere il lavoro di squadra e la gioia tra le donne.

• Sessioni di discussione e consulenza: le donne hanno avuto l’opportunità di condividere le loro sfide ed esperienze, beneficiando del sostegno sociale e psicologico.

Queste attività non solo hanno fornito momenti di felicità ed energia, ma hanno anche contribuito in modo significativo ad aumentare la fiducia in loro stesse, le abilità e la creatività.

Chi sono le beneficiarie del progetto

Fatima, 36 anni, vive nel rifugio con i suoi due figli, Marwa di 14 anni e Maihan di 9. Si sposò all’età di 19 anni con il suo consenso e, sebbene suo marito facesse fatica a provvedere al cibo, la coppia era soddisfatta della loro vita insieme.

Il rapporto con la suocera e il cognato non era facile: veniva sempre umiliata e costretta a svolgere lavori faticosi nonostante fosse malata, causando liti quotidiane, ma sopportava per non turbare il marito.

La vita di Fatima divenne insopportabile quando suo marito morì in un incidente stradale. Sua suocera e suo cognato non solo la umiliavano, ma la picchiavano. Affinché sposasse suo cognato, cosa che lei rifiutava, la chiusero in una stanza per giorni senza cibo e acqua. Per salvarsi fuggì a casa di parenti che la portarono al rifugio dell’associazione, dove ha trovato sostegno e supporto.

Shamsia, 27 anni, con tre bambini. Aveva solo 15 anni quando si sposò con un uomo di 51 anni, sacrificando la propria felicità per il bene dei suoi genitori. Lei e suo marito hanno avuto tre figlie di 11, 10 e 9 anni. Fin dall’inizio del loro matrimonio, il marito fu duro e fanatico, insistendo che lei avesse bisogno del suo permesso anche per andare dal medico.

Il marito era ansioso di avere un figlio maschio, poiché era l’unico maschio nella sua famiglia di sei sorelle, perciò quando Shamsia rimase incinta e scoprì di portare in grembo una bambina, fu picchiata e indotta ad abortire. Ma nonostante i ripetuti tentativi, l’ostetrica non riuscì a farla abortire poiché il bambino era di diversi mesi.

Nell’arco di tre anni rimase incinta tre volte ma diede alla luce tre figlie. Suo marito continuava a picchiarla e insultarla, oltre a non mostrare amore per le sue figlie, alle quali faceva del male anche fisicamente.

Incapace di sopportare il dolore, l’umiliazione e gli abusi, Shamsia lasciò la casa con le sue tre figlie e andò a casa di un’amica ma fu costretta a cercare rifugio in un ambiente sicuro per proteggere se stessa e le figlie.

Bibi Hawa, 30 anni, due bambini. All’età di 14 anni fu costretta dai fratelli a sposare, senza il suo consenso, un uomo più anziano. Le sue cognate la trattavano male, non le permettevano nemmeno di piangere e intervenivano ogni volta che la vedevano parlare con un’altra donna, impedendole di condividere i suoi problemi. Dopo essersi sposata, scoprì che suo marito aveva un’altra moglie e dei figli della sua stessa età.

Fin dall’inizio dovette affrontare numerose difficoltà e si considerò fortunata di non essere diventata madre presto. Rimase con suo marito per anni, nonostante il suo disinteresse per lui, senza poterlo lasciare perché non aveva amici che la aiutassero. Diede alla luce due figli e per molto tempo rimase con lui esclusivamente per il loro bene. Tuttavia suo marito era duro e lascivo, fissava le altre ragazze e voleva sposarsi per la terza volta. Tutto cio’ non faceva altro che aumentare l’odio per lui.

Fortunatamente, con l’aiuto di un’amica, riuscì a scappare e venire al rifugio, cercando di divorziare dal marito ed essere libera da lui per sempre.

Sharaf Gul è una donna di 36 anni. Ha tre figli, due maschi di 9 e 6 anni e una figlia di 10 anni. Suo marito morì prima della nascita del suo quarto figlio. Dopo la morte, suo suocero, che era giovane, mise gli occhi su di lei. All’inizio pensava che fosse gentile per renderla felice, ma presto si rese conto che aveva cattive intenzioni. Non poteva dirlo alla suocera perché sapeva che sarebbe stata incolpata e la sua situazione sarebbe peggiorata. Iniziò a vivere con cautela, chiudendosi con i suoi figli in una stanza quando non c’era nessun altro.

Tuttavia, il comportamento di suo suocero peggiorò nel corso degli anni e una notte entrò nella sua stanza mentre dormiva e tentò di violentarla. Alle sue urla la suocera si svegliò e, invece di offrirle aiuto, si unì al pestaggio del marito con tale violenza da costringerla a malapena a stare in piedi.

Decise allora di salvare se stessa e i suoi figli dall’inferno in cui viveva. Appena la sua salute migliorò, fece finta di andare dal medico con i suoi figli e invece andò a casa della sorella e successivamente con l’aiuto di amici, al rifugio, dove attualmente risiede.

Bibi Hamida è una donna di 40 anni che lotta con coraggio contro le difficoltà della vita, dando priorità alla sicurezza di suo figlio. Dopo la morte del marito, il figlio di suo cognato la violentò e la mise incinta. Quando i suoi suoceri lo scoprirono, la chiusero in una stanza buia, la privarono di una corretta alimentazione e le impedirono di incontrare altre persone fino al parto.

I suoi suoceri volevano portarle via il bambino senza il suo consenso, ma lei si oppose coraggiosamente. Suo suocero la picchiò e cercò di prenderle il bambino con la forza e, non riuscendoci, dopo alcuni giorni la portarono in un luogo lontano e la abbandonarono.

Nonostante tutte le sue difficoltà, Hamida ha fatto tutto il possibile per prendersi cura del suo bambino e ha quindi cercato rifugio da noi.

Hamida è determinata non solo a chiedere giustizia alla madre e al suocero, ma anche all’uomo che l’ha violentata. Partecipa attivamente a tutti i programmi dell’associazione e si interessa a ogni opportunità per essere istruita, in modo da poter realizzare i suoi obiettivi.