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Autore: CisdaETS

Poete afghane: la disobbedienza è una lotta

Somaia Ramish, Il Manifesto, 26 luglio 2025

Al Ju Buk Festival, nel borgo di Scanno, la poesia delle donne in Afghanistan, voci di resistenza, di lotta, di bellezza

La poesia delle donne in Afghanistan ha una lunga storia e si contraddistingue in momenti politici e sociali molto diversi: non solo espressione artistica di bellezza ma forma di lotta e disobbedienza che sfida una società dalla radicata tradizione patriarcale.

Rabi’a Balkhi (856) considerata la madre della poesia persiana, è una delle pochissime intellettuali a essere conosciuta con il suo vero nome, ancora oggi simbolo di libertà. La sua storia rappresenta la sfida contro l’oppressione e un continuo, duro, promemoria del prezzo che le donne afghane sono costrette a pagare per la loro libertà di parola e di scelta. Non potendo più scrivere liberamente verga i suoi versi col suo stesso sangue. Qui scrive: L’amore è un oceano con uno spazio così sconfinato/ Che nessun saggio vi nuota senza esserne ingoiato/ Un vero amante dovrebbe essere fedele fino alla fine/ E affrontare le correnti più respingenti.

Quando vedi le cose ripugnanti, immaginale pulite/ mangia il veleno, ma assaggia il dolce zucchero!

Nonostante le diseguaglianze sociali e l’oscurantismo culturale, costrette spesso a scrivere sotto falso nome – makhfie (Makhfi Badakhshi) è uno pseudonimo che significa «colei che è nascosta» – le donne afghane non si arrendono e continuano a utilizzare le proprie penne come strumento per opporsi alla discriminazione. La poesia è per loro consapevolezza, è femminismo, diffonde l’opinione delle donne su società, religione, cultura, politica. Divulgano i loro pensieri, nonostante le grandi sofferenze inflitte a chi non segue le oppressive regole patriarcali, mostrano di essere padrone del proprio destino.
Bahar Saeed (1956) simbolo della donna che scrive poesie erotiche, è una delle poete che ha rotto maggiormente i tabù, contro ogni norma sociale tradizionale, cantando la libertà del corpo da ogni costrizione. Versi che si oppongono all’esclusione delle donne afghane da ogni forma della vita sociale e politica. Una ribelle la cui poesia rifiuta la sottomissione e l’obbedienza.

Nadia Anjuman (1980-2005) che ha scritto Le mie ali sono chiuse e non posso volare, è stata assassinata nel 2005. Ad Herat, nel 1995, quando il regime talebano vieta per la prima volta l’istruzione femminile, frequenta un circolo letterario mascherato da scuola di cucito: la Goodle Niddle Sewing School, sotto la guida del professor Muhammad Ali Rayhab. Finito il regime si iscrive all’Università, e si laurea in Lettere nel 2002, pubblica una pregevole raccolta di poesia (Gul-e-dodi, Fiore di fumo), si sposa con un suo collega di università, laureato anche lui in Letteratura. Il marito la uccide poco dopo la nascita del loro primo figlio, perché ha osato declamare le sue poesie in pubblico. Aveva solo 25 anni. In Light Blue Memories, scritto settimane dopo la caduta dei Talebani nel 2001, si rivolge alle vittime del silenzio forzato e si chiede cosa succede quando si perde la propria voce. In nome di quale patriarcato siano ridotte a tacere.

A voi, ragazze isolate del secolo/ condottiere silenziose, sconosciute alla gente/ voi, sulle cui labbra è morto il sorriso/voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due/ cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti/ se tra i ricordi vedete il sorriso/ditelo:/
Non avete più voglia di aprire le labbra/ma magari tra le nostre lacrime e urla/ ogni tanto facevate apparire/ la parola meno limpida.
Sono imprigionata in questo angolo/ Piena di malinconia e di dispiacere/ Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

Maral Taheri (1980) è tra le più importanti e originali poetesse contemporanee. Ha passato la sua vita in esilio in Iran, dove si è occupata dei diritti delle donne. Dopo la caduta di Kabul e l’inizio del movimento «Zan, Zendeghì, Azadì» (Donna, Vita, Libertà) ha lasciato l’Iran e ora è rifugiata in Francia. Per molto tempo si è rifiutata di pubblicare per non sottostare alla censura in Iran e in Afghanistan. Collega l’amore, la sessualità, la guerra e l’esilio forzato con riferimento ai testi teologici dell’Islam. Oppone il suo rifiuto delle regole che sottomettono la donna e il suo corpo con un linguaggio diretto, e critico contro regole tradizionali e prestabilite.

Scrive: Non preoccuparti amore mio/ mio amore muto/ so bene come tradirmi/ è un’eredità culturale che viene dal mio paese/ sotterranea e originale/ come Dio!
Traditore ben vestito/ Compagno dei ladri e amico del gruppo/carovana/ E naturalmente non ci siamo inginocchiate/ Non è necessario essere sempre spontanea e leale/ Felice e semplice e timorata di Dio/ Abituarsi al dolore che ci ha raggiunto dal cielo/ Che altro può succedere?
Ciao, caro terzo mondo/ Amami/ Mentre spezzo semi di girasole per te nel cinema/ E bacia le mie labbra/ Fino a che mamma dà il permesso di farlo, pensa alle cicche di sigarette in camera mia/ Allahu Akbar/ Dio è 34 volte un grande idolo/ Con i seguaci attaccati alla statua russa…

In una società dove nascere femmina è di per sé un tabù, essere donna rappresenta una sfida…la disobbedienza è una lotta. Le poete, represse dalle famiglie e dalla società, torturate per aver scritto versi, continuano a lanciare la loro sfida contro le diseguaglianze, alle nuove generazioni, in una lotta millenaria che ispira e a dà speranza di cambiamento a tutte le donne del mondo.

Traduzione di Giorgia Pietropaoli

 

 

Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran

CISDA, Appello, 15 luglio 2025

È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.

Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.

La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.

Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.

Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.

L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.

I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”

CISDA, Comunicato, 25 luglio 2025

In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica.

Ci hanno scritto:

“Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle.

Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto:

‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan. Ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.

Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’.

Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse.

Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”.

Nel suo sito, RAWA NEWS informa:

In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale.

Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi firmavano garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento.

Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza.

Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate.

NON PER LA RELIGIONE MA PER IL PREDOMINIO

Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso.

Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento.

Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita. Ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale.

Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano.

Afghanistan, centinaia di donne arrestate a Kabul: apartheid di genere

Focus on Africa, 20 luglio 2025, di Giorgia Pietropaoli

Le forze talebane hanno condotto una nuova ondata di arresti di decine di giovani donne a Kabul, suscitando reazioni e condanne unanimi.

Gli arresti, avvenuti principalmente nei quartieri di Qala-e Fathullah, Kote- e Sangi, Dasht-e-Barchi e Shahr-e-Naw, sollevano gravi interrogativi sul rispetto dei diritti umani e sulla condizione femminile in Afghanistan.

Tra venerdì 17 luglio e sabato 18 luglio, per ordine del Ministero della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio diverse giovani donne sono state portate via, letteralmente sequestrate, senza precise accuse. Secondo fonti locali e testimonianze dirette raccolte da Afghanistan International e da testimoni presenti sul posto, gli arresti sono avvenuti in strada, anche nel centro città. Un testimone oculare ha riferito che i talebani hanno usato particolare violenza durante le operazioni, anche a causa dell’assenza di agenti donne.

Questa nuova ondata segue di pochi giorni un’analoga retata avvenuta mercoledì 15 luglio a Shahr-e-Naw, dove sono state arrestate quasi 100 giovani donne. I familiari, che ancora ignorano dove siano state condotte, sono molto preoccupati; hanno raccontato che le donne sono sono state arrestate nonostante la maggior parte di loro indossasse il velo islamico, prelevate da strade, mercati, minibus e persino ospedali e trasferite in centri di detenzione senza che siano state fornite motivazioni.

Un video diffuso da Afghanistan International mostra diverse donne terrorizzate circondate dai talebani, una di loro grida: “Ci avete privato della vita, dell’istruzione e della scuola; cosa volete di più? Temete Dio!”. Alcune delle donne arrestate mercoledì sono state rilasciate dopo una notte, ma solo dopo che le loro famiglie hanno fornito garanzie scritte.

Finora, i talebani non hanno fornito alcuna spiegazione ufficiale per queste detenzioni di massa. Contemporaneamente agli arresti, sono state segnalate ispezioni da parte di agenti talebani nei ristoranti di Shahr-e-Naw, a Kabul, dove il Ministero della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio controlla regolarmente le sale da pranzo e ordina alle donne di coprirsi il volto in pubblico.

Questi eventi hanno scatenato forti condanne. Il Fronte per la Libertà, che ha già preso di mira negli ultimi mesi combattenti e funzionari talebani, ha annunciato che il Ministero della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio sarà ora un obiettivo dei “legittimi attacchi”. Anche figure di spicco come l’ex Ministro degli Interni afghano Mohammad Omar Daudzai hanno criticato aspramente le azioni “arbitrarie” dei talebani, definendole una prova della loro “inaffidabilità”. Anche l’ex leader jihadista Abdurrab Rasool Sayyaf ha duramente condannato la detenzione di donne e ragazze, considerandola ingiustificata e contraria alla “decenza umana” e all’”orgoglio afghano”.

Questi arresti si inseriscono in un quadro più ampio di repressione e violenza contro le donne in Afghanistan. Emblematico è il caso di Marina Sadat, una studentessa di 23 anni arrestata nel dicembre 2023 nella zona di Dasht-e-Barchi per “uso improprio dell’hijab”. Dopo 21 giorni di ricerche da parte della famiglia, il suo corpo torturato è stato ritrovato, con segni evidenti di violenze efferate. La famiglia di Marina continua a subire minacce, evidenziando la brutalità e le conseguenze a lungo termine delle azioni talebane.

La sistematica rimozione delle donne dalla vita pubblica, attraverso detenzioni arbitrarie, restrizioni e violenze, è una chiara manifestazione dell’ apartheid di genere che affligge il Paese, un problema deliberato, duro e continuo che richiede una condanna netta e una reazione immediata da parte della comunità internazionale.

I volti degli afghani assassinati dai talebani dopo la fuga di notizie della “lista delle vittime”

RAWA News, 18 luglio 2025, di  Robert Mendick, caporedattore e Akhtar Makoii *

Il segreto governativo impedisce al Telegraph di rivelare se i morti siano stati coinvolti nella violazione dei dati.

Sono stati pubblicati in un dossier i nomi di oltre 200 soldati e poliziotti afghani assassinati dai talebani da quando il Ministero della Difesa (MoD) ha diffuso una “lista delle vittime”.

I loro nomi sono stati raccolti da assistenti sociali indipendenti, evidenziando la difficile situazione degli afghani che hanno lavorato con le forze armate britanniche e statunitensi.

Ma un’ordinanza del tribunale imposta da un giudice di alto rango impedisce al Telegraph di riferire se i morti fossero apparsi per la prima volta nell’elenco del Ministero della Difesa, reso pubblico accidentalmente nel febbraio 2022.

I talebani sostengono che la lista del Ministero della Difesa è entrata in loro possesso nel 2022 e che da allora stanno dando la caccia alle persone in essa identificate.

Il Telegraph può rivelare che un’unità delle forze speciali dei talebani, nota come Yarmok 60, è stata incaricata di localizzarli.

L’elenco riportava i richiedenti asilo a un programma gestito dal Ministero della Difesa, il cui scopo, dopo la caduta di Kabul nel 2021, era quello di dare asilo agli afghani che avevano lavorato con le truppe britanniche.

Non è ancora chiaro quante delle persone presenti nell’elenco siano state identificate dai talebani, rintracciate e di conseguenza uccise.

Mercoledì, il Segretario alla Difesa John Healey ha ammesso di “non essere in grado di affermare con certezza” se qualcuno sia stato ucciso a seguito della violazione dei dati.

Ma ha insistito sul fatto che, a tre anni dalla fuga di notizie, è “altamente improbabile” che essere nella lista aumenti il rischio di essere presi di mira dai taleban

Martedì l’Alta Corte ha revocato una super-ingiunzione, consentendo per la prima volta la segnalazione della fuga di notizie. Rimane però in vigore un’ordinanza del tribunale che impedisce l’utilizzo del database per rivelare l’identità degli afghani che potrebbero essere stati presi di mira a seguito della fuga di notizie.

Tra gli ex soldati delle forze speciali afghane uccisi dai talebani da quando la lista è trapelata ci sono uomini giovani e di mezza età assassinati dal nuovo regime in diverse parti del Paese, alcuni insieme ai loro familiari.

Il colonnello Toorjan, comandante della polizia di Helmand meridionale, è stato ucciso insieme ad altri familiari mentre usciva da una moschea il 24 giugno dell’anno scorso.

Un mese dopo, le forze talebane hanno sparato e ucciso un altro ex ufficiale dell’esercito governativo nella provincia orientale di Khost.

I talebani hanno giustiziato Hamidullah Khosti il 23 luglio nel distretto di Alishar. Era arrivato lì il giorno prima per partecipare a una cerimonia nuziale.

Nonostante l’amnistia generale dichiarata da Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dei talebani, il gruppo ha continuato ad arrestare e uccidere ex militari e dipendenti del governo per quasi quattro anni. Un altro ex ufficiale dell’esercito governativo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dalle forze talebane nella provincia di Kapisa nel luglio 2022, cinque mesi dopo la fuga di notizie dell’elenco.

Muzamil Nejrabi è stato ucciso di notte nel villaggio di Arbab Khil, nel distretto di Nejrab, nella provincia di Kapisa.

Il giovane era uscito di casa alle 22:30 per irrigare i suoi campi quando è stato colpito dai soldati del Quinto Battaglione talebano, Prima Brigata, di stanza a Kapisa. È morto durante il trasporto in ospedale.

Gli amici dicono che si era sposato tre mesi prima del suo assassinio.

Nel febbraio dello scorso anno, il cadavere insanguinato di Hayatullah Nizami, ex comandante delle operazioni della terza zona di sicurezza nella città settentrionale di Taloqan, è stato scoperto nella zona di Bishkapa, vicino alla brigata dell’esercito talebano della città nella provincia di Takhar.

Secondo una fonte locale, Nizami, in precedenza membro delle forze di sicurezza, lavorava come dipendente presso un’azienda che collaborava con il comune di Taloqan dopo la caduta del governo sostenuto dall’Occidente. Era scomparso con il suo veicolo la notte prima e il suo corpo smembrato è stato ritrovato il giorno seguente.

Fonti locali hanno riferito che, dopo il ritrovamento del corpo, i talebani hanno fatto il nome di Hamidullah, un dipendente comunale, per nascondere il suo passato militare.

Secondo i media locali, il 21 agosto dell’anno scorso, i combattenti talebani hanno trascinato fuori dalla sua casa Abdul Rahman Delawar, ex comandante della sicurezza del distretto di Shekhel, e lo hanno ucciso.

Dopo la caduta di Kabul, Delawar era fuggito in Iran ed era da poco tornato al villaggio dei suoi antenati, dove conduceva una vita normale.

Il dossier sui 200 afghani uccisi dopo la fuga di notizie è stato compilato dall’assistente sociale indipendente, noto solo come Persona A, che per primo ha lanciato l’allarme sulla violazione dei dati.

Inviò un’e-mail a James Heappey, all’epoca ministro delle Forze Armate, in cui avvertiva “di quanto grave sia stata la negligenza in termini di sicurezza dei dati”.

Ha aggiunto: “I talebani potrebbero ora avere una lista di 33.000 persone da uccidere, fornita loro essenzialmente dal governo del Regno Unito”.

Ha inviato l’e-mail il 15 agosto 2023, dopo che un utente anonimo su Facebook aveva minacciato di pubblicare i dati trapelati. Erano stati diffusi accidentalmente 18 mesi prima da un soldato britannico incaricato di controllare gli afghani che richiedevano asilo nell’ambito dell’Afghan Relocations and Assistance Policy (Arap).

Successivamente, nel settembre 2023, la persona A è stata sottoposta a una super-ingiunzione, che le ha impedito – insieme ai giornali – anche solo di menzionarne l’esistenza.

Il dossier compilato dalla Persona A e da altri assistenti sociali è stato trasmesso al Telegraph dopo la revoca della super-ingiunzione, per fornire un’istantanea degli afghani che avevano lavorato con le truppe della coalizione e che si ritiene siano stati successivamente presi di mira dai talebani.

Le identità delle vittime sono state ricavate da post pubblicati sulla stampa locale afghana e sui social media, nonché tramite contatti sul campo. Il Telegraph non è stato in grado di verificare in modo indipendente i nomi contenuti nel dossier delle vittime e le circostanze della loro morte.

La persona A ha affermato che gli afghani potrebbero aver fatto domanda per partecipare al programma Arap, anche se non avevano lavorato con le truppe britanniche, come mezzo per assicurarsi un rifugio sicuro.

Ma ciò significa anche che gli afghani che non avevano alcun legame con l’esercito britannico potrebbero essere stati messi in pericolo semplicemente facendo domanda per partecipare al programma Arap.

La persona A ha dichiarato: “Il problema che abbiamo è che non abbiamo modo di sapere se le persone nel nostro dossier abbiano presentato domanda per il programma Arap o meno. Ci sono moltissime persone che non hanno rispettato il programma Arap, ma hanno presentato domanda tramite Arap”.

*articolo tratto dal Telegraph 18 luglio 2025

[Trad. automatica]

Deportati in Afghanistan: la Germania rimanda a Kabul espulsi e condannati

Il manifesto, 19 luglio 2025, di Giuliano Battiston

Espulsioni Onu: si rischia di violare il principio di non respingimento

Un volo della Qatar Airways è partito ieri dall’aeroporto di Lipsia alle 8.35, destinazione Kabul. A bordo 81 cittadini afghani, rimpatriati nell’Afghanistan governato dai Talebani anche grazie alla mediazione del Qatar. L’operazione è stata confermata dal ministro degli Interni tedesco, Alexander Dobrindt: «La Germania deporta 81 cittadini nel loro Paese d’origine come parte di un piano di rimpatrio collettivo. Si tratta di uomini afghani che sono tenuti legalmente ad abbandonare il Paese e che hanno precedenti penali. Tutte le loro richieste di asilo sono state legalmente respinte senza ulteriori ricorsi». Per il governo tedesco, entrato in carica lo scorso maggio, il trasferimento è un modo per dare seguito alle promesse elettorali rispetto a una pratica che deve diventare europea ed è del tutto legale: i deportati avevano un ordine di espulsione ed erano stati già condannati dalla giustizia penale, assicurano a Berlino. Proprio ieri, riferendosi in particolare alle deportazioni di massa dall’Iran e dal Pakistan, l’Alto Commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, Volker Türk, ha chiesto però di fermare immediatamente il rimpatrio forzato di tutti i rifugiati afghani e richiedenti asilo.

L’Onu ha inoltre ricordato che «rimandare le persone in un Paese in cui rischiano di subire persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti o altri danni irreparabili, viola il principio fondamentale del diritto internazionale di non respingimento» qualunque sia lo status dei rimpatriati. Amnesty International, criticando le deportazioni, ha ricordato che la situazione in Afghanistan è «catastrofica» e che «esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e torture sono all’ordine del giorno». Da Kabul, i Talebani fanno sapere che, dopo aver esaminato i casi, tratteranno i rimpatriati secondo la sharia. In quanto alla reale pericolosità dei degli afghani deportati (in tasca mille euro ciascuno donati dal governo tedesco per evitare di violare una norma che impedisce di trasferire chi è a rischio di immediata indigenza) nessuna informazione supplementare.

Come già accaduto in passato. Quello di ieri è il primo volo di questo tipo voluto dal governo del cancelliere Friedrich Merz, ma non in assoluto: 28 cittadini afghani sono stati rimpatriati già lo scorso agosto, anche in quel caso accusati di crimini, senza che il governo dell’allora cancelliere Olaf Scholz fornisse prove documentali. Scholz, in quell’occasione, aveva annunciato altri trasferimenti. Un’eredità raccolta da Merz, che intende dettare la linea anche in Europa: «Le deportazioni in Afghanistan devono continuare in modo sicuro anche in futuro. Non esiste un diritto di residenza per i criminali nel nostro Paese». In base a quale accordo, e in cambio di quali vantaggi per l’Emirato, siano avvenuti questi due trasferimenti non è dato sapere. Berlino non riconosce l’Emirato islamico, il governo dei Talebani è riconosciuto soltanto da Mosca. Merz ha fatto sapere che l’espulsione è stata preceduta da settimane di negoziati, che i colloqui con i Talebani ci sono ma solo di natura tecnica, funzionali ai rimpatri.

Ma in un’intervista alla rivista tedesca Focus ha spiegato che la sua idea è «stringere accordi direttamente con l’Afghanistan per consentire i rimpatri» evitando terze parti, come il Qatar. E non è sfuggita agli osservatori più attenti che il governo tedesco potrebbe consentire l’arrivo di funzionari dell’Emirato al consolato di Berlino per facilitare le cose.

Un modo per riprendere a pieno regime quelle deportazioni che sono state una costante nel rapporto tra molti Paesi europei e l’Afghanistan, al tempo del precedente regime, la Repubblica islamica. Ieri, al termine di un incontro nel sud della Germania con i suoi omologhi da Francia, Polonia, Austria, Danimarca e Repubblica ceca, il ministro degli interni tedesco Dobrindt ha annunciato un accordo per inasprire le politiche migratorie e consentire i rimpatri. Anche in Afghanistan e Siria.

Disarmo in Kurdistan: lezioni da un atto storico

Centro Studi Sereno Regis, 18 luglio 2025, di Matt Meyer*

Dopo decenni di lotta armata, un atto di disarmo in Kurdistan: il PKK depone le armi e apre un nuovo capitolo nonviolento nel movimento indipendentista curdo.

L’11 luglio, sulle colline del nord dell’Iraq, si è svolta una scena che avrebbe scosso anche il più esperto attivista per il disarmo. Scendendo lungo un ripido sentiero verso un’area improvvisata circondata da diverse centinaia di membri della comunità e sostenitori, 30 guerriglieri pesantemente armati, almeno la metà dei quali donne, si sono diretti verso un grande barile grigio per consegnare le armi.

Fanno parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, o PKK, un gruppo paramilitare e politico formato nel 1978 per unire le popolazioni curde che vivono in Iraq, Iran, Siria e Turchia e lottare per l’indipendenza. Il PKK ha deciso di deporre le armi con una cerimonia di rogo delle scorte di armi portate da ciascuno dei guerriglieri. Sperano che questo atto unilaterale di cessate il fuoco dia inizio a un nuovo processo politico con il governo turco, che finora si è mostrato insensibile.

Il giorno e la decisione che lo ha preceduto non erano privi di profonde radici nella lotta per la libertà del Kurdistan. Nel 1923, quando la regione era governata dallo sceicco Mahmoud, re del Kurdistan, l’esercito britannico cercò di proteggere il suo recente mandato sulla regione mesopotamica e tutte le ricche riserve di petrolio che essa comportava. Mahmoud si rifugiò nella grotta di Jasana, dove l’11 luglio si svolse la cerimonia. Chiese ai suoi seguaci di trasferirsi nella regione per motivi di sicurezza e aiutò a pubblicare dalla grotta il primo giornale moderno di resistenza anticoloniale curdo. Nel corso dell’ultimo secolo, la grotta è stata utilizzata come importante rifugio per i resistenti armati e non violenti che hanno affrontato le forze anti-curde, compresa la campagna genocida Anfal di Saddam Hussein.

L’amato leader curdo, teorico e prigioniero politico di lunga data Abdullah Öcalan, fondatore del PKK, ha chiesto lo scioglimento del partito il 25 febbraio, a oltre 26 anni dalla sua cattura e dalla sua detenzione. L’attento seguito dato a tale appello da parte di gruppi all’interno del PKK – e il successivo appello di Öcalan ai combattenti del PKK a deporre le armi – ha portato agli eventi di disarmo dell’11 luglio.

C’è stata anche un’ampia dichiarazione da parte di un “Gruppo per la pace e la società democratica” emerso negli ultimi mesi. Formatosi in seguito a recenti incontri con Öcalan, il gruppo sta lavorando per riunire i popoli curdi di tutte le principali regioni e paesi, nonché di diversi orientamenti politici e strategici. I suoi membri hanno rilasciato una dichiarazione ampia e coraggiosa durante la cerimonia alla grotta di Jasana, l’unica comunicazione consentita quel giorno.

Il gruppo ha sottolineato che l’atto di “distruggere volontariamente le nostre armi, davanti a voi” è stato considerato “un gesto di buona volontà e determinazione”. Hanno affermato di averlo fatto in conformità con la dichiarazione di Öcalan, nella convinzione di non credere “nelle armi” ma nel potere del popolo. Hanno affermato che il loro atto di disarmo è stato compiuto “con grande orgoglio e onore nel fare ciò che è necessario per questo principio storico”.

La dichiarazione è stata letta ad alta voce in modo drammatico in curdo da Besê Hozat, copresidente del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità del Kurdistan e attiva sostenitrice del femminismo e della leadership femminile. È stata letta anche in turco e distribuita in inglese e in altre lingue a tutti i presenti. “Data la crescente pressione fascista e lo sfruttamento in tutto il mondo e l’attuale bagno di sangue in Medio Oriente”, si legge nella dichiarazione, “il nostro popolo ha più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, equa e democratica”.

Sebbene rimangano ancora alcune questioni aperte su come contribuire a soddisfare queste esigenze a livello locale, è probabile che i cambiamenti avverranno attraverso progetti e campagne in materia di istruzione, assistenza sanitaria, alfabetizzazione, emancipazione delle donne e apprendimento delle pratiche democratiche. Programmi di questo tipo hanno già avuto molto successo nelle comunità curde della Siria, nell’area che è diventata nota come Rojava.

Al di là del significato di queste parole e azioni per il popolo del Kurdistan, della Turchia, dell’Iraq e della Siria, la lotta per la libertà dei curdi e le sue attuali iniziative segnalano sfide vitali per i movimenti di resistenza globali ovunque. Ecco tre elementi del movimento curdo che sono stati fondamentali per la sua popolarità e il suo successo e che potrebbero essere di beneficio alle forze progressiste di tutto il mondo.

1. La centralità delle donne in tutti i settori della lotta
Molto più che un semplice fenomeno locale isolato, il movimento di resistenza del Rojava è da tempo un esempio di esercizio dei diritti delle donne anche in mezzo a una guerra attiva e a pratiche patriarcali profonde. Per alcuni analisti e attivisti che hanno fatto parte o studiato il Rojava, la regione curda della Siria contemporanea – controllata dall’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria, o DAANES – ha la maggiore parità di genere di qualsiasi governo al mondo.

In un recente articolo della femminista e ambientalista britannica Natasha Walter, lo slogan che afferma la vita “Donne, Vita, Libertà” è presentato non solo come un grido di battaglia retorico, ma come una celebrazione dei cambiamenti in atto anche al di là delle comunità curde che hanno coniato la frase. Durante le ricerche per un libro sui movimenti di resistenza femminista, Walter è giunta a una conclusione chiara sulle donne della DAANES e delle diverse comunità curde: “Queste donne sono probabilmente le femministe più determinate che abbia mai incontrato”.

Non è difficile capire dove alcune di queste idee abbiano preso forma. Anche in questo caso, il ruolo di Öcalan è importante. La sua affermazione secondo cui “un paese non può essere libero se le donne non sono libere” ha guidato la pratica in gran parte del Kurdistan per più di un decennio. In un opuscolo del 2013, “Liberating Life, Women’s Revolution” (Liberare la vita, la rivoluzione delle donne), ha scritto: “La misura in cui la società può essere trasformata radicalmente è determinata dalla misura della trasformazione raggiunta dalle donne. Allo stesso modo, il livello di libertà e uguaglianza delle donne determina la libertà e l’uguaglianza di tutti i settori della società”.

La trasformazione delle relazioni nella regione del Rojava è stata notata da molte femministe internazionaliste di spicco, tra cui l’accademica e attivista Meredith Tax. Lei ha scritto chiaramente che il Rojava e i movimenti curdi ad esso collegati erano “il posto migliore in Medio Oriente per essere una donna” e un esperimento attivo degno di studio e sostegno a livello globale.

2. La natura mutevole dello Stato-nazione
L’idea che gli “Stati” non debbano necessariamente essere il principale modo in cui le persone interagiscono tra loro non è esclusiva dei pensatori anarchici o del movimento curdo. Esempi di precedenti sfide ai modelli nazionalisti includono le Black Panthers e il movimento zapatista messicano. Sono passati molti decenni da quando i radicali potevano dare per scontato che tutte le grandi lotte fossero basate sulla liberazione nazionale. Con questo non si vuole dire che la centralità vitale della terra sia diminuita o che l’identità “nazionale” di una persona non sia importante.

Tuttavia, l’era delle lotte di liberazione nazionale basate sulla conquista di Stati nuovi o appena liberati è ormai tramontata da tempo. Anche i nuovi Stati nazionali progressisti che sono emersi, come ad esempio il Sud Sudan, sono nati più dalla mediazione e dal compromesso che da efficaci lotte di liberazione. L’introduzione curda del “confederalismo democratico” deve essere vista in questo contesto più ampio. Gli ideali insiti nel confederalismo democratico includono la democrazia diretta, l’autonomia, l’ecologia politica, il femminismo, il multiculturalismo, l’autodifesa, l’autogoverno e le economie cooperative.

Anche in questo caso, il lavoro e le parole di Besê Hozat sono istruttivi. Commentando l’azione dell’11 luglio, ha osservato che i guerriglieri curdi che hanno deposto le armi non volevano semplicemente scendere dalle montagne e deporre le armi. “Vogliamo diventare pionieri della politica democratica”, ha osservato, “ad Amed, Ankara e Istanbul”. Il potere politico, l’autonomia e la democrazia, secondo l’analisi di Hozat e di molti esponenti del movimento curdo, non significano che vogliano costruire un nuovo Stato-nazione.

“Un sistema statale non sarebbe vantaggioso per il popolo curdo, ma una spina nel fianco”, ha dichiarato a New Internationalist nel 2017.

“Approfondirebbe la lotta con i nostri vicini e porterebbe decenni di guerra contro gli arabi, oltre che caos e sofferenza”.

Con il popolo curdo sparso in almeno quattro nazioni esistenti (alcune in forte conflitto tra loro), l’idea di attraversare i confini esistenti per riunire comunità separate artificialmente sembra particolarmente allettante, e non solo nel contesto curdo. Il superamento dei confini e delle frontiere attuali è stato discusso in circoli panafricanisti, delle isole del Pacifico e in altri circoli decolonizzatori. Tra questi vi è l’Occupied People’s Forum, che riunisce leader della resistenza ancora colonizzati provenienti dal Kurdistan/Rojava, dal Kashmir, dalla Palestina, da Porto Rico, dal Sahara occidentale, dalla Papua occidentale, dal Tibet e dall’Ambazonia.

Le iniziative strategiche e tattiche dei movimenti curdi che trascendono qualsiasi regione o singola struttura organizzativa curda sono istruttive per tutte queste lotte attive. Nel succinto quadro per il futuro delineato da Hozat: «L’era dello Stato-nazione è finita».

3. La dialettica della nonviolenza, della rivoluzione e della lotta armata
Ci sono poche prove storiche che suggeriscano che i principi pacifisti o una revisione scientifica delle ricerche sulla resistenza civile abbiano portato alla decisione curda. Piuttosto, il movimento curdo sta esplorando opzioni basate sulle esperienze e sulle condizioni odierne, guardando avanti per capire quali tattiche si adattino meglio al movimento e ai suoi popoli. Come ha affermato Hozat: «Per un movimento che invoca una politica democratica, le armi sono ora un ostacolo. Vogliamo rimuovere questi ostacoli con serietà e responsabilità».

Il Gruppo per la Pace e la Democrazia e la leadership del movimento curdo non sono certo i primi a concludere che sono necessarie nuove metodologie per le nuove condizioni che stanno affrontando.

Nel 2018, il Fronte Polisario del Sahara Occidentale ha contribuito a coordinare la conferenza Sahara Rise, che ha riunito diversi settori della società saharawi per esaminare e orientare le loro politiche verso la resistenza civile nonviolenta.

Dopo decenni di resistenza multiforme che si è orientata fortemente verso la guerriglia urbana, i militanti portoricani associati ai movimenti armati sono diventati più aperti al potere strategico dell’azione diretta nonviolenta e della disobbedienza civile. Nelle parole dell’ex prigioniera politica portoricana Alejandrina Torres, “Ogni periodo storico attraversa delle fasi, e noi dobbiamo crescere e svilupparci in risposta ai tempi”.

L’iniziativa del gruppo curdo contemporaneo è diversa solo per intensità e precisione pragmatica. Ha iniziato questa nuova fase con una serie di conversazioni e azioni diffuse che guardano con attenzione al futuro. In una valutazione dell’autrice e attivista olandese Fréderike Geerdink, l’atto unilaterale di cessate il fuoco del 2025 è ben lungi dall’essere un segno di resa, sconfitta o debolezza, ma semplicemente il riconoscimento che lottare per la libertà con le armi militari “non è più ‘logico’” nel periodo attuale.

Affinché questo esperimento con mezzi non violenti funzioni al meglio, il movimento curdo spera che le sue azioni per “una pace onorevole” non siano un’iniziativa unilaterale. Qualunque sia la risposta delle forze avversarie, le azioni di luglio si sono intraprese in risposta a una valutazione delle esigenze della popolazione. Come ha affermato l’attivista curda Nilüfer Koç, portavoce della Commissione per le relazioni estere del Congresso nazionale curdo:

“Dobbiamo andare avanti con speranza”.

Gli atti di disarmo diretto dell’11 luglio nella regione montuosa del Kurdistan iracheno danno concrete ragioni di nuova speranza al popolo curdo e a tutti noi.

*Fonte: Waging Nonviolence, 15 luglio 2025

Traduzione di Enzo Gargano per il Centro Studi Sereno Regis

L’esodo invisibile degli afghani cacciati dall’Iran, 500mila da giugno

Il manifesto, 17 luglio 2025, di Giuliano Battiston

Iran-Afghanistan Il pretesto: sono «collusi con il nemico sionista». Ogni giorno dal posto di confine più trafficato passano da 35mila a 50mila persone

Teheran mostra i muscoli e rispedisce in patria centinaia di migliaia di afghani, innescando una bomba demografica e sociale che l’Emirato islamico, il governo dei Talebani, non è in grado di gestire, e che qualunque governo avrebbe difficoltà a governare.

DA DIVERSE settimane l’Iran ha intensificato un processo avviato da mesi: dopo la guerra lampo con Israele, in qualche modo approfittando di una crisi che è economica oltre che politica e militare, ha accelerato le deportazioni dei migranti afghani, considerati una minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza interna. Almeno cinquecentomila quelli rispediti oltre confine da inizio giugno, soprattutto attraverso le province afghane di Herat e di Nimruz, 1 milione e trecentomila dall’inizio dell’anno, con la minaccia di rimpatriarne altrettanti. Gli afghani sono accusati di «collusione con il nemico sionista», di fornire informazioni a Israele, di violare le leggi sull’immigrazione, di gravare sulle casse dello Stato o di commettere crimini.

Accuse ingiuste, ma sufficienti a scatenare un flusso migratorio senza precedenti, anche in chiave storica: l’Iran è infatti, insieme al Pakistan, il Paese che negli ultimi 4 decenni più ha accolto la diaspora afghana, diventando una destinazione prioritaria soprattutto per quegli afghani che cercavano e cercano maggiore sicurezza economica e, dopo il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, in alcuni casi anche sicurezza fisica, incolumità personale. Ogni giorno, nel posto di confine più trafficato, Islam Qala, che divide la città iraniana di Mashad da quella afghana di Herat, si registrano dai trentamila ai cinquantamila attraversamenti. Numeri impressionanti, che hanno spinto Roza Otunbayeva, a capo di Unama, la missione delle Nazioni unite a Kabul, a visitare Islam Qala due giorni fa.

OTUNBAYEVA ha richiamato alle proprie responsabilità la comunità internazionale: «L’enorme volume di ritorni, molti di questi bruschi e involontari, dovrebbe far scattare un campanello d’allarme in tutta la comunità globale. È una prova della nostra umanità collettiva. L’Afghanistan, già alle prese con la siccità e una crisi umanitaria cronica, non può assorbire questo shock da solo», ha detto Otunbayeva nel corso della visita, accompagnata dalle autorità di fatto. Ha poi lanciato un appello ai donatori: «Non voltatevi dall’altra parte. I rimpatriati non devono essere abbandonati».

Il suo appello finirà pressoché nel vuoto, come quello, di poche ore prima, di Tom Fletcher, il sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu. Dopo una recente visita nel Paese, il suo ufficio ha rivolto un nuovo appello finanziario per soddisfare i bisogni primari della popolazione afghana e per un Paese dove, ha ricordato Fletcher, «in pochi mesi sono stati chiusi 400 presidi sanitari» per mancanza di fondi. Ma i soldi faticano ad arrivare. Spesso con il pretesto che al governo ci sono i Talebani, la cui macchina della diplomazia si è attivata per provare a convincere Teheran a rallentare i rimpatri. L’Iran, da parte sua, non fa altro che replicare quanto fa da poco meno di due anni Islamabad.

IL GOVERNO pachistano dalla fine del 2023 ha già rimpatriato 1 milione di persone, considerate senza documenti validi (parte dei quali nata in Pakistan), nell’ambito di un ambizioso piano di rimpatri forzati la cui seconda fase è iniziata l’1 aprile. Un piano usato anche come leva negoziale con il governo di Kabul, che è già alle prese con una profondissima crisi umanitaria: sono 23 milioni gli afghani che, secondo le agenzie dell’Onu, hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere.

Senzatetto a casa: i rimpatriati si scontrano con gli affitti alle stelle e la negligenza dei talebani

KabulNow, 18 luglio 2025, di Maisam Iltaf

Quando l’anno scorso Ghulam Farooq ha affittato una modesta casa nella provincia occidentale di Herat, in Afghanistan, credeva di aver trovato stabilità per la sua famiglia. Oggi, quel senso di sicurezza è svanito. Il suo padrone di casa, emigrato in Iran, è tornato e ha intimato a Farooq di andarsene immediatamente.

“Da un mese il mio padrone di casa è tornato e mi ha detto di cercare un’altra casa”, ha raccontato Farooq a KabulNow. “Ho dovuto chiudere la mia attività per cercare un alloggio, ma non c’è niente di disponibile. E se c’è una casa disponibile, l’affitto è tre volte più alto di prima”.

La situazione di Farooq riflette le difficoltà di migliaia di rimpatriati e inquilini locali, mentre le deportazioni da Iran e Pakistan aumentano, spingendo il già fragile mercato immobiliare afghano sull’orlo del baratro. Herat, centro urbano e nodo di transito chiave, è diventato il punto zero di questa crisi.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) segnala che oltre 1,2 milioni di migranti sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025 – oltre 574.000 solo dall’Iran questo mese, molti dei quali sono entrati attraverso il valico di frontiera di Herat, a Islam Qala. La maggior parte di loro sono donne e bambini.

La portata di questo rimpatrio è senza precedenti, rendendolo uno dei più grandi spostamenti di popolazione di quest’anno. I centri di assistenza a breve termine e le infrastrutture locali, già indeboliti da anni di conflitto e mancanza di finanziamenti, sono sovraffollati.

Gli affitti salgono alle stelle, la disponibilità diminuisce

Gli agenti immobiliari locali affermano che la domanda è salita alle stelle. Qader (pseudonimo), che gestisce un’agenzia immobiliare, spiega che le richieste giornaliere da parte di famiglie disperate superano di gran lunga gli annunci disponibili.

“Ricevo più di 100 clienti al giorno, ma non ho immobili da offrire”, dice Qader. “Una casa che prima costava 3.000-4.000 afghani ora costa 7.000. Case che costavano 10.000 afghani ora costano 15.000-20.000.”

Altri rapporti confermano un aumento del 40-50% degli affitti nelle principali città a seguito di restituzioni di massa.

L’OIM afferma che oltre 1,2 milioni di migranti afghani sono stati rimpatriati forzatamente dall’Iran nel 2025. Foto d’archivio
Questo ha lasciato le famiglie locali a basso e medio reddito a dover pagare un prezzo troppo alto, poiché molti rimpatriati arrivano esausti e a mani vuote. Hamidullah, deportato dall’Iran, ha descritto il calvario:

Sono tornato 20 giorni fa. Le mie cose sono al sole a casa di mio fratello. Una casa che prima costava 4.000 afghani ora ne costa 6.000-7.000. A nessuno importa della nostra lotta. Lo stress e l’incertezza sono insopportabili.

Il crollo del mercato immobiliare è solo la punta dell’iceberg. L’economia afghana, paralizzata dall’isolamento internazionale e dal ritiro degli aiuti dopo la presa del potere da parte dei talebani, ha tassi di disoccupazione superiori al 30%, secondo la Banca Mondiale. Senza lavoro, i rimpatriati non solo non hanno un tetto, ma anche una speranza.

Gli effetti a catena sono disastrosi. Le famiglie che hanno venduto i propri beni o contratto prestiti per emigrare ora si trovano ad affrontare debiti crescenti. Gli arrivi basati sulla comunità, come Ghulam e Hamidullah, dipendono da servizi di assistenza sovraffollati, ma i finanziamenti rimangono limitati. La Croce Rossa avverte che entro la fine del 2025 potrebbero arrivare fino a un altro milione di rimpatriati dall’Iran.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto un coordinamento con i Talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. I paesi donatori rimangono riluttanti a finanziare programmi che potrebbero legittimare l’autorità dei Talebani, mentre le rigide politiche del regime, come le restrizioni all’occupazione femminile, erodono ulteriormente la fiducia.

Di conseguenza, gli sforzi di reintegrazione si basano su aiuti umanitari a breve termine: pacchi alimentari, assistenza medica di base e rifugi temporanei nelle zone di confine. Queste misure tampone rappresentano solo la superficie di un problema che, avvertono gli esperti, potrebbe destabilizzare i centri urbani.

La risposta vuota dei talebani

Sotto la pressione dell’opinione pubblica, le autorità talebane affermano di monitorare il mercato degli affitti e di aver messo in guardia i proprietari contro “aumenti ingiustificati degli affitti”. Manifesti a Herat invitano i residenti a denunciare i proprietari che sfruttano gli immobili. Ma per gli inquilini, questi avvertimenti suonano vuoti.

“Nessuno osa lamentarsi”, ha detto un residente di Herat. “Se segnaliamo un proprietario, verremo sfrattati immediatamente o subiremo abusi. Non c’è alcuna tutela legale per gli inquilini”.

Il Ministero dello Sviluppo Urbano, sotto il regime talebano, ha annunciato piani per progetti di edilizia popolare nel 2022, ma non si sono registrati progressi visibili. I funzionari citano la mancanza di fondi, ma gli analisti sostengono che il problema risieda nella governance: l’isolamento dei talebani dalla finanza internazionale ha impedito al regime di finanziare iniziative di edilizia popolare o di pianificazione urbana su larga scala.

“I talebani non hanno né le risorse né le competenze tecniche per gestire una crisi di questa portata”, ha affermato un urbanista di Kabul. “Si sono concentrati quasi esclusivamente sulla sopravvivenza politica e sul controllo religioso, non sullo sviluppo delle infrastrutture”.

In città come Herat, gli uffici comunali operano con personale ridotto e budget ridotti al minimo. Non esistono programmi strutturati per il controllo degli affitti, né sussidi per i rimpatriati, né un quadro giuridico per prevenire gli sfratti forzati.

Implicazioni umanitarie

La crisi immobiliare di Herat rispecchia le tendenze nazionali. A Kabul, un’indagine di Salam Watandar ha mostrato che i costi degli affitti sono aumentati del 40% in tre anni a causa dell’ondata di rimpatri e del deterioramento delle condizioni economiche. In tutto l’Afghanistan, l’UNHCR e altre agenzie avvertono dell’imminente “crisi dimenticata”, con la diminuzione delle risorse.

Dal 2023, questo afflusso senza precedenti, aggravato dalle deportazioni da Iran e Pakistan, ha messo a dura prova la capacità di risposta umanitaria dell’Afghanistan. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), oltre 23,7 milioni di persone – più della metà della popolazione – necessitano di assistenza umanitaria nel 2025, con i rimpatri forzati che aggiungono ulteriore pressione a risorse già ridotte.

L’UNHCR conferma che ben 1,6 milioni di rimpatriati, compresi quelli provenienti dal Pakistan, hanno messo a dura prova le comunità. Le organizzazioni umanitarie sottolineano che decine di migliaia di famiglie sono ora senza casa, senza riparo, acqua o assistenza sanitaria, mentre la malnutrizione e le malattie mentali sono in aumento.

Le agenzie umanitarie internazionali hanno ripetutamente chiesto il coordinamento con i talebani per affrontare queste sfide, ma l’impegno è ostacolato dalle condizioni politiche. Foto: UNAMA
L’ONU ha chiesto un urgente sostegno internazionale.

“Senza un intervento immediato – iniziative per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili, creazione di posti di lavoro e sostegno sociale – milioni di persone rischiano di essere spinte ancora più in basso nella povertà”, ha avvertito un funzionario dell’OIM sul campo.

Gli esperti affermano che la soluzione sostenibile risiede nello sviluppo edilizio su larga scala e nella regolamentazione del mercato degli affitti, misure che richiedono risorse, governance e cooperazione internazionale, tutti aspetti che rimangono irraggiungibili sotto il regime talebano. Nel frattempo, le deportazioni da Iran e Pakistan non accennano a rallentare.

Se le deportazioni continueranno, gli esperti avvertono che i centri urbani afghani potrebbero collassare sotto il peso del fenomeno, causando disordini sociali e sfollamenti. I rimpatriati indifesi potrebbero tentare di migrare nuovamente, alimentando flussi irregolari e instabilità.

Per Farooq, Hamidullah e innumerevoli famiglie, il futuro è pieno di rischi.

“Tutto ciò che vogliamo è un tetto sopra la testa”, sussurrò Hamidullah a bassa voce. “Siamo tornati in patria, ma siamo ancora senza casa.”

[Trad. automatica]

L’amministrazione Trump sta per incenerire 500 tonnellate di cibo di emergenza

The Atlantic, 14 luglio 2025, di Hana Kiros

Per mesi i dipendenti federali avevano lanciato l’allarme: i biscotti ad alto contenuto energetico sarebbero andati sprecati.

A cinque mesi dall’inizio dello smantellamento senza precedenti dei programmi di aiuti esteri, l’amministrazione Trump ha dato ordine di incenerire il cibo invece di inviarlo alle persone all’estero che ne hanno bisogno. Quasi 500 tonnellate di cibo di emergenza – sufficienti a sfamare circa 1,5 milioni di bambini per una settimana – scadranno domani, secondo attuali ed ex dipendenti governativi a conoscenza diretta delle razioni. Entro poche settimane, mi hanno detto due di queste fonti, il cibo, destinato ai bambini in Afghanistan e Pakistan, diventerà cenere. (Le fonti con cui ho parlato per questo articolo hanno chiesto l’anonimato per timore di ripercussioni professionali.)

Verso la fine dell’amministrazione Biden, l’USAID ha speso circa 800.000 dollari per i biscotti ad alto contenuto energetico, mi hanno detto un dipendente attuale e un ex dipendente dell’agenzia. I biscotti, che contengono il fabbisogno nutrizionale di un bambino sotto i 5 anni, sono una soluzione temporanea, spesso utilizzata in situazioni in cui le persone hanno perso la casa a causa di un disastro naturale o sono fuggite da una guerra prima che le organizzazioni umanitarie riuscissero ad allestire una cucina per accoglierle. Erano conservati in un magazzino di Dubai e dovevano essere destinati ai bambini quest’anno.

Da gennaio, quando l’amministrazione Trump ha emesso un ordine esecutivo che ha bloccato praticamente tutti gli aiuti esteri americani, i dipendenti federali hanno inviato ai nuovi leader politici di USAID ripetute richieste di spedizione dei biscotti finché erano utili, secondo i due dipendenti di USAID. USAID ha acquistato i biscotti con l’intenzione di farli distribuire dal Programma Alimentare Mondiale e, in circostanze precedenti, il personale di carriera avrebbe potuto consegnarli all’agenzia delle Nazioni Unite di propria iniziativa. Ma da quando il Dipartimento per l’Efficienza Governativa di Elon Musk ha sciolto USAID e il Dipartimento di Stato ha assorbito l’agenzia, nessun denaro o voce di aiuto può essere trasferita senza l’approvazione dei nuovi responsabili degli aiuti esteri americani, mi hanno detto diversi dipendenti attuali ed ex dipendenti di USAID. Da gennaio a metà aprile, la responsabilità è ricaduta su Pete Marocco, che ha lavorato in diverse agenzie durante la prima amministrazione Trump; poi è passata a Jeremy Lewin, un laureato in giurisprudenza sulla ventina, originariamente nominato dal DOGE e ora ricopre incarichi sia presso USAID che presso il Dipartimento di Stato. Due dipendenti dell’USAID mi hanno detto che i membri dello staff che hanno inviato le note per richiedere l’autorizzazione a trasferire il cibo non hanno mai ricevuto risposta e non sapevano se Marocco o Lewin le avessero mai ricevute. (Il Dipartimento di Stato non ha risposto alle mie domande sul perché il cibo non fosse mai stato distribuito.)

A maggio, il Segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato ai rappresentanti della Commissione Stanziamenti della Camera che avrebbe garantito che gli aiuti alimentari raggiungessero i destinatari previsti prima di deteriorarsi. Ma a quel punto, l’ordine di incenerire i biscotti (che ho poi esaminato) era già stato inviato. Rubio ha insistito affinché l’amministrazione si assumesse la responsabilità americana di continuare a salvare vite umane straniere, anche attraverso gli aiuti alimentari. Ma ad aprile, secondo NPR , il governo statunitense ha eliminato tutti gli aiuti umanitari all’Afghanistan e allo Yemen, dove, secondo il Dipartimento di Stato, fornire cibo rischia di avvantaggiare i terroristi. (Il Dipartimento di Stato non ha fornito alcuna giustificazione analoga per il ritiro degli aiuti al Pakistan). Anche se l’amministrazione non fosse stata disposta a inviare i biscotti ai Paesi originariamente previsti, altri luoghi – ad esempio il Sudan, dove la guerra sta alimentando la peggiore carestia mondiale degli ultimi decenni – avrebbero potuto trarne beneficio. Invece, i biscotti nel magazzino di Dubai continuano ad avvicinarsi alla data di scadenza, dopo la quale il loro contenuto di vitamine e grassi inizierà a deteriorarsi rapidamente. A questo punto, la politica degli Emirati Arabi Uniti impedisce persino che i biscotti vengano riutilizzati come mangime per animali.

Nelle prossime settimane, il cibo verrà distrutto con un costo di 130.000 dollari per i contribuenti americani (oltre agli 800.000 dollari utilizzati per acquistare i biscotti), secondo gli operatori umanitari federali con cui ho parlato, attuali ed ex. Un attuale membro dello staff di USAID mi ha detto di non aver mai visto così tanti biscotti distrutti nei suoi decenni di lavoro negli aiuti umanitari esteri americani. A volte il cibo non viene conservato correttamente nei magazzini, oppure un’alluvione o un gruppo terroristico complica le consegne; questo potrebbe comportare, al massimo, la perdita di qualche decina di tonnellate di alimenti fortificati in un anno. Ma molti degli operatori umanitari con cui ho parlato hanno ribadito di non aver mai visto prima il governo statunitense rinunciare semplicemente a cibo che avrebbe potuto essere utilizzato con successo.

I biscotti di emergenza destinati alla distruzione rappresentano solo una piccola frazione del tipico investimento annuale degli Stati Uniti in aiuti alimentari. Nell’anno fiscale 2023, USAID ha acquistato oltre 1 milione di tonnellate di cibo da produttori statunitensi. Ma il crollo degli aiuti esteri americani aumenta la posta in gioco di ogni perdita. In genere, i biscotti sono la prima cosa che gli operatori del Programma Alimentare Mondiale consegnano alle famiglie afghane costrette a lasciare il Pakistan e a tornare nel loro Paese d’origine, afflitto da anni da una grave malnutrizione infantile. Ora il WFP può sostenere solo un afghano su 10 che ha urgente bisogno di assistenza alimentare. Il WFP stima che, a livello globale, 58 milioni di persone siano a rischio di fame estrema o di carestia perché quest’anno non ha i fondi per sfamarle. Secondo i calcoli di uno degli attuali dipendenti di USAID con cui ho parlato, il cibo destinato alla distruzione avrebbe potuto soddisfare il fabbisogno nutrizionale di ogni bambino che affronta un’insicurezza alimentare acuta a Gaza per una settimana.

Nonostante le ripetute promesse dell’amministrazione di continuare gli aiuti alimentari e la testimonianza di Rubio, che non avrebbe permesso che il cibo esistente andasse sprecato, altri prodotti alimentari potrebbero presto esaurirsi. Centinaia di migliaia di scatole di paste alimentari di emergenza, già acquistate, stanno attualmente accumulando polvere nei magazzini americani. Secondo gli inventari USAID di gennaio, oltre 60.000 tonnellate di cibo – in gran parte coltivato in America e già acquistato dal governo statunitense – erano all’epoca depositate in magazzini in tutto il mondo. Tra queste, 16.000 tonnellate di piselli, olio e cereali, immagazzinate a Gibuti e destinate alla distribuzione in Sudan e in altri paesi del Corno d’Africa. Un’ex funzionaria di alto livello dell’Ufficio per l’Assistenza Umanitaria di USAID mi ha detto che, quando ha lasciato il suo incarico all’inizio di questo mese, sembrava che si fosse spostata solo una minima parte del cibo; uno degli attuali dipendenti USAID con cui ho parlato ha confermato la sua impressione, sebbene abbia osservato che, nelle ultime settimane, piccole spedizioni hanno iniziato a lasciare il magazzino di Gibuti.

Tali operazioni sono più difficili da gestire per USAID oggi rispetto allo scorso anno, perché molti degli operatori umanitari e degli esperti della catena di approvvigionamento che un tempo coordinavano la distribuzione di cibo americano alle persone affamate in tutto il mondo non hanno più il lavoro. Il mese scorso, gli amministratori delegati delle due aziende americane che producono un altro tipo di cibo di emergenza per bambini malnutriti hanno entrambi dichiarato al New York Times che il governo sembrava incerto su come spedire il cibo già acquistato. Né, mi hanno detto, hanno ricevuto nuovi ordini. (Un portavoce del Dipartimento di Stato mi ha detto che il dipartimento ha recentemente approvato ulteriori acquisti, ma entrambi gli amministratori delegati mi hanno detto di non aver ancora ricevuto gli ordini. Il Dipartimento di Stato non ha risposto ad ulteriori domande su questi acquisti). Ma anche se l’amministrazione Trump decidesse domani di acquistare altri aiuti alimentari – o semplicemente distribuire ciò che il governo possiede già finché il cibo è ancora utile – potrebbe non essere più in grado di garantire che qualcuno li riceva.

[Trad. automatica]