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Autore: CisdaETS

A giugno, secondo le Nazioni Unite, oltre 250.000 afghani hanno lasciato l’Iran

Aleks Phillips, Soroush Pakzad, BBC, 1 luglio 2025

Più di 256.000 afghani hanno lasciato l’Iran nel solo mese di giugno, segnando un’impennata nei rientri in Afghanistan da quando Teheran ha fissato una scadenza rigida per i rimpatri, come dichiarato dall’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato 28.000 afghani che hanno lasciato l’Iran in un solo giorno a giugno, dopo che il regime iraniano ha ordinato a tutti gli afghani sprovvisti di documenti di lasciare il Paese entro il 6 luglio.

Il numero di rifugiati afghani in Iran è aumentato da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan nel 2021; molti di loro vivono senza uno status legale.

Ciò ha contribuito ad accrescere il sentimento anti-afghano in Iran, dove i rifugiati devono affrontare discriminazioni sistematiche.

Afghani rimpatriati con la forza

L’OIM ha dichiarato che, da gennaio, più di 700.000 afghani hanno lasciato l’Iran e il portavoce Avand Azeez Agha ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che il 70% di loro è stato “rimandato indietro con la forza”.

L’aumento dei rimpatri e la scadenza sono avvenuti dopo che Iran e Israele hanno ingaggiato un conflitto diretto, iniziato con l’attacco di Israele a siti nucleari e militari a metà giugno. Da allora è stato mediato un cessate il fuoco.

Mentre i due Paesi si scambiavano attacchi quotidiani, il regime iraniano ha arrestato diversi migranti afghani sospettati di spionaggio per conto di Israele, come riportato dai media statali.

In seguito a queste denunce, è iniziata una nuova ondata di rimpatri forzati. L’agenzia di stampa semiufficiale iraniana Mehr ha riferito che la polizia era stata incaricata di accelerare le deportazioni, ma la polizia ha poi smentito.

“Abbiamo paura ad andare ovunque, perché c’è sempre il timore che ci accusino di essere spie”, ha dichiarato alla BBC Persian un migrante afghano in Iran, che non nominiamo per proteggerne l’identità.

“Ai posti di blocco perquisiscono le persone e controllano i telefoni . I messaggi o i video di media stranieri sui social network possono letteralmente mettere in pericolo la vita di chi li ha”.

“Molti iraniani ci insultano, dicendo ‘Voi afghani siete spie’ o ‘lavorate per Israele'”.

Numerose notizie riportate dai media iraniani indicano che sono stati espulsi con la forza anche afghani in possesso di visti e documenti validi. Alcuni, rilasciati dopo essere stati arrestati, hanno dichiarato di essere stati accusati dai funzionari di aver tradito il Paese.

Arafat Jamal, coordinatore dell’UNHCR per l’Afghanistan, ha dichiarato che, nonostante il cessate il fuoco tra Israele e Iran, “le conseguenze di quella guerra continuano”.

“Questo movimento di espulsione era precedente, ma è stato esacerbato dalla guerra”, ha dichiarato alla BBC Pashto.

“I rimpatriati raccontano di una serie di azioni, alcune piuttosto coercitive, altre meno, che li hanno spinti a tornare”.

Sottoposti a oppressioni ovunque

I rifugiati afghani non hanno diritto alla cittadinanza iraniana, neanche se sono nati nel Paese, e molti di loro non possono aprire conti bancari, acquistare carte SIM o vivere in determinate aree. Anche le opportunità di lavoro sono fortemente limitate e spesso si riducono a lavori coercitivi con bassi salari.

In questa fase di allontanamento, le autorità iraniane hanno anche esortato il pubblico a denunciare gli afghani senza documenti.

“Ci sono oppressori qui e oppressori là”, ha detto un altro afghano in Iran. “Noi migranti non siamo mai stati liberi, non abbiamo mai vissuto una vita libera”.

Un altro ha dichiarato: “Il futuro degli afghani che vivono in Iran sembra davvero tetro”, aggiungendo: “La polizia è violenta e umiliante e ora anche i Basij [milizie volontarie] sono stati incaricati di arrestare gli afghani”.

L’aumento dei rimpatri arriva dopo che il Pakistan ha intensificato le proprie azioni di espulsione degli afghani senza documenti, affermando di non essere più in grado di ospitarli.

Jamal ha dichiarato che quest’anno il numero di rifugiati afghani rientrati in patria dall’Iran e dal Pakistan ha superato il milione. Pur ringraziando entrambe le nazioni per aver accolto, negli ultimi decenni di instabilità, milioni di afghani ha esortato i due Paesi a cercare una soluzione comune alla crisi.

Mosca riconosce ufficialmente l’Emirato Islamico dell’Afghanistan

La Russia è il primo Paese a riconoscere ufficialmente il governo dei talebani

Agenparl.eu, 3 luglio 2025

La Russia ha formalmente riconosciuto l’Emirato Islamico dell’Afghanistan come governo legittimo del Paese. Lo ha annunciato il Ministero degli Esteri russo, confermando una decisione presa direttamente dal presidente Vladimir Putin su raccomandazione del ministro degli Esteri Sergey Lavrov.

“Il Ministero degli Esteri lo conferma,” ha dichiarato un rappresentante del dicastero, commentando la notizia, riportata anche dai media russi.

L’ambasciatore russo a Kabul, Dmitry Zhirnov, ha spiegato che la decisione rappresenta “un passo di principio” da parte di Mosca per stabilire un partenariato globale con l’Afghanistan. “Dimostra il sincero desiderio della Russia di sviluppare i legami bilaterali,” ha affermato Zhirnov durante un’intervista a Rossiya-1.

Il riconoscimento ufficiale fa seguito a una serie di sviluppi diplomatici recenti. Il 1° luglio, l’ambasciatore afgano designato, Gul Hassan, è arrivato a Mosca e giovedì mattina ha presentato le sue credenziali al vice ministro degli Esteri russo, Andrey Rudenko.

Un passaggio chiave verso il riconoscimento è avvenuto il 17 aprile, quando la Corte Suprema russa ha accolto la richiesta del procuratore generale di sospendere il divieto sulle attività dei talebani in Russia, precedentemente classificati come organizzazione terroristica. Tale decisione, secondo il Ministero degli Esteri russo, ha aperto la strada a una piena cooperazione tra Mosca e Kabul.

Il riconoscimento ufficiale dell’Emirato Islamico da parte della Russia rappresenta un significativo cambiamento di rotta nella politica estera russa, riflettendo l’intenzione di consolidare relazioni con l’Afghanistan in un contesto geopolitico sempre più multipolare.

 

Afghanistan: lo sport che non c’è, ma solo per le donne

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione del diritto allo sport delle donne afghane

Carla Gagliardini, Bio Correndo, 1 luglio 2025

Se sentiamo la parola Afghanistan a cosa pensiamo immediatamente? Le risposte possono essere varie: è uno stato; è uno stato governato dai talebani; le donne vivono in una condizione di segregazione totale. Certamente ci saranno altre risposte ma queste saranno prevedibilmente quelle più frequenti.
Da qui possiamo partire per cercare di dare una descrizione sintetica dell’Afghanistan che ci aiuti a comprendere le difficoltà che le donne incontrano tutti i giorni, anche nell’esercitare il diritto a praticare lo sport. Il diritto allo sport è riconosciuto da diversi trattati internazionali ma è evidente che non ci voglia un documento, per quanto sia il frutto di una negoziazione ad alti livelli, per dare a un diritto umano il suo riconoscimento perché questo, proprio per la sua natura e qualità, è del tutto inscindibile dall’essere umano.

L’Afghanistan, i talebani e le donne

Iniziamo a collocare geograficamente l’Afghanistan che si trova nell’Asia meridionale e confina con il Tagikistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Iran, il Pakistan e la Cina.

Poi proviamo a descrivere sinteticamente chi siano i talebani, cioè coloro che governano l’Afghanistan. Secondo l’enciclopedia Treccani online i talebani sono un “gruppo di fondamentalisti islamici formatisi nelle scuole coraniche afghane e pakistane (dal pashtō ṭālib «studente»), impegnato nella guerriglia antisovietica in Afghanistan; tra il 1995 e il 1996 sono emersi come vincitori della guerra civile afgana successiva al ritiro dell’URSS e, conquistato il potere, hanno imposto un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica”[1].

Infine tentiamo di dire brevemente perché le donne vivono in una condizione di segregazione totale e lo facciamo con le parole di Minky Worden, direttrice del Global initiatives di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa che da decenni monitora la violazione dei diritti umani nel mondo. Lo scorso 3 febbraio la Worden ha scritto nella lettera indirizzata a Jay Shah, presidente dell’International cricket Committee (ICC), che “dalla riconquista del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una lunga e crescente lista di regole e politiche che proibiscono alle donne e alle ragazze di esercitare i loro diritti fondamentali, includendo la libertà di espressione e di movimento, il diritto ad accedere a molti impieghi e il diritto all’istruzione oltre il sesto grado (scuole elementari, ndr). Ciò ha praticamente un impatto su tutti i loro diritti, incluso quello alla vita, ai mezzi di sostentamento, ad avere un luogo sicuro dove vivere, alla cura della salute, al cibo e all’acqua”.

Sport: “non necessario” per le donne

Poche settimane dopo il ritorno dei talebani alla guida dell’Afghanistan, avvenuto a metà agosto del 2021, il vice-capo della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, si diceva dubbioso sul futuro dello sport femminile nel paese, ritenendo la pratica sportiva non necessaria per le donne; parlando in particolare del cricket diceva che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. E’ l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”[2].

Intere squadre femminili hanno lasciato l’Afghanistan dall’agosto del 2021 con la speranza di poter continuare non solo a fare sport nei paesi di accoglienza ma anche di rappresentare la loro terra sotto la bandiera della nazionale afghana in esilio. Un messaggio politico che ovviamente non ha come unico destinatario il governo afghano poiché si chiede alle federazioni internazionali di non voltare lo sguardo.

La nazionale femminile di cricket che ha lasciato l’Afghanistan grazie al supporto di tre donne, Mel Jones (precedente giocatrice della nazionale australiana di cricket), Emma Staples e Catherine Ordway in collaborazione con il governo australiano, ha ripetutamente invitato l’ICC a intervenire per consentire alla squadra in esilio di giocare. Solo recentemente però è arrivata una risposta, probabilmente solo parziale, alle aspettative che le giovani avevano. L’ICC ha dichiarato di aver stanziato dei fondi per consentire alle atlete di proseguire nella pratica sportiva ma nulla ha fatto rispetto alla sanzione che dovrebbe raggiungere l’Afghanistan cricket board (ACB). Secondo le regole internazionali del cricket ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale deve avere sia la squadra nazionale maschile sia quella femminile, per evidentemente tutelare e promuovere i diritti di tutti e di tutte a praticare questo sport. Dall’ingresso dei talebani al governo l’ACB non ha più la squadra femminile e questo dovrebbe essere sufficiente per cancellare dalle competizioni afghane quella maschile. Eppure …

Diritto negato di fatto anche dalla precedente Repubblica

Da un colloquio avuto con Sapeda, attivista afghana di cui per ragioni di sicurezza non è possibile rivelare il vero nome, è possibile disegnare il quadro afghano che riproduce la situazione dello sport femminile. Sostanzialmente si tratterebbe di una tela con uno sfondo dai colori cupi rappresentante l’oppressione di un governo che vuole dominare completamente la donna, oscurandola. Tuttavia da quelle tenebre si vedrebbero raggi di luce, quelli della resistenza di molte donne che, sfidando ogni sorta di pericolo e le conseguenze più spaventose, esercitano i loro diritti in modo clandestino, incluso quello di praticare lo sport.

Sapeda racconta che durante i vent’anni di occupazione dell’Afghanistan da parte della Coalizione guidata dagli Stati Uniti lo sport poteva essere praticato dalle donne nelle grandi città, nei villaggi la situazione era rimasta invece molto arretrata. Nei luoghi pubblici, come le palestre, l’accesso era suddiviso in fasce orarie per i due sessi, per impedire che uomini e donne potessero mescolarsi.

Alle donne e alle ragazze piaceva fare sport perché era un momento di socializzazione ma era anche un modo per riprendere la linea, soprattutto dopo tante gravidanze, e avere cura della propria salute.

Hambastagi, Partito afghano della solidarietà e unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan[3], aveva aperto una palestra a Kabul dove si tenevano corsi di karate, di autodifesa e di ginnastica.

Le più giovani avevano un vivo interesse verso lo sport perché per loro poteva rappresentare una possibilità professionale. Infatti durante il periodo dell’occupazione si erano formate le squadre nazionali femminili in alcune discipline sportive e le atlete che ne facevano parte hanno avuto la possibilità di partecipare ai Giochi olimpici e a altre competizioni internazionali. Tuttavia non è stato sempre facile perché il governo afghano ha tentato molte volte di ostacolare l’invio delle nazionali femminili a tornei e gare fuori dai confini nazionali, sollevando ragioni di sicurezza derivanti dalle minacce dei talebani.

Sapeda dice che il governo di quel ventennio non proibiva la pratica sportiva alle ragazze e alle donne solo perché molte attività venivano gestite dalle Ong e ciò fruttava molti introiti che facevano gola.

Il diritto allo sport delle donne, unitamente a molti altri, non sono dunque mai stati al centro dell’attenzione dei governi talebani passati e presenti ma nemmeno di quelli che si sono insediati durante l’occupazione, la quale con la sua propaganda ha cercato di convincere il mondo che la guerra in Afghanistan era giusta, anche perché avrebbe liberato la donna. Non solo l’intento propagandistico non è riuscito, avendo continuato a lasciare oltre l’80% delle donne nella stessa condizione pre-occupazione, ma ha svelato tutta la sua inconsistenza quando nel momento del ritiro delle forze di occupazione le donne con i loro corpi, i loro sogni e la loro voglia di libertà sono state gettate nelle mani di estremisti fanatici che concepiscono in senso padronale il rapporto tra i due sessi.

Sport: diritto indiscutibile anche per le donne

Il Cisda, un’associazione italiana che dal 1999 aiuta e sostiene le donne afghane che vivono nel loro paese, ha ancora in corso la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”[4] che punta a far riconoscere nei trattati internazionali l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e chiede altresì che si riconosca il fatto che questo viene commesso sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre chiede che vengano attivate immediatamente le azioni necessarie da parte della Comunità internazionale per non legittimare i fondamentalisti che continuano a violare i diritti umani delle donne e gli obblighi legali internazionali dell’Afghanistan.

La negazione del diritto allo sport alle donne afghane ci ricorda ancora una volta che lo sport non è solo competizione ma è anche e soprattutto uno spazio della vita dove si costruiscono relazioni umane, dove ci si prende cura del proprio benessere psicologico e fisico. E’ il luogo dal quale si possono lanciare messaggi potenti, come fa da anni La corsa di Miguel. Ma è soprattutto un diritto indiscutibile che appartiene a uomini e donne nella stessa misura.

Le Federazioni internazionali, il Comitato olimpico e le istituzioni internazionali non possono voltare le spalle né chiudere un occhio sulla sua violazione se non vogliono far passare il messaggio che lo sport è sola competizione e, in quanto tale, viene trattato come un diritto esclusivo accessibile unicamente a chi ha dalla sua le risorse economiche, le strutture e il talento fino ad arrivare all’estremo di consentire che una legge possa vietare ad alcuni soggetti di praticarlo.

Note:

[1]Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/talebani/.

[2]https://www.bbc.com/news/world-asia-58571183.

[3]https://www.cisda.it/chi-sosteniamo/hambastagi/.

[4]https://www.cisda.it/campagne-e-petizioni/stop-fondamentalismi-stop-apartheid-di-genere/.

In Afghanistan, un uomo di 45 anni sposa una bambina afghana di 6 anni

Sotto il regime dei talebani, i matrimoni infantili si diffondono e le ragazze perdono protezione e voce

Rawa News, 28 giugno 2025

Una foto che circola sui social media mostra un uomo di 45 anni con la bambina di 6 anni che ha appena sposato: un esempio straziante del peggioramento della crisi dei matrimoni infantili sotto il regime dei talebani.
Fonti locali di Helmand affermano che un uomo di 45 anni, che ha già altre due mogli, ha sposato una bambina di 6 anni.

Secondo le fonti, il padre della ragazza l’avrebbe data in sposa a quest’uomo anziano “in cambio di denaro”.

Secondo alcune fonti, la cerimonia di nozze tra l’uomo di 45 anni e la bambina ha avuto luogo venerdì 27 giugno 2025.

Tuttavia, prima che la bambina venisse consegnata al suo “marito” 45enne, sono intervenuti funzionari talebani locali, non per impedire il matrimonio, ovviamente, ma per dare prova della loro versione di “moderazione”. Fonti affermano di aver intimato all’uomo di aspettare che la bambina compisse la maturissima età di 9 anni prima di portarla a casa sua.

Il matrimonio precoce – in particolare quello forzato di bambine con uomini molto più grandi o di mezza età – rimane una delle forme di violenza di genere più diffuse e culturalmente radicate in tutto l’Afghanistan. Dal ritorno al potere dei Talebani, questa pratica ha registrato un’impennata drammatica, alimentata dalle politiche ultrapatriarcali del regime, dal crollo delle tutele legali e dalla crescente disperazione economica delle famiglie. La normalizzazione di queste unioni coercitive, sotto l’egida della tradizione, non solo priva le bambine della loro infanzia e dei diritti umani fondamentali, ma rafforza anche un più ampio sistema di oppressione di genere che prospera sotto il regime talebano.

 

Catturare la tranquilla resilienza delle donne afghane

La resilienza non è una scelta: per le donne, e per gli afghani in generale, è una necessità

Phoebe West, Rawa.org, 25 gennaio 2025

Nel corso di sei mesi, la fotografa Kiana Hayeri e la ricercatrice Melissa Cornet hanno realizzato un ritratto della vita delle donne afghane sotto il regime talebano. In un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi dei diritti delle donne nel mondo,  “No Woman’s Land” cattura le loro lotte, ma illumina anche i modi sottili ma potenti in cui resistono, dalle aule segrete ai momenti di tranquilla convivenza in casa. Qui Hayeri racconta a Phoebe West come la coppia ha affrontato il progetto nonostante l’accesso limitato imposto dal regime talebano, e perché la resistenza è una necessità per le donne afghane.

Nel corso di sei mesi, Hayeri e Cornet hanno trascorso dieci settimane in sette province, parlando con 100 donne e ragazze per capire cosa significhi essere una donna in Afghanistan oggi. “Volevamo coprire tutto”, mi dice Hayeri da Damasco. “Volevamo mostrare cosa significa essere una donna nelle aree rurali, in quelle urbane, per le donne istruite e per quelle non istruite, per mostrare cosa è cambiato per loro e per raccontare tutti gli aspetti della storia”. La storia dell’Afghanistan è lunga e complessa, caratterizzata da instabilità politica e da un controllo oppressivo sui diritti delle donne: “Ogni regime ha usato le donne come simbolo di modernità o di purezza morale”, afferma Hayeri.

“Volevo essere molto rispettosa”, afferma Hayeri. Ogni immagine è stata concepita come unica e creata in collaborazione con il soggetto, garantendone la sicurezza e la capacità di agire. “Anche se le donne non si sentivano a loro agio a mostrare il proprio volto”, spiega Hayeri, “hanno comunque la loro individualità nelle foto”.

“No Woman’s Land” non si sottrae all’oscurità che pervade l’esistenza delle donne in Afghanistan oggi, ma non è nemmeno tutta la storia. Anche la gioia e la speranza esistono, trascendendo il personale, per incarnare la resistenza e la sfida in una terra di oppressione. “Spero che continui a vivere come documentazione di ciò che sta accadendo in Afghanistan”, dice Hayeri, “e diventi qualcosa su cui la prossima generazione potrà costruire: le fondamenta su cui costruire resilienza e speranza. Potranno guardare indietro a questo e capire cosa è possibile”.

Il progetto è frutto della collaborazione tra Hayeri e la ricercatrice sui diritti delle donne Melissa Cornet. Lavorare insieme è stato chiaramente illuminante per entrambe, consentendo a ciascuna di esprimere la propria creatività e condividere la responsabilità nelle decisioni relative al lavoro. Al di là di Hayeri e Cornet, le radici della collaborazione si estendono ben oltre. Considerando quanto sia diventato limitato l’accesso in Afghanistan sotto il regime dei Talebani, lo spazio concesso loro è stato possibile grazie all’esistenza di reti già esistenti e alla reputazione all’interno della comunità: “Gran parte dell’accesso è avvenuto tramite passaparola”, spiega Hayeri, “così dicevamo alla nostra rete chi volevamo incontrare e loro garantivano per noi”.

Sia Hayeri che Cornet hanno vissuto a Kabul per anni e nutrono un profondo amore per l’Afghanistan, che traspare dal loro lavoro. Avevano una solida base di relazioni di fiducia su cui costruire, un linguaggio per comunicare senza bisogno di un interprete e il tempo per garantire che tutti i partecipanti desiderassero davvero essere lì: “In alcune delle scene che vedete, mi conoscono da tre o quattro anni”, dice, “quindi sanno che non farei nulla che mettesse a repentaglio la loro sicurezza, e abbiamo avuto il tempo per tornare più e più volte. Questo non accade più nel nostro campo di lavoro”.

Hayeri ha lavorato molto in Afghanistan, ma questo progetto è stato diverso da qualsiasi altro: “Grazie a questa borsa di studio, ho potuto fare tutto ciò che volevo in modo creativo ed è stato molto appagante”, spiega. Hayeri afferma di aver sempre scattato con la luce naturale: “L’Afghanistan ha questa tonalità calda”. Ma per “No Woman’s Land” ha deciso di usare luci al neon. “Gli afghani adorano le luci al neon”, dice sorridendo, “vai nelle gelaterie, nei ristoranti, in qualsiasi posto all’aperto: hanno luci al neon ovunque”.

Sentendo lo spazio concesso alle donne ridursi sempre di più, Hayeri e Cornet hanno deciso di “portare le luci al neon nelle loro case e nei loro spazi”. La decisione di portare la luminosità nei santuari di queste donne ci porta a pensare ai loro cieli che passano dal technicolor al pallore del cielo coperto, mentre i progressi di decenni si disfano nel giro di poche settimane quando, nella tarda estate del 2021, i Talebani tornano al potere.

Passato e futuro sono presenti in tutta l’opera. Diverse inquadrature di “No Woman’s Land” catturano diverse generazioni di donne: ogni fotogramma racchiude cicli di repressione e instabilità politica. È difficile comprendere l’ampiezza di ciò che per queste ragazze è appena passato e impossibile: per le più anziane è la storia che si ripete, un’eco di una vita passata, ma per le giovani, le loro figlie e nipoti, è un futuro nuovo, intero, cancellato in un istante.

“La resilienza non è una scelta”, afferma Hayeri. “Per le donne, e per gli afghani in generale, direi che è una necessità”. È un grande privilegio poter pensare alla resilienza come a una scelta. All’interno dell’oppressione che, ancora una volta, è diventata la realtà per le donne in Afghanistan, la resistenza e la ribellione esistono a livello molecolare: non si manifestano per le strade perché gli altri le guardino, ma accadono continuamente. Ballare a porte chiuse, fare arte e creare disegni all’henné diventano atti di sfida di fronte alla cancellazione della personalità.

Realizzare questo lavoro oggi non sarebbe possibile – ogni parvenza di accesso che esisteva allora è stata chiusa – ma la portata di ciò che è stato creato è illimitata. “È molto facile per le persone attribuire il titolo di apartheid di genere all’Afghanistan”, riflette Hayeri, “ma non si parla dell’apartheid che si sta verificando in Cisgiordania. La lotta per i diritti delle donne va oltre l’Afghanistan. C’è in Palestina, in America, in Kenya!”.

Dopo la nostra conversazione, Hayeri si unirà ai festeggiamenti a Damasco per il 14° anniversario della rivoluzione siriana, durante i quali elicotteri militari lasceranno cadere fiori e coriandoli, per ricordare che accanto alla fragilità dei diritti delle donne nel mondo c’è il potenziale del cambiamento e la possibilità di qualcosa di meglio.

 

Quanto sono costate le guerre degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Afghanistan?


Si stima che oltre 20 anni di guerre statunitensi abbiano causato la morte diretta di circa 940.000 persone e siano costate agli Stati Uniti 5,8 trilioni di dollari

Marium Ali, Hanna Duggal,  AlJazeera, 24 giugno 2025

Il coinvolgimento militare decennale degli Stati Uniti in Medio Oriente si è nuovamente intensificato questa settimana, dopo che i loro aerei da guerra hanno bombardato almeno tre impianti nucleari iraniani.

Secondo un briefing del generale statunitense Dan Caine, presidente dello stato maggiore congiunto, sette bombardieri stealth B-2, ciascuno del valore di circa 2,1 miliardi di dollari, hanno sganciato almeno 14 bombe bunker-buster del valore di milioni su Fordow e Natanz.

In totale, alla missione hanno preso parte più di 125 velivoli statunitensi, tra cui bombardieri, caccia, petroliere, aerei da sorveglianza ed equipaggi di supporto, il cui dispiegamento e funzionamento hanno comportato un costo di centinaia di milioni di dollari.

Gli Stati Uniti spendono per le forze armate più di qualsiasi altro paese al mondo, più dei successivi nove paesi messi insieme, circa tre volte più della Cina e quasi sette volte più della Russia.

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2024 gli Stati Uniti hanno speso 997 miliardi di dollari per le forze armate, pari al 37% dell’intera spesa militare mondiale.

Il costo umano delle guerre condotte dagli Stati Uniti
Secondo un’analisi del Watson Institute of International & Public Affairs della Brown University, le guerre condotte dagli Stati Uniti a partire dal 2001 hanno causato direttamente la morte di circa 940.000 persone in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e altre zone di conflitto post 11 settembre.

Questo numero non include i decessi indiretti, ovvero quelli causati dalla perdita di accesso al cibo, all’assistenza sanitaria o dalle malattie legate alla guerra. Si stima che questi decessi indiretti siano compresi tra 3,6 e 3,8 milioni, portando il bilancio totale delle vittime, inclusi decessi diretti e indiretti, a una cifra compresa tra 4,5 e 4,7 milioni, e il numero è in aumento.

In quel periodo, furono uccisi almeno 30.000 militari statunitensi, appaltatori e truppe alleate. Tra questi, almeno 7.052 soldati, 8.189 appaltatori e 14.874 truppe alleate.

Mezzo milione di persone uccise nelle guerre in Afghanistan e Iraq

La guerra in Afghanistan iniziò il 7 ottobre 2001 in risposta agli attacchi dell’11 settembre e mirava a distruggere al-Qaeda e a deporre i talebani dal potere. Meno di due anni dopo, il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti e i loro alleati lanciarono la guerra in Iraq , con l’obiettivo di eliminare le sue presunte armi di distruzione di massa (ADM) e di deporre Saddam Hussein dal potere. Tuttavia, non furono mai rinvenute scorte di ADM.

Durato quasi 20 anni, il conflitto in Afghanistan, comprese le vittime nelle regioni confinanti con il Pakistan, è stato il più prolungato impegno militare nella storia degli Stati Uniti e ha causato circa 243.000 vittime dirette. In Iraq, circa 315.000 persone sono state uccise direttamente durante la guerra.

Secondo il Watson Institute, insieme rappresentano almeno 558.000 decessi diretti tra ottobre 2001 e agosto 2021.

Il costo economico delle guerre condotte dagli Stati Uniti

Si stima che gli Stati Uniti abbiano speso circa 5,8 trilioni di dollari per finanziare oltre due decenni di guerra.

Ciò include 2,1 trilioni di dollari spesi dal Dipartimento della Difesa (DOD), 1,1 trilioni di dollari dal Dipartimento della Sicurezza Interna, 884 miliardi di dollari per aumentare il bilancio di base del DOD, 465 miliardi di dollari per l’assistenza medica ai veterani e un ulteriore trilione di dollari in pagamenti di interessi sui prestiti contratti per finanziare la guerra.

Gli Stati Uniti continuano a pagare per le loro guerre

Oltre ai 5,8 trilioni di dollari già spesi, si prevede che gli Stati Uniti spenderanno almeno 2,2 trilioni di dollari per obblighi relativi all’assistenza ai veterani nei prossimi 30 anni.

Ciò porta il costo totale stimato delle guerre degli Stati Uniti dal 2001 a 8 trilioni di dollari.

Finanziamento statunitense del genocidio israeliano a Gaza

Israele è stato costantemente il maggiore beneficiario degli aiuti esteri degli Stati Uniti, avendo ricevuto almeno 251,2 miliardi di dollari al netto dell’inflazione dal 1959, secondo il Watson Institute della Brown University. Dal 2016, gli Stati Uniti si sono impegnati a erogare a Israele 3,8 miliardi di dollari all’anno nell’ambito di un memorandum d’intesa decennale, valido fino al 2028. La maggior parte di questa somma è destinata ai finanziamenti militari esteri.

Tuttavia, nell’anno successivo agli attacchi dell’ottobre 2023, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele ulteriori 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari, il totale annuo più alto di sempre. Questo include 6,8 miliardi di dollari in finanziamenti militari, 4,5 miliardi di dollari per la difesa missilistica e 4,4 miliardi di dollari per il rifornimento di armi a Israele provenienti dalle scorte statunitensi.

Il costo umano del genocidio israeliano a Gaza

Secondo gli ultimi dati sulle vittime forniti dal Ministero della Salute palestinese a Gaza, aggiornati al 24 giugno 2025:

Morti confermate: almeno 56.077
Feriti: almeno 131.848
Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco il 18 marzo:

Morti confermate: almeno 5.759
Feriti: almeno 19.807
Si teme che migliaia di altri morti siano rimasti sepolti sotto le macerie.

 

Dichiarazione di quattro prigioniere politiche nel carcere di Evin

Kanoon-e Zanan-e Irani (Centro delle Donne Iraniane), 24 giugno 2025

Questa è una traduzione dal farsi di un comunicato pubblicato sulla pagina del Kanoon-e Zanan-e Irani (Centro delle Donne Iraniane). Ho scelto di tradurlo per contribuire a colmare il vuoto informativo in lingua italiana, dove una parte della diaspora iraniana — spesso vicina a posizioni monarchiche o, purtroppo, apertamente favorevole al genocidio in corso — sta disinformando e confondendo l’opinione pubblica. Mentre vincitrici del Premio Nobel per la Pace o registi premiati con riconoscimenti politicizzati scelgono di tacere sull’illegalità di un attacco al proprio Paese e si concentrano solo sulla questione dell’arricchimento dell’uranio, leggete cosa scrivono combattenti e prigioniere politiche dal carcere di Evin.

“L’identità degli Stati Uniti e del “regime fascista di Israele” è fondata su “aggressione” e “infanticidio”

Quattro donne prigioniere politiche nel carcere di Evin, tra cui Variesheh Moradi, condannata a morte, hanno pubblicato una dichiarazione con tono deciso, in cui definiscono i crimini del regime israeliano a Gaza e in altri Paesi del Medio Oriente come “genocidio” e “barbarie sistematica”, criticando duramente il sostegno delle potenze globali, in particolare degli Stati Uniti, a tali crimini. Sottolineando che Israele è nato con l’occupazione e la violenza, affermano che fare affidamento su forze del genere è un tradimento nei confronti del popolo iraniano e delle genti della regione.

Testo integrale della dichiarazione

Israele è nato attraverso massacri e crimini, ha preso possesso delle terre con l’occupazione, e nel corso della sua esistenza ha trasformato il Medio Oriente in un campo di guerre infinite con aggressioni e genocidi.

Israele, come avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente, è emerso come rappresentante delle superpotenze mondiali nel dopoguerra e fin dall’inizio ha mostrato la sua barbarie al mondo: in Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen, e più recentemente con il genocidio a Gaza.

In nessuno di questi Paesi si sono trovate armi nucleari né vi erano preparativi per l’arricchimento dell’uranio.

Il genocidio non ha bisogno di una giustificazione logica, ma la democrazia occidentale cerca sempre un pretesto per giustificare la sua barbarie permanente e per conservare la facciata democratica che rivendica.

L’identità degli Stati Uniti e del “regime fascista di Israele” si è formata attraverso l’aggressione e l’infanticidio; ovunque si siano rivolti, hanno portato solo guerra e distruzione.

Condanniamo l’attacco all’Iran, l’uccisione di civili e la distruzione delle infrastrutture del Paese da parte del “regime sionista” e dei suoi sostenitori americani — come condanniamo anche gli altri loro crimini nel mondo e nel Medio Oriente.

Il sostegno a Israele e la fiducia nel suo potere distruttivo da parte di qualsiasi individuo, gruppo o movimento politico, qualunque sia il sogno o l’illusione perseguita, è anch’esso condannabile e riflette la bassezza e la meschinità dei suoi sostenitori.

La nostra liberazione, quella del popolo iraniano, dal regime dittatoriale che governa il Paese, sarà possibile solo con la lotta delle masse e facendo affidamento sulle forze sociali — non sperando nel sostegno delle potenze straniere.

Queste potenze, che da sempre perseguono i propri interessi attraverso lo sfruttamento, il colonialismo, le guerre e i massacri, non porteranno altro che rovina e una nuova forma di sfruttamento per i Paesi della regione.
La distruzione delle infrastrutture della Siria dopo la caduta di Assad, e la prospettiva di applicare lo stesso metodo in Iran, dimostrano la brama di Israele per un Medio Oriente debole e soggiogato.

Questo indica che, nel nuovo disegno per il Medio Oriente, potrà sopravvivere solo un ordine che accetti senza condizioni il dominio di “Israele” sulla regione.

Ai traditori dell’Iran,
ai traditori dei popoli del Medio Oriente,
ai traditori delle lotte per la libertà del popolo contro l’oppressione:
sappiate che il vostro tradimento e la vostra ignominia saranno registrati nella memoria del popolo iraniano e nella storia.

Le generazioni future ricorderanno con vergogna coloro che hanno danzato sui cadaveri di un popolo indifeso.
Reyhaneh Ansari,
Sakineh Parvaneh,
Varisheh Moradi,
Golrokh Iraee

Carcere di Evin”

I curdi nel caos mediorientale

La situazione attuale, le questioni aperte e perché la proposta di un confederalismo democratico, il nuovo paradigma pensato da Abdullah Ocalan, manda in fibrillazione ognuno dei Paesi dove la presenza curda, pur minoritaria, è importante

Carla Gagliardini, Patria Indipendente, 26 giugno 2025

I curdi vivono prevalentemente sul territorio di quattro Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran) e sono rappresentati da una galassia di sigle di partito e organizzazioni che risultano per molti un rompicapo. Oggi di curdi si parla troppo poco nel dibattito politico nostrano eppure stanno accadendo delle cose in Medio Oriente dove il loro posizionamento politico, in ciascuno degli Stati dove abitano, ha un peso che non si può trascurare.


In Iraq il partito di maggioranza curdo, il KDP, che guida il governo della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sogna ancora l’indipendenza ma ha dovuto per il momento accantonarla dopo aver indetto e vinto il referendum nel 2017, però represso con la forza militare dal governo centrale iracheno, con il benestare di Turchia, Iran e Stati Uniti. I rapporti tra Erbil e Baghdad sono tesi per il ritardo cronico dei pagamenti da parte della capitale irachena ai dipendenti pubblici del Kurdistan iracheno ma ancor più per la questione dei territori contesi, ossia quelle regioni e distretti del Paese che ciascuno rivendica per sé e che sono strategicamente molto rilevanti. Il KDP mira a dare alla Regione del Kurdistan iracheno un’autonomia economica che però Baghdad ostacola per tramortire il disegno indipendentista.

Più a ovest, sotto l’autorità del governo centrale iracheno, si trovano poi i curdi del campo profughi di Makhmur che con i curdi del KDP non vanno proprio d’accordo. Si tratta di famiglie curde che hanno lasciato la Turchia negli anni Novanta del secolo scorso a seguito della distruzione dei loro villaggi da parte di Ankara. Fuggiti dalla repressione, Saddam Hussein aveva assegnato loro un fazzoletto di terra dove rifugiarsi a Makhmur. Il campo viene ciclicamente messo sotto assedio dalle forze militari irachene e dal 2019 subisce un embargo da parte del governo del Kurdistan iracheno. Perché? Per aver dichiarato il proprio diritto all’autodeterminazione e aver realizzato il nuovo paradigma politico pensato da Abdullah Ocalan, fondatore del PKK, ossia il confederalismo democratico, che non piace né a Baghdad né a Erbil.

Il confederalismo democratico

Il confederalismo democratico prevede la fine degli Stati-Nazione attraverso un processo democratico che deve saper trascinare il consenso dal basso, supportato da un lavoro politico e culturale fortemente organizzato. Ocalan è dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che ha abbandonato l’idea di costruire uno Stato curdo indipendente perché sostiene che gli Stati-Nazione portano al nazionalismo e il nazionalismo produce conflitti armati. La sua analisi si concentra sul Medio Oriente e propone un sistema democratico su base confederale dove l’autodeterminazione dei popoli si coniuga con una democrazia radicale secondo il modello bottom-up (1), con la demolizione del sistema patriarcale e con il sostegno a una società ecologica. Tale modello manda in fibrillazione tutti e quattro gli Stati dove la presenza curda è importante, nonostante rappresenti sempre una minoranza, perché questi governi sono energicamente nazionalisti, assai poco rispettosi delle minoranze, soprattutto se rivendicano diritti, e i poteri sono fortemente centralizzati.

In Turchia i curdi sono stati lungamente perseguitati e prova ne sono le prigioni del Paese che parlano di migliaia di loro gettati in una cella per essersi espressi contro il sistema politico repressivo di Ankara. Ocalan lo scorso ottobre ha accolto l’appello lanciato dal leader del partito islamista estremista e alleato di Erdogan, Devlet Bacheli, ad aprire un nuovo processo di pace. Attualmente però questo si trova in una fase di stallo perché a fronte della decisione assunta dal PKK con il suo ultimo congresso, tenutosi il mese scorso, favorevole al dissolvimento dell’organizzazione qualora siano avviati i percorsi di democratizzazione internamente alla Turchia, dal governo turco non si è ancora visto o sentito nulla che vada in quella direzione e la repressione verso i dissidenti politici si è fatta più aspra, con la rimozione anche di molti dei sindaci curdi eletti durante le scorse elezioni amministrative e sostituiti con commissari nominati dal governo.

Nel frattempo la Siria ha avuto il suo scossone con la caduta di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte del leader della formazione jihadista Ahmad al-Shara, sostenuto da Ankara, il quale ha dichiarato immediatamente che la Siria sarà uno Stato centralizzato e nessuna forma di autonomia amministrativa sarà concessa. Ovviamente al-Shara quando esprimeva la linea politica della Siria che ha in mente guardava dritto negli occhi i curdi dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria, la DAANES, che dal gennaio del 2014 si governano, insieme agli altri popoli del Rojava, nel rispetto del contratto sociale che hanno siglato e che è l’espressione concreta del confederalismo democratico.

Delle negoziazioni tra al-Shara e Abdì, comandante delle SDF, le Forze di difesa siriane che difendono il territorio del Rojava e la DAANES, ci sono state ma il primo con azioni politiche successive ha parzialmente disatteso gli impegni assunti, impedendo il riassorbimento delle tensioni in corso. Poiché al-Shara è un alleato di Erdogan e il presidente turco vuole la fine della DAANES, che tiene sotto pressione anche attraverso le milizie proxy del SNA, per i curdi del Rojava la situazione è molto critica, in considerazione anche del fatto che l’alleato statunitense non è mai stato così inaffidabile come da quando Trump è ritornato alla Casa Bianca.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, giovane curda iraniana, rea di non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica
E poi ci sono i curdi dell’Iran, anche loro oppressi da un regime che nel settembre del 2022 ha ucciso una giovane curda iraniana, Mahsa Amini, per non aver indossato il velo nel modo prescritto dalla legge islamica. La morte di Mahsa ha scatenato la rivolta di tante giovani e tanti giovani che hanno coniato lo slogan “Jin Jiyan Azadi”, ossia “Donna Vita Libertà”, con il quale gridano la loro rabbia ma esprimono anche la loro resistenza contro un regime che soffoca le libertà e che se la prende in modo più violento con le donne e le minoranze.


Netanyahu è sotto processo della Corte penale internazionale dell’Aja che ha giurisdizione sui 125 Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Non lo hanno ratificato Russia, Stati Uniti e Israele.
Sentire Benjamin Netanyahu pronunciare “Jin Jiyan Azadi” rivolgendosi al popolo iraniano per incitarlo a sollevarsi contro il regime degli Ayatollah e così fare un favore a Israele, speranzoso in un cambio di regime nel Paese, è stato un insulto alla battaglia coraggiosa che uomini e donne stanno facendo per conquistare la democrazia. Netanyahu, colui che verrà ricordato dalla storia per le migliaia di donne (e bambini, ma anche uomini) morte a Gaza, trasformata da lui e dal suo governo in un inferno, che ha fatto trascinare Israele davanti alla Corte penale internazionale dal Sud Africa con l’accusa di crimine di genocidio e che è destinatario di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità forse ha pensato che bastasse ripetere come un pappagallo “Jin Jiyan Azadi” per ottenere la simpatia del popolo iraniano, il quale aveva già iniziato a morire sotto le sue bombe.

PJAK e KJAR

Il PJAK, il Partito della Vita Libera del Kurdistan, a seguito dell’aggressione di Israele all’Iran ha rilasciato un comunicato stampa il 14 giugno scorso con il quale lucidamente afferma che “questa è una guerra di potere e di interessi in conflitto, non una guerra di liberazione dei popoli e delle nazioni” e aggiunge che “l’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia una triste realtà: per gli Stati le vite delle persone non contano”. Il comunicato prosegue lanciando un appello all’unità e alla collaborazione democratica “tra chi crede nella libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari” perché “il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e un regime dittatoriale”. Il PJAK considera “un dovere storico la cooperazione tra i partiti curdi e la transizione dal governo partitico all’autogoverno popolare in Kurdistan” e invita “tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile, con le donne iraniane in prima linea, ad avviare una nuova fase della rivoluzione ‘Jin Jiyan Azadi’”. Gli fa eco la dichiarazione del 18 giugno del KJAR, la Società delle donne libere del Kurdistan dell’Est, che dopo aver espresso con chiarezza “che questa guerra non è una guerra di liberazione della società e tantomeno delle donne” sottolinea come i movimenti delle donne lavorino per liberare la società in tutti i suoi segmenti e che “per raggiungere questi obiettivi è necessario abbandonare centralismo, dogmi religiosi, patriarcato e nazionalismo”.


I curdi in Iran temono che questa guerra scatenata da Israele porterà a una maggiore repressione da parte di Teheran nei confronti degli oppositori e delle minoranze e si stanno organizzando per resistere all’ondata di violenza che si aspettano. Temono che dopo l’Iraq, la Libia e la Siria, con gli interventi occidentali che hanno prodotto conflitti permanenti, adesso sia venuto il momento dell’Iran. Il modello che offrono per venire fuori dal caos mediorientale è ancora una volta il confederalismo democratico, il quale permetterebbe di costruire e mantenere la pace attraverso il principio della solidarietà tra i popoli e consentirebbe di sciogliere le contraddizioni create ad arte dagli Stati facendo leva sulla religione e sulle provenienze etniche per mantenere il dominio sui popoli.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv

NOTE

(1) Si tratta di un modello che attribuisce lo spazio politico-decisionale alle periferie, organizzate su base cittadina e, nelle città più grandi, sulle assemblee di quartiere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”: la lotta disperata di una vedova afghana per i suoi figli

Haniya Frotan, Rukhshana Media, 16 giugno 2025

Hadia* aveva solo 21 anni quando suo marito fu ucciso in un attentato suicida nella capitale afghana Kabul, lasciandola da sola con tre figli piccoli da crescere.

Il bombardamento ha sconvolto la vita un tempo pacifica della famiglia. Ancora traumatizzata dalla perdita del marito in modo così violento, Hadia si è improvvisamente trovata a dover uscire e cercare lavoro in un Paese dove, anche prima del ritorno al potere dei talebani, la maggior parte delle donne rimaneva a casa con i figli.

Ma se la vita era dura prima del 2021, non era nulla in confronto a ciò che Hadia deve affrontare ora. Oltre a non riuscire a trovare lavoro a causa delle crescenti restrizioni imposte alle donne dai talebani afghani, è stata costretta a nascondersi sotto la minaccia che le venissero portati via i figli.

Dopo aver fatto tutto il possibile per tenerli al sicuro, Hadia ora deve affrontare una causa legale intentata dal padre del marito defunto per ottenere la custodia della figlia adolescente e dei due figli più piccoli. Sebbene affermi che l’uomo sia un tossicodipendente, essendo una donna single, la legge le sarebbe comunque contro.

“Un giorno, mio ​​figlio è tornato a casa pallido. Mi ha detto che suo nonno gli aveva bloccato la strada e aveva cercato di costringerlo ad andare con lui”, ha raccontato.

“Mi si strinse il cuore. Se i miei figli finissero con lui, li venderebbe sicuramente per pagarsi la droga.”

I suoi timori non sono infondati. L’Afghanistan ha uno dei tassi di tossicodipendenza più alti al mondo, povertà e disperazione sono diffuse e la disponibilità di stupefacenti è molto elevata.

Hadia sentiva di non avere altra scelta che fuggire e da allora ha cambiato casa tre volte. Ora vive in una zona tranquilla di Kabul, ma teme di non essere al sicuro nemmeno lì, dopo che suo suocero ha sporto denuncia alle autorità accusandola di aver rapito illegalmente i bambini.

“Il pensiero che dopo tutto quello che ho sopportato, tutto questo dolore e questa solitudine, possano finire nelle mani di un tossicodipendente mi fa impazzire”, ha detto.

La situazione di Hadia, per quanto estrema, offre uno spaccato della difficile situazione delle vedove e delle altre madri single nell’Afghanistan odierno, dove povertà, restrizioni legali e lo stigma sociale della vedovanza hanno creato una tempesta perfetta di sofferenza.

Lo scorso anno, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha segnalato che in Afghanistan le famiglie guidate da donne sono quelle che hanno subito le conseguenze più gravi del declino economico del Paese.

Per Hadia, trovare un riparo e un lavoro negli ultimi anni è stata una sfida enorme. Senza un uomo, ha faticato persino ad affittare un alloggio. Faceva i lavori che riusciva a trovare, lavorando nelle scuole e nelle fattorie per soli 4.000-5.000 afghani (60-70 dollari) al mese, o tessendo tappeti. Tornata a casa tardi, è stata criticata come “immorale” e le è stato chiesto con chi fosse stata.

“Se indossavo vestiti nuovi, mi sussurravano: ‘Chi glieli ha comprati? E ​​in cambio di cosa?'”

Costrette al matrimonio

Sebbene abbia ancora 30 anni, le rughe sul volto di Hadia parlano di anni di dolore e stanchezza e la pelle delle mani che accarezzano delicatamente il viso del suo giovane figlio è ruvida.

Il consiglio religioso presso il quale si è lamentato il suocero l’ha convocata per un’udienza, ma la sola idea la terrorizza.

Hadia si preoccupa soprattutto per la figlia tredicenne, temendo che il suocero la spinga a un matrimonio precoce. Essendo stata lei stessa vittima di un matrimonio forzato, sa cosa significherebbe.

Hadia non ricorda esattamente se aveva 13 o 14 anni quando suo padre la diede in sposa a un uomo di 32 anni, in un cosiddetto matrimonio di scambio, una pratica tradizionale in cui una ragazza di una famiglia viene scambiata con una ragazza di un’altra.

“Mio padre mi ha data via in cambio del matrimonio di mio fratello. All’epoca non capivo cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato”, ha detto.

Quel matrimonio durò solo un anno. Litigi tra il fratello di Hadia e sua moglie portarono alla loro separazione, a seguito della quale anche Hadia divorziò. Pochi mesi dopo, suo padre la risposò, questa volta con l’uomo che sarebbe diventato il padre dei suoi figli.

Il suo secondo matrimonio durò 14 anni. Nonostante le difficoltà, Hadia lo descrive come una vita relativamente tranquilla. Ma con la morte del marito in un attentato suicida, il ciclo di dolore e sofferenza ricominciò da capo.

Nonostante tutte le sofferenze che ha sopportato, Hadia non abbandona mai la speranza. Sogna un futuro diverso per i suoi figli, libero dal dolore che ha conosciuto.

Ora vive in un rifugio nascosto, la cui ubicazione non è stata rivelata da Rukhshana Media. Temendo di perdere i suoi figli, nascondersi è l’unica opzione che sente di avere.

“Nessuno si schiererà dalla parte di una donna sola”, ha detto. “Persino la legge di questo Paese darebbe ragione a un uomo come lui, un tossicodipendente.”

Nota*: Nome cambiato per motivi di sicurezza.

Bennett: serve un approccio “a tutto campo” per porre fine all’oppressione sistematica di genere in Afghanistan

OHCHR, Comunicato stampa, 18 giugno 2024

Il modello di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali delle donne e delle ragazze da parte dei talebani si è intensificato, causando danni immensi che hanno interessato generazioni e tutti gli elementi della società in Afghanistan, ha affermato oggi un esperto delle Nazioni Unite.

“L’istituzionalizzazione da parte dei Talebani del loro sistema di oppressione di donne e ragazze, e i danni che continua a radicare, dovrebbero sconvolgere la coscienza dell’umanità”, ha affermato Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, che ha presentato il suo ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani, parlando a fianco delle donne afghane. “Queste violazioni sono così gravi ed estese che sembrano costituire un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile, che potrebbe costituire crimini contro l’umanità. Questo attacco non solo è in corso, ma si sta intensificando”.

Bennett ha chiesto ai talebani di adottare misure immediate per porre fine al loro sistema di oppressione di genere che priva le donne e le ragazze dei loro diritti fondamentali.

Il Relatore speciale ha inoltre sollecitato un approccio “a tutto campo” per sfidare e smantellare il sistema istituzionalizzato di oppressione di genere dei talebani e per chiamare a risponderne i responsabili.

Questo approccio include l’uso di meccanismi di responsabilità internazionali, quali la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia, nonché il perseguimento dei casi a livello nazionale secondo il principio della giurisdizione universale.

Ha inoltre raccomandato agli Stati membri di adottare il concetto di apartheid di genere e di sostenerne la codificazione, dopo aver ascoltato le donne afghane affermare che questo termine descrive al meglio la loro situazione.

Bennett ha affermato che è fondamentale che la società civile afghana, comprese le donne impegnate nella difesa dei diritti umani, partecipi in modo significativo alla riunione degli inviati speciali delle Nazioni Unite per l’Afghanistan che si terrà a Doha alla fine di questo mese e che i diritti delle donne e delle ragazze siano affrontati sia direttamente sia nell’ambito di discussioni tematiche.

“Il miglioramento dei diritti umani è fondamentale per un Afghanistan in pace con se stesso e con i suoi vicini. Non discutere di questo tema comprometterebbe sia la credibilità che la sostenibilità del processo”, ha affermato l’esperto.

Bennett ha affermato che prima di procedere a qualsiasi normalizzazione o legittimazione delle autorità de facto in Afghanistan, dovrebbero essere introdotti miglioramenti concreti, misurabili e verificati in materia di diritti umani.

“Gli afghani, in particolare le donne e le ragazze afghane, hanno dimostrato un coraggio e una determinazione straordinari di fronte all’oppressione dei talebani. La comunità internazionale deve dare prova di protezione e solidarietà, anche con azioni decise e basate su principi, che mettano i diritti umani al centro di tutto”, ha affermato Bennett.

 

Il Sig. Richard Bennett è il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan . Ha assunto ufficialmente l’incarico il 1° maggio 2022. Ha prestato servizio in Afghanistan in diverse occasioni ricoprendo diversi incarichi, tra cui quello di Capo del Servizio per i Diritti Umani della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA).

I Relatori Speciali fanno parte delle cosiddette Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Procedure Speciali, il più grande organo di esperti indipendenti nel sistema delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, è il nome generico dei meccanismi indipendenti di inchiesta e monitoraggio del Consiglio che affrontano situazioni nazionali specifiche o questioni tematiche in tutto il mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non percepiscono alcun compenso per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e svolgono il loro servizio a titolo individuale.