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Autore: CisdaETS

L’istituzione cinematografica nazionale afghana è stata smantellata


Fidel Rahmati, Khaama Press, 13 maggio 2025

L’istituzione cinematografica nazionale afghana è stata smantellata, perdendo la sua identità storica e la sua funzione, segnando un cambiamento nella politica culturale

L’amministrazione ad interim ha ufficialmente declassato l’Afghan Film, l’unica istituzione statale di produzione e archiviazione cinematografica del Paese, rinominandola “Dipartimento di gestione audiovisiva”. Secondo Sahraa Karimi, ex direttrice dell’Afghan Film, la ristrutturazione ha comportato il licenziamento della maggior parte dei dipendenti e la cancellazione dell’identità storica dell’istituzione.

Karimi, che era a capo di Afghan Film prima della caduta di Kabul nell’agosto 2021, ha rivelato in un post sui social media che rimane solo una manciata di personale amministrativo. La loro responsabilità principale, ha affermato, è ora limitata a soddisfare le esigenze di propaganda e media del regime talebano.

Fondata nel 1968, l’Afghan Film ha svolto un ruolo cruciale nel documentare le trasformazioni sociali e politiche dell’Afghanistan nel corso dei decenni. Ha conservato un prezioso archivio di documentari, lungometraggi, filmati di cronaca e documenti visivi storici, costituendo la memoria cinematografica della nazione. Karimi ha descritto la cancellazione del nome e della struttura dell’istituzione come un duro colpo per la storia culturale e cinematografica dell’Afghanistan.

Negli ultimi anni, l’Afghan Film non solo ha coltivato il talento artistico, ma si è anche distinto come uno spazio raro per la libera espressione creativa in un Paese spesso lacerato da conflitti. Nonostante decenni di instabilità politica, l’istituzione è rimasta attiva durante la monarchia, il comunismo, la guerra civile e i periodi democratici. È stata riconosciuta a livello internazionale per il suo impegno nel recupero del patrimonio cinematografico perduto dell’Afghanistan.

Karimi ha avvertito che l’archivio visivo esistente, che documenta oltre un secolo di vita politica, culturale e sociale in Afghanistan, è ora a rischio di sequestro ideologico o di distruzione totale. Ha sottolineato che questo sviluppo segna un tentativo sistematico da parte dei talebani di imporre la cancellazione culturale, distorcere la memoria collettiva e monopolizzare il controllo narrativo.

La chiusura e il rebranding di Afghan Film sono in linea con i più ampi sforzi dei Talebani per reprimere l’espressione artistica e culturale. Da quando hanno ripreso il potere, il gruppo ha imposto severi divieti alla produzione cinematografica, alla fotografia e ai media visivi, in base alla loro interpretazione della legge islamica. Il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio ha vietato le immagini di esseri viventi, rendendo film e cinema di fatto illegali.

Questa azione riflette anche una più ampia campagna dei talebani volta a eliminare le istituzioni che forniscono rappresentazioni pluralistiche o progressiste della società afghana, in particolare quelle che includono donne e voci delle minoranze. Gli esperti sostengono che tali politiche rischiano di isolare l’Afghanistan dal dibattito culturale globale e di danneggiare permanentemente il suo patrimonio artistico.

Lo smantellamento dell’Afghan Film non è solo un cambiamento amministrativo, ma fa parte di una sistematica epurazione culturale. Per preservare il patrimonio cinematografico del Paese, organizzazioni internazionali come l’UNESCO, il World Cinema Project e le iniziative guidate dalla diaspora devono intensificare gli sforzi per digitalizzare e proteggere gli archivi dell’Afghan Film. La comunità internazionale ha la responsabilità di salvaguardare la memoria culturale, soprattutto quando è minacciata da regimi autoritari.

In Afghanistan chiuse anche le lezioni comunitarie sostenute dalle Nazioni Unite

Ahmad Azizi, Amu Tv, 14 maggio 2025

Secondo le attiviste per i diritti delle donne, i talebani hanno chiuso i corsi di istruzione per ragazze nelle province di Logar e Paktika. Un’azione che, dicono, aggrava ulteriormente la crisi educativa del Paese e priva migliaia di ragazze del poco accesso che avevano alla scuola.

Il Movimento delle Lanterne delle Donne Afghane, guidato dall’attivista Hajar Azada, ha dichiarato in una nota che i Talebani hanno chiuso le scuole sostenute delle Nazioni Unite e dai suoi partner, tra cui l’UNICEF e il fondo Education Cannot Wait. I corsi, pensati per le ragazze oltre la sesta elementare in aree remote e svantaggiate, hanno svolto un ruolo fondamentale nel mantenere viva l’istruzione per le giovani donne nonostante i divieti scolastici più ampi.

“Queste chiusure non sono solo una palese violazione dei diritti umani, ma anche un crimine silenzioso contro il futuro dell’Afghanistan”, si legge nella dichiarazione. “I talebani temono la conoscenza e la consapevolezza delle donne”.

I corsi comunitari facevano parte di modelli educativi alternativi istituiti nelle aree rurali dove le scuole formali sono assenti o inaccessibili, soprattutto per le ragazze. I programmi permettevano alle studentesse di proseguire gli studi presso case locali o edifici comunitari con l’aiuto di istruttori qualificati e materiali di base.

Gli attivisti hanno condannato le chiusure e hanno esortato le Nazioni Unite e la comunità internazionale a intervenire. Hanno chiesto l’immediata riapertura delle aule chiuse e hanno proposto una serie di misure, tra cui una maggiore pressione politica sui talebani, garanzie di sicurezza per gli insegnanti e l’ampliamento di strategie educative alternative come l’apprendimento a distanza e le scuole clandestine.

Prima del ritorno al potere dei talebani nel 2021, le iniziative educative basate sulla comunità avevano iscritto oltre 49.000 ragazze in tutto il Paese. Ma da quando il gruppo ha imposto il divieto di scolarizzazione per le bambine oltre la sesta elementare, l’UNESCO stima che ad almeno 1,4 milioni di bambine sia stata negata direttamente l’istruzione, con un numero totale di ragazze fuori dalla scuola che ora si avvicina a 2,5 milioni.

Le chiusure a Logar e Paktika fanno parte di una più ampia repressione della partecipazione femminile alla vita pubblica. Gli attivisti affermano che i corsi comunitari rappresentavano una delle ultime vie di accesso all’istruzione per le ragazze e temono che anche questi spazi limitati stiano rapidamente scomparendo.

I talebani vietano gli scacchi: un segnale tremendo. Di cosa hanno paura?

Nicolò Carnimeo, Il fatto quotidiano, 13 maggio 2025

Quando un potere politico e religioso decide di spegnere anche questa piccola luce, vuol dire che ha paura non dei pezzi sulla scacchiera, ma del pensiero che li muove

In Afghanistan, gli scacchi sono stati vietati. Sì, avete letto bene: vietati. Il portavoce del dipartimento dello sport del governo talebano, Atal Mashwani, ha detto che ci sono “considerazioni religiose” che impediscono di giocare a scacchi. “Secondo la sharia,” ha spiegato, “gli scacchi sono un mezzo di gioco d’azzardo”. Dunque, illegali. Dunque, immorali. Dunque, sospesi fino a nuovo ordine.

Ora, io gioco a scacchi. Non bene, forse. Ma gioco. E non scommetto denaro, né credo di offendere alcun Dio mentre lo faccio. Solo, quando muovo il cavallo, quando penso a una difesa siciliana o sogno un arrocco, sento che la mia mente si muove. Si sveglia. Elabora. Soppesa. E in un paese come l’Afghanistan, dove il silenzio è spesso figlio della paura e la libertà è già stata calpestata sotto i piedi nudi dell’ortodossia, vietare un gioco come questo non è un fatto minore. È un segnale tremendo.

Perché gli scacchi sono più di un gioco. Sono una forma di pensiero. Una geometria dell’immaginazione. Una palestra della mente. E quando un potere politico e religioso decide di spegnere anche questa piccola luce, vuol dire che ha paura non dei pezzi sulla scacchiera, ma del pensiero che li muove.

C’è qualcosa di profondamente tragico in quell’immagine raccontata alle agenzie di stampa da Azizullah Gulzada, proprietario di un bar di Kabul dove si giocava a scacchi davanti a una tazza di tè. Dice: “I giovani non hanno molte attività oggi. Venivano qui ogni giorno, sfidavano gli amici. Non si è mai giocato d’azzardo”. E invece adesso no. La torre resta ferma. Il pedone è muto. Il re giace abbattuto su una scacchiera polverosa.

⁠ Ci sono battaglie che si combattono senza sparare un colpo. E ci sono divieti che colpiscono più in profondità delle armi. Non si tratta solo di religione, sia chiaro. In molti paesi islamici gli scacchi sono praticati liberamente, anche con entusiasmo. Non è scritto nel Corano che siano vietati. Alcuni studiosi medievali li difesero. Ma si sa, i talebani preferiscono interpretare la fede come una gabbia, non come una strada. E allora mi viene da chiedere: di cosa hanno paura? Del fatto che un bambino possa imparare a pensare dieci mosse avanti? Che una ragazzo possa comprendere che per arrivare alla regina bisogna rischiare, avanzare, osare?

L’anno scorso avevano già vietato le arti marziali miste. Troppo violente, dicevano. Ma evidentemente la verità è che tutto ciò che mette il corpo in movimento o l’intelligenza in discussione li terrorizza. Così hanno iniziato a cancellare ogni sport, ogni danza, ogni voce. Ora tocca alla mente. Ma la mente, si sa, è difficile da spegnere. Anche quando le luci si abbassano e le parole diventano sussurri, anche allora qualcuno, in un angolo, muove un pedone in silenzio. E ogni mossa, anche la più umile, può aprire la strada a una rivincita del pensiero.

Un giorno, spero, in una Kabul libera, un bambino e una bambina siederanno davanti a una scacchiera e, con un sorriso, diranno: “Scacco al re”.

Omicidi in uniforme: le forze speciali britanniche e i loro massacri in Afghanistan

Iain Overton, Byline Times, 15 maggio 2025

Una nuova indagine rivoluzionaria ha svelato la terrificante portata degli omicidi illegali commessi dalle Forze speciali britanniche durante l’occupazione dell’Afghanistan

C’è qualcosa di marcio nel cuore della mitologia militare britannica. Per anni, politici e generali hanno avvolto lo Special Air Service (SAS) e i suoi reggimenti affini nel manto di teflon dell’onore, del sacrificio e della segretezza. Ma i miti hanno la tendenza a sgretolarsi, e questo sta rapidamente accadendo. E ciò che emerge, come rivelato da un’inchiesta pluriennale della BBC Panorama e dal lavoro parallelo della mia organizzazione benefica Action on Armed Violence (AOAV), non è l’eroica professionalità dei guerrieri d’élite, è qualcosa di molto più oscuro.

È il corpo di un bambino, ammanettato e colpito alla testa.

E’ il conteggio delle uccisioni compiute da uomini che sembravano provare piacere nello spargimento di sangue.

Sono le armi piazzate, i resoconti falsificati, i filmati mai guardati, i server cancellati.

Si tratta, senza mezzi termini, di omicidio. E commesso in nostro nome.

Per chi di noi ha trascorso anni a documentare i costi civili della guerra al terrorismo, queste recenti accuse – contenute nell’eccezionale film di Panorama “Special Forces: I saw war crimes” – confermano ciò che molti sospettavano da tempo. Che le Forze Speciali britanniche abbiano quasi certamente condotto una campagna di esecuzioni extragiudiziali in Afghanistan impunemente. E che il sistema giudiziario militare creato per contenerle abbia fallito catastroficamente. Peggio ancora, potrebbe persino aver contribuito a coprirne le tracce.

Tutti sapevano

Non si tratta della cattiva condotta di poche “mele marce”, né di confusione sul campo di battaglia. Le testimonianze trasmesse da Panorama – tratte da interviste con oltre 30 ex soldati, ufficiali dell’intelligence e addetti ai lavori – rivelano illeciti sistematici. Operazioni in cui “tutti sapevano cosa stava succedendo”, attacchi in cui i detenuti venivano giustiziati, raid in cui venivano uccisi bambini e missioni in cui questi atti venivano registrati, non per accertare le responsabilità ma, a quanto pare, come trofei.

La rivelazione più scioccante potrebbe non essere l’omicidio in sé, ma quante persone lo sapevano. Lo sapevano e hanno taciuto. O peggio, lo sapevano e hanno permesso che accadesse.

Ufficiali comandanti. Consulenti legali. Ministri. Persino, a quanto pare, un ex Primo Ministro.

Erano stati avvertiti. Eppure non hanno fatto nulla.

Ciò che emerge è invece una coreografia di occultamento.

Manovre legali per bloccare le indagini, manipolazione del linguaggio ufficiale per restare all’interno delle “regole di ingaggio””, rifiuto di consegnare le prove e la sconvolgente rivelazione che alle Forze Speciali è stato concesso un veto segreto sulle richieste di asilo nel Regno Unito da parte di soldati afghani che avevano assistito in prima persona a queste uccisioni.

Questo veto, in particolare, rivela una depravazione morale in contrasto con l’immagine della Gran Bretagna come nazione di legge e ordine.

L’idea che alcuni dei “Triples” – forze speciali afghane che hanno combattuto e sanguinato al fianco delle truppe britanniche – siano stati lasciati indietro per essere torturati o uccisi dai talebani non perché rappresentassero un rischio per la sicurezza ma perché erano testimoni, dovrebbe essere una ferita nella psiche nazionale. Dovrebbe perseguitare ogni funzionario che ha firmato quei dinieghi. Dovrebbe perseguitare il Ministero della Difesa.

Queste non sono  accuse di semplice cattiva condotta, sono dettagliate accuse di crimini di guerra. Questa frase ha un peso e definisce  una soglia legale inequivocabile. L’uccisione di detenuti feriti, l’esecuzione di uomini disarmati, l’omicidio di bambini: queste non sono azioni di guerra, sono crimini.

Serrare i ranghi

Eppure, la risposta dello Stato britannico è stata quella di serrare i ranghi. L’Operazione Northmoor, l’indagine della Royal Military Police su 52 omicidi sospetti, è stata archiviata senza che le prove chiave filmate fossero esaminate. I testimoni oculari sono stati intimiditi o ignorati. Gli stessi avvocati del Ministero della Difesa hanno ingannato i tribunali. Personaggi di spicco, tra cui ex capi dell’Esercito e delle Forze Speciali britanniche, si sono rifiutati di rilasciare dichiarazioni.

Al contrario, il Ministero ha insistito sul fatto di “collaborare pienamente” con l’Inchiesta indipendente sull’Afghanistan. Questo può essere vero nella lettera. Ma nello spirito? Lo spirito di tale cooperazione assomiglia molto a un’ostruzionismo. E le uccisioni sono continuate ancora.

Dal 2006 a oltre il 2013, le Forze Speciali britanniche hanno trasformato la guerra in un gioco di numeri, dove le vite umane venivano ridotte a metriche e il “successo” di una missione si misurava in cadaveri. Solo nel 2010, uno squadrone SAS ha totalizzato una media di 2,7 uccisioni per raid.

C’è  un’altra violenza silenziosa nel modo in cui il Ministero della Difesa respinge le testimonianze afghane – come se le vite afghane fossero vite inferiori, il dolore afghano un dolore inferiore. Anche questo è parte del problema. Perché i crimini di guerra non esistono nel vuoto: prosperano in culture di impunità, razzismo e disprezzo per le regole che dovrebbero vincolarci.

E quindi, dovremmo unire le nostre voci alle richieste di giustizia – non solo per i morti, ma per i vivi che li ricordano, per le famiglie che ancora aspettano la verità, per gli afghani a cui è stato negato un rifugio sicuro,  per i soldati britannici che sono rimasti in silenzio per troppo tempo e che ora vorrebbero espiare.

Non ci si faccia illusioni: ciò che Panorama e AOAV hanno contribuito a svelare nel corso degli anni non è solo uno scandalo: è una resa dei conti. E se lo Stato britannico non riuscirà ad affrontarla, non solo disonorerà i morti, ma disonorerà se stesso.

Iain Overton è il direttore esecutivo dell’organizzazione benefica Action On Armed Violence
Byline Times è un giornale investigativo indipendente, finanziato dai lettori, al di fuori del sistema della stampa consolidata, che riporta “ciò che i giornali non dicono” – senza paura o favoritismi.

Il PKK depone le armi: svolta storica in Turchia

Murat Cinar, Gariwo Mag, 14 maggio 2025

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK, fondato nel 1978, ha dichiarato la fine della lotta armata il 12 maggio, in seguito al dodicesimo congresso che si è svolto dal 5 al 7 dello stesso mese. “Saranno cessate tutte le attività svolte con questa sigla” è la frase presente nel comunicato stampa che annuncia la fine dell’esperienza della lotta per la rivendicazione del diritto all’esistere del popolo curdo.

Come ci siamo arrivatə?

Un nuovo percorso di dialogo, iniziato nel mese di ottobre del 2024, oggi compie un passo molto importante. Lo storico appello di Devlet Bahçeli, il leader del Partito del Movimento Nazionalista, MHP, componente della coalizione di governo, era entrato al centro dell’attenzione mondiale. Bahçeli, secondo le sue parole, con l’intento di creare un’unità nazionale e affrontare i futuri scenari pericolosi nel Medio Oriente, aveva invitato Abdullah Öcalan a lanciare un appello storico. Bahçeli, in quest’appello, chiedeva a Öcalan di invitare la sua organizzazione, il PKK, a dichiarare lo scioglimento e a deporre le armi. Secondo Bahçeli, sarebbe stato un passo importante per porre fine a questo storico conflitto.

Poche settimane dopo, il leader storico del PKK, ossia Öcalan, tramite suo nipote Ömer Öcalan, deputato nazionale, aveva dato un primo riscontro positivo. Successivamente, dopo anni, si era recata sull’isola una delegazione parlamentare composta da due parlamentari d’opposizione del partito DEM, che ha incontrato l’ergastolano Öcalan sull’isola di İmralı, dove è rinchiuso da più di vent’anni. Anche in quest’occasione, Öcalan si era dimostrato disponibile.

Fino al 27 febbraio 2025, dietro e davanti le quinte, è stato portato avanti un percorso di dialogo e, molto probabilmente, di trattative. Mentre il governo centrale in Turchia premeva per ottenere la dichiarazione storica dal PKK, l’organizzazione chiedeva una serie di garanzie: basi giuridiche e politiche per il futuro e miglioramenti delle condizioni penitenziarie di Öcalan.

Nel frattempo, la delegazione parlamentare, che ha incontrato Öcalan tre volte, ha incontrato anche i leader dei partiti politici rappresentati nel parlamento nazionale, il Ministro della Giustizia e il Presidente della Repubblica. Così, il 27 febbraio è stata letta pubblicamente la lettera di Abdullah Öcalan, che invitava la sua organizzazione a prendere questa decisione storica e specificava che l’epoca della lotta armata per uno stato socialista era finita ed era giunto il momento di trasformare la lotta. In chiusura, Öcalan sottolineava anche la necessità di una serie di cambiamenti politici e giuridici per creare le basi di un percorso politico non armato.

Di cosa si tratta esattamente?

Anche se il governo centrale non ha effettuato, nel frattempo e pubblicamente, quei necessari cambiamenti, il 10 maggio il PKK ha annunciato di aver svolto, con difficoltà, il suo congresso e il 12 maggio ha annunciato il suo scioglimento.

La notizia è stata diffusa inizialmente con un comunicato stampa e una serie di fotografie del congresso, e successivamente anche con l’ausilio di materiali audiovisivi e lunghi interventi politici.

Il PKK annuncia la fine della lotta armata, ma anche la trasformazione della stessa in un percorso politico. Invita la cittadinanza a costruire un percorso di lotta che preveda anche la creazione di meccanismi di autodifesa all’interno della società turca. Il comunicato stampa sottolinea la necessità di riconciliazione tra il popolo turco e quello curdo, e anche dell’appoggio delle forze socialiste, democratiche e rivoluzionarie per sostenere questo nuovo percorso. Il PKK specifica che non si tratta di una mossa nuova, per certi versi, visto che anche in passato l’organizzazione aveva avanzato la proposta del dialogo e della pace con lo Stato. Infine, l’organizzazione chiarisce che la lotta per una società socialista si farà attraverso la costruzione di una società democratica, ma non tramite l’obiettivo di fondare uno stato-nazione socialista.

Quest’ultimo punto si sposa con la lettera del 27 febbraio di Öcalan, che comprende una critica nei confronti di una serie di esperienze di lotta socialiste del ’900. Ma soprattutto si sposa con il nuovo paradigma che lo stesso Öcalan propose negli anni ’90 e sviluppò sia prima di essere arrestato sia durante la sua detenzione: ossia la proposta del Confederalismo Democratico, che si basa sul concetto di superare l’obiettivo della fondazione di uno stato socialista curdo. Questo paradigma, piuttosto, punta alla trasformazione della società restando dentro di essa e lavorando, con una serie di attori, per costruire in modo pratico e teorico le basi della trasformazione. Un principio che si fonda anche, in parte, sugli insegnamenti del filosofo Murray Bookchin, che fu una fonte di ispirazione per Öcalan.

E adesso?

Sia il PKK che la Turchia, il suo principale interlocutore nonché uno dei due coordinatori di questo processo, hanno una serie di compiti da svolgere.

Ankara, attraverso le prime dichiarazioni ufficiali, ha specificato che monitorerà i prossimi passaggi e pretende che l’abbandono delle armi si basi su un piano concreto e tracciabile. Inoltre, vari esponenti del governo, forse con l’intento di calmare le anime nazionaliste in Turchia, hanno specificato che non si tratta di un accordo ma di una decisione autonoma dell’organizzazione. Anche se non è una dichiarazione molto credibile e va contro la natura del concetto di dialogo, si tratta di una dichiarazione coerente. Ovvero, il governo centrale in Turchia, sin dall’inizio di questo nuovo percorso, ha sempre sottolineato che si impegna per porre fine al terrorismo e che l’organizzazione non ha altra scelta che sciogliersi. Quindi, come se si trattasse di una vittoria per qualcuno e di una sconfitta per qualcun altro. Infatti, il Presidente della Repubblica, la sera del 12 maggio, ha dichiarato che dedica questo risultato alle madri dei soldati dell’esercito turco morti in questi anni durante gli scontri con il PKK.

Tra le righe, in alcune dichiarazioni, gli esponenti del governo hanno parlato di una nuova Costituzione, quindi rispondendo in qualche maniera alle richieste giuridiche e politiche del PKK. Inoltre, è stata espressa la necessità di introdurre una serie di nuove leggi e del coinvolgimento del Parlamento nazionale nella nuova fase. Anche questi due punti sono in linea con le proposte sia di Öcalan che del PKK.

Invece, l’organizzazione dovrebbe impegnarsi a concretizzare il lavoro di abbandono delle armi, che avverrà attraverso la distruzione o la consegna delle stesse. Ci sarebbe, ovviamente, il capitolo che riguarda l’abbandono delle postazioni attuali nel nord dell’Iraq e la resa dei militanti presenti in Turchia e altrove. Su questi punti, finora non ci sono piani pubblicamente dichiarati, ma molto probabilmente presto ci saranno nuove comunicazioni.

Siamo veramente prontə?

Forse il lavoro più grosso, difficile e lungo da fare è quello del percorso della riconciliazione collettiva. Oggi, per la grande parte della società in Turchia, il PKK è un’organizzazione “terroristica”. Durante la guerra tra l’organizzazione e lo Stato turco sono morte circa 40.000 persone da tutte le parti. Le politiche di negazione e assimilazione hanno legittimato lo status, la percezione e la posizione di coloro che hanno assecondato le politiche dello Stato, ed emarginato ed escluso coloro che hanno provato a pretendere una vita equa e pari con gli altri. Per questa seconda fetta della società, soprattutto curdofona, il PKK, in qualche maniera, ha rappresentato la ribellione, la lotta e anche un riferimento. Quindi, da questo punto di vista, oggi la società in Turchia risulta divisa almeno in due parti. E con questo nuovo percorso è necessario lavorare sull’unificazione delle parti. Un percorso lungo e articolato.

In questo percorso, mentre per qualcuno uno degli attori, il PKK, sarebbe “terrorista”, per una grande parte della società l’altro attore, ossia il governo, non rappresenta fiducia. Oggi, il principale partito al governo, l’AKP, conta circa il 30% del consenso elettorale (Sonar, maggio 2025). Secondo una serie di sondaggi (es. MediaPOLL, marzo 2025), la fiducia in questo nuovo percorso di pace, anche tra gli elettori dell’AKP, è sotto la soglia del 50%. Invece, quando si tratta dei partiti d’opposizione, soltanto il 20 o il 10% degli elettori ritiene che si tratti di un percorso serio e affidabile. Quindi il governo centrale ha un compito molto difficile davanti.

Anche perché si tratta di una formazione politica che governa la Turchia da più di 20 anni e da almeno 12 anni lo fa attraverso strumenti antidemocratici. Il sistema giuridico è totalmente al servizio del potere politico, la libertà di stampa è stata colpita migliaia di volte, i centri penitenziari sono pieni di oppositori (accusati anche di attività terroristica), migliaia di persone hanno lasciato il Paese e vivono in esilio a causa della continua repressione, una serie di leggi sono state cambiate per rafforzare il potere del Presidente della Repubblica e della sua famiglia. La corruzione, la crisi economica e la provata relazione tra il governo e i trafficanti di droga sono solo alcuni elementi che portano le persone a non provare fiducia nei confronti del governo e del processo di pace che egli conduce.

Quindi, con il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, in carcere dal 19 marzo con l’accusa di corruzione, basata unicamente sulle dichiarazioni di testimoni anonimi, con 13 sindaci sospesi e arrestati dopo le elezioni del 2024 e 31 giornalisti in carcere, questo processo, che dovrebbe avere l’ambizione di puntare sulla trasformazione democratica della Turchia, potrebbe avere una strada molto difficile.

Quindi?

Esattamente come suggerirono sia Öcalan che il PKK nel suo comunicato stampa, le anime d’opposizione, le forze democratiche e socialiste potrebbero essere i veri interlocutori di questo processo. Sono loro che oggi in Turchia posseggono il consenso popolare, e sono loro le parti colpite duramente da anni di repressione nella società ad opera del regime autoritario al potere. Infatti, i collettivi, i gruppi politici extraparlamentari, le persone queer, gli aleviti, i difensori dei diritti umani, i partiti d’opposizione che hanno stravinto le elezioni amministrative nel 2019 e nel 2024 sono coloro che lottano e resistono per una Turchia democratica, laica, progressista e aperta all’Europa. Ovviamente, sono loro che da anni scendono in piazza rischiando i manganelli, i lacrimogeni, il linciaggio, la galera, la perdita del lavoro e una vita in esilio.

Quindi, la dichiarazione del 12 maggio lanciata dal PKK, che chiede un capillare cambiamento, potrebbe essere una grande occasione per costruire una nuova Turchia più inclusiva, in cui le forze progressiste del Paese possano condurre un’ondata di cambiamento con l’obiettivo di vincere le elezioni politiche e presidenziali del 2028. Altrimenti, il regime autoritario farà tutto il possibile per polarizzare la società e mantenere la sua poltrona.

“Amina”, l’Afghanistan e l’infanzia femminile negata

Davide Magnisi, TaxiDrivers, 14 maggio 2025

Un’intervista alla regista Serena Tondo, che a Corti in Opera ha presentato il suo debutto alla regia, un recupero della memoria in un Afghanistan tornato in mano ai talebani

Amina, premiato alla settima edizione di Corti in Opera, è una sorprendente opera prima dal respiro internazionale, sia per la storia che racconta sia per un linguaggio cinematografico brillante ed eminentemente visivo. Il cortometraggio racconta un aspetto poco noto della condizione femminile in Afghanistan, quello delle bambine bacha posh: le famiglie senza figli maschi, per evitare discredito sociale, inducono le figlie a vestirsi e comportarsi da ragazzi. Il paradosso di questa femminilità rimossa è che le bacha posh godono di possibilità negate alle altre bambine: come andare a scuola, fare sport, uscire da sole. Arrivata la pubertà, le famiglie costringono le bacha posh a tornare al proprio genere di appartenenza, catapultandole nell’invisibilità domestica, con inevitabili contraccolpi psicologici.

Per raccontarci tutto quello che c’è dietro la storia di Amina, abbiamo intervistato la sua autrice, Serena Tondo

Come hai incontrato la storia di Amina?

Per caso: un giorno stavo navigando su internet e mi è uscita la pubblicità di un libro, Le ragazze segrete di Kabul, di Jenny Norberg, giornalista svedese Premio Pulitzer. Aveva fatto due anni d’inchieste sulla condizione delle donne in Afghanistan e ha scoperto questo fenomeno, di cui non aveva mai sentito parlare. È andata alla ricerca di famiglie che avevano bambine in questa situazione o donne che avevano subito questa trasformazione, raccogliendo molte storie. Lo stupore è che succede ovunque, sia nelle città che nei villaggi, riguarda sia famiglie di Kabul istruite che gente povera e ignorantissima. C’è un approccio diverso, ma permane la crudeltà di questa pratica. Nelle famiglie più colte c’è, magari, una maggiore responsabilità e consapevolezza, mentre nei villaggi non c’è alcuna attenzione a quelle che possono essere le ripercussioni psicologiche sulle bambine una volta che ritornano al proprio genere di appartenenza.

Immagino si sconti una doppia vergogna, in Afghanistan, di fronte a questo fenomeno.

Il problema è stato proprio riuscire a trovare persone disposte a parlarne. Per esempio, c’era una donna di Kabul con una bambina bacha posh perché si era candidata in Parlamento, ma, non avendo figli maschi, avrebbe avuto zero possibilità di essere votata. Poi diceva che voleva anche far vedere a sua figlia cosa significava avere diritti, essere libera e felice. Una situazione complessa.

Quel che accade in Afghanistan è ormai uscito dalla scena d’attenzione dei media, di fronte ad altre emergenze mondiali. Com’è la situazione oggi, in particolare per le donne?

La situazione è drammatica. Ho conosciuto donne afghane arrivate con i corridoi umanitari, mentre facevo il mio periodo di ricerca su questa storia. Hanno dovuto lasciare il Paese perché nella lista nera dopo il ritorno dei talebani: giornaliste, psicologhe, donne colte e libere. Tutte hanno perso il lavoro. Non possono fare più nulla. Sono tornate indietro di vent’anni, anche per colpa nostra. Perché le emergenze mondiali le gestiamo come vogliamo. Decidiamo noi quel che è emergenza o no. Adesso non si vede più nulla dell’Afghanistan. C’era un’apertura maggiore, ma vent’anni sono stati spazzati via in un momento. Alcuni sono riusciti a scappare, ma tanti sono rimasti intrappolati là.

Amina ha una grammatica cinematografica raffinatissima, fatta di contrasti tra buio e colori luminosi, spazi chiusi e aperti, un montaggio delle attrazioni d’alta scuola. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, visivi e cinematografici, per quest’opera?

Il mio tipo di apprendimento è molto intuitivo. Non mi metto a studiare teorie. Girando, ho pensato a registi che apprezzo molto dal punto di vista visivo, Terrence Malick su tutti. Mi piaceva avere quel suo tipo di luminosità nelle scene di giorno. Poi, ovviamente, quando si gira in esterni, dipende dalla fortuna che ti capita con la luce naturale, non avendo la possibilità dei tempi di ripresa di Malick che, delle volte, arrivava sul set, non gli piaceva la luce e andava via. Invece, per i colori più scuri al chiuso, ho pensato a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, a quell’atmosfera, alla sua dimensione in spazi costretti. E poi, in generale, David Lynch. Queste sono le mie visioni. A cui aggiungo il gusto pittorico del cinema di Matteo Garrone in Italia. Per Amina ho scelto dei colori di fondo che, secondo me, potevano essere giusti, come il viola.

Quanto è stato complicato realizzare Amina? Penso anche alla grande cura nei costumi e la fotografia, oltre a un casting non in lingua italiana.

La protagonista del cortometraggio è la figlia di una psicologa fuggita dall’Afghanistan, che ho incontrato e mi ha fatto da consulente. Mi ha spiegato tantissime cose sul quel Paese. Per il film aspettavo la sua approvazione su tutto, anche come andasse posizionato un bicchiere. Io stavo impazzendo per trovare la protagonista: una bambina che sembrasse non tanto femmina, che sapesse recitare, che fosse afghana o anche italiana, ma che poi dovesse parlare in pashto. Avevo visto tante bambine. E lei, un giorno, dopo settimane che ne stavamo discutendo, mi ha detto: «Io ho una figlia, ti posso mandare una foto». Quando l’ho guardata, ho capito che era lei. Mi chiedevo, però, se fosse in grado di recitare: si è rivelata bravissima, soprattutto considerando la situazione. Noi non comunicavamo direttamente, avevamo un interprete, quindi per lei era ancora più difficile: una bambina di 13 anni, catapultata su un set con una regista che non capisce… Ho anche scoperto, mentre le tagliavamo i capelli, che aveva un’alopecia da stress. Il trauma nasceva dal fatto che lei, quando è scappata con la famiglia, è stata fermata al confine con il Pakistan e hanno puntato una pistola contro la testa del padre, proprio come si vede nel film. Ci sono tante storie di persone che sono arrivate lì e poi sono state rimandate indietro. Arrivati al confine con il Pakistan, i profughi scappano attraverso strade secondarie, pagando il viaggio, ovviamente. Quello è il punto più critico da attraversare. Tutti i costumi li abbiamo cuciti per l’occasione, con dei modelli che ho scelto sempre insieme alla consulente afghana.

E per il resto del cast? Sono tutti volti molto veri.

Per il casting degli altri ragazzi, c’erano due afghani, che erano appena arrivati in Italia, e poi alcuni rom. A me piace avere a che fare con gente un po’ ai margini. A Lecce c’è Campo Panareo, uno dei più grandi campi rom d’Italia. Visivamente sono molto simili agli afghani. E poi sono svelti d’intelligenza. I ragazzini rom sembrano avere un’esperienza da farli apparire dieci anni più grandi dei loro coetanei. È stato facile per loro imparare le battute in pashto, merito dell’interprete. Poi c’è anche qualche italiano, ma ho cercato il più possibile di coinvolgere profughi arrivati da poco. Non era solo un’esigenza di realismo, mi piaceva l’idea che per loro sarebbe stato un modo di sentirsi utili. Quando perdi tutto e arrivi in un luogo lontano, offrire la possibilità di raccontare una storia come questa, che stessero facendo qualcosa per il loro Paese, per quanto piccolo potesse essere come contributo, ha fatto sì che tutti abbiano accettato con grande entusiasmo. Mi hanno aiutato tantissimo.

In Amina non si parla molto, è un cinema totalmente visivo.

Sì, non ho mai immaginato un film denso di parole. Secondo me, la storia doveva arrivare visivamente allo spettatore, parlare soprattutto con le immagini.

Dove avete girato?

In Puglia. Siamo stati parecchio in giro per trovare i luoghi giusti. È stato difficile trovare i posti all’aperto che potessero rievocare quegli spazi lontani. La scena della partita di pallone, per esempio, è ambientata in una cava tra Avetrana e Manduria. La dimora di Amina è una casa abbandonata in campagna dell’organizzatore generale del film, che ci aveva fatto vedere mille posti che non andavano bene, poi si è ricordato di questa vecchia casa di famiglia dove non c’era nulla intorno

Tu hai cominciato nel cinema come attrice e fai una piccola parte anche in Amina, di cui sei autrice del soggetto e della sceneggiatura, oltre che regista. Cosa ti affascina di più della macchina cinema e che cosa un ruolo dà all’altro?

Per quella che è la mia formazione del mestiere d’attrice, qualcosa che non si definisce mai, ma una ricerca continua, la cosa che più mi piace è il fatto che tu vivi su di te il personaggio. È qualcosa che parte da fuori, arriva dentro di te e poi riesce fuori. Dal punto di vista registico, il percorso è opposto. Nel senso che non esiste niente, un testo, una storia, solo degli spunti, e il personaggio lo devi creare tu. Viene da dentro di te, si forma raccogliendo piccoli pezzi, ma non sei limitato da un testo già esistente: quando fai l’attrice, se il tuo personaggio è Giulietta, sai benissimo chi sei e che farai, non puoi uscire da quel seminato. Invece, quando crei un personaggio, hai libertà. Io ho cominciato a scrivere Amina dopo aver conosciuto degli afghani. Si parte da atmosfere e poi crei dalla tua testa. Sono un po’ processi opposti. Dell’attrice mi piace che prendi qualcosa che è stato scritto da qualcun altro e lo fai tuo. Quello che invece mi piace della scrittura è la magia di qualcosa che nasce nella tua testa e poi diventa vera.

Amina è anche un film sulla memoria. È in gran parte costruito su flashback.

Io sono una persona molto nostalgica e ho un rapporto molto forte con il passato. Non riesco a staccarmi da alcuni ricordi, che condizionano il mio presente. Mi rendo conto che, anche nel lavoro cinematografico, tendo sempre ad andare verso questo, a strutturarlo come sono fatta io.

Hai portato Amina in vari Festival. Qual è stata la reazione del pubblico?

Al di là del giudizio sul film, quello che sento sempre è che nessuno conosceva questa storia. Non mi meraviglia, neanch’io sapevo nulla, avendola pescata così su internet, mi rendevo conto di essere una delle poche persone a conoscerla. Ho notato anche che, soprattutto le donne, di qualunque età, rimangono particolarmente scosse. Le reazioni e le riflessioni più articolate, più profonde, le ho sempre avute dal pubblico femminile. È quello che ha empatizzato di più con questa storia.

Non a caso, l’immagine in qualche modo centrale del film, punto di svolta narrativo, è quando Amina scopre, tra l’altro pubblicamente, di avere il ciclo mestruale. È una rivelazione anche archetipica dell’essere donna. La scoperta di una specifica fisicità.

È, infatti, un passaggio che tutte ricordiamo. Non credo ci sia una donna che non rammenti dove stesse quando ha avuto per la prima volta il ciclo. Quello credo sia, probabilmente, il punto di connessione che trovano tutte le donne quando guardano questo film. Particolarmente in questo caso diventa una rivelazione a te stessa e al mondo. Tieni presente che, in Afghanistan, non si parla mai di mestruazioni. La prima volta che una bambina ha il ciclo, veramente non sa cosa stia succedendo. Qui in Occidente, in qualche modo, siamo preparate. Io lo sapevo che mi doveva succedere. Con le amiche, i genitori, si parla. Ma loro no, perché è un tabù talmente grande, che tu hai il doppio trauma di non capire cosa ti sta accadendo. Tanto più in una situazione come quella di Amina, non sai quale sarà la portata sociale di quello che ti sta succedendo.

Vincere un premio nella propria terra, qui a Corti in Opera, in Puglia, immagino abbia un significato speciale.

È la cosa che mi fa più piacere in assoluto, perché io ho un rapporto strano con questa terra. Di natura mi sono sempre sentita cosmopolita, non ho un attaccamento da tifoseria alla mia Puglia. Riesco a essere abbastanza obiettiva su cosa mi piace e cosa no. Amina è girato in Puglia, ma racconto di un luogo lontano perché, fin da piccola, sono sempre stata curiosa dell’altrove. La gente parte dal presupposto che la propria terra sia sempre la migliore, io lo vedo come un atteggiamento che impedisce di aprirsi veramente agli altri. Io volevo viaggiare, conoscere, vedere, mi affascina sempre molto. Però rimango male quando, nella mia terra, quello che faccio non viene riconosciuto. Per cui sono felice di essere qui a rappresentare la mia regione, nel mio piccolo, con un’opera, come dicevi tu prima, dal respiro internazionale.

Hai già degli altri progetti cinematografici di cui ci puoi e ci vuoi parlare?

Sì, mi sto avventurando nella scrittura di un lungometraggio, partendo dalla mia personale condizione di persona affetta da epilessia. Sono stata perfettamente sana fino a 22 anni, poi ho iniziato ad avere queste problematiche. Non è stato un processo di accettazione facile. Mi ci è voluto un po’ per metabolizzare questa cosa. Per fortuna non è una forma severa, però porta comunque delle difficoltà. Di epilessia non si parla molto. Ho deciso di utilizzare questo spunto insieme a un mio grande amico e geniale autore, Alessandro Valenti. Ho iniziato a ragionarci, immaginare, e adesso sto elaborando una commedia, perché non voglio fare cose smielate, retoriche. Sarà un film sullo sport e l’epilessia. Certo, con i tempi del cinema italiano, sarà forse pronto tra dieci anni. Però non mollo!

12 ° Congresso del PKK: le attività sotto il nome del PKK sono terminate

ANF, 12 maggio 2025

È stata pubblicata la dichiarazione finale del 12° Congresso del PKK. Il congresso ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e di porre fine alla lotta armata, concludendo di fatto tutte le attività svolte sotto il suo controllo

Il Consiglio del 12° Congresso del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Il processo avviato dalla dichiarazione del leader Abdullah Öcalan del 27 febbraio, e ulteriormente plasmato dal suo ampio lavoro e dalle sue prospettive multidimensionali, è culminato nella convocazione con successo del nostro 12° Congresso del Partito tra il 5 e il 7 maggio.

Per i continui scontri, gli attacchi aerei e terrestri, il continuo assedio delle nostre regioni e l’embargo del Partito Democratico (PDK), il nostro congresso si è svolto in condizioni di sicurezza difficili. Per motivi di sicurezza, si è svolto contemporaneamente in due sedi diverse. Con la partecipazione di 232 delegati in totale, il XII Congresso del PKK ha discusso di leadership, martiri, veterani, struttura organizzativa del PKK e lotta armata, e costruzione di una società democratica, culminando in decisioni storiche che segnano l’inizio di una nuova era per il nostro Movimento per la Libertà.

Concluse tutte le attività sotto il nome del PKK

Il XII Congresso Straordinario ha valutato che la lotta del PKK ha smantellato le politiche di negazione e annientamento imposte al nostro popolo, portando la questione curda a un punto in cui può essere risolta attraverso la politica democratica. Ha concluso che il PKK ha adempiuto alla sua missione storica. Sulla base di ciò, il XII Congresso ha deliberato di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e porre fine alla lotta armata, affidando la gestione e la guida del processo di attuazione al Leader Apo [Abdullah Öcalan]. Tutte le attività condotte sotto il nome del PKK sono pertanto concluse.

Il nostro partito, il PKK, è emerso come movimento di liberazione curdo in opposizione alle politiche di negazione e annientamento radicate nel Trattato di Losanna e nella Costituzione del 1924. Influenzato fin dalla sua nascita dal socialismo reale, ha abbracciato il principio dell’autodeterminazione nazionale e ha condotto una lotta legittima e giusta attraverso la resistenza armata. Il PKK si è formato in condizioni dominate da aggressive politiche curde di negazione, annientamento, genocidio e assimilazione.

Dal 1978, il PKK ha condotto una lotta per la libertà volta a ottenere il riconoscimento dell’esistenza curda e a far sì che la questione curda diventasse una realtà fondamentale della Turchia. Grazie a questa lotta vittoriosa, il nostro movimento ha realizzato una rivoluzione di resurrezione per il nostro popolo, diventando un simbolo di speranza e di vita dignitosa per i popoli della regione.

Durante gli anni ’90, un periodo di grandi conquiste per il nostro popolo, il presidente turco Turgut Özal iniziò a cercare una soluzione politica alla questione curda. In risposta, il leader Apo dichiarò un cessate il fuoco il 17 marzo 1993, dando il via a una nuova fase. Tuttavia, il crollo del socialismo reale, l’imposizione di tattiche da gangster alla nostra strategia di guerra e l’eliminazione di Özal e della sua squadra da parte dello stato profondo sabotarono questa iniziativa. Lo stato intensificò le sue politiche di negazione e annientamento, inasprendo la guerra. Migliaia di villaggi furono evacuati e incendiati; milioni di curdi furono sfollati; decine di migliaia furono torturati e imprigionati; e migliaia furono uccisi in circostanze sospette.

In risposta, il Movimento per la Libertà crebbe sia in termini di dimensioni che di capacità. La guerriglia si diffuse in Kurdistan e Turchia. L’impatto della lotta di guerriglia spinse il popolo curdo a sollevarsi in rivolte di massa (serhildan), trasformando la guerra nell’opzione principale per entrambe le parti. La conseguente reciproca escalation bellica non poté essere invertita e gli sforzi del leader Apo per risolvere la questione curda con mezzi democratici e pacifici alla fine fallirono.

Ricostruire le relazioni turco-curde è inevitabile

Il processo entrò in una fase diversa con la cospirazione internazionale del 15 febbraio 1999. In questo processo, uno degli obiettivi principali della cospirazione, una guerra curdo-turca, fu impedito grazie ai grandi sacrifici e agli sforzi del leader Apo. Nonostante fosse stato detenuto nel sistema di tortura e genocidio di Imralı, persistette nel cercare una soluzione democratica e pacifica alla questione curda. Per 27 anni, il leader Apo si è opposto al sistema di annientamento di Imralı, vanificando la cospirazione internazionale. Nella sua lotta, ha analizzato il sistema statalista dominato dagli uomini e guidato dal potere e ha sviluppato un paradigma per una società democratica, ecologica e orientata alla libertà delle donne. In questo modo, ha concretizzato un sistema di libertà alternativo per il nostro popolo, le donne e l’umanità oppressa.

Il leader Apo, pensando al periodo precedente al Trattato di Losanna e alla Costituzione del 1924, in cui le relazioni curdo-turche divennero problematiche, propose un quadro per la risoluzione della questione curda basato sulla Repubblica Democratica di Turchia e sul concetto di Nazione Democratica, fondato sull’idea di una Patria Comune e di popoli co-fondatori. Le rivolte curde nel corso della storia della Repubblica, la dialettica curdo-turca lunga 1000 anni e i 52 anni di lotta per la leadership hanno dimostrato che la questione curda può essere risolta solo sulla base di una Patria Comune e di una cittadinanza paritaria. Gli attuali sviluppi in Medio Oriente, nell’ambito della Terza Guerra Mondiale, rendono inoltre inevitabile la ristrutturazione delle relazioni curdo-turche.

Il nostro popolo comprenderà meglio di chiunque altro lo scioglimento del PKK e la fine della lotta armata e abbraccerà i doveri di questa era

Il nostro onorato popolo, che ha aderito alla leadership e al percorso del PKK per 52 anni pagando un caro prezzo, opponendosi a politiche di negazione, annientamento, genocidio e assimilazione, sosterrà il processo di pace e di una società democratica in modo più consapevole e organizzato. Crediamo fermamente che il nostro popolo comprenderà la decisione di sciogliere il PKK e porre fine al metodo della lotta armata meglio di chiunque altro e che si assumerà le responsabilità dell’era della lotta democratica basata sulla costruzione di una società democratica. È di vitale importanza che il nostro popolo, guidato da donne e giovani, costruisca le proprie auto-organizzazioni in tutti gli ambiti della vita, si organizzi sulla base dell’autosufficienza attraverso la propria lingua, identità e cultura, si autodifenda di fronte agli attacchi e costruisca una società democratica comunitaria con spirito di mobilitazione. Su questa base, crediamo che i partiti politici curdi, le organizzazioni democratiche e i leader d’opinione adempiranno alle loro responsabilità per promuovere la democrazia curda e la nazione democratica dei curdi.

Grazie all’eredità della nostra storia di libertà, lotta e resistenza, e alle decisioni del XII Congresso del PKK, il percorso politico democratico si svilupperà con maggiore forza e il futuro dei nostri popoli progredirà sulla base di libertà e uguaglianza. I poveri e i lavoratori, tutti i gruppi religiosi, le donne e i giovani, i lavoratori, i contadini e tutti gli esclusi rivendicheranno i propri diritti e svilupperanno una vita comune in un ambiente giusto e democratico.

Invitiamo tutti ad unirsi al processo di pace e di società democratica

La decisione del nostro Congresso di sciogliere il PKK e porre fine al metodo della lotta armata offre una solida base per una pace duratura e una soluzione democratica. L’attuazione di queste decisioni richiede che il Leader Apo accompagni e guidi il processo, che il suo diritto alla politica democratica sia riconosciuto e che vengano stabilite solide e complete garanzie legali. In questa fase, è essenziale che la Grande Assemblea Nazionale della Turchia svolga il suo ruolo con responsabilità storica. Allo stesso modo, invitiamo il governo, il principale partito di opposizione, tutti i partiti politici rappresentati in parlamento, le organizzazioni della società civile, le comunità religiose e di fede, i media democratici, i leader di opinione, gli intellettuali, gli accademici, gli artisti, i sindacati, le organizzazioni femminili e giovanili e i movimenti ecologisti ad assumersi le proprie responsabilità e a unirsi al processo di pace e di una società democratica.

Il coinvolgimento delle forze socialiste di sinistra turche, delle strutture rivoluzionarie, delle organizzazioni e degli individui nel processo di pace e di una società democratica eleverà la lotta dei popoli, delle donne e degli oppressi a un nuovo livello. Ciò significherà il raggiungimento degli obiettivi dei grandi rivoluzionari le cui ultime parole furono: “Lunga vita alla fratellanza dei popoli turco e curdo e a una Turchia pienamente indipendente!”.

Con il Socialismo della Società Democratica che rappresenta una nuova fase nel processo di pace e di società democratica e nella lotta per il socialismo, il movimento democratico globale progredirà e un mondo giusto ed equo emergerà. Su questa base, invitiamo l’opinione pubblica democratica, in particolare i nostri compagni che guidano la Global Freedom Initiative, ad ampliare la solidarietà internazionale nel quadro della teoria della modernità democratica.

Invitiamo le potenze internazionali a riconoscere le proprie responsabilità nelle politiche di genocidio perpetrate contro il nostro popolo nel corso di un secolo, a non ostacolare una soluzione democratica e a contribuire in modo costruttivo al processo.

Annunciamo il martirio di Ali Haydar Kaytan e Riza Altun

Il nostro 12° Congresso del PKK, convocato su appello della nostra leadership, ha proclamato il martirio di Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti del nostro partito, martirizzato il 3 luglio 2018, e del compagno Riza Altun, martirizzato il 25 settembre 2019. Su questa base, ha riconosciuto il compagno Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti fondatori del PKK, come simbolo di “Lealtà al Leader, Verità e Vita Sacra”, e il compagno Riza Altun, uno dei primi compagni del Leader Apo, come simbolo di “Cameratismo per la Libertà”. Dedichiamo il nostro storico 12° Congresso del Partito a questi due grandi compagni martiri che ci hanno guidato dall’inizio del nostro Movimento per la Libertà fino a oggi con la loro lotta ininterrotta. In loro nome rinnoviamo la nostra promessa a tutti i martiri della lotta e affermiamo il nostro impegno a realizzare i sogni della compagna martire della pace e della democrazia Sırrı Süreyya Önder.

L’«ultimo» congresso, il Pkk verso lo scioglimento

Il Manifesto, 10 maggio 2025

Kurdistan Il Partito dei Lavoratori rispetta la volontà di Ocalan e si riunisce per decretare il proprio futuro. Il fondatore avrebbe partecipato in video. Il partito Dem: «Non è una fine ma un nuovo inizio»

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) ha annunciato, con una dichiarazione ufficiale diffusa venerdì, la conclusione del suo 12° congresso, tenutosi tra il 5 e il 7 maggio nelle Zone di Difesa di Medya, aree controllate dalla guerriglia curda nella Regione del Kurdistan in Iraq.

Il congresso era stato esplicitamente richiesto da Abdullah Öcalan nel suo appello del 27 febbraio in cui chiedeva di procedere allo scioglimento del partito, evento culminante di un processo iniziato il 28 dicembre 2024, quando una delegazione del Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli (Dem), composta dai parlamentari Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, aveva incontrato Öcalan nell’isola-prigione di Imralı, a nove anni dal collasso degli ultimi negoziati tra Stato turco e Pkk.

Parallelamente agli incontri di Imralı, la delegazione Dem ha tenuto negli ultimi mesi colloqui con quasi tutte le forze politiche e sociali in Turchia e con il ministero della giustizia, apparentemente per discutere della situazione di Öcalan e di una possibile amnistia generale.

NONOSTANTE gli sforzi di Dem, le dichiarazioni del governo e del Pkk sembravano suggerire uno stallo nei negoziati: il partito curdo accusava lo Stato turco di non permettere il congresso, continuando a effettuare attacchi contro le aree controllate dalla guerriglia curda nonostante un cessate il fuoco unilaterale annunciato dal Pkk. D’altra parte, alcuni esponenti dello Stato turco accusavano il partito curdo di non voler rispondere all’appello di Öcalan, interpretandolo come un appello alla resa immediata e incondizionata.

«Decenni di esperienze dolorose ci hanno insegnato che il dolore non ha colore, lingua o identità. Oggi, le lacrime di turchi, curdi, circassi, arabi, aleviti, sunniti e di tutte le altre identità e credenze si sono unite nello stesso mare – ha scritto il partito Dem in un lungo comunicato – Portiamo il nostro dolore condiviso nel cuore; custodiremo la memoria di tutti i caduti come un impegno sacro e costruiremo il nostro futuro comune».

Dem ha definito il congresso «una delle più significative svolte della storia recente della Turchia» e ha esortato tutte le istituzioni democratiche, in primis la Grande Assemblea nazionale turca, ad assumersi la responsabilità storica di risolvere la questione curda e democratizzare il paese. Nel comunicato, Dem ha ringraziato alcune figure politiche chiave, a partire da Abdullah Öcalan «che ha assunto una responsabilità storica nello sviluppo di questo processo», il leader ultranazionalista Devlet Bahçeli, il presidente Recep Tayyip Erdogan e il leader del principale partito di opposizione Chp, Özgür Özel, per il loro «sostegno alla causa della pace».

Interrogata sulla possibilità che Öcalan abbia partecipato direttamente al congresso durante un’intervista di Mezopotamya Ajansi, Pervin Buldan ha risposto con cautela: «Probabilmente è stata stabilita una comunicazione tecnica. Ma dobbiamo essere prudenti con le parole, per non danneggiare il processo».

Più tardi, il co-presidente del Congresso Popolare del Kurdistan (Kongra-Gel) Remzi Kartal ha confermato a SterkTV che Öcalan e altri tre prigionieri di Imralı sono intervenuti al congresso in videoconferenza.

SIA NEL COMUNICATO del partito Dem che nella nota diffusa dal Pkk ha trovato spazio anche la commemorazione di Önder, membro della delegazione di Imralı e figura chiave negli sforzi di mediazione già nel fallito processo del 2015.

Önder, deputato Dem e vicepresidente del Parlamento turco di origine turkmena, è deceduto il 3 maggio a 62 anni per un edema cerebrale sviluppatosi a seguito di un infarto subito il 15 aprile. Tuttavia Dem ha rivelato che, già il 2 aprile, era stato scoperto un potenziale tentativo di sabotaggio del suo veicolo, episodio finora tenuto riservato poiché oggetto di un’indagine in corso. Nel corso dei mesi, il Pkk aveva più volte nei suoi comunicati messo in guardia dal pericolo di sabotaggio del processo in caso di ritardi da parte dello Stato nel compiere passi concreti.

«Oggi portiamo sulle spalle il peso della speranza e della responsabilità storica – conclude Dem nel comunicato – Questa non è una fine, ma un nuovo inizio. Riporteremo indubbiamente la luce della pace e della fratellanza in queste terre».

AFGHANISTAN: UNA DONNA E TRE UOMINI FRUSTATI IN PUBBLICO PER ‘CORRUZIONE MORALE’

Nessuno tocchi Caino, 7 maggio 2025

I Talebani hanno frustato in pubblico una donna e tre uomini nel nord e nel sud-est dell’Afghanistan, secondo il comunicato rilasciato il 4 maggio 2025 dalla Corte Suprema del gruppo.
Una donna e un uomo il 4 maggio sono stati frustati di fronte a una folla nel distretto di Qala-e-Zal, nella provincia di Kunduz.
Secondo la Corte erano colpevoli di “relazioni illecite” ed erano stati condannati a 30 frustate ciascuno, oltre a un anno di carcere.
In un altro caso, il giorno prima, due uomini sono stati frustati pubblicamente nel distretto di Zurmat, nella provincia di Paktia, dopo essere stati riconosciuti colpevoli di “sodomia”. Ognuno di loro ha ricevuto 33 frustate oltre a un anno di carcere.
Si tratta dei più recenti casi di una serie di punizioni corporali inflitte nel Paese, tra cui fustigazioni pubbliche, esecuzioni e lapidazioni.
Da quando hanno ripreso il potere nell’agosto 2021, i Talebani hanno ripristinato un’interpretazione rigida della Sharia, simile a quella che avevano alla fine degli anni ’90.
Sotto il loro regime, sono già state praticate sei esecuzioni pubbliche per omicidio e centinaia di individui, in particolare donne e membri della comunità LGBTQ+, hanno subito fustigazioni pubbliche per quella che i Talebani definiscono “corruzione morale”. I rapporti suggeriscono un aumento di tali punizioni negli ultimi mesi, con le fustigazioni pubbliche che nel Paese sono diventate un evento quotidiano.
La Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha documentato 111 casi di punizioni corporali tra giugno e settembre 2024, tra cui 15 donne e una ragazza.

(Fonte: Kabul Now, 04/05/2025)

“Frustate davanti a tutti”: tre donne raccontano le fustigazioni subite dai talebani

Zan Times, 6 maggio 2025, di Rad Radan

Dal ritorno al potere dei talebani nel 2021, fustigazioni pubbliche, esecuzioni, incarcerazioni senza processo e umiliazioni sancite dallo Stato sono diventate all’ordine del giorno in Afghanistan.

Secondo i verbali dei tribunali e i resoconti dei media , più di 1.050 persone sono state frustate in pubblico, tra cui almeno 200 donne. I numeri reali sono probabilmente molto più alti.

Tra le persone punite ci sono donne accusate di cosiddetti “crimini morali”, tra cui uscire di casa senza un tutore maschio o mahram, farsi vedere sole in pubblico o parlare con uomini non imparentati.

Zan Times ha parlato con tre donne che hanno dichiarato di essere state frustate dai talebani negli ultimi due anni per presunti crimini morali, reati che erano state costrette a confessare.

Deeba: “Mi hanno frustato davanti a tutti”
In assenza del marito, partito per lavorare in Iran, la trentottenne Deeba racconta di essere l’unica a provvedere ai suoi sette figli. È una sarta e cuce abiti da uomo a casa sua, per poi consegnarli da sola.

Negli ultimi due anni, è stata arrestata due volte dagli agenti del Vizio e della Virtù dei talebani. Il primo arresto è avvenuto mentre noleggiava una macchina da cucire da un uomo estraneo alla sua famiglia. Racconta di essere stata picchiata, chiamata “prostituta” e costretta a trascorrere quattro notti in prigione.

La seconda volta avvenne circa tre mesi dopo, mentre era seduta in una paninoteca a caricare il telefono. Indossava un lungo cappotto e un ampio scialle, ma gli agenti del Vizio e della Virtù dei talebani la fermarono comunque.

“Mi hanno chiesto: ‘Perché sei senza velo? Perché sei sola senza mahram?’. Ho risposto: ‘Il terremoto ha reso difficile tornare a casa. Non c’è elettricità. Ecco perché sono venuta qui per caricare il telefono e prendere un panino'”.

La sua risposta provocò ulteriormente i talebani. “Hanno cacciato il proprietario del paninoteca dal suo locale e lo hanno schiaffeggiato, gridando: ‘Perché hai fatto entrare questa donna nel tuo negozio? Che rapporto hai con lei?’. Quando li ho visti trattarlo così, ho discusso con loro.”

Due giorni dopo, fu arrestata e portata sotto custodia dei talebani, accusata di aver insultato gli studiosi religiosi talebani [i tutori del vizio e della virtù], oltre a essere una donna senza mahram vista fuori casa. Fu gettata in prigione e trattenuta per 20 giorni.

“Eravamo in 15 in una cella. Quattro letti. Gli altri dormivano sul pavimento. Non ci davano da mangiare. Le coperte erano sporche. Chiesi il mio telefono per chiamare a casa perché mia figlia era malata e non sapevano che ero stata arrestata, ma i talebani si rifiutarono. Urlai, supplicai. Ma invece mi gettarono in una cella di isolamento.”

Alla fine, Deeba fu portata davanti a un tribunale talebano. Nessun avvocato la rappresentava. Il giudice la condannò per essere comparsa senza un tutore maschio e per aver insultato studiosi religiosi. Fu condannata a 25 frustate.

“Mi hanno portata in un luogo pubblico, mi hanno coperto la testa e mi hanno frustata davanti a tutti”, racconta. Deeba racconta di essere stata poi trattenuta per altri due giorni per assicurarsi che almeno una parte della ferita guarisse.

Da quando è tornata a casa, Deeba racconta di aver lottato contro l’umiliazione della fustigazione in pubblico e di assumere farmaci per superare il trauma.

“Quando mi hanno rilasciato, persino i miei amici più cari hanno iniziato a trattarmi in modo diverso. Mi insultavano e parlavano di me con disgusto perché erano state raccontate loro bugie su quanto accaduto.

Non ho altro da dire, è stato semplicemente così difficile. Insopportabilmente difficile. Qualcuno può capire cosa significhi essere schiaffeggiati davanti a una folla, presi a pugni davanti a un pubblico, coperti e frustati in pubblico?

Sahar: “Mi hanno fatto confessare che avevo fatto qualcosa di sbagliato”
Sahar*, 22 anni, è stata molto malata l’anno scorso. Suo padre lavorava in Iran e sua madre gestiva un laboratorio di tessitura di tappeti in un villaggio nell’Afghanistan occidentale. Non c’era nessuno che la accompagnasse alla clinica, dove lavoravano due dei suoi zii. Sua madre ha chiamato il cugino maschio perché la accompagnasse in macchina.

I talebani fermarono il loro veicolo poco prima di raggiungere la clinica e chiesero loro della loro relazione.

“Quando abbiamo detto di essere cugini, ma non eravamo sposati, sono diventati aggressivi. Hanno picchiato mio cugino, distrutto i nostri telefoni e mi hanno costretto a nascondermi sul pavimento del camion dei talebani mentre mi portavano alla loro stazione”, racconta Sahar.

Racconta di essere stata poi portata in un centro di detenzione. “Ero terrorizzata, piangevo e non riuscivo a respirare. Ho detto loro che stavo male e ho chiesto delle medicine. È stato allora che mi hanno schiaffeggiata e presa a calci diverse volte. Uno di loro ha detto: ‘Se alzi di nuovo la voce, uccidiamo sia te che tuo cugino'”.

Sahar racconta di essere stata interrogata da una donna velata. “Mi ha chiesto chi fosse mia cugina, se fossi vergine, se avessimo una relazione. Ho detto di no. Mi ha avvertita che dovevo confessare e che se non avessi obbedito, sarei stata torturata”.

Il giorno dopo, Sahar e suo cugino sono stati portati davanti a un tribunale talebano, dove, a detta di Sahar, è stata costretta a dichiarare falsamente di avere una relazione con il cugino. Non aveva un avvocato. Nonostante la presenza di parenti che hanno testimoniato di essere parenti, i talebani si sono rifiutati di riconoscere la loro relazione come “mahram” e ammissibile.

“Mi hanno fatto confessare, davanti a mia madre e ai miei zii, che avevo fatto qualcosa di sbagliato. Non volevo dirlo. Ma mi hanno picchiata, hanno minacciato mio cugino. Ero terrorizzata”, racconta.

Sahar racconta di essere stata condannata a 30 frustate e sua cugina a 70. “Hanno usato gli altoparlanti per annunciare la nostra punizione. C’era anche la mia sorellina. Diceva sempre che ero il suo modello. L’ho vista piangere tra la folla. Mi ha distrutto.”

Dopo essere tornata a casa, Sahar racconta di essere stata costretta ad abbandonare il suo villaggio. “Dopo questo, l’opinione che la gente aveva di noi è cambiata completamente. Anche se il cinquanta per cento degli abitanti del villaggio  non credeva alle accuse, altri sì. Questo ci ha costretti ad abbandonare casa e trasferirci in città”.

Karima: “Non potevamo andarcene finché le ferite non fossero guarite”
Una storia simile è accaduta alla diciottenne Karima* in un’altra provincia occidentale. Nel 2023, a 16 anni, racconta di essere stata in viaggio con il cugino per comprare del materiale da cucito per la madre quando i Talian li hanno fermati.

“Ci hanno fermato per strada. I talebani ci hanno chiesto i documenti d’identità. Ho detto loro che era mio cugino, ma loro hanno risposto: ‘Non è un mahram valido. Non avete il diritto di stare con lui’. Ci hanno arrestati sul posto”.

Karima racconta di aver trascorso due mesi in prigione e di aver sofferto di attacchi di panico e allucinazioni. “Sono svenuta. Quando mi sono svegliata, avevo i polsi ammanettati e sanguinanti, e un prigioniero mi ha detto che mi avevano legata e calpestata”. “Ai prigionieri malati non era permesso vedere i medici. Alcuni morivano in quel posto. Se qualcuno rispondeva, veniva incatenato e costretto a sdraiarsi, mentre ad altri veniva ordinato di camminarci sopra”.

Karima racconta che sia lei che suo cugino sono stati frustati nella piazza principale della città in cui vivevano. Lei è stata frustata 39 volte e suo cugino ne ha ricevute 50. Poi sono stati riportati in prigione. “Ci hanno trattenuti per un’altra settimana. Ci hanno detto che non potevamo andarcene finché le ferite non fossero guarite. Non volevano che nessuno vedesse quello che avevano fatto.”

Quando finalmente è stata rilasciata, racconta, i funzionari talebani le hanno detto che le era vietato lasciare il Paese. “‘Sei sorvegliata’, mi hanno detto, ‘non ti è permesso andare all’estero'”.

Tuttavia, come Sahar e Deeba, ha subito l’umiliazione di essere fissata e sussurrata dalle persone; al suo ritorno nel villaggio natale è stata costretta a trasferirsi in un’altra città in Afghanistan.

I nomi in questo articolo sono stati cambiati per tutelarne la sicurezza. Rad Radan è lo pseudonimo di un giornalista freelance. Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con il Guardian .