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Autore: CisdaETS

sinistra ROJHILAT (Kurdistan “iraniano”): forse una nuova fase per il movimento Jin Jiyan Azadî

Brescia anticapitalista, 7 settembre 2025, di Gianni Sartori

Anche nel Kurdistan “iraniano” (Rojhilat) la questione curda rimane fondamentale per il Medio oriente. Tra condanne a morte e repressione, aspettative di nuove rivolte e politiche anti-sindacali

Sempre più intricato il groviglio medio-orientale e quello curdo in particolare.

Con lo smantellamento (preannunciato, effettivo, in corso…?) del PKK e la determinazione di FDS, YPG e YPJ nel nord est della Siria di NON consegnare le armi ai tagliagole di Damasco. Come ha detto chiaramente la esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan (kjk) Çiğdem Doğu.
Spiegando come la Siria odierna si definisca “attraverso una molteplicità di etnie e religioni diverse” e sottolineando quanto sia “altrettanto distintivo il ruolo assunto dalle donne (…) con l’auto-organizzazione femminile”.

In riferimento poi a quanto avviene nelle regioni alawite e druse (“ripetuti massacri contro la popolazione e ripetute violenze sulle donne”) ha aggiunto che “solo pensare di imporre la resa delle armi alle forze democratiche siriane (Fds) significa semplicemente dire: venite a farvi sgozzare”. Non esiste infatti “alcuna garanzia di sopravvivenza”. Così come sarebbe “priva di senso l’idea dell’integrazione delle Fds nell’esercito siriano”. In quanto semplicemente “oggi non esiste un vero esercito siriano, ma soltanto varie gang. Gruppi sanguinari che conducono attacchi contro le diverse identità nazionali, etniche e religiose”.

Altro discorso (ma complementare) su quanto potrebbe avvenire in Rojhilat (Rojhilatê Kurdistanê, il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana).

Il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê – Pjak; sorto nel 2004, attivo in Iran e allineato sui principi del Confederalismo democratico), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà) scoppiata nel 2022 dopo l’assassinio della ventiduenne curda Jina (Mahsa) Amini.

Precisando comunque che quella condotta da USA e Israele (in riferimento ai bombardamenti israeliani e statunitensi) è “una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni”

“Solo una lotta popolare – proseguiva il comunicato del Pjak – può portare alla libertà in Iran: il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale”.

Fermo restando che “la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica”.

In un contesto generale di inasprimento della repressione e dell’utilizzo di metodi brutali. Per l’Ong curda Hengaw già alla fine di luglio sarebbero state oltre 800 (ottocento !) le condanne a morte eseguite dall’inizio del 2025. Tra le vittime, oltre a una trentina di prigionieri politici, 22 donne e un minorenne. Colpendo soprattutto le minoranze (116 Curdi, 107 Lur, 92 Beluci, 82 Turchi, 46 Afgani).

Tra le condanne che potrebbero venir eseguite in qualsiasi momento, quella riconfermata in luglio di Sharifeh Mohammadi , femminista curda e militante di un sindacato legale. Nel luglio 2024 Condannata a morte per aver manifestato pubblicamente la sua opposizione alla tortura e all’uso sistematico delle esecuzioni capitali. Equiparandola prima a “propaganda contro lo Stato” e poi a “ribellione armata”.

In carcere dal 2023, ha subito maltrattamenti e torture (sia fisiche che psichiche per estorcerle confessioni), posta in isolamento per oltre tre mesi con la proibizione di visite e telefonate. Sulla drammatica vicenda in agosto è intervenuta l’Assemblea delle donne del partito filo-curdo Dem (Partito dell’uguaglianza e della democrazia del popolo) che ha definito Sharifeh Mohammadi “una militante che ha difeso i diritti delle donne e dei lavoratori”. Affermando di considerare “ogni attacco contro le donne, ovunque avvenga nel mondo, come un’attacco contro il nostro corpo”: Per cui “intensificheremo la nostra ribellione. Il regime fascista dei Mullà ha per l’ennesima volta commesso un crimine contro l’umanità e contro le donne per conservare il proprio potere dominato dagli uomini”.

Alla fine del mese scorso intanto giungevano altri dati allarmanti sulle condanne a morte eseguite nel Kurdistan “iraniano” (v. Rapporto mensile dell’organizzazione dei diritti umani del Kurdistan).

Sarebbero 28 (tra cui una donna) i curdi impiccati dal regime di Teheran in agosto. E almeno altrettanti venivano arrestati nel corso del mese.

Inoltre, stando al rapporto, le autorità giudiziarie iraniane avrebbero applicato pene arbitrarie condannando a 64 anni complessivi di carcere una dozzina di cittadini curdi per accuse “prive di fondamento giuridico”.

Mentre il capo del potere giudiziario iraniano, Hossein Mohseni Ejei, annunciava in conferenza stampa che oltre 2000 persone erano state arrestate nel corso del recente conflitto (durato una dozzina di giorni) tra Iran e Israele, la Rete dei diritti dell’uomo del Kurdistan, denunciava che dall’inizio dei bombardamenti israeliani le forze di sicurezza e i servizi segreti avevano arresto più di 335 militanti e cittadini curdi “senza mandato giudiziario”. In particolare nelle città di Ilam, Kermanshah (Kirmaşan), Urmia, Sanandaj (Sînê), Téhéran e Khorasan.

Sempre da un recente rapporto dell’ONG di difesa dei dei diritti umani Hengaw (del 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate) si ricava che “dal 1979 i prigionieri politici curdi sono diventati sistematicamente vittime di sparizioni forzate. Molti venivano fucilati per ordine di tribunali quantomeno improvvisati, spesso senza processo”.

Dall’arresto alla sepoltura in fosse comuni tenute poi segrete, i processi intentati diventavano di fatto propedeutici alla sparizione forzata.

Aggiungo – si parva licet – che nel Rojhilat anche le libertà sindacali e individuali rischiano di subire ulteriori restrizioni. Come viene confermato dalle sanzioni disciplinari imposte alla fine di agosto dal ministero dell’Educazione a 14 insegnanti (curdi e militanti sindacali).

Si tratta di Nasrin Karimi (in pensione forzata con retrocessione); Faysal Nouri (esilio per cinque anni – al confino – nella regione di Kermanshah); Majid Karimi (licenziamento con esclusione perenne dalla funzione pubblica); Ghiyas Nemati (licenziamento perenne dal Ministero dell’Educazione pubblica); Omid Shah-Mohammadi (licenziamento perenne dalla funzione pubblica); Salah Haji-Mirzaei (sospensione dall’insegnamento); Leyla Zarei (sollevata dal ruolo di vice-presidente della scuola e in pensione forzata con retrocessione); Shahram Karimi (sospensione di sei mesi); Loghman Allah-Moradi (sospensione di un anno); Soleyman Abdi (pensione forzata con retrocessione); Hiwa Ghoreishi, Parviz Ahsani e Kaveh Mohammadzadeh (licenziamento dal ministero dell’educazione).

Più un altro insegnante curdo – di cui per ragioni di sicurezza non viene fornita l’identità – ugualmente licenziato.

Vicenda forse minore nel contesto generale, ma comunque indicativa.

I talebani impiccano un uomo in pubblico in stile esecuzione


L’uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei talebani si sta intensificando e negare il diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici
Sharif Amiry, Rawa, 3 settembre 2025

Fonti hanno confermato che venerdì 22 agosto, membri dei talebani nell’Afghanistan occidentale hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco un uomo e ne hanno impiccato il corpo in pubblico. L’incidente ha suscitato la condanna degli attivisti per i diritti umani, che hanno descritto l’atto come un’esecuzione sommaria e una violazione della dignità umana.

Testimoni hanno riferito ad Amu che l’uomo è stato impiccato a un vecchio carro armato nella trafficata zona di Kandahar Gate a Herat, dove una grande folla si è radunata per assistere all’accaduto. I video che circolano sui social media mostrano membri talebani che prendono a calci il corpo alla testa e al volto, mentre i passanti filmavano la scena.

Nel filmato, un combattente talebano ha identificato l’uomo come membro di un gruppo armato di opposizione e lo ha accusato di aver ucciso due membri talebani, tra cui Mawlawi Hassan Akhund, comandante del 10° distretto di sicurezza talebano a Herat. Il gruppo di opposizione “Nahzat Azadi-Bakhsh Islami Mardom Afghanistan” – che ha rivendicato la responsabilità degli attacchi nell’Afghanistan occidentale – aveva dichiarato all’inizio di questa settimana di essere dietro l’assalto in cui è morto Akhund.

Attaccato al cadavere è stato trovato anche un pezzo di carta con la scritta “Morte al gruppo Nahzat Azadi-Bakhsh Afghanistan”.

Il comando di polizia talebano di Herat ha successivamente rilasciato una dichiarazione contraddittoria su X, precedentemente Twitter, sostenendo che l’uomo era solo sospettato di furto. La dichiarazione affermava che era stato identificato dai residenti, arrestato durante un’operazione talebana ed “eliminato”.

Gli attivisti per i diritti umani hanno condannato l’atto definendolo un omicidio illegale.

“Privare qualcuno del diritto alla vita senza un giusto processo e senza un giusto processo è una palese violazione dei diritti umani”, ha dichiarato Hadi Farzam, attivista per i diritti umani. “Appendere il corpo in pubblico dopo l’omicidio è un affronto diretto alla dignità umana”.

Una membro del movimento femminile Window of Hope ha dichiarato ad Amu che i processi ai talebani negano agli imputati il ​​diritto ad avere un avvocato o alla difesa. “L’uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei talebani si sta intensificando, e negare il diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici”, ha affermato.

Non si tratta del primo episodio del genere. Negli ultimi anni, i talebani hanno effettuato numerose esecuzioni pubbliche. L’anno scorso, quattro uomini accusati di rapimento sono stati fucilati e impiccati a Herat, mentre all’inizio di quest’anno altre quattro persone sono state giustiziate nelle province di Farah, Nimroz e Badghis.

Read more at: https://www.rawa.org/temp/runews/2025/09/03/taliban-hang-man-in-public-in-herat-after-execution-style-shooting-sources.html

 

Dal saccheggio minerario al gioco con le potenze mondiali


Arian Nasiri, شفق همراه, 6 settembre 2025

Un tempo i Talebani erano noti per la coltivazione e il contrabbando di oppio. Ma sotto la pressione internazionale, cercando soluzioni globali e sfruttando le conoscenze moderne, il gruppo ha trovato un nuovo modo per finanziare la sua guerra e la sua repressione: produrre droghe sintetiche e saccheggiare sistematicamente le miniere afghane.
Questo cambiamento non è un segno di arretramento, ma una testimonianza della resilienza dei Talebani nel trovare nuove fonti per mantenere in vita la loro macchina del terrore.

La struttura del saccheggio

L’Afghanistan è una terra di ricchezze leggendarie. Si stima che il valore delle risorse sotterranee del Paese si aggiri tra 1 e 3 trilioni di dollari: oro, litio, lapislazzuli, ferro, rame, uranio e metalli rari che avrebbero potuto costituire il fondamento dello sviluppo sostenibile, dell’industrializzazione e della riduzione della povertà.
Ma nelle mani dei Talebani questa ricchezza si è trasformata nel suo opposto: carburante per la guerra, fonte di corruzione e strumento per le reti mafiose.

Dalla caduta della repubblica nel 2021, il saccheggio delle risorse afghane si è intensificato. Personaggi come Bashir Noorzai, famigerato narcotrafficante, sono ora al centro degli accordi minerari; un chiaro segno che i Talebani stanno aggirando la pressione globale.

In Afghanistan, la struttura del saccheggio è chiara. I Talebani nominano loro rappresentanti proprio nei luoghi di estrazione dei minerali, strategici per obbligare a dare loro la quota del 10%.
Quando si tratta di esportazioni, gli stessi ministeri che dovrebbero facilitare lo scambio diventano invece ostacoli: prezzi irrealistici, pratiche pesanti e corruzione sfacciata. Gli esportatori sono costretti a ricorrere al contrabbando.
I Talebani hanno deliberatamente chiuso questo traffico in modo che tutto ruoti nell’ombra e i profitti principali finiscano nelle loro tasche. Solo i Talebani sono in grado di esportare legalmente questi materiali o chi condivide indirettamente gli stessi interessi .

Oltre il 95% delle pietre preziose, come smeraldi, lapislazzuli e oro, passa attraverso il Pakistan e viene poi venduto in Cina, Emirati Arabi Uniti e India. Materiali da costruzione lussuosi, come marmo di Kandahar, talco e onice di Helmand, vengono esportate in blocchi grezzi attraverso Iran e Pakistan, dove vengono valorizzate e esportate in altri Paesi da parte del Pakistan. L’Afghanistan non riceve alcuna quota di questo valore aggiunto, gli restano solo le terre devastate, le acque inquinate e la povertà delle persone.

Nel nord-est del Paese, le miniere d’oro sono diventate un monopolio assoluto dei Talebani. Le aziende affiliate ai comandanti locali operano senza licenze ufficiali. Chiunque paghi una quota ai Talebani è autorizzato a estrarre anche illegalmente; chiunque opponga resistenza viene minacciato o addirittura giustiziato.
In Badakhshan, quattro minatori locali che si erano opposti ai saccheggi sono stati uccisi di notte.

Questa repressione non solo ha messo a tacere la comunità locale, ma ha anche riversato i profitti dell’oro direttamente nelle tasche dei Talebani e dei loro alleati terroristi. Rapporti internazionali mostrano che al-Qaeda ha guadagnato circa 194 milioni di dollari dall’estrazione dell’oro nel nord-est dell’Afghanistan solo tra il 2022 e il 2024.

Esportazione anziché sviluppo interno

Il fluoruro di calcio (fluorite) è un esempio dell’importanza di questi materiali: svolge un ruolo vitale nell’industria siderurgica e, senza di esso, l’Afghanistan, con le sue vaste risorse di ferro, non sarebbe in grado di creare un’industria siderurgica sostenibile.
Ma oggi, invece di contribuire allo sviluppo interno, viene esportato a tonnellate e venduto nei mercati pakistani. I dati del commercio mondiale mostrano che Cina e Corea del Sud sono tra le principali destinazioni di queste esportazioni: la Cina per l’industria dei metalli e delle batterie per usi industriali e la Corea del Sud per l’acciaio e il vetro.
Il risultato è chiaro: invece di creare un’industria siderurgica autosufficiente, l’Afghanistan si ritroverà con un’economia incompleta e sarà costretto ad acquistare nuovamente questo stesso vitale materiale sul mercato mondiale domani. I talebani non solo stanno saccheggiando il paese oggi, ma anche prendendo in ostaggio il futuro industriale del Paese.

Nella catena globale dell’economia sommersa

Ma i Talebani non guardano solo all’interno, oggi potenze come la Cina hanno portato il ciclo di saccheggio dei Talebani a un nuovo livello.
Secondo Reuters, Pechino ha promesso di concedere alle esportazioni afghane l’esenzione tariffaria totale. Ciò significa che i Talebani, mentre cacciano le ragazze da scuola e mettono a tacere i manifestanti locali con i proiettili, possono “legittimamente” esportare le risorse del sottosuolo del Paese nel mercato cinese. Per Pechino, l’Afghanistan è una fonte di litio, uranio, rame e ferro, materiali che alimentano la catena industriale cinese.

La Cina, sebbene non abbia riconosciuto ufficialmente i Talebani, come altri Paesi, ha però praticamente aperto loro le porte dell’economia globale.
“Zero dazi” significa che i Talebani possono passare dal saccheggio interno alle esportazioni ufficiali e riempire le loro casse. Questo è lo stesso pericolo che, se non preso sul serio, trasformerà l’Afghanistan da un terreno di contrabbando locale a un anello chiave nella catena globale dell’economia sommersa.

I talebani parlano di “sviluppo” nei loro discorsi ufficiali, ma in pratica aggravano la povertà. Nel messaggio per l’Eid, il loro leader ha menzionato “miniere e terra” come risorse per ridurre la povertà, ma quello stesso discorso era rivolto solo agli uomini ed escludeva le donne.
Questa lampante contraddizione tra parole e fatti è il vero volto dei talebani: all’estero, lo slogan dello sviluppo e della cooperazione, ma in patria, saccheggio, discriminazione e oppressione.

I talebani sono vivi finché esiste il denaro

La domanda principale è: in che modo i Talebani possono perdurare? La risposta può essere riassunta in una frase: i Talebani sono vivi finché esiste il denaro.
Ogni dollaro del contrabbando di oro e smeraldi, ogni rimessa da Dubai o Karachi, ogni accordo tariffario con la Cina e ogni tonnellata di fluoruro di calcio che raggiunge le acciaierie coreane o le industrie metallurgiche cinesi è una pallottola nell’arsenale dei Talebani.
Il modo per controllare i Talebani è fermare il denaro.
La comunità internazionale deve prendere di mira le fonti di finanziamento dei Talebani: vietando le esportazioni minerarie illegali, creando un’etichetta “Taliban-free” per i minerali, monitorando rigorosamente le rimesse e le organizzazioni benefiche e facendo pressione sui Paesi complici di questo saccheggio.

Allo stesso tempo è necessario offrire alternative al popolo afghano: investendo nella lavorazione interna, sostenendo aziende trasparenti e creando opportunità di lavoro legittime.
I talebani trovano continuamente nuove fonti di reddito: dall’oppio alla metanfetamina, dalle miniere ai contratti con l’estero.
Ma una verità non cambia: tutte queste fonti portano al denaro, e tutto questo denaro al terrore. La fine del terrore implica la fine dell’economia sommersa e la fine dell’economia sommersa è possibile solo con la volontà collettiva di tagliare l’arteria finanziaria dei talebani.

L’Afghanistan merita un’economia che costruisca scuole e ospedali, non un tesoro che fornisca armi e polvere da sparo. Se il mondo non decide oggi, domani non solo l’Afghanistan ma anche la sicurezza della regione e del mondo intero rimarranno ostaggio dell’economia sommersa dei talebani.
Ma se questa arteria verrà chiusa, i talebani saranno senza fiato, la guerra perderà slancio e la speranza, seppur lentamente, tornerà a scorrere.

 

Fonti
Reuters. 2024. La Cina concederà ai talebani accesso senza dazi doganali al commercio con un regime isolato e ricco di risorse. Servizio di Joe Cash, 25 ottobre 2024.
Associated Press (AP News). 2023. Ricavi di Al-Qaeda dalle miniere d’oro nel nord-est dell’Afghanistan. 2022-2024.
Radio Freedom (RFE/RL). 2023. Il controllo dei talebani sulle miniere afghane e il loro ruolo nella corruzione e nel finanziamento del terrorismo.
Global Witness. 2022. Minerali insanguinati: come stanno saccheggiando i talebani le risorse naturali dell’Afghanistan?
The Guardian. 2024. L’attività mineraria illegale in Afghanistan e le sue conseguenze ambientali.
United States Institute of Peace (USIP). 2022. Beni dei talebani: l’economia politica della cattura del governo.
Organizzazione mondiale delle dogane (OMD). 2021. Ricerca sulle risorse minerarie e sui flussi commerciali.
Banca Mondiale/UN Comtrade Database. 2022. Dati sul commercio internazionale – Esportazioni e importazioni di fluorite (Afghanistan, Cina, Corea del Sud).
Wilson Center. 2023. Infiltrazione mineraria: le ambizioni della Cina nell’Afghanistan controllato dai talebani.
Lawfare. 2023. I minerali strategici dell’Afghanistan: rischi e implicazioni per la sicurezza globale.
15 di Sanbol 1404, otto del mattino

 

“Possa Kabul essere senza oro, ma non senza neve”. I danni ambientali nella giustizia di transizione e nella costruzione della pace

Huma Saeed, Agency for Peacebuilding (AP), 27 agosto 2025

Kabul, la capitale dell’Afghanistan con una popolazione di circa cinque milioni di abitanti, si trova ad affrontare una grave minaccia: si prevede che le sue falde acquifere si prosciugheranno entro il 2030, mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città. Eppure, questa è solo una delle tante sfide ambientali che l’Afghanistan si trova ad affrontare, essendo il Paese tra i più vulnerabili agli impatti della crisi climatica. Sebbene l’Afghanistan sia uno dei minori contributori al mondo alle emissioni di gas serra, i suoi ghiacciai si stanno sciogliendo a causa dell’impatto accelerato dei cambiamenti climatici. Nel 2023, si è classificato al settimo posto tra i Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici e le Nazioni Unite hanno rilevato che è un Paese “sotto la costante minaccia di siccità, inondazioni, temperature estreme e degrado del suolo”. Sulla scia di decenni di conflitti, il degrado ambientale è una conseguenza spesso trascurata che esacerba le disuguaglianze esistenti e mina gli sforzi di costruzione della pace. In Paesi come l’Afghanistan, il danno ambientale deve essere riconosciuto come un pilastro fondamentale nel più ampio quadro della costruzione della pace e della giustizia di transizione. Ciò è particolarmente vero per le donne afghane, che sopportano il peso sproporzionato sia dei danni ambientali sia dell’ingiustizia sistemica causati da decenni di conflitto.

Il nesso tra danno ambientale e giustizia di transizione nel contesto del conflitto

Nelle zone di conflitto , il degrado ambientale è sia un sintomo che un fattore di instabilità . La guerra accelera la deforestazione, il degrado del suolo, la contaminazione delle acque e l’inquinamento atmosferico, distruggendo risorse naturali cruciali per la sopravvivenza. Sebbene vi sia una chiara correlazione tra danni ambientali e violenza su larga scala, il discorso e la pratica della giustizia di transizione hanno per lo più fallito nel riconoscere o affrontare le conseguenze ambientali del conflitto. Questa negligenza limita la portata della giustizia e ostacola gli sforzi per raggiungere una ripresa post-conflitto completa e la responsabilità. Se la ricostruzione post-conflitto deve essere significativa, deve estendersi oltre la riconciliazione politica e la riforma istituzionale. Deve anche affrontare le ferite ambientali della guerra, quelle che continuano a segnare la terra e le persone molto tempo dopo che l’ultimo cannone ha taciuto.

In Afghanistan , decenni di guerra hanno devastato l’ambiente. Dalla deforestazione e dal degrado del suolo alle fuoriuscite di petrolio e alla contaminazione radioattiva, i sistemi naturali del paese sono stati sistematicamente distrutti. L’uso di munizioni all’uranio impoverito ha causato una contaminazione radioattiva residua. La demolizione dei sistemi di irrigazione ha avuto un grave impatto sulla produttività agricola. L’aumento dei casi di malattie respiratorie e cancro , probabilmente legati all’esposizione a sostanze nocive, sta iniziando solo ora a essere pienamente compreso. Le inondazioni, una minaccia ricorrente, causano circa 400 milioni di dollari di perdite economiche annuali e colpiscono 335.000 persone, in gran parte a causa della debolezza delle infrastrutture. La siccità causa anche sfollamenti di massa: oltre due milioni di persone sono state colpite solo nel 2018 e dal 2021 2,3 milioni di persone sono state sfollate, colpendo più duramente gli afghani più poveri, con l’85% che vive in condizioni vulnerabili e privo di resilienza climatica.

L’ingiustizia ambientale in Afghanistan colpisce in modo sproporzionato le donne . Nelle aree rurali, le donne sono le principali fornitrici di assistenza e di acqua, cibo e combustibile. Con l’aumento del degrado ambientale, devono percorrere distanze maggiori per procurarsi legna da ardere o acqua pulita, sacrificando tempo per l’istruzione o il reddito. Gli sfollamenti indotti dal clima , causati da siccità e inondazioni, espongono le donne a rischi maggiori, tra cui la violenza di genere e la mancanza di assistenza sanitaria e servizi igienico-sanitari. Questa esclusione consolida le disuguaglianze di genere e mina gli sforzi di costruzione della pace.

Questa ingiustizia ambientale prospera in un contesto di governance debole e impunità . Una valutazione ambientale post-conflitto dell’UNEP del 2003 ha avvertito che decenni di cattiva gestione avevano paralizzato i sistemi di risorse naturali dell’Afghanistan. Eppure poco è cambiato. Al contrario, gli sforzi di ricostruzione post-2001 hanno dato priorità alla spesa militare rispetto al consolidamento della pace e al recupero ambientale. Le lamentele locali sono state ignorate e i meccanismi di giustizia di transizione sono stati in gran parte assenti.

Inoltre, il degrado ambientale causato dalla guerra, dalla deforestazione e dalla cattiva gestione delle risorse idriche ha ricevuto scarsa attenzione, nonostante il suo impatto diretto sui mezzi di sussistenza e sulla stabilità a lungo termine. Questo squilibrio ha finito per minare una pace sostenibile , alimentando risentimento e indebolendo la legittimità sia delle istituzioni nazionali che degli attori internazionali.

La giustizia ambientale come strumento di costruzione della pace

Integrare la giustizia ambientale nella costruzione della pace post-conflitto offre un percorso per la guarigione sia delle comunità devastate dalla guerra sia degli ecosistemi danneggiati. In molte zone di conflitto, la guerra esacerba il degrado ambientale : le foreste vengono deforestate per ricavarne combustibile o vantaggi tattici, le fonti d’acqua vengono inquinate o trasformate in armi e i terreni coltivabili vengono lasciati sterili. Affrontare questi danni ambientali attraverso la riforestazione dei paesaggi, il ripristino della produttività agricola e la garanzia di un equo accesso all’acqua pulita può ridurre il rischio di future tensioni legate alle risorse. Inoltre, gli sforzi collaborativi di ripristino ambientale possono fungere da base per ricostruire la fiducia e la cooperazione tra gruppi precedentemente ostili o tra governo e cittadini , trasformando così gli interessi ecologici condivisi in un ponte per una pace sostenibile. Qualsiasi futuro sforzo di giustizia di transizione, in Afghanistan e altrove, deve includere le conseguenze ambientali della guerra. Le commissioni per la verità dovrebbero documentare i danni ecologici e il loro impatto sociale. Le riparazioni potrebbero comportare progetti di ripristino del territorio guidati dalle comunità o altre iniziative. Le riforme legali e istituzionali dovrebbero includere protezioni ambientali che affrontino esplicitamente le disparità di genere. Donatori e partner internazionali devono inoltre allineare gli obiettivi di peacebuilding e ambientali. Gli aiuti dovrebbero dare priorità alle infrastrutture ecocompatibili, alla governance delle risorse naturali e al sostegno diretto alle iniziative ambientali guidate dalle donne.

Il cammino dell’Afghanistan verso la pace è lungo e irto di battute d’arresto. Ma una cosa è certa: qualsiasi pace che non tenga conto dell’ambiente non è affatto pace; è solo una pausa prima della prossima crisi. Investendo nel risanamento ambientale, come la riforestazione, la gestione delle risorse idriche e l’agricoltura sostenibile, l’Afghanistan potrebbe gettare le basi per una pace a lungo termine, resilienza economica e stabilità sociale, offrendo alle comunità un’alternativa al conflitto e alla dipendenza dagli aiuti esteri.

Il vecchio detto afghano “Possa Kabul essere senza oro, ma non senza neve” esprime il profondo valore dell’acqua rispetto alla ricchezza, ma con le falde acquifere di Kabul in esaurimento e le nevicate in calo, la città ora corre il grave rischio di perdere sia la sua neve che il suo oro se la crisi non viene affrontata.

 

 

 

Un nuovo studio rivela che gli Hazara rischiano il genocidio sotto il regime dei talebani

Un nuovo rapporto conclude che vi è una “ragionevole base per credere” che gli attacchi dei talebani, dello Stato islamico della provincia di Khorasan (IS-KP) e dei Kuchi sostenuti dai talebani rispondano alla definizione di genocidio della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948

Kabul Now, 1 settembre 2025

Il New Lines Institute for Strategy and Policy pubblicherà presto un rapporto che valuterà se la comunità Hazara dell’Afghanistan sia stata vittima di genocidio dal ritorno al potere dei Talebani nel 2021. Una copia esclusiva ottenuta da KabulNow conclude che vi è una “ragionevole base per credere” che i recenti e continui attacchi contro gli Hazara da parte dei Talebani, dello Stato Islamico-Provincia di Khorasan (IS-KP) e dei Kuchi sostenuti dai Talebani rientrino nella definizione di genocidio della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948.

Intitolato “Il genocidio degli Hazara: un esame delle violazioni della Convenzione sul genocidio in Afghanistan dall’agosto 2021″ , il rapporto sostiene che le uccisioni, i bombardamenti, gli sfollamenti forzati e la privazione sistematica delle risorse di base inflitti agli Hazara costituiscono atti proibiti dalla Convenzione. Queste atrocità, intensificatesi dopo la presa del potere da parte dei talebani, includono l’uccisione di membri del gruppo, l’inflizione di gravi danni fisici e psicologici e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere il gruppo.

Lo studio documenta come gli Hazara abbiano dovuto affrontare la distruzione dei mezzi di sussistenza, l’espulsione dalle terre ancestrali, la negazione di cibo e cure mediche e ripetuti attacchi alle strutture sanitarie, inclusi i reparti maternità, nonché a scuole, centri di apprendimento, luoghi di culto, trasporti, incontri sociali e ai loro quartieri. Anche gli aiuti umanitari sono stati sospesi o limitati nelle aree popolate dagli Hazara.

Gli autori sottolineano che l’intento è fondamentale per determinare il genocidio e affermano che l’intento di distruggere gli Hazara può essere visto attraverso dichiarazioni ufficiali, politiche, natura e modelli di attacchi, sfollamenti forzati e altri atti sistematici che li prendono di mira a causa della loro identità.

Gli Hazara, un gruppo etnico distinto e prevalentemente sciita, rimangono tra le comunità più vulnerabili dell’Afghanistan. Il rapporto sottolinea che rientrano nella categoria dei gruppi etnici protetti ai sensi dell’Articolo II della Convenzione sul Genocidio, in base alla loro cultura, lingua e religione comuni. In quanto musulmani sciiti, sono anche un gruppo religioso protetto in un Paese in cui l’Islam sunnita è la fede dominante.

Nonostante gli impegni del Paese nei confronti dei trattati internazionali sui diritti umani, la comunità ha dovuto affrontare una violenza incessante, con scarsa protezione e scarsa responsabilità.

Il rapporto accusa i Talebani, in quanto autorità de facto, di aver violato la loro responsabilità di prevenire le atrocità e sostiene che la complicità del gruppo – talvolta attraverso il coinvolgimento diretto negli attacchi – ne acuisce la colpevolezza. Avverte inoltre che, ai sensi del diritto internazionale, gli altri Stati parte della Convenzione sul Genocidio sono obbligati ad agire.

“Data la duratura realtà della violenza sistematica contro gli Hazara e la concomitante cultura dell’impunità in Afghanistan, è giunto il momento che la comunità internazionale prenda in considerazione l’obiettivo e lo scopo della Convenzione di ‘prevenire e punire’ gli atti di genocidio contro questo gruppo”, afferma lo studio.

Il rapporto colloca i continui attacchi contro gli Hazara in una più ampia storia di persecuzioni. Alla fine del XIX secolo, l’emiro Abdur Rahman Khan lanciò una campagna che uccise o sfollò deliberatamente la maggior parte della popolazione Hazara. Le sue forze compirono esecuzioni di massa, violenze sessuali, riduzione in schiavitù e matrimoni forzati. Decreti di jihad e promesse di bottino alimentarono la violenza, mentre torri di teschi esposti nei bazar simboleggiavano il terrore. Donne e ragazze furono costrette a sposarsi o ridotte in schiavitù, e decine di migliaia di Hazara furono comprati e venduti nei mercati degli schiavi, con lo stato afghano che traeva profitto dal commercio. Gli studiosi stimano che più della metà della popolazione maschile Hazara perì in quelle campagne.

“Tali atrocità passate che hanno preso di mira le comunità, soprattutto se affrontate impunemente, rappresentano un segnale di allarme precoce e un fattore di rischio per ulteriori atrocità in futuro”, si legge nel rapporto. “Dovrebbero essere utilizzate per identificare e prevedere il grave rischio di genocidio, che a sua volta dovrebbe innescare il dovere di prevenzione”.

Il rapporto sottolinea che le atrocità contro gli Hazara sono continuate per tutto il XX secolo, con la comunità sottoposta a persistenti discriminazioni e persecuzioni. Evidenzia episodi particolarmente brutali dopo il ritiro sovietico nel 1989 e durante il primo regime talebano negli anni ’90.

Inquadrando il caso Hazara direttamente all’interno della Convenzione sul genocidio, il rapporto fornisce uno degli argomenti più convincenti finora a favore di un’azione internazionale urgente.

Tra le sue raccomandazioni, il rapporto chiede la creazione di un meccanismo delle Nazioni Unite per documentare e preservare le prove dei crimini contro gli Hazara, deferendo il caso Hazara alla Corte penale internazionale, come già fatto nel caso della persecuzione di genere, e avviando un procedimento presso la Corte internazionale di giustizia per le violazioni della Convenzione sul genocidio da parte dei talebani.

A livello nazionale, il rapporto esorta i governi di tutto il mondo ad avviare indagini strutturali sulle atrocità commesse dagli Hazara, a perseguire penalmente i cittadini sotto la giurisdizione universale e a imporre sanzioni agli individui responsabili di crimini contro la comunità.

La pubblicazione del rapporto avviene in un momento in cui il regime al potere in Afghanistan è sottoposto a un rinnovato esame da parte degli organismi internazionali. A luglio di quest’anno, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto nei confronti di due alti dirigenti talebani per crimini contro l’umanità basati sul genere.

Tuttavia, il rapporto del New Lines Institute avverte che gli organismi internazionali sono rimasti in gran parte in silenzio sulla difficile situazione degli Hazara, nonostante migliaia di morti e feriti causati da attacchi mirati dal 2021. Gli autori sostengono che la CPI dovrebbe esaminare la persecuzione degli Hazara “in modo più ampio, e come crimini contro l’umanità, persecuzione religiosa ed etnica e crimine di genocidio”.

 

Afghanistan. Il CISDA al fianco delle famiglie del Kunar

CISDA, 6 settembre 2025

Nella notte tra il 31 agosto e il 1 settembre il terremoto è tornato a colpire l’Afghanistan nel territorio al confine con il Pakistan. Secondo l’ONU sono 6,8 milioni le persone che vivono nelle province colpite, tra cui 263.000 i bambini; i morti sono oltre 2205 e più di 3640 i feriti.
Le associazioni di donne afghane che il CISDA sostiene si sono immediatamente mobilitate per portare soccorso. Ci hanno rivolto un appello per chiedere il nostro sostegno.

APPELLO

Come saprete, un terremoto ha distrutto molti villaggi nelle province di Kunar e Nangarhar. Come al solito, vogliamo inviare le nostre squadre per aiutare le persone nelle zone colpite e perciò chiediamo fondi di emergenza per sostenere la popolazione.

La situazione attuale in Afghanistan è estremamente dolorosa e preoccupante. Le tragedie si susseguono, rendono la nostra gente ogni giorno più vulnerabile e riducono la loro speranza di vita.

Il terremoto nella provincia di Kunar ha causato la morte di migliaia di persone innocenti e ne ha lasciate molte altre ferite e senza casa. In molti sono ancora intrappolati sotto le macerie, bambini hanno perso la vita e donne rimangono bloccate sotto le rovine. Intere famiglie sono rimaste senza accesso a cibo, acqua e servizi medici.

Si tratta di una zona montuosa e difficile da raggiungere, il che rende estremamente problematica la distribuzione degli aiuti. La situazione è così critica che ogni ora di ritardo potrebbe significare la perdita di altre vite. Alcune persone hanno perso intere famiglie e non hanno ancora ricevuto alcun aiuto.

Hakeem Gul, uno dei sopravvissuti, ha dichiarato: “Desidero solamente morire perché ho perso tutta la mia famiglia e sono rimasto completamente solo. Non c’è nessuno che mi aiuti a seppellire i corpi dei miei cari”.

Il nostro team è attualmente sul campo e rileva una grave carenza di medicinali e beni di prima necessità, cibo e acqua potabile.

I bambini hanno urgente bisogno di pacchi alimentari e le donne hanno un disperato bisogno di kit igienici. Purtroppo, la mancanza di strutture mediche e farmaci ha già causato la morte di donne e bambini e, senza un’assistenza immediata, il numero delle vittime è destinato ad aumentare.

Anche la grave carenza di medici donne rappresenta una sfida importante, poiché i talebani non permettono ai medici uomini di curare le donne. Queste restrizioni hanno peggiorato ulteriormente la situazione, rendendo le condizioni di sopravvivenza a Kunar davvero orribili e inimmaginabili.

Uno dei nostri medici ha raccontato di come, una volta arrivati ​​nella zona, abbiano incontrato una donna che aveva visto morire i suoi quattro figli. Era in uno stato di shock così profondo da aver perso la ragione. L’assenza di personale medico femminile e le restrizioni imposte dai talebani, che impedivano ai medici uomini di assisterla, hanno peggiorato ulteriormente la situazione. Fortunatamente, appena raggiunta la zona, la nostra équipe è riuscita a somministrarle un sedativo per calmarla e alleviare la sua sofferenza.

Un altro caso riguarda una donna semisepolta sotto le macerie. I talebani insistevano sul fatto che “toccare una donna non-mahram è peccato” e che avrebbe dovuto uscire da sola, nonostante avesse entrambe le gambe rotte. Ma il nostro team è riuscito a salvarla e a trasferirla in ospedale.

Il nostro ginecologo ci ha riferito che diverse donne incinte avevano subito gravi emorragie, ma le strutture disponibili per curarle sono estremamente limitate, così abbiamo potuto fornire loro solo un soccorso di base e un minimo di supporto psicologico. Purtroppo, una delle donne è morta davanti ai nostri occhi per l’emorragia troppo estesa. È stato uno dei momenti più devastanti e strazianti per la nostra équipe, soprattutto per il medico curante, consapevole che con risorse minime quella vita avrebbe potuto essere salvata.

Le strade sono bloccate e ciò rende molto difficile raggiungere gli ospedali. La debole connessione di rete e la mancanza di una comunicazione adeguata con il team hanno ulteriormente rallentato la raccolta di resoconti accurati. Ciononostante continueremo a impegnarci per raccogliere altre storie e testimonianze, soprattutto sulla sofferenza delle donne, e condividerle con voi.

Il peso psicologico sul nostro team è stato immenso. Molti di loro erano in lacrime mentre raccontavano questi episodi. Abbiamo fatto del nostro meglio per sostenerli emotivamente e alleviare il peso di queste esperienze dolorose.

In questi giorni strazianti, con il cuore pesante, vi chiediamo sinceramente di starci accanto come avete fatto in passato, affinché insieme possiamo soddisfare almeno una piccola parte dei bisogni urgenti della popolazione sofferente di Kunar e curare anche solo con una piccola benda le loro profonde ferite.

Ogni vostro contributo può salvare una vita proprio in questo momento. Vi preghiamo, come sempre, di stare al fianco della popolazione sofferente dell’Afghanistan.

Ancora una volta, apprezziamo profondamente la vostra preoccupazione e solidarietà. Ci auguriamo vivamente che, attraverso una cooperazione continua, possiamo contribuire ad alleviare, anche di poco, la sofferenza di donne e bambini così vulnerabili.
In molti stanno chiedendo contributi. Anche i Talebani hanno chiesto il sostegno internazionale.

Per essere certi che i soldi arrivino nelle mani delle associazioni realmente vicine alla popolazione e siano utilizzati per sostenere i bisogni di donne, uomini e bambini vi invitiamo a donare a COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE ETS (C.I.S.D.A)

IT74Y0501801600000011136660 indicando “TERREMOTO” nella causale. Grazie

“Tutto ciò che mi è rimasto è questo tessuto”: i sopravvissuti al terremoto in Afghanistan aspettano ancora aiuto

Shams Rahman, Zan Times, 5 settembre 2025

Nelle case distrutte del villaggio di Wadeer, nella provincia afghana di Kunar, i sopravvissuti al devastante terremoto di domenica, che ha ucciso più di 2.200 persone, affermano di essere ancora in attesa degli aiuti più basilari: cibo e riparo.

Il terremoto di magnitudo 6.0, che ha colpito l’Afghanistan orientale verso mezzanotte, ha causato oltre 3.600 feriti, secondo i funzionari talebani. E in tutta la provincia di Kunar, oltre 5.700 case sono state distrutte. Il distretto di Nurgal, nella parte occidentale della provincia di Kunar, dove si trova il villaggio di Wadeer, è stato l’epicentro della devastazione, con 1.000 morti confermati e 2.500 feriti.

I talebani, che hanno preso il controllo del Paese nel 2021, hanno esortato enti di beneficenza, imprenditori e cittadini comuni a contribuire alla loro risposta. I portavoce talebani hanno diffuso online i numeri di conto bancario, con la promessa che le donazioni sarebbero state gestite con “trasparenza”.

Le difficoltà del soccorso

Un portavoce del governo talebano, Zabihullah Mujahid, afferma che le operazioni di soccorso continuano. Nelle zone irraggiungibili con gli elicotteri, sarebbero state paracadutate unità di commando per trasportare i feriti in salvo.

Ma sul campo, il divario tra annunci e azioni concrete si sta ampliando. Alcune squadre di soccorso volontarie hanno raggiunto il villaggio di Wadeer e sono state inviate unità sanitarie mobili, ma i residenti affermano che il supporto rimane insufficiente.

I danni alle strade causati dal terremoto e dalle recenti piogge hanno reso l’accesso ancora più difficile. In altri villaggi, alcuni sopravvissuti stanno ancora aspettando di estrarre i corpi dei loro cari dalle macerie.

“Abbiamo urgente bisogno di tende e cibo. Le persone hanno perso la casa; non hanno nemmeno i mezzi per cucinare. E abbiamo bisogno di più medici. Le équipe mediche sono troppo poche e le persone vengono ancora sepolte”, racconta al Guardian un anziano del villaggio di Wadeer.

“Siamo ancora seduti al sole perché non c’è una tenda”, dice una nonna di Wadeer, che è con i suoi due nipoti. “Se ci fosse una tenda, potrei almeno tenerli all’ombra”.

Racconta che sua nuora e suo marito sono stati portati in ospedale in elicottero, ma non ha idea di dove. Nessuno è tornato con informazioni o aiuti.

Lì vicino, un’altra donna che ha perso più di 30 parenti racconta: “Ho perso mio marito, i miei figli, i miei nipoti. Tutto. Mi è rimasto solo questo panno. Non ho nemmeno i soldi per comprare un paracetamolo”.

Le agenzie umanitarie hanno affermato che le donne sopravvissute al terremoto non possono accedere facilmente a soccorsi o supporto medico e che nelle province conservatrici come Kunar è difficile per una donna single chiedere aiuto a uomini non imparentati. L’autonomia e la libertà di movimento delle donne sono fortemente limitate dal regime talebano, incluso il divieto di parlare in pubblico.

Un solo ospedale funzionante

Nonostante sia uno dei distretti più colpiti, Nurgal ha un solo ospedale funzionante, che non riesce a gestire l’enorme numero di vittime. La maggior parte delle persone soccorse finora viene trasferita nella capitale afghana, Kabul, o nella vicina provincia di Nangarhar in elicottero per le cure.

Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà a intensificare gli sforzi di soccorso, non solo a causa della conformazione del territorio, ma anche a causa delle gravi carenze di finanziamenti, molte delle quali derivano dal crollo più ampio del sostegno dei donatori all’Afghanistan.

“La situazione sul campo è critica”, afferma il Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC). “Intere comunità hanno urgente bisogno di assistenza salvavita. Le risorse locali sono al limite e la mancanza di finanziamenti sta limitando la portata e la rapidità della risposta umanitaria”.

L’NRC afferma che le famiglie nella provincia di Kunar dormono in tende sovraffollate, alcune delle quali ospitano fino a 100 donne e bambini, senza accesso a servizi igienici o acqua pulita.

Da febbraio 2025, 422 centri sanitari in tutto l’Afghanistan hanno chiuso i battenti a seguito dei tagli agli aiuti statunitensi. Solo nell’Afghanistan orientale, 80 centri sanitari hanno chiuso i battenti, di cui almeno 15 a Kunar e 29 a Nangarhar, lasciando i sopravvissuti al terremoto ancora più vulnerabili.

L’NRC afferma che il suo portafoglio di finanziamenti è pari al 60% di quello del 2023, il che limita significativamente la sua capacità di rispondere alle crescenti esigenze umanitarie. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni delle Nazioni Unite, che aiuta gli sfollati in Afghanistan, afferma che i tagli ai finanziamenti di quest’anno hanno ridotto la capacità dei magazzini e la presenza dell’organizzazione sul campo, costringendo la maggior parte delle forniture a essere spedita da Kabul, il che aumenta ulteriormente i ritardi e i costi logistici.

Fondi stanziati, ma i soccorsi non arrivano

L’Organizzazione Mondiale della Sanità e altre agenzie hanno dispiegato kit sanitari di emergenza, team mobili e ambulanze aggiuntive nella regione. Eppure, per molti nelle aree remote, l’accesso alle cure rimane impossibile. Con le strade bloccate e il numero insufficiente di elicotteri, gli abitanti dei villaggi devono aspettare, sperando che arrivino i soccorsi.

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari afferma che 25 team inter agenzia hanno raggiunto alcuni distretti colpiti, ma ha ammesso che l’accesso alle valli più colpite rimane discontinuo e che le condizioni meteorologiche hanno ulteriormente ritardato i progressi.

Le Nazioni Unite hanno stanziato 10 milioni di dollari (7,4 milioni di sterline) in fondi di emergenza, 5 milioni dal Fondo Centrale di Risposta alle Emergenze e altri 5 milioni dal Fondo Umanitario per l’Afghanistan. Ma i responsabili degli aiuti umanitari affermano che si tratta di una frazione di quanto necessario.

Per ora, in villaggi come Wadeer, le persone siedono sotto brandelli di stoffa o teli di plastica, piangendo i loro morti e temendo ciò che accadrà in futuro.

Kreshma Fakhri e Freshta Ghani hanno contribuito al reportage.

Questo rapporto è stato pubblicato in collaborazione con il Guardian .

Dopo il terremoto, i bambini afghani affrontano una crisi nella crisi

I tagli agli aiuti hanno causato la chiusura delle cliniche e bloccato gli aiuti. Nessun bambino dovrebbe morire perché l’attenzione mondiale cala o i bilanci si riducono. I bambini afghani erano già vulnerabili alla fame, alle malattie, alla povertà e all’isolamento, e ora sono precipitati in un abisso ancora più profondo

Abdurahman Sharif, Al Jazeera, 3 settembre 2025

Un violento terremoto di magnitudo 6.0 ha devastato l’Afghanistan orientale questa settimana, radendo al suolo interi villaggi di montagna e distruggendo le fragili vite di migliaia di persone, in particolare bambini, che erano già alle prese con crescenti necessità umanitarie e tagli ai finanziamenti.

Questo terremoto, che ha colpito le province di Kunar e Nangarhar, ha già ucciso più di 1.400 persone e si prevede che il numero aumenterà, mentre le scosse di assestamento continuano a provocare devastazione. Migliaia di altre persone sono rimaste ferite, con interi villaggi rasi al suolo in zone remote e montuose dove le strade sono bloccate e le squadre di soccorso, tra cui il personale sanitario mobile di Save the Children, stanno lottando per raggiungere le persone in difficoltà.

I bambini sono in più colpiti

Ma non si tratta di un’altra catastrofe naturale: è una collisione di catastrofi per l’Afghanistan, dove quasi 23 milioni di persone, ovvero poco meno della metà della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria quest’anno. Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification, oltre 9 milioni di persone dovranno affrontare una grave insicurezza alimentare prima di ottobre. Almeno 2 milioni di persone sono state costrette a tornare in Afghanistan solo quest’anno da Iran e Pakistan. Il risultato è catastrofico, e sono i bambini a pagarne le conseguenze.

Tali disastri naturali richiedono una risposta umanitaria rapida e decisa. I bambini hanno bisogno di cure mediche immediate, acqua pulita, riparo e supporto psicosociale per riprendersi dal trauma. Eppure, queste operazioni essenziali sono limitate, ridotte dai tagli agli aiuti inflitti al sistema umanitario globale.

Quest’anno, i donatori internazionali hanno tagliato i budget per gli aiuti esteri. Queste decisioni sono arrivate esattamente nel momento sbagliato. Circa 126 programmi gestiti da Save the Children a livello globale sono stati chiusi a causa dei tagli agli aiuti a maggio, colpendo circa 10,3 milioni di persone. Si tratta di programmi che supportano milioni di bambini in zone di conflitto, campi profughi e aree a rischio di catastrofi.

In Afghanistan, questi tagli hanno comportato una riduzione del personale necessario per rispondere alle calamità naturali e a fronteggiare catastrofi come questo terremoto. Le cliniche mediche sono state chiuse, quindi ci sono meno strutture per curare i feriti, e le strutture sanitarie ancora aperte sono disperatamente sovraccariche, anche prima che si verificasse questo disastro. I servizi sanitari in Afghanistan non possono assorbire colpi come questo terremoto.

L’impatto dei tagli agli aiuti in Afghanistan è stato profondamente sentito da Save the Children. Save the Children ha perso i finanziamenti per 14 cliniche sanitarie nell’Afghanistan settentrionale e orientale, sebbene al momento utilizziamo finanziamenti alternativi a breve termine per mantenerle aperte. La perdita di queste cliniche significherebbe la perdita dell’accesso all’assistenza sanitaria nei loro villaggi per 13.000 bambini.

All’inizio di quest’anno, ho visitato la provincia di Nangarhar, ora devastata dal terribile terremoto, e ho incontrato bambini e le loro famiglie che lottano per sopravvivere. Ho visto interi centri sanitari gestiti dai nostri partner chiudere. Le famiglie mi hanno raccontato cosa significa: madri impossibilitate a partorire in sicurezza, bambini che non ricevono vaccinazioni essenziali e famiglie lasciate senza speranza.

La portata della crisi umanitaria in Afghanistan, aggravata dai tagli agli aiuti e ora combinata con uno scenario di risposta improvvisa come il terremoto afghano, crea una crisi nella crisi. Le agenzie umanitarie sono sotto pressione – o assenti – a causa dei licenziamenti del personale e della chiusura di programmi e uffici.

Questo terremoto dovrebbe essere un chiaro appello a reinvestire negli aiuti umanitari, rapidamente e generosamente. I governi donatori devono invertire la rotta, sbloccare i finanziamenti di emergenza e impegnarsi a finanziare a lungo termine i servizi per l’infanzia.

Senza finanziamenti immediati e duraturi, prevediamo un rapido peggioramento: bambini esposti a malattie trasmesse dall’acqua, famiglie costrette a strategie di adattamento negative come il lavoro minorile o il matrimonio precoce, e tassi crescenti di malnutrizione in un Paese in cui un bambino su cinque già prima del terremoto soffriva di fame acuta. Entro ottobre di quest’anno, si prevedeva che cinque milioni di bambini afghani – ovvero circa il 20% dei bambini in Afghanistan – avrebbero dovuto affrontare una fame acuta, con tagli ai finanziamenti che avrebbero ridotto del 40% la quantità di aiuti alimentari disponibili e 420 centri sanitari chiusi, impedendo l’accesso a tre milioni di persone. Anche prima dei tagli agli aiuti, 14 milioni di persone avevano un accesso limitato all’assistenza sanitaria.

Dobbiamo garantire che quando si verifica un disastro – che si tratti di un terremoto o di un conflitto – siamo in grado di reagire, e rapidamente. Dobbiamo garantire che i diritti dei bambini continuino a esistere, anche quando i bilanci vacillano.

Questa è una crisi che aggrava un’altra crisi. Stiamo assistendo al collasso dei sistemi di protezione dei bambini – sanitari, nutrizionali, educativi, psicosociali – proprio nel momento in cui sono più critici.

Nessun bambino dovrebbe morire perché l’attenzione mondiale cala o i bilanci si riducono. I bambini afghani erano già vulnerabili alla fame, alle malattie, alla povertà e all’isolamento, e ora sono precipitati in un abisso ancora più profondo.

(Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera)

Abdurahman Sharif è Direttore senior, Impatto del programma, Influenza e Affari umanitari per Save the Children.

 

Il capo delle NU sollecita maggiori aiuti per i sopravvissuti al terremoto in Afghanistan

Kabul Now, 2 settembre 2025

Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha sollecitato aiuti urgenti e maggiori per i sopravvissuti al devastante terremoto nell’Afghanistan orientale, avvertendo che le risorse esistenti sono “insufficienti per far fronte alle necessità”.

In una dichiarazione rilasciata dalla missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), il signor Guterres ha affermato che le Nazioni Unite non risparmieranno alcuno sforzo per aiutare le persone colpite, ma ha sottolineato che sono urgentemente necessari maggiori finanziamenti.

Ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime e ha augurato una pronta guarigione ai feriti. Ha inoltre confermato che sono stati stanziati 5 milioni di dollari dal Fondo Centrale di Risposta alle Emergenze (CERF) delle Nazioni Unite per fornire soccorsi immediati. Ulteriori 5 milioni di dollari dal Fondo Umanitario per l’Afghanistan sono stati stanziati per la risposta al terremoto, portando il contributo iniziale totale delle Nazioni Unite a 10 milioni di dollari.

“Le Nazioni Unite e i nostri partner in Afghanistan si stanno coordinando con le autorità de facto per valutare rapidamente le necessità, fornire assistenza di emergenza ed essere pronti a mobilitare ulteriore supporto”, ha affermato Guterres.

Il terremoto, di magnitudo 6,0, ha colpito nella tarda notte di domenica, colpendo le province di Kunar, Nangarhar, Laghman e Nuristan. L’impatto più grave è stato segnalato nella provincia di Kunar, in particolare nei distretti di Chhawkay, Nurgal, Chapa Dara, Dara-e-Pech, Watapur e Asadabad.

Secondo i dati dei talebani , almeno 1.411 persone sono state uccise e più di 3.100 ferite. Molti dei feriti rimangono in condizioni critiche, mentre gli ospedali devono far fronte a carenza di forniture, attrezzature e personale. Gli operatori umanitari affermano che le restrizioni all’occupazione femminile nel settore sanitario hanno ulteriormente complicato la risposta, lasciando le pazienti senza un adeguato accesso alle cure.

I funzionari delle Nazioni Unite stimano che oltre 12.000 persone siano state colpite direttamente, mentre oltre 5.400 case sono state distrutte nella sola provincia di Kunar. I villaggi nelle remote valli montane rimangono isolati dopo che le frane provocate dalle recenti piogge e le inondazioni hanno bloccato le strade, rendendo difficile per i convogli di aiuti raggiungere alcune delle zone più colpite.

Alcuni paesi hanno promesso un sostegno immediato. L‘Unione Europea ha annunciato un finanziamento di 1 milione di euro, mentre il Regno Unito si è impegnato a 1 milione di sterline. L’India ha inviato 21 tonnellate di forniture di emergenza, tra cui cibo, tende, medicinali e acqua.

Nonostante questi sforzi, le agenzie umanitarie affermano che l’attuale livello di supporto è ben lungi dall’essere sufficiente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha chiesto 3 milioni di dollari per fornire cure mediche urgenti. Il Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) ha richiesto 2 milioni di dollari per sostenere 25.000 persone nei prossimi sei mesi con cibo, alloggio e assistenza in denaro.

Il terremoto si verifica mentre l’Afghanistan sta affrontando una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, con oltre metà della popolazione già dipendente dagli aiuti dopo decenni di guerra, collasso economico e ripetuti disastri naturali.

Terremoto: non tutti si sono precipitati ad aiutare

Una risposta internazionale smorzata lascia i soccorritori di fronte a un compito difficile

Oliver Marsden, The Observer, 3 settembre 2025

Secondo la Mezzaluna Rossa afghana, il bilancio delle vittime del terremoto di domenica in Afghanistan ha superato quota 1.400.

E allora? I soccorritori e le famiglie sono alla disperata ricerca di sopravvissuti. Il terremoto ha distrutto case e villaggi vicino alla città di Jalalabad, nell’Afghanistan orientale, ed è stato avvertito a 145 chilometri di distanza, nella capitale Kabul.

  • ha innescato un’urgente operazione di soccorso;
  • ha peggiorato una situazione umanitaria già disastrosa; e
  • ha sollevato interrogativi su chi sia disposto a rispondere alla richiesta di aiuto dei talebani.

Zona disastrata. Il terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito l’Afghanistan domenica sera. L’epicentro è stato registrato nei pressi di Jalalabad, città di 200.000 abitanti e capoluogo della provincia di Nangarhar, al confine con il Pakistan. Il territorio è montuoso e le infrastrutture sono carenti.

Non sono preparati ad affrontare la situazione. Interi villaggi sono stati spazzati via; molte delle case distrutte erano costruite con fango e mattoni su terreni in pendenza. Le scosse hanno causato frane che hanno coperto le strade utilizzate dalle squadre di soccorso.

Né di essere aiutati. In luoghi remoti, accessibili solo a piedi, le ambulanze non riescono a raggiungere chi ne ha bisogno. Sono arrivati ​​gli elicotteri, ma i talebani non hanno le risorse per sostenere il numero di feriti e sfollati. Il dottor Farid Homayoun dell’Halo Trust ha dichiarato al The Observer che la situazione è “davvero sconvolgente”.

Scossa di assestamento. Il disastro arriva in un momento difficile nelle relazioni tra l’Afghanistan e il suo vicino. Il Pakistan ha espulso 900.000 afghani dal 2023. Molti erano in possesso di certificati di residenza delle Nazioni Unite per il Pakistan o di carte di cittadinanza afghana rilasciate dal governo di Islamabad. Pochi hanno mai vissuto in Afghanistan.

In attesa di risposte. Tra sanzioni, siccità e ora un terremoto, Kabul è sopraffatta dall’afflusso. Non è ancora chiaro se Islamabad sospenderà le espulsioni.

Tensioni. Il Pakistan ha accusato i talebani di aver dato rifugio ai militanti del Tehreek-e-Taliban Pakistan, che organizza regolarmente attacchi nel Paese. I funzionari talebani, a loro volta, hanno affermato la scorsa settimana che Islamabad aveva lanciato attacchi con droni oltre confine.

Eppure, il Pakistan ha offerto aiuti dopo il terremoto. Camion di rifornimenti sono entrati in Afghanistan a Torkham, mentre il primo ministro, Shehbaz Sharif, ha espresso “sentite condoglianze” alle famiglie in lutto e ha promesso solidarietà ai cittadini afghani. Il ministro degli Interni talebano, Sirjuddin Haqqani, ha ricambiato le condoglianze al Pakistan per le recenti inondazioni.

Altrove, i talebani hanno chiesto ulteriore aiuto internazionale. La Gran Bretagna ha stanziato 1 milione di sterline per sostenere l’ONU e la Croce Rossa nella fornitura di assistenza sanitaria e forniture di emergenza all’Afghanistan, ma dalla caduta di Kabul il Paese è stato in gran parte abbandonato a se stesso.

Non cooperare. Le sanzioni occidentali, imposte quando i talebani presero il potere, avevano lo scopo di ottenere concessioni sui diritti e le libertà delle donne. Invece, il regime ha raddoppiato gli sforzi, vietando alle ragazze di andare a scuola e reintroducendo la fustigazione e la lapidazione in pubblico.

Aiuti in calo. Molte ONG internazionali si sono ritirate dall’Afghanistan, non volendo operare sotto le restrizioni imposte dai talebani. Jan Egeland, a capo del Consiglio norvegese per i rifugiati, ha affermato che “non ci sono finanziamenti reali” per sostenere gli sforzi di soccorso in Afghanistan.

Riduzione dei fondi. Il Ministero degli Esteri, del Commonwealth e dello Sviluppo britannico ha tagliato il bilancio per l’Afghanistan da 286 milioni di sterline a 151 milioni di sterline, secondo la Commissione Indipendente per l’Impatto degli Aiuti. Gli Stati Uniti sono andati oltre, cancellando oltre 1,2 miliardi di sterline di contratti a sostegno di programmi in tutto il Paese.

Chissà… le dichiarazioni ufficiali negli Stati Uniti si sono limitate a semplici espressioni di solidarietà. L’ufficio del Dipartimento di Stato per la regione ha dichiarato di aver espresso le sue “sentite condoglianze al popolo afghano in questo momento difficile”, ma non ha dato alcuna indicazione di nuovi aiuti.