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Autore: CisdaETS

A Uruzgan, le donne affermano che l’accesso alla salute è crollato a causa della chiusura delle cliniche

amu.tv Sharif Amiry 27 ottobre 2025

Le donne della provincia di Uruzgan affermano di essere rimaste senza accesso all’assistenza sanitaria o a un medico donna, mentre la povertà aumenta e il sostegno internazionale svanisce in una delle regioni più svantaggiate dell’Afghanistan.

Diverse donne hanno raccontato ad Amu di non avere accesso nemmeno ai farmaci di base, nonostante i bisogni urgenti. Molte affermano che la chiusura dei centri sanitari supportati dalle Nazioni Unite nell’ultimo anno ha peggiorato ulteriormente una situazione già disastrosa.

Zargul, una residente locale, ha condiviso le ricette mediche che le sono state preparate più di un anno fa da team medici supportati dagli aiuti umanitari, ricette che non è ancora riuscita a recapitare. “Ora non ci sono cliniche operative vicino a noi”, ha detto. “Se qualcuno in casa nostra si ammala, andiamo dalle vicine per chiedere aiuto e medicine”.

Altri hanno condiviso le sue preoccupazioni, affermando che l’aumento dei prezzi e la mancanza di servizi hanno reso l’assistenza medica fuori portata.

“Da anni ormai nessuno ci cura e nessuno ci dà medicine”, racconta Zareena, un’altra donna di Uruzgan. “La nostra situazione economica è pessima e non possiamo permetterci le cure”.

“Non ci sono dottori né ostetriche”, ha detto Sahra Gul, un’altra residente. “Tutti i nostri bambini si ammalano e non possiamo curarli”.

Le restrizioni imposte dai talebani all’occupazione femminile nel settore sanitario, unite al ritiro di numerose agenzie internazionali, hanno ulteriormente messo a dura prova un’infrastruttura sanitaria rurale in rovina.

Nell’Uruzgan, una delle province più conservatrici e remote dell’Afghanistan, l’accesso all’assistenza sanitaria per le donne era già fragile. Spesso le donne facevano affidamento su cliniche mobili o strutture finanziate dall’estero, gestite da operatrici sanitarie, molte delle quali non sono più operative.

Le donne che hanno parlato con Amu hanno detto di sopravvivere filando la lana e tessendo fili per tappeti, lavori che richiedono molta manodopera e che generano scarsi guadagni. “Anche questo ci aiuta a malapena a sopravvivere”, ha detto una donna.

Le organizzazioni umanitarie hanno ripetutamente denunciato che le donne delle zone rurali afghane si trovano ad affrontare una crisi a cascata di salute, difficoltà economiche e mancanza di servizi. Con le cliniche chiuse, gli operatori sanitari limitati e le fonti di reddito limitate, le donne dell’Uruzgan affermano di essere state lasciate quasi completamente sole.

Per la nuova Siria le donne sono una minaccia

ilmanifesto.it Lorenzo Trombetta 27 ottobre 2025

Per ogni regime fondamentalista il nemico principale sono le donne.

Senza democrazia. Escluse dai processi di transizione, marginalizzate e intimidite alle elezioni. L’«inclusione» è un termine buono solo per i donatori stranieri

DAMASCO
Le donne sono state mandate a casa presto. Solo gli uomini sono rimasti fino a tarda notte a contare le schede della sezione elettorale di Aleppo in occasione delle elezioni legislative siriane, le prime dal cambio di potere avvenuto dieci mesi fa. Nel nuovo parlamento per ora figurano solo sei donne.
Non si è trattato di elezioni dirette, bensì di una selezione di deputati, avvenuta a più fasi e cominciata questa estate, gestita in toto dai nuovi signori di Damasco. Dei 210 deputati totali, 121 sono stati scelti in base a un meccanismo articolato in commissioni centrali e locali fortemente controllate dalla presidenza. Dovevano essere 140 (i due terzi) ma all’appello mancano i 21 deputati assegnati per le regioni del nord-est (Hasake e Qamishlo) e del sud-ovest (Sweida) escluse dal processo elettorale. La presidenza si è riservata il diritto di nominare direttamente i restanti 70 deputati, il cosiddetto terzo di garanzia, che permette al raìs Ahmad Sharaa di controllare formalmente l’organo legislativo. C’è da rivoluzionare la Siria. A cominciare dalle sue leggi. Senza che la thawra – la rivoluzione – sia ostacolata da inutili impacci. Come le donne.

TRA I CIRCA 1.500 candidati solo il 14% erano donne. Le uniche sei deputate rappresentano poco meno del 5% dei 121 onorevoli, scelti da un manipolo di seimila delegati elettorali (rispetto a 18 milioni di aventi diritto al voto). Lontani dal 30% di «quota rosa» chiesto a gran voce dalle varie piattaforme della società civile siriana negli incontri di luglio con la Suprema commissione elettorale.
Ma non è solo una questione di numeri. Il vizio di questo processo pseudo-elettorale risiede nel fatto che non è stato affatto inclusivo e partecipativo. Così come non sono state inclusive e partecipative le altre due principali iniziative intraprese dal governo dall’inizio dell’anno fino a oggi: il «dialogo nazionale» e la sua conferenza-photo opportunity di febbraio; l’annuncio a marzo della nuova costituzione.
«INCLUSIVO» e «partecipativo» sono due aggettivi che possono risultare vuoti e buoni solo agli slogan dei donatori stranieri. In realtà qui risiede il cuore del problema: l’elaborazione della nuova legge elettorale per il parlamento richiedeva un lavoro paziente e collettivo, non dettato dalla fretta predatoria di metter le mani su una istituzione formalmente democratica ma da usare in un’ottica autoritaria.
Questo processo avrebbe dovuto coinvolgere nelle varie località quei gruppi della società civile che da anni lavorano per una pace sostenibile e non violenta, basata sulla condivisione trasparente della gestione delle risorse e della distribuzione dei servizi e sulla ricomposizione delle fratture causate dalla dittatura e la guerra. In ogni cittadina e villaggio siriano ci sono donne, ben conosciute a chi lavora sul terreno e che da tempo sono impegnate in questi ambiti civili di riconciliazione e rinascita.
QUANDO ALCUNE di queste attiviste hanno provato a proporsi come candidate in almeno tre località sono state, con pressioni più o meno esplicite, invitate a farsi da parte. Ed è un fatto che il processo di scrittura della legge elettorale per il rinnovo del parlamento ha seguito un canovaccio solipsistico, totalmente pilotato dalla nuova classe al potere.
DOPO ESSERE stata nominata dal presidente, la Suprema commissione elettorale, formata da otto uomini e due donne, ha cominciato i suoi lavori a fine giugno, avviando una sequenza di scelta dei membri delle commissioni locali e quindi dei delegati chiamati a eleggere i 140 deputati. In questo processo la commissione ha coinvolto quasi esclusivamente ambienti maschili.
Come hanno raccontato gli stessi membri della Commissione, sono state ascoltate due categorie di cittadini: le autorità locali, dai governatori ai direttori provinciali dei ministeri; i notabili locali, dai leader religiosi e civili agli imprenditori e ai faccendieri. Trovare una donna è stato davvero difficile. Foto e filmati di queste riunioni raccontano di uno schiacciante dominio maschile.
LA STESSA COMMISSIONE non ha mai fatto riferimento a incontri con esponenti di organizzazioni nazionali e locali della società civile, note per aver elaborato proposte e progetti per promuovere pari opportunità e diritti di genere. Questi gruppi non sono mai stati ben visti dal potere centrale. E non lo sono certo oggi. Nel 2022, più di due anni prima della caduta del regime degli Assad, diverse associazioni femministe erano state prese di mira da una campagna mediatica alimentata da gruppi religiosi, espressione di poteri maschilisti e patriarcali, che accusavano le organizzazioni femministe di «adescare le nostre ragazze con iniziative accattivanti ma piene di veleno in nome di quella che chiamano liberazione della donna… una minaccia più pericolosa di una battaglia armata».
La campagna di tre anni fa è stata solo la punta dell’iceberg di una quotidianità fatta di naturali e sistematiche esclusioni. Nonostante ciò, prima e durante la guerra, le siriane hanno ampiamente tentato di partecipare alla vita pubblica, in presenza e in assenza degli uomini: non solo per reclamare la liberazione di mariti e figli nelle carceri di Asad o in quelle delle milizie oggi al potere; e non solo per tenere in piedi un’intera famiglia dentro la disperazione di un campo profughi senza il capofamiglia scomparso in guerra o affogato nel Mediterraneo. Ma anche per rivendicare, giorno dopo giorno, con un’azione spesso non intercettata dai grandi media, il rispetto dei diritti civili e politici di tutte le siriane e i siriani.
Le comunità druse nel sud-ovest e le curde nel nord-est – le regioni escluse dalle «elezioni» del 5 ottobre – sono state quelle che hanno mostrato un attivismo femminile più marcato rispetto ad altre regioni siriane. Sebbene la loro esclusione dal processo elettorale non appaia legata direttamente alla questione femminile, i calcoli politico-militari di Damasco per non coinvolgere i drusi e i curdi hanno a che fare, in fin dei conti, anche con l’atteggiamento più pugnace e meno restio a subire l’autorità maschile e patriarcale da parte di numerose attiviste di queste due comunità.
A CHI AFFERMA che bisogna dare tempo ai nuovi governanti siriani, c’è chi risponde: «per incoraggiarti a comprare un vestito stretto il negoziante ti dice che l’abito col tempo si allarga». Nel caso della partecipazione femminile, l’impressione è che col tempo lo spazio di libertà si restringerà ancora di più.

Lorenzo Trombetta
Per 25 anni corrispondente ANSA e LiMes per il Medio Oriente da Beirut, autore di monografie sulla Siria contemporanea. Arabista, con un dottorato alla Sorbona in Studi Islamici, insegna Storia del Mondo Islamico all’università

L’intervista «Costretta all’esilio, credo in un futuro per Kabul»

Corriere del Ticino, 24 ottobre 2025, di Giacomo Butti

Kubra Khademi*, artista originaria di Kabul, ha vissuto sulla sua pelle la degradante realtà della condizione femminile in Afghanistan. Una vita priva di diritti e dettata dalle violenze, anche nel periodo della Repubblica islamica filo-occidentale e prima del ritorno dei talebani. Nel mese di ottobre, Khademi ha partecipato al Festival internazionale del Teatro e della scena contemporanea (FIT) con la sua One’s own room Inside Kabul, un’esibizione ideata insieme alla giornalista belga Caroline Gillet e artisti anonimi di Kabul. Adornata con cuscini tradizionali, la camera ricostruita da Khademi al LAC ha permesso agli spettatori di compiere un viaggio visivo e sonoro nella fragile quotidianità delle donne afghane.

Con Kubra Khademi abbiamo parlato del suo percorso artistico in una società profondamente patriarcale, fra arte e diritti.

La guerra civile, il primo dominio talebano, l’arrivo degli statunitensi. Da ragazzina ha vissuto in prima persona, sulla sua pelle, gli anni più significativi della storia recente afghana.
«Ai tempi del primo regime talebano era una bambina. Allora, la mia famiglia scappò dall’Afghanistan: ci rifugiammo in Pakistan. Allora dal nostro Paese arrivavano notizie terrificanti che facevano capire come l’Afghanistan non avesse più futuro sotto il controllo dei talebani. Il loro unico linguaggio era il terrorismo. Ma quando non si ha nulla, è più facile sognare in grande: ero una ragazza ambiziosa e come milioni di altre sognavo un Paese costruito da noi stesse. Ero molto brava a disegnare e già mi definivo un’artista».

Poi, nel 2001, l’intervento americano.
«L’arrivo degli statunitensi – promosso con due slogan, combattere il terrorismo e dare diritti alle donne – rappresentò per me una grande promessa, una speranza di salvezza. Con il ritiro dei talebani e la riapertura delle scuole, milioni di persone fecero ritorno in Afghanistan, compresa la mia famiglia. Per noi appartenenti all’etnia hazara – particolarmente perseguitata – tutto ciò significava cominciare a vivere per davvero. Le donne uscivano a lavorare e senza burqa, e di anno in anno aumentava il numero di ragazze che, provenienti da diverse province, studiavano a Kabul. L’età media al momento del matrimonio cresceva molto velocemente perché le donne, improvvisamente, avevano più possibilità e libertà, invece di essere costrette, giovanissime, a sposarsi. Nel 2008, quando entrai alla Facoltà di belle arti, nella mia classe le donne erano più numerose degli uomini. Era qualcosa di incredibile».

Vivere sotto il controllo americano le ha permesso di studiare arte, ma evidentemente non c’era ancora una libertà totale: lo dimostra il fatto che lei è stato costretto a lasciare l’Afghanistan dopo “Armor”.
«Sì, la società afghana era ed è profondamente patriarcale, indipendentemente dalla dottrina di terrorismo del regime talebano, che minaccia anche gli uomini non talebani. La reazione alla mia performance “Armor” ne è la prova. Ai tempi della mia esibizione ero consapevole dell’esistenza di questa società patriarcale – l’avevo combattuta anche all’interno della mia stessa famiglia, per il diritto a studiare, o a non sposarmi – ma non immaginavo che “Armor” avrebbe scatenato una reazione di tale forza, che la mia vita sarebbe stata minacciata».

Se l’avesse saputo, lo avrebbe fatto lo stesso?
«Per me tutto ciò rappresenta un grosso trauma. Non solo il fatto di aver avuto migliaia di persone che aspettavano fuori casa l’onore di uccidermi, ma anche le altre forme di violenza subite, come l’odio ricevuto dai miei amici – anche i più stretti, che sapevano quanto fossi femminista – che mi hanno ripudiata, che dicevano, a chi chiedeva di me, di non conoscermi. È difficile ora, trovare le parole. Come artista non mi sono mai pentita di aver realizzato uno dei miei lavori. Non c’è nessun rimpianto nel fare arte (fa una pausa, ndr). Non mi pento di “Armor”. Non sono l’unica artista al mondo ad essere stata minacciata di morte e come molti, prima di fare arte, non calcolo il grado di libertà di cui godrò. Uso molto del mio vissuto nel mio lavoro, ma non si tratta mai di una decisione. Non mi sveglio la mattina pensando “oggi userò i ricordi delle molestie sessuali subite”. Esperienze e temi sociali che circondano l’artista si riflettono nell’arte e connettono altre persone attraverso il soggetto. “Armor” mi ha connesso a persecutori e vittime. C’era chi era arrabbiato e pensava che stessi toccando un argomento tabù, e chi – assistendo in silenzio alla performance – vedeva qualcosa che conoscevano. “Armor” spiega come, allora, la società afghana stesse evolvendo rapidamente: non ero un prodotto esterno, avevo 26 anni e venivo dalla stessa società patriarcale, ma alzavo la testa esprimendo la mia visione artistica. Patriarcato e resistenza insieme».

Ora conosce bene anche arte e società europee. Quali riflessi di questo Afghanistan – così avverso alle donne – vede nel nostro continente?
«Anche in Europa alcune mie opere e performance hanno scatenato forti reazioni. Anche qui, la censura è stata usata contro di me. Qui non possono uccidermi, ma possono chiudermi la bocca. Negli ultimi dieci anni mi è successo in diversi casi e ogni volta è una sorpresa».

Come ha vissuto, da lontano, la caduta di Kabul nel 2021? La sua arte è cambiata in base a questi eventi contemporanei?
«Il 2021 è stato un periodo molto, molto duro. Nel 2015 sono fuggita dal mio Paese perché sono stata costretta a farlo, un dolore che non dimenticherò mai. Ma ora si tratta di milioni di vite in pericolo. Milioni di persone, ragazze e donne, che non possono esprimersi. Non riesco a trovare le parole per descrivere quanto sia stato devastante. Sì, in qualche modo tutto ciò si è riflesso anche nel mio lavoro. Ad esempio in Parliament Scene. Il parlamento è il luogo dove si costruisce la Costituzione e dove la dignità di ogni essere umano è considerata e protetta. Per questo ho immaginato il parlamento afghano occupato, conquistato da un’orgia di donne, e che la libertà, così preziosa, si respiri nell’aria, celebrata nell’amore reciproco, nel dare piacere l’una all’altra. Non posso compararmi con chi sta vivendo lì, ma – anche dall’esterno – ciò che sta accadendo in Afghanistan è doloroso. Ma non solo. Vedo anche una disperata resistenza, in ogni angolo di Kabul, nelle scuole illegali che si nascondono in ogni strada. La speranza che un giorno si concretizzi una rivoluzione mi tiene viva e mi spinge a continuare. Un giorno accadrà».

*Kubra Khademi, nata nel 1989 in Afghanistan, è un’artista, performer e femminista hazara. Il suo lavoro esplora temi legati all’esilio, all’identità e alla condizione femminile. Ha studiato belle arti all’Università di Kabul e successivamente alla Beaconhouse University di Lahore (Pakistan), dove ha iniziato a creare performance pubbliche. Nel 2015, Khademi si è esibita nella performance “Armor”, durante la quale ha camminato lungo le strade di Kabul vestendo un tradizionale hijab e un’armatura metallica che al contempo proteggeva e metteva in risalto le forme femminili. Il progetto, che si ispirava alle esperienze personali di Khademi in materia di molestie sessuali, ha portato tuttavia all’emissione di una “fatwa” nei confronti dell’artista, e a conseguenti minacce di morte. Khademi è stata costretta a fuggire dal suo Paese, trovando rifugio in Francia. Residente a Parigi, ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali una borsa MFA al Pantheon e il titolo onorifico di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres.

Il filmato Armor

 

L’Europa accelera sui rimpatri

Dieci anni di rafforzamenti di confini ed esternalizzazione delle frontiere. Occhi chiusi su diritti e morti lungo le rotte migratorie

Nigrizia, 23 ottobre 2025, di Jessica Cugini

In attesa di un’ulteriore stretta con l’entrata in vigore del Patto su migrazione e asilo, la presidente della Commissione Von der Leyen invita i 27 paesi membri ad accelerare i rimpatri e a stringere accordi bilaterali per deportazioni in stati extra UE. Intanto 20 nazioni, Italia compresa, firmano un accordo congiunto in cui chiedono di velocizzare le pratiche di trasferimento dei migranti, siano esse volontarie o forzate

Sono oramai dieci anni che assistiamo a un crescendo di rafforzamenti dei confini ed esternalizzazione delle frontiere europee verso paesi africani e non solo. L’ultimo in ordine di tempo è quello dei Paesi Bassi con l’Uganda, ma in Italia abbiamo un esempio a chilometro zero che ha appena compiuto un anno, quello del patto con l’Albania.

Oramai pare sia questo l’inarrestabile orientamento delle politiche migratorie, dall’America trumpiana all’Europa di Von der Leyen, che scrive di suo pugno una lettera ai 27 paesi membri esortandoli ad accelerare nei rimpatri e accordi bilaterali con stati extra UE.

Libia compresa, sia governo di Tripoli che Bengasi, ricevuti dalla Commissione con l’obiettivo di fornire loro sostegno operativo, come fa l’Italia con il rinnovo del Memorandum, chiudendo entrambi gli occhi del diritto su traffici, torture, stupri e deportazioni.

D’altra parte, afferma la presidente della Commissione, la Libia continua a essere il principale punto di partenza delle rotte del Mediterraneo centrale e orientale, e il fatto che diminuiscano i transiti lungo le frontiere terrestri e marittime significa che le politiche migratorie europee funzionano da deterrente.

E, anche in questo caso, occhi chiusi sul fatto che il numero dei morti e dispersi nelle rotte non diminuisce. Notizia di oggi, il naufragio che ha visto morire 40 persone migranti subsahariane, in una imbarcazione che si è capovolta al largo della costa di Salakta, nel governatorato di Mahdia, in Tunisia. Tra i morti, raccontano le 30 persone sopravvissute, diversi neonati.

Un tratto di mare, quello del Mediterraneo centrale dove, dal 2014 a oggi, si contano, in numeri che sono sempre provvisori e in difetto, almeno 32.803 persone morte o disperse, secondo quanto riferito dai dati diffusi dall’OIM, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

A quale prezzo?

Le politiche, stando a quanto dice Von der Leyen, funzionano e quale sia il caro prezzo che si paga in violazioni dei diritti e perdite di vite umane pare non sia importante. Un esempio eloquente si declina nella decisione di implementare i rimpatri delle persone afghane respinte in Europa.

È finita la commozione provata nel 2021, quando si vedevano le immagini di bambini sollevati oltre i fili spinati degli aeroporti, affinché scampassero al regime talebano che si reinsediava. Finite le manifestazioni a sostegno delle donne rinchiuse nei burqa, delle bambine e ragazze che non avrebbero più potuto andare a scuola.

Sono diversi gli stati membri che negoziano con Kabul per i rimpatri. In 20, Italia compresa, hanno firmato un accordo congiunto in cui si chiede di accelerare le pratiche di trasferimento, siano esse volontarie o forzate. Nella lettera i ministri europei richiedono “il rimpatrio ordinato, dignitoso e sicuro” delle persone afghane che si trovano nel nostro continente “senza motivi legali per rimanere”.

Una richiesta, questa di costoro, che nasce da una evidenza: “Nel 2024, 22.870 afghani hanno ricevuto nell’UE una decisione di rimpatrio, ma solo 435 sono tornati nel loro paese di origine, con un tasso di appena il 2%”. Da qui l’appello per un ruolo rafforzato dell’agenzia Frontex: “L’organizzazione del rimpatrio volontario e forzato in Afghanistan – scrivono – è una sfida europea condivisa che richiede una risposta coerente e collettiva”.

Una politica coerente e collettiva

Coerente e collettiva negli anni, questa politica migratoria europea che continua a perpetrare un approccio securitario e deterrente e che, come è stato detto durante la conferenza internazionale “Cartografia della deresponsabilizzazione” promossa da ASGI a fine settembre, con il nuovo Patto su migrazione e asilo che entrerà in vigore entro giugno 2026, vedrà l’Europa passare da “Unione fortezza a Unione prigione”.

Viste le procedure accelerate alle frontiere che lederanno il diritto a presentare domande di protezione e asilo, gli screening di identificazione spesso sperimentali, cui verranno sottoposte tutte le persone migranti a partire dai 6 anni, e il rafforzamento dei rimpatri.

Uno strumento, il Patto, che limiterà fortemente tanto il diritto alla libertà di movimento, sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, quanto il diritto di asilo, riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Forte degli accordi stretti con paesi terzi, la cui nozione di “sicurezza” sarà porosa, vista la necessità di raggiungere il primario obiettivo dei rimpatri.

Ma quanti sono i rimpatri?

Nel secondo trimestre del 2025 in tutta Europa sono stati effettuati 28.355 rimpatri a fronte di 116.495 fogli di via emessi. Con un lieve aumento rispetto al 2024: gli ordini di rimpatrio sono cresciuti del 3,6%, e il numero di rimpatri effettivi del 12,7. Di fatto però il bilancio continua a essere negativo, se negli ultimi due anni avveniva un rimpatrio ogni 5 ordini, ora è uno ogni 4.

Stando a quanto diffuso da Eurostat, il paese europeo con più difficoltà è la Francia dove in tre mesi sono stati emessi 34.760 ordini di rimpatrio con effettivi 3.685 rimpatri. A seguire, per provvedimenti di obbligo di allontanamento, ci sono Spagna (14.545) e Germania (14.095). Mentre per numero di rimpatri effettivamente eseguiti, dopo la Francia vengono la Germania (3.445) e la Svezia (2.865).

Quest’ultima, che ha rimpatriato il 65% di coloro a cui è stato notificato il rimpatrio, sta portando avanti dallo scorso anno una politica che studia un incentivo finanziario significativo per chi aderisce al programma dei rimpatri volontari. L’offerta in danaro si spinge fino a circa 30mila euro.

Dalle ricette fai da te a quelle collettive. Non a caso stamattina, a margine del Consiglio europeo, c’è stata una riunione informale tra Italia, Danimarca, Paesi Bassi cui hanno preso parte Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Germania, Grecia, Lettonia, Malta, Polonia e Svezia, per allinearsi sulle soluzioni comuni in ambito migratorio.

Austria. Il primo rimpatrio verso Kabul: ordine pubblico o corto circuito europeo?

Notizie Geopolitiche, 23 ottobre 2025, di Giuseppe Gagliano

Dopo la Germania, Vienna ha deportato un cittadino afghano condannato per reati gravi: è la prima volta dal ritorno dei Talebani nel 2021. Il cancelliere Christian Stocker rivendica “tolleranza zero” e annuncia altri casi. Il segnale è chiaro: l’esecutivo vuole riappropriarsi dell’agenda sulla sicurezza, sottraendo terreno all’estrema destra dell’FPO. Ma il messaggio travalica i confini austriaci: in gioco ci sono precedenti legali, linee comuni UE e rapporti pragmatici con Kabul.
Il principio di non respingimento impone di non rimandare persone verso Paesi dove rischiano persecuzioni o trattamenti inumani. L’Afghanistan talebano resta ad alto rischio, dicono ONG e Nazioni Unite. Vienna risponde che si tratta di condannati per reati e quindi “non più titolari del diritto a restare”. La frattura sta qui: sicurezza vs garanzie fondamentali. Il riferimento tedesco – contatti tecnici con le autorità de facto per facilitare i voli e la gestione documentale – apre un fronte delicatissimo: per riprendere i rimpatri si legittima, di fatto, un’interlocuzione con chi non si riconosce. Un ossimoro diplomatico che molti governi sono pronti a tollerare pur di mostrare fermezza.
Sul piano interno, la mossa serve a congelare la narrativa dell’FPO: “solo noi sappiamo essere duri”. Il governo OVP punta a dimostrare che la macchina statale può espellere chi ha commesso reati, riducendo la pressione mediatica su crimini a forte impatto emotivo. È deterrenza amministrativa: rendere credibile la minaccia di rimpatrio per alzare il costo dell’irregolarità. Ma la deterrenza, per funzionare, ha bisogno di volumi, non di simboli: se i casi restano pochi, l’effetto politico si sgonfia; se aumentano, cresce il rischio di contenziosi e di contraccolpi reputazionali.
Diciannove ministri dell’Interno hanno sollecitato Bruxelles a consentire rimpatri volontari o forzati verso l’Afghanistan. La Germania ha già riaperto il canale con voli per condannati, mediati inizialmente dal Qatar e poi con contatti diretti; Belgio e Austria guardano a Berlino come modello. Si profila una “coalizione dei rimpatri” dentro l’UE, con il rischio di una spaccatura politica fra Stati che privilegiano la sicurezza e Stati che difendono rigidamente il non-refoulement. Se il blocco “securitario” cresce, la Commissione dovrà scegliere se codificare prassi già in corso (normalizzando i contatti con Kabul) o se frenare, accettando lo scontro con diversi governi.
I Talebani possono capitalizzare l’apertura europea per ottenere riconoscimento implicito, accesso consolare e leve negoziali (visti, liste di deportati, cooperazione di polizia). In cambio, promettono collaborazione sui rimpatri e sulla sicurezza. È una moneta politica spendibile anche sul mercato regionale: più canali con l’Europa significano più legittimità con attori mediorientali e asiatici. Sul piano geoeconomico, la gestione dei flussi e dei documenti (biometrie, archivi consolari) è un asset: chi controlla i dati controlla le persone. Qui si addensano i maggiori timori dei difensori dei diritti.
Due criticità emergono. Primo: filtrare davvero solo i condannati senza trascinare nel meccanismo persone vulnerabili o richiedenti protezione con posizioni non ancora definite. Secondo: blindare il ciclo informativo. L’ingresso di funzionari talebani nelle sedi consolari europee solleva il tema dell’accesso a dati sensibili di diaspora e dissidenti. Qualsiasi fuga informativa può tradursi in ritorsioni familiari in Afghanistan. Senza un perimetro cibernetico e archivistico robusto, il danno reputazionale per i governi europei è dietro l’angolo.
Nel breve periodo Vienna incassa un dividendo politico: fermezza, controllo, “caso pilota”. Nel medio, l’Austria sarà giudicata sulla capacità di:
sostenere operativamente i rimpatri senza violare il non-refoulement,
coordinarsi in modo coerente con partner UE per evitare forum shopping dei casi,
reggere la pressione giudiziaria e mediatica qualora emergano abusi o errori.
Se la prassi si consolida, cambierà la postura europea sull’Afghanistan: meno tabù diplomatici, più condizionalità tecniche. È la realpolitik dei confini difficili: si parla con chi c’è, non con chi si vorrebbe. Ma ogni passo va pesato: l’equilibrio fra sicurezza e diritti non ammette scorciatoie.

Afghanistan, i talebani calpestano la libertà dei media, i giornalisti sono arrestati e torturati

La Repubblica, Mondo Solidale, 23 ottobre 2025

NEW YORK – “I talebani hanno letteralmente sbranato i media afghani, da quando hanno preso il controllo del Paese nell’agosto 2021”. Lo sottolinea un documento diffuso oggi da Human Rights Watch. “Hanno sottoposto le testate giornalistiche rimaste in vita a sorveglianza e censura e punito giornalisti e altri operatori dei media per qualsiasi critica percepita”.

I giornalisti in esilio rischiano di essere rimpatriati a forza e subire ritorsioni. I giornalisti afghani in esilio fuggiti dalle persecuzioni dei talebani devono ora affrontare continue minacce di rimpatrio forzato nel loro Paese, dove temono ritorsioni. La libertà dei media è diminuita in tutto l’Afghanistan negli ultimi quattro anni sotto il dominio dei talebani. Le agenzie di stampa riferiscono che l’agenzia di intelligence dei talebani monitora tutti i contenuti e la “polizia morale” garantisce il rispetto da parte del personale dei codici di abbigliamento prescritti e di altre normative.

L’applicazione arbitraria delle regole. I funzionari locali applicano arbitrariamente le regole ufficiali, portando a vari gradi di censura tra le province. Le severe restrizioni imposte dai talebani alle donne hanno causato un forte calo del numero di giornaliste nel Paese. “I funzionari talebani costringono sempre più spesso i giornalisti afghani a produrre storie ‘sicure’ e pre-approvate, e puniscono coloro che non sono in linea con la detenzione arbitraria e la tortura”, ha detto Fereshta Abbasi, ricercatrice sull’Afghanistan di Human Rights Watch. E le giornaliste sono le più colpite.

Carcere e punizioni corporali per i giornalisti che lavorano in esilio. Sono state condotte 18 interviste a distanza con giornalisti afgani in Afghanistan e 13 interviste di persona con giornalisti afgani che vivono in Turchia e con organizzazioni di rifugiati afghani. I giornalisti hanno descritto sia le dure condizioni in Afghanistan che le crescenti sfide che devono affrontare coloro che vivono in esilio nei Paesi dell’Unione Europea, in Turchia e negli Stati Uniti. Chi lavoro con i media in esilio o ha contatti con gruppi di opposizione rischia la detenzione, pestaggi e minacce di morte.

“Possiamo ucciderti e nessuno può nemmeno chiederci il perché”. Un giornalista che era stato arrestato ha riferito che i funzionari talebani gli hanno detto: “Possiamo ucciderti, e nessuno può nemmeno chiederci perché. Il ministero talebano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (PVPV) ispeziona regolarmente gli uffici dei media. I funzionari hanno arrestato gli operatori dei media per aver violato la legge del ministero sulla separazione degli spazi di lavoro tra uomini e donne, il divieto di trasmettere le voci delle donne e di suonare musica in televisione e alla radio.

Prezzi alle stelle e beni che scarseggiano per la chiusura dei confini fra Islamabad e Kabul

Asia News, 24 ottobre 2025

Il blocco in atto da 12 giorni ha innescato una “crisi dei prezzi” nei generi di prima necessità. Il costo dei pomodori aumentato di cinque volte da inizio mese. Un funzionario ammette: “Non abbiamo notizie” sulla riapertura della frontiera. Attesa per l’incontro tra le parti del 26 ottobre.

Islamabad (AsiaNews) – La chiusura dei confini tra Islamabad e kabul, che dura ormai da oltre 12 giorni e le inevitabili ripercussioni diplomatiche, ha anche innescato la cosiddetta “crisi dei prezzi” in entrambi i Paesi con aumenti diffusi, in particolare dei beni di prima necessità: fra i molti esempi quello dei pomodori che ora costano cinque volte di più in Pakistan da che, a inizio mese, sono divampati i combattimenti fra le due nazioni vicine col commercio, e i transiti trans-frontalieri, che si sono bruscamente interrotti. I valichi sono chiusi dall’11 ottobre, a seguito dei combattimenti terrestri e dei raid aerei pakistani lungo i 2.600 km di frontiera che hanno causato decine di vittime da entrambe le parti.

Le relazioni tra i due Paesi sono instabili da quando nell’agosto 2021 i talebani sono tornati al potere dopo il ritiro del contingente NATO a guida statunitense. Da anni Islamabad accusa Kabul di proteggere e sostenere economicamente i talebani pakistani, che puntano a istituire anche in Pakistan un Emirato islamico su modello di quello afghano prendendo di mira principalmente le infrastrutture statali.

Anche se l’anno non si è ancora concluso ed è stata raggiunta una fragile tregua la scorsa settimana, è probabile che il 2025 segnerà il maggior numero di perdite tra le forze di sicurezza pakistane mai registrate finora. Per quattro anni il Pakistan, sotto la guida dell’ex premier Imran Khan, ha tentato (invano) di siglare degli accordi di cessate il fuoco coi Tehrik-i Taliban Paksitan (Ttp), su cui i talebani afghani dicono di non avere controllo.

“Non abbiamo informazioni su quando verrà riaperto il confine con l’Afghanistan” ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione di Chaman, in Pakistan. Egli ha inoltre aggiunto che, nonostante i commercianti e le persone coinvolte nell’importazione e nell’esportazione stiano chiedendo la riapertura del confine, finora non è stata presa alcuna decisione. Tutti gli scambi commerciali e il transito dei mezzi e delle persone sono stati bloccati dallo scoppio dei combattimenti, ha confermato ieri alla Reuters Khan Jan Alokozay, capo della Camera di commercio pakistano-afghana a Kabul. “Ogni giorno che passa, entrambe le parti – aggiunge – perdono circa un milione di dollari”.

Frutta fresca, verdura, minerali, medicinali, grano, riso, zucchero, carne e latticini costituiscono la maggior parte del volume commerciale annuale fra i due Paesi, per un valore complessivo di circa 2,3 miliardi di dollari. I prezzi dei pomodori, ampiamente utilizzati nella cucina pakistana, sono aumentati di oltre il 400% fino a raggiungere circa 600 rupie al kg. Anche le mele, che provengono principalmente dall’Afghanistan, stanno subendo un aumento dei prezzi. “Circa 5mila container di merci sono bloccati su entrambi i lati del confine” riferisce un membro dell’amministrazione pakistana al principale valico di frontiera di Torkham, con “carenze sul mercato di pomodori, mele e uva”. Le flebili speranze di riapertura sono rivolte all’incontro, in programma il 26 ottobre, fra Islamabad e Kabul, durante il quale le parti decideranno i piani futuri alla luce dei recenti scontri.

“Le attività commerciali e imprenditoriali tra Pakistan e Afghanistan saranno ripristinate in base all’esito dell’incontro di Istanbul” ha dichiarato al quotidiano Dawn Imran Khan Kakar, un importante uomo d’affari della zona. Le autorità hanno aperto il Friendship Gate per un periodo di tempo limitato per il rimpatrio dei rifugiati afghani, che stavano raggiungendo Chaman da diverse zone del Balochistan e di Karachi. Anche le attività della sezione immigrazione della Federal Investigation Agency (Fia) sono state sospese e coloro che si recavano in Afghanistan con visti e passaporti sono rimasti bloccati a Chaman a causa della chiusura del confine. “Oltre 5mila pakistani sono bloccati a Spin Boldak, dove si recano quotidianamente oltre a Vesh, per svolgere le loro piccole attività commerciali” ha dichiarato un funzionario Fia.

Secondo i responsabili della dogana pakistani, più di 1.009 camion che trasportano merci in transito, esportazioni e importazioni sono bloccati a causa della sospensione dello sdoganamento dovuta a una “aggressione immotivata” da parte di Kabul. L’interruzione segue la sospensione delle operazioni nei principali valichi di frontiera – tra cui Tor­k­ham, Ghulam Khan, Kha­rlachi e Angoor Adda – a partire dal 12 ottobre e al confine di Chaman dal 15 ottobre. Infine, sul fronte del commercio bilaterale, la congestione rimane grave al confine di Torkham, dove 255 veicoli di esportazione e 24 veicoli di importazione sono attualmente bloccati al terminal. Altri 200 camion, bloccati lungo la strada Jamrud-Landi Kotal, sono in attesa di sdoganamento. Di contro, il confine di Chaman ha un traffico relativamente più leggero con 25 veicoli di esportazione e cinque veicoli di importazione ancora in attesa di essere sdoganati. Per mitigare i disagi e garantire la continua disponibilità di beni essenziali, le autorità di frontiera della regione a nord hanno sdoganato in modo pro-attivo le spedizioni arrivate prima della chiusura delle frontiere.

Il leader dei talebani in India: è complicità, non diplomazia

The IndianEspress, 15 ottobre 2025, di Zahra Nader

Il mondo non può affermare di difendere i diritti delle donne mentre stringe la mano a chi le mette a tacere. Il primo passo verso la giustizia per le donne afghane è rifiutarsi di rendere rispettabili i loro oppressori o di considerare normale la loro cancellazione

Domenica mi sono svegliata con la presenza provocatoria di giornaliste indiane che affrontavano il Ministro degli Esteri talebano con domande dirette.
“Cosa sta facendo, signore, in Afghanistan?”, ha chiesto una giornalista ad Amir Khan Muttaqi. “Quando le donne e le ragazze afghane potranno tornare a scuola e ottenere il loro diritto all’istruzione?”.
Muttaqi ha sorriso e ha detto che l’istruzione femminile non era “haram”. Ma non ha offerto alcuna spiegazione sul perché, per quattro anni, alle donne e alle ragazze afghane sia stato vietato l’accesso a scuola, all’università e alla maggior parte dei lavori.

L’evento di domenica è stata la seconda conferenza stampa tenuta dai talebani a Nuova Delhi in due giorni. Nella prima avevano invitato solo 16 giornalisti uomini, le giornaliste erano state escluse. Dopo l’indignazione delle giornaliste, l’ambasciata afghana ha liquidato l’esclusione come una “questione tecnica”, affermando di non avere un addetto stampa e di non sapere come raggiungere tutte. In qualche modo, sono riusciti a raggiungere solo gli uomini.

Chiunque abbia familiarità con la storia dei Talebani sa che non si è trattato di una svista. L’esclusione delle donne è la caratteristica distintiva del regime talebano. Nella loro prima settimana al potere, hanno vietato alle donne di lavorare nella maggior parte dei settori pubblici; solo a quelle che non potevano essere sostituite dagli uomini è stato permesso di rimanere.
Nel giro di un mese, hanno impedito alle ragazze adolescenti di frequentare la scuola secondaria. Poco dopo, alle donne è stato proibito di viaggiare da sole, persino per recarsi in una clinica. Ora è loro vietato l’accesso ai parchi pubblici, alle palestre e alle proteste; le loro stesse voci sono controllate.

Un sistema di barriere per aumentare il silenzio
La legge sulla Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, approvata dal suo leader nell’agosto 2024, dichiara formalmente proibita la voce delle donne. Entro quattro mesi dalla sua formulazione, Reporter Senza Frontiere ha scoperto che quattro giornaliste su cinque in Afghanistan avevano perso il lavoro. Quelle che rimangono subiscono minacce, molestie, lavoro non retribuito e censura. In almeno 19 province, nessuna giornalista lavora ufficialmente.

Un rapporto del 2025 dell’Afghanistan Media Support Organisation (AMSO), che ha intervistato 100 giornaliste, mostra che solo il 7% delle giornaliste afghane può ancora lavorare apertamente, mentre il 33% lavora in segreto e il 42% ha abbandonato completamente il giornalismo. Oltre due terzi denunciano censura o intimidazioni. Il rapporto definisce questo “un sistema di barriere sovrapposte che aumentano il rischio e il silenzio”.

La visita della delegazione talebana in India non avrebbe potuto essere più sorprendente. Dall’8 al 10 ottobre, il Tribunale popolare per le donne afghane si è riunito a Madrid, dove 24 donne afghane hanno testimoniato davanti a una giuria internazionale. Le loro testimonianze sono state scottanti accuse al regime talebano. I giudici hanno riconosciuto nelle loro conclusioni preliminari che il trattamento riservato dai talebani alle donne costituisce una persecuzione di genere, un crimine contro l’umanità.

Una delle richieste centrali del Tribunale era esplicita: non riconoscere né normalizzare i Talebani. Eppure, mentre le donne afghane imploravano di essere ascoltate a Madrid, l’India ospitava la delegazione talebana per una visita di una settimana, incontrando funzionari, parlando con i media e gettando sale sulle ferite delle donne e del popolo afghano.
Tra coloro che hanno testimoniato a Madrid c’era un’ex produttrice televisiva afghana. Ha descritto come, dopo il ritorno dei talebani, le donne siano state prima licenziate dalle redazioni con il pretesto di ” tagli al bilancio “, per poi essere gradualmente eliminate dal panorama mediatico.
Quando lei e altre giornaliste hanno cercato di tenere una conferenza stampa per protestare contro la loro esclusione, le forze talebane hanno fatto irruzione nella sala prima che iniziasse. “Ci hanno maledetto, dicendo che le facevamo apparire come demoni agli occhi del mondo. Ci hanno rinchiuse in una stanza e ci hanno minacciate di prigione se avessimo parlato di nuovo”, ha raccontato al Tribunale.
Quella notte non è tornata a casa. Le forze talebane hanno fatto irruzione in casa sua, picchiando suo marito e suo figlio mentre la cercavano. “Oggi parlo con una mascherina, eppure ho ancora paura”, ha detto. “Alle donne non è permesso parlare. Ci dicono: ‘Non alzate la voce, è proibito; copritevi il viso’. Le ragazze vengono rapite con la forza e fatte sparire, mentre la gente rimane in silenzio per paura. Per favore, portate le nostre voci a chiunque abbia il potere di ascoltarci”.

Una visione delle donne agghiacciante
Il suo appello deve essere ascoltato in India perché quando una democrazia come l’India accoglie i talebani come interlocutori politici, invia un messaggio agghiacciante: che la sistematica cancellazione delle donne può essere tollerata per convenienza strategica, che i diritti delle donne sono sacrificabili, un costo collaterale della diplomazia.
Come giornalista afghana, voglio mettervi in ​​guardia sul significato di questo messaggio. Quando il governo indiano accoglie i Talebani senza contestare pubblicamente la loro condotta in materia di diritti delle donne, oltrepassa il confine tra diplomazia e complicità, conferisce legittimità a un regime fondato sull’esclusione delle donne e si rende complice della normalizzazione della loro misoginia.
Per i Talebani, la deliberata cancellazione della visibilità, della voce e dei mezzi di sussistenza delle donne non è solo una questione di politica interna: è un’ideologia che sono determinati a esportare. Nella loro visione del mondo, il ruolo di una donna inizia e finisce nei suoi ruoli riproduttivi e domestici. Non riconoscono le donne come attrici sociali o politiche. Potrebbero essere costrette, come nella conferenza stampa di Nuova Delhi, a sedersi in una stanza con le donne, ma non le vedranno mai come pari. Di certo non le donne afghane. Se fosse loro permesso, sarebbero ansiose di diventare ambasciatrici della misoginia, diffondendo la loro dottrina dell’apartheid di genere oltre i confini dell’Afghanistan.
Come le giornaliste di Nuova Delhi, la cui sfida ha costretto i talebani a invitarle di nuovo in aula, le donne di tutto il mondo devono prendere posizione: non può esserci normalizzazione di un regime che cancella le donne. Poiché i diritti delle donne in Afghanistan non sono separati dai diritti delle donne altrove, siamo parte della stessa lotta globale. Democrazie come l’India devono allineare la loro politica estera al loro dichiarato impegno per la parità di genere.
Il silenzio imposto dai talebani alle donne non è solo una questione di controllo: è questione di riscrivere la storia, inventando narrazioni che giustificano la sottomissione delle donne in nome della cultura e della fede. Eppure le donne afghane si sono rifiutate di sparire. Hanno continuato a parlare, a insegnare, a denunciare e a combattere, spesso correndo un immenso rischio personale.
Ecco perché le testimonianze di Madrid sono importanti: sono una testimonianza vivente di ciò che i talebani hanno fatto e continuano a fare. Ecco perché lo scontro di Nuova Delhi è importante, perché ha rivelato chi sta dalla parte dell’umanità, chi si rifiuta di distogliere lo sguardo. Ed è per questo che la solidarietà deve andare oltre la semplice simpatia e trasformarsi in azione, chiedendo che le donne siano presenti, visibili e ascoltate in ogni forum in cui si discute del futuro dell’Afghanistan.
Il mondo non può affermare di difendere i diritti delle donne mentre stringe la mano a chi le mette a tacere. Il primo passo verso la giustizia per le donne afghane è rifiutarsi di rendere rispettabili i loro oppressori o di considerare normale la loro cancellazione.
L’autore, residente in Canada, è caporedattore di Zan Times, che si occupa di diritti umani nell’Afghanistan controllato dai talebani.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, 676 milioni di donne vivono vicino a zone di guerra, mentre i progressi della pace femminile si stanno esaurendo.

amutv, 21 ottobre 2025. di Siyar Sirat

Oltre 676 milioni di donne e ragazze vivono ormai entro 50 chilometri da conflitti attivi, la cifra più alta degli ultimi decenni, e i progressi compiuti nella protezione e nella partecipazione delle donne durante la guerra si stanno sgretolando, avverte un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lunedì.

Il rapporto annuale del 2025 “Donne, pace e sicurezza” descrive in dettaglio un forte aumento dell’impatto della guerra sulle donne: le vittime civili tra donne e bambini sono quadruplicate negli ultimi due anni e i casi di violenza sessuale legati ai conflitti sono aumentati dell’87% nello stesso periodo.

“Donne e ragazze vengono uccise in numeri record, escluse dai tavoli di pace e lasciate senza protezione mentre le guerre si moltiplicano”, ha affermato Sima Bahous, direttrice esecutiva di UN Women. “Le donne non hanno bisogno di altre promesse. Hanno bisogno di potere, protezione e pari partecipazione”.

Nonostante le prove che il coinvolgimento delle donne rafforzi i risultati della pace, il loro ruolo nei processi di pace formali rimane minimo. Nel 2024, le donne rappresentavano solo il 7% dei negoziatori e il 14% dei mediatori. Nove processi di pace su dieci non avevano alcuna donna come negoziatrice.

Nel frattempo, la spesa militare globale ha superato i 2,7 trilioni di dollari nel 2024, eppure le organizzazioni per i diritti delle donne nelle zone di conflitto hanno ricevuto solo lo 0,4% dei finanziamenti umanitari, secondo il rapporto.

I risultati giungono 25 anni dopo l’adozione della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che chiedeva la piena partecipazione delle donne alla pace e ai processi decisionali, nonché la loro protezione nei conflitti. Il rapporto segnala che i progressi non solo sono bloccati, ma ora stanno invertendo la rotta. “Questa è una crisi di esclusione”, ha affermato Bahous, avvertendo che guerre irrisolte, carenze di aiuti e una reazione globale alla parità di genere stanno vanificando i progressi duramente conquistati.

Il rapporto esorta i paesi e le agenzie umanitarie a mettere in atto misure concrete: includere le donne nei team negoziali; escludere accordi sulle armi che emarginano le donne; garantire giustizia alle vittime di crimini di guerra basati sul genere; e investire in dati affidabili, disaggregati per genere, in modo che le esperienze delle donne siano visibili e non ignorate.

“Non è un problema di dati; è un problema di potere”, ha affermato Bahous. Mentre i conflitti si diffondono a livello globale e i processi di pace rimangono dominati dagli uomini, la capacità del mondo di trovare soluzioni durature dipende sempre più dal porre le donne al centro degli sforzi per la pace e la sicurezza.

Il rapporto precede il dibattito annuale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza, in cui gli Stati membri esamineranno i progressi compiuti e rinnoveranno l’impegno ad agire, sebbene il rapporto suggerisca che molti impegni restano incompiuti.

Il nuovo accordo tra Ankara e Damasco contro i curdi: armi in cambio della possibilità di colpire l’Ypg in territorio siriano

L’Espresso, 21 ottobre 2025

La Turchia potrà attaccare l’ala siriana del Pkk a una profondità di 30 chilometri all’interno del territorio siriano

I media turchi riportano di una nuova intesa fra Turchia e Siria che permetterà al governo di Damasco di dotare il proprio esercito di armi turche e al governo di Ankara di colpire obiettivi curdi a una profondità di 30 chilometri all’interno del territorio siriano. L’intesa è stata raggiunta nell’incontro della scorsa settima tra i ministri degli Esteri dei due Paesi e mancherebbe ora solo la firma ufficiale. La prima fornitura di droni, radar, blindati e razzi sarebbe già arrivata in Siria.

L’intesa raggiunta tra i due Paesi va a ridisegnare i rapporti di confine, teoricamente fermi al protocollo di Adana del 1998 e poi saltati a causa della guerra civile scoppiata in Siria nel 2011. In base al protocollo di Adana, la Turchia aveva diritto a lanciare operazioni contro le milizie separatiste curde del Pkk a una profondità di 5 chilometri all’interno del territorio siriano. A distanza di 27 anni, lo Ypg, l’ala siriana del Pkk, detiene il controllo del Nord-Est della Siria, il Rojava. L’accordo permetterebbe ad Ankara una maggior libertà d’azione nella difesa del proprio confine e a Damasco di consolidare il controllo del territorio siriano dopo la caduta, avvenuta a dicembre 2024, del regime di Bashar al Assad.

I turchi considerano lo Ypg un’organizzazione terroristica. Il nuovo governo di Damasco guidato da Ahmed al Sharaa punta all’integrità del Paese e non parrebbe disposto a concedere autonomia allo Ypg. Anche per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan l’integrità della Siria risulta fondamentale, deciso a favorire il rientro in patria dei tanti profughi siriani scappati dalla guerra civile.

In base a quanto reso noto dai media turchi, Ankara avrebbe già inviato droni, blindati, razzi a media gittata e pezzi di artiglieria da usare in un confronto con lo Ypg, nel caso questi ultimi dovessero continuare a rifiutare l’integrazione nell’esercito siriano. La tensione, dunque, è alta e scontri tra le milizie curde e l’esercito di Damasco hanno avuto luogo appena due settimane fa nei pressi di Aleppo. Lo Ypg potrebbe anche finire direttamente nel mirino di operazioni turche nel caso di interventi compiuti a una profondità di 30 km dal confine.

L’intesa con la Turchia sarebbe volta anche ad accelerare il processo di ricostruzione dell’esercito siriano, aumentandone la capacità di prevenire ed evitare i raid israeliani e permettendo di proteggere una sovranità spesso in bilico negli ultimi mesi, in modo particolare nella regione meridionale del paese levantino, già parzialmente occupata dallo Stato ebraico per quanto riguarda le alture del Golan.