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Autore: CisdaETS

Afghanistan. Dalla lama della “democrazia statunitense”, alla decapitazione islamista

Confronti, Marzo 2025 (Cartaceo)

Di Enrico Campofreda

Il numero di marzo è dedicato alle donne, protagoniste assolute di queste pagine. In apertura Enrico Campofreda ha intervistato l’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) che denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi

L’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Dopo le prime proteste represse con violenza, le donne afghane sono costrette a manifestare in clandestinità, mentre il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi.

Il contesto attuale in Afghanistan, dopo il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021, è segnato da una drammatica regressione nei diritti delle donne. Le manifestazioni di protesta femminili, che nelle prime settimane dall’ascesa del regime erano vigorose, sono state brutalmente soffocate con arresti, torture e violenze sessuali. Nonostante il regime talebano abbia cercato di rendere impossibile ogni forma di dissenso pubblico, molte attiviste continuano a lottare in modo clandestino, usando i social media come strumento di denuncia.
La situazione delle donne afghane si è progressivamente deteriorata tanto che, a febbraio scorso, il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato di aver richiesto due mandati d’arresto per il leader supremo dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, e il presidente della Corte Suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani, accusati di crimini contro l’umanità per persecuzione di genere.

In questa situazione abbiamo intervistato Shaqiba, un’attivista di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa), che ha recentemente intrapreso un tour in Europa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammaticità della condizione femminile nell’Afghanistan talebano. In Italia, Shaqiba è stata ospite del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda – cisda.it), un’associazione che da oltre venticinque anni si batte al fianco delle donne afghane, cercando di portare alla luce le atrocità perpetrate dal regime talebano e sostenendo le attiviste che, a rischio della propria vita, continuano a lottare per i diritti delle donne in Afghanistan.

Dopo le combattive manifestazioni femminili nelle prime settimane del secondo Emirato, le proteste di strada sono ormai impossibili?
Subito dopo l’ascesa al potere dei talebani nell’ago- sto 2021 le donne di diverse aree afghane sono scese in piazza per opporre
Molte di loro sono state arrestate, imprigionate, torturate e, in alcuni casi, sono stati documentati rapporti di stupro e molestie sessuali. I talebani hanno storicamente usato vari mezzi per control- lare e imporre il silenzio fra le persone che catturano o rilasciano.
La strategia di costringere i prigionieri a firma- re accordi sotto minaccia di morte o detenzione è una tattica comune per reprimere il dissenso e mantenere il controllo tramite l’intimidazione. Tuttavia, è difficile documentare queste viola- zioni, poiché i sopravvissuti temono ritorsioni. Alcune donne hanno denunciato crimini durante la detenzione, ma la repressione e le minacce hanno spinto molte a manifestare in spazi chiusi. Le proteste si spostano online, dove le attiviste esprimono il loro dissenso contro un regime misogino. Non c’è nessuna accettazione del sistema, ribadiamo che la ragione per cui le attiviste hanno ridotto le proteste di strada è la coercizione.

Da cosa sono oppresse oggi le donne afghane?
L’Afghanistan è diventato una prigione per le donne, con restrizioni sempre più severe. La disoccupazione, la povertà e le pressioni psicologi- che portano a un aumento dei suicidi femminili. Ogni giorno emergono crimini gravi come esecuzioni pubbliche, femminicidi, matrimoni forzati e vendite di ragazze per miseria. Le studentesse – come nel caso dell’Università Kankor – sono escluse dagli esami di ammissione, le docenti licenziate e gli istituti medici chiusi. Le donne non possono viaggiare senza un accompagnatore maschio [mahram] e le Ong ancora presenti sul territorio sono costrette a rinunciare alle dipendenti femminili. Negli ultimi venticinque anni le donne afghane hanno sofferto sotto la lama della cosiddetta democrazia sostenuta dagli Stati Uniti, ora sono decapitate sotto la maschera dell’Islam.

In che modo, rispetto ai governi precedenti, la protezione delle donne è peggiorata?
Prima del ritorno dei talebani, le donne vivevano già in condizioni precarie. Molti distretti erano sotto il controllo dei fondamentalisti, sebbene go- vernasse Ashraf Ghani e con gli esecutivi sostenuti dagli Stati Uniti. Nell’ottobre 2015, Rukhshana, una giovane di Ghor, è stata pubblicamente lapidata a morte per essere “presumibilmente” fuggita da casa. A quell’epoca i funzionari governativi hanno violentato decine di donne. Auto-immolazione, taglio del naso e delle orecchie alle donne dilaga- vano. A Mazar-e-Sharif una bimba di nove anni venne scambiata con un cane. Parecchi conosco- no la tragica vicenda di Farkhunda che nel marzo 2015 fu assassinata e bruciata a pochi chilometri dal Palazzo presidenziale. La violenza, tra cui suicidi, mutilazioni e matrimoni forzati, era diffusa, mentre i media affermavano che la condizione del- le donne migliorava. È vero che la Costituzione afghana dell’epoca prevedeva la parità fra i generi e che la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne è statale, ma questa norma rimaneva solo un pezzo di carta inapplicato e inutilizzato nei tribunali. Tutto ciò accadeva perché diversi jihadisti [signori della guerra come Gulbuddin Hekmatyar, Karim Khalili, Abdul Rashid Dostum] facevano parte dei governi Karzai e Ghani. Al loro fondamentalismo è stato dato un falso volto democratico proprio dalla linea di condotta statunitense. La corruzione e la presenza di jihadisti al potere hanno peggiorato la situazione, culminando nel crollo del governo e nel ritorno del regime tale- bano, che ha eliminato le poche libertà rimaste. Vedove e donne divorziate ora affrontano la stessa sorte delle altre afghane. Le donne che erano sta- te precedentemente separate dai loro mariti sono state costrette a rientrare in casa e le Corti talebane emettono sentenze sulla base della Shari’a.

LE DONNE ERANO GIÀ IN UNA SITUA- ZIONE PRECARIA, MA ORA L’AFGHA- NISTAN È DIVENTATO UNA GRANDE PRIGIONE PER LE DONNE.

Cosa riesce a fare la rete di Rawa?
Rawa continua a essere attiva in campo politico, sociale e umanitario. Ora opera in clandestinità e perlopiù organizza corsi domestici di alfabetizza- zione, inglese, scienze e matematica per ragazze in età scolare e donne analfabete. Gestisce inoltre istituti per bambini in aree remote e offre assistenza sanitaria tramite una squadra mobile che interviene nei momenti di crisi, come terremoti, inondazioni e altre calamità. Tra le attività umanitarie figura anche la distribuzione di pacchi alimentari a famiglie povere e disoccupati durante le emergenze. L’obiettivo principale è aumentare la consapevolezza politica di donne e giovani, mobilitandoli e organizzandoli. Coordina pro- teste contro il regime dei taliban celebrando anniversari come l’8 marzo o il martirio di Meena Keshwar Kamal [fondatrice di Rawa assassinata nel novembre 1987]. Attraverso la sua rivista e il sito web, diffonde notizie sulla situazione interna, pubblica articoli analitici sul ruolo degli Stati Uniti nel sostenere il fondamentalismo e riporta le attività dei suoi membri in tutto il mondo. Per garantire la sicurezza delle attiviste, le iniziative vengono pubblicizzate con discrezione.

Le attiviste di Rawa possono ancora agire all’interno del Paese o sono costrette a vivere all’estero?
Le attiviste possono muoversi in diverse aree del Paese, ma devono prestare grande attenzione alla sicurezza per evitare di essere individuate e arre- state. Nonostante le difficoltà, Rawa ha scelto di rimanere in Afghanistan, accanto a chi ha perso tutto. Lasciare il Paese e vivere all’estero sarebbe l’opzione più semplice, ma il nostro impegno è es- sere un punto di riferimento per la popolazione, contribuendo alla sensibilizzazione e alla lotta per un futuro migliore.

Perché molti intellettuali e giovani hanno lasciato il Paese e non hanno scelto la resistenza?
Molti intellettuali e persone istruite, che avevano lavorato in importanti istituzioni durante il ventennio dei governi sostenuti dagli Stati Uniti, sono stati successivamente evacuati dopo la riconquista talebana di Kabul. Tuttavia, non hanno pensato alla resistenza, mancando di senso di responsabilità e patriottismo. Molti giovani, spinti dalla mancanza di lavoro, hanno lasciato l’Afghanistan e continuano a farlo, con diverse famiglie che inviano membri all’estero per mantenere con le rimesse i parenti in loco. Ma la scelta di rimanere in Afghanistan e lottare non è limitata al sesso o all’età. Abbiamo visto che tante donne si sono ribellate e hanno combattuto contro il governo talebano più degli uomini. Nelle rischiose circostanze delle proteste gli uomini sono facilmente identificabili, loro non possono celarsi dietro il burqa… Se arrestati rischiano più facilmente la tortura. Ed è il motivo per cui alcune contestazioni maschili restano virtuali, utilizzando i social media.

La crescente precarietà dipende anche dal calo del sostegno esterno e dall’intensificarsi della crisi in Medio Oriente?
Negli ultimi vent’anni di occupazione Nato, in- genti fondi sono arrivati in Afghanistan, ma anziché essere destinati a progetti strutturali come infrastrutture e trasformazioni durature, sono stati sprecati in corruzione e ruberie politiche. Traditori come Abd al-Rasul Sayyaf, Yunus Qanuni, Muhammad Mohaqiq, Karim Khalili e membri dell’Alleanza del Nord che erano al potere, accumulavano grandi ricchezze, mentre la maggioranza della gente diventava sempre più povera. Con l’a- scesa dei talebani, oltre alla cacciata delle donne da lavori pubblici e privati, molte aziende e istituzioni hanno chiuso, peggiorando ulteriormente l’economia. Sebbene i talebani ricevano milioni di dollari settimanali da Stati Uniti e altri Paesi, grazie anche al traffico di oppio e alla cessione di risorse minerarie, è la popolazione a pagare il prezzo, soffrendo sotto un regime oppressivo. Nonostante le gravi condizioni, l’attenzione internazionale è di- minuita, e le crisi umanitarie in Afghanistan vengono raramente riportate dai media globali.

Gli hazara, oltre agli attacchi dell’Isis-K, sono vittime di arresti, privazioni e discriminazioni da parte dei talebani. È possibile fermare questo razzismo?
Sostenendo i fondamentalisti alla Sayyaf, Hekmatyar, Rabbani, Massoud, Mohaqiq, Khalili e i taliban, gli Stati Uniti hanno contribuito a favorire le divisioni etniche e settarie in Afghanistan. Questo ha rappresentato uno dei ruoli distruttivi di Usa, Pakistan, Iran nel dividere le etnie interne e incitarle all’odio. La discriminazione religiosa è stata prevalente durante i quarant’anni di conflitto. Il razzismo, la discriminazione, la tortura e l’uccisione delle minoranze possono essere fermati solo se gli americani e i loro alleati smettono di finanziare e sostenere gruppi terroristici. Nei Paesi in guerra le discriminazioni razziale e religiosa sono fomentate per impedire l’unità delle persone, assicurando che i gruppi etnici e confessionali si combattano e i governi-fantoccio traggano vantaggio dalle divisioni. Il razzismo e la discrimina- zione possono essere sradicati solo con l’istituzione d’un sistema democratico secolarista.

Esistono in Afghanistan progetti politici e leader in grado di allontanare il Paese dal fondamentalismo e dal tribalismo?
Alcune organizzazioni politiche e sociali mira- no a coinvolgere i cittadini contro le limitazioni dell’estremismo religioso e dell’esasperazione etnica. Personalmente cito il movimento Rawa e il Partito della solidarietà, entrambi s’oppongono ai fondamentalismi e li combattono senza timori e compromessi.

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Perché Erdogan è interessato a una pace con i curdi del PKK

Il Post, 3 marzo 2025

La storica richiesta di Abdullah Öcalan al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) di abbandonare la lotta armata, sciogliersi e avviare un processo di pace è legata anche a un cambio di atteggiamento da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che potrebbe avvantaggiarsi da un riavvicinamento con i curdi. Da un lato la distensione potrebbe facilitare l’approvazione di una riforma costituzionale che permetterebbe a Erdogan di restare al potere oltre la fine del suo secondo mandato, nel 2028. Dall’altro la fine delle ostilità con il PKK potrebbe indebolire o condizionare anche i curdi siriani, contro cui la Turchia combatte da tempo.

Da oltre quarant’anni il PKK, fondato proprio da Öcalan, combatte una guerra contro lo stato turco per ottenere maggiore autonomia politica e sociale per la popolazione curda in Turchia. Gli ultimi negoziati erano falliti nel 2015, e in quell’occasione il governo turco aveva attaccato duramente i curdi, sia con l’esercito sia attraverso un’intensa repressione politica.

Da qualche mese Erdogan ha però cambiato approccio. Non si è espresso direttamente sulla questione, ma ha usato la stampa e alcuni alleati di governo per far capire di essere pronto a negoziare.

Tra i vari motivi alla base di questo cambio potrebbe esserci il tentativo di garantirsi il sostegno del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), un partito filocurdo da tempo considerato dalla maggioranza di governo un’espressione politica del PKK. Lo scorso ottobre il leader del partito di estrema destra Movimento Nazionalista (MHP) Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, aveva prima allacciato rapporti con DEM, poi proposto una grazia a Öcalan se il PKK avesse deciso di abbandonare la lotta armata e sciogliersi. Le iniziative di Bahceli non erano personali, ma riflettevano il nuovo approccio del governo.

Il riavvicinamento è dovuto in parte a ragioni di opportunismo politico. I voti di DEM servirebbero a Erdogan per approvare un progetto di riforma costituzionale che gli permetterebbe di restare al potere anche dopo il 2028, quando scadrà il suo secondo e ultimo mandato presidenziale. Per approvarla servono almeno due terzi dei voti: DEM ha 57 seggi in parlamento, sui 600 totali (la maggioranza che sostiene Erdogan ne ha 324, 7 seggi sono vacanti, altri voti potrebbero arrivare da partiti più piccoli o parlamentari indipendenti).

DEM persegue per via democratica gli stessi obiettivi del PKK: riconoscimento costituzionale dell’identità curda, insegnamento della lingua curda nelle scuole e maggiore autonomia per la regione. Sono richieste avanzate da anni, ma che il governo ha sempre respinto. Non è chiaro al momento quanto Erdogan sia disposto a concedere, anche sul tema della scarcerazione dei prigionieri politici e dell’amnistia per i guerriglieri del PKK.

Negli ultimi dieci anni il partito e i suoi esponenti sono stati sottoposti a varie misure repressive: 150 sindaci curdi sono stati rimossi e decine di attivisti e politici sono stati incarcerati. Per esempio Selahattin Demirtaş, ex co-presidente di DEM che fu anche candidato alla presidenza, è in prigione dal 2016.

La fine delle ostilità con i curdi della Turchia potrebbe anche avere ripercussioni sui curdi siriani, che controllano la regione del Rojava, nel nord-est della Siria e vicino al confine con la Turchia.

L’appello di Öcalan per l’avvio di un processo di pace non è stato rivolto ai curdi siriani (la Siria non è mai nominata nel messaggio), ma in questi anni molti esponenti del PKK sono confluiti nelle Forze democratiche siriane (SDF), l’esercito che contiene al suo interno sia i principali gruppi armati curdi della Siria (come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda) sia altre milizie locali. L’attuale comandante in capo delle SDF, Mazloum Kobane (nome di guerra di Mazloum Abdi), ha fatto parte del PKK ed è stato a lungo il principale collaboratore di Abdullah Öcalan. Agli occhi della Turchia, non c’è differenza tra il PKK e le SDF.

In questi anni l’esercito turco e le milizie filoturche hanno combattuto contro le SDF. Il governo turco ritiene che fare la pace con il PKK potrebbe depotenziare anche i curdi siriani, che in passato sono stati sostenuti dagli Stati Uniti principalmente per combattere l’ISIS nella regione, ma che oggi sono molto più isolati.

Il progetto di Erdogan, ambizioso e ancora in una fase iniziale, è quindi quello di smettere di fare la guerra ai gruppi curdi per consolidare ulteriormente il proprio potere nel paese. Allo stesso tempo, il presidente turco vorrebbe che l’influenza della Turchia sulla regione circostante si estendesse.

“Bettolle: libere di essere”, viaggio nella condizione femminile

SienaPost, 3 marzo 2025

Tra oppressione e lotta per i diritti. Il focus sulle donne afgane. Evento toccante alla Biblioteca BiBet

L’iniziativa, – la prima tra quelle in programma nel ricco calendario dei dieci comuni della Valdichiana – promossa dagli Assessorati Cultura, Politiche di Genere, Politiche Sociali e Pari Opportunità del Comune di Sinalunga, ha offerto uno spaccato della condizione femminile nel mondo, con un focus particolare sulla situazione delle donne afghane.

L’incontro “A tu per tu con Cristiana Cella” ha rappresentato il cuore della serata. La giornalista, scrittrice e sceneggiatrice, da anni impegnata nella difesa dei diritti delle donne afghane, ha condiviso la sua profonda conoscenza della realtà afghana, offrendo un quadro lucido e dettagliato delle sfide che le donne affrontano quotidianamente.

Afghanistan: una lotta per la sopravvivenza
Cristiana Cella ha ripercorso la storia recente dell’Afghanistan, sottolineando come il regime talebano abbia drasticamente limitato i diritti delle donne, relegandole a un ruolo marginale nella società. Ha denunciato le violazioni dei diritti umani, la negazione dell’istruzione e del lavoro, e la repressione di qualsiasi forma di dissenso.

Resistenza, speranza e domande senza risposta
Nonostante le difficoltà, Cella ha evidenziato la resilienza e la forza delle donne afghane, che continuano a lottare per i loro diritti e per un futuro migliore. Ha ricordato figure emblematiche come Meena Keshwar Kamal, fondatrice della RAWA, e le tante attiviste che, anche in condizioni estreme, non rinunciano alla speranza. All’uscita una partecipante ci ha detto: “mi perseguita una domanda: perché questo accanimento crudele e continuato nei confronti delle donne? Qual è l’obiettivo che si vuole perseguire? Perché le vogliamo annientare e rendere invisibili? Perché, le donne fanno tanta paura? L’iniziativa ha cercato di rispondere a queste domande. Ma nessuna risposta ha motivato fino in fondo gli atteggiamenti di distruzione.

Impegno dell’Italia e le mozioni per il riconoscimento dei crimini
L’incontro ha offerto l’occasione per fare il punto sulle iniziative italiane a sostegno delle donne afghane. Il CISDA, rappresenta un punto di riferimento importante, così come le numerose associazioni e organizzazioni che si impegnano a sensibilizzare l’opinione pubblica e a fornire aiuto concreto. In particolare, è emerso l’impegno nel presentare ordini del giorno in tutta Italia per chiedere il riconoscimento dei crimini dei talebani come crimini contro l’umanità di genere. Le rappresentanti istituzionali presenti hanno inoltre promesso che proporranno all’unione dei Comuni della Valdichiana una mozione in tal senso.

Un messaggio di speranza
La serata “Libere di essere” ha rappresentato un’occasione per riflettere sulla condizione femminile nel mondo e per ribadire l’importanza della lotta per i diritti delle donne. L’incontro con Cristiana Cella ha lasciato un messaggio di speranza: anche nelle situazioni più difficili, la determinazione e la solidarietà possono fare la differenza.

La mostra fotografica “Viosiolapse”
A corollario dell’incontro, la mostra fotografica “Viosiolapse” ha offerto un’ulteriore testimonianza della forza e della bellezza delle donne, attraverso gli scatti di Sofia Pericoli e il make-up di Renata Pappano.

L’evento si è concluso con un aperitivo, un momento di convivialità e di scambio di idee. L’iniziativa “Libere di essere” ha dimostrato come la cultura e l’impegno civile possano contribuire a costruire una società più giusta e inclusiva, dove i diritti delle donne siano pienamente riconosciuti e rispettati.

Kurdistan, una svolta di pace?

Pressenza, 2 marzo 2025, di Renato Franzitta

Il PKK ha dichiarato un cessate il fuoco effettivo immediato accettando la dichiarazione storica di Abdullah Öcalan. Di ieri, primo marzo, sono le dichiarazioni ufficiali del Comitato Esecutivo del PKK in merito all’appello del leader Apo Abdullah Öcalan.

La dirigenza del PKK dichiara che l’“Appello per la pace e una società democratica, fatto il 27 febbraio è un Manifesto dell’epoca che illumina il cammino di tutte le forze della libertà e della democrazia. […] In quanto PKK, condividiamo il contenuto dell’appello così com’è e affermiamo che rispetteremo e metteremo in pratica i requisiti dell’appello da parte nostra. Tuttavia, vorremmo sottolineare che per avere successo, anche la politica democratica e le basi giuridiche [in Turchia, nda] devono essere adeguate. […]

È chiaro che con questo Appello è iniziato un nuovo processo storico nel Kurdistan e nel Medio Oriente. Ciò avrà un impatto importante anche sullo sviluppo della vita libera e della governance democratica in tutto il mondo. Su questa base, la responsabilità ricade su tutti noi; tutti devono assumersi i propri oneri e assolvere ai propri doveri e al proprio ruolo.

La consapevolezza data dal leader Apo e la grande esperienza creata dal PKK danno al nostro popolo la forza di portare avanti la lotta per il bene, la verità, la bellezza e la libertà con una politica democratica. […] In questo contesto, dichiariamo un cessate il fuoco effettivo da oggi, per spianare la strada all’attuazione dell’appello del leader Apo per la pace e una società democratica.”

La dichiarazione del PKK è precisa in modo lapidario: “Per il successo del congresso, il leader Apo deve condurlo personalmente, […] è necessario creare un ambiente di sicurezza adeguato e il leader Apo deve guidare e gestire personalmente il congresso [del PKK, nda] affinché vada a buon fine.
L’esperienza creata dal PKK fornisce al nostro popolo il potere di portare a termine la lotta
[…] Nessuna delle nostre forze intraprenderà un’azione armata a meno che non venga attaccata. Inoltre, solo la leadership pratica del leader Apo può rendere pratiche questioni come il disarmo. […]

I fatti concreti mostrano chiaramente che, affinché l’Appello per la pace e una società democratica possa essere attuato con successo, affinché la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente si basi sulla soluzione democratica del problema curdo e affinché si sviluppi un movimento democratico globale, il leader Abdullah Öcalan deve poter vivere e lavorare in piena libertà fisica e poter stabilire relazioni senza ostacoli con chiunque desideri, compresi i suoi amici. Ci auguriamo che le istituzioni statali competenti rispettino tali requisiti […]. L’appello del Leader Apo non è certamente una fine, ma piuttosto un nuovo inizio. […]

È di importanza storica affrontare il contenuto dell’appello con grande responsabilità e serietà e attuarlo con successo in ogni campo. […] l’Appello per la pace e una società democratica sta avviando un nuovo processo di lotta per tutti gli oppressi, in particolare, donne e giovani. […] Sviluppiamo la nostra organizzazione democratica e la nostra lotta per la libertà in ogni campo con grande coraggio e dedizione, nel Kurdistan, nel Medio Oriente e in tutto il mondo.

[…] Stiamo costruendo la Rivoluzione per la libertà delle donne sulla base della Jineologia e organizzando la vita morale e politica della comunità sulla linea della civiltà democratica. […] Lunga vita all’eroico leader del nostro popolo, il PKK!”

La dichiarazione ufficiale del Comitato esecutivo del PKK viene fatta a soli due giorni della diffusione dell’appello storico per la risoluzione del conflitto turco-curdo e la democratizzazione della Turchia fatto nel corso della visita di una delegazione del partito DEM il 27 febbraio 2025, al leader curdo Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999 nell’isola carceraria di Imral nel mar di Marmara, dove sta scontando l’ergastolo.

L’appello di Öcalan solleva la speranza di porre fine a più di quarant’anni di conflitto fra il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e l’esercito della Turchia, sollevando però diversi interrogativi sul futuro della politica curda in tutta la regione mediorientale. Certamente l’invito a deporre le armi e a sciogliere il PKK ha lasciato molti interdetti. Come lascia da pensare il credito elargito a Devlet Bahçeli presidente del MHP (Partito del Movimento Nazionalista) e fondatore dell’organizzazione di estrema destra Lupi Grigi, e allo stesso Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan.

Non è la prima volta che Abdullah Öcalan tende la mano per intavolare colloqui di pace col governo turco. Già il 28 settembre 2006 Öcalan chiedeva al PKK di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia. La dichiarazione affermava che “Il PKK non dovrebbe utilizzare le armi tranne che se attaccato con l’intento di annichilimento” e che “è molto importante costruire un’unione democratica tra i Turchi e i Curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta”.

Ricordo benissimo mentre ero, nel marzo 2015, nel Kurdistan turco, dopo la vittoriosa battaglia di Kobane contro i tagliagole dell’ISIS, che i dirigenti dell’HDP e i militanti che facevano riferimento al PKK aspettavano con ansia la notizia della liberazione del loro leader, data per imminente, convinti che l’amministrazione Erdoğan fosse in procinto di attuare la pacificazione con il movimento di resistenza curdo e la conseguente liberazione delle migliaia di detenuti politici rinchiusi nelle carceri turche da tanti anni.

Come ben sappiamo le aspettative dei curdi non furono esaudite, anzi cominciò una pesante campagna militare che portò la guerra dentro città e villaggi del Kurdistan, l’arresto di centinaia e centinaia di militanti, la deposizione di tutti i sindaci curdi e lo scioglimento dei municipi. Fu persino arrestato, nel novembre 2016, il Presidente dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli) Selahattin Demirtaş, deputato al Parlamento di Ankara, e successivamente condannato a 42 anni di carcere per aver sostenuto le manifestazioni in sostegno della resistenza di Kobane contro i tagliagole dell’ISIS, represse violentemente da esercito e polizia nel 2014.

L’appello di Öcalan a deporre le armi e a sciogliere il PKK è riferito essenzialmente alla componente turca del movimento curdo. Nell’appello non c’è alcun riferimento all’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, diretta dal Consiglio Democratico Siriano, dove è in corso l’esperimento rivoluzionario di una società basata sul Confederalismo Democratico, né alle propaggini del PKK operanti in Iraq e Iran.

Da Kobane fanno sapere, “le dichiarazioni di Öcalan: niente che ci riguardi in Siria”. Il Rojava rivoluzionario è sotto attacco dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA), formazione creata e finanziata da Ankara, composta da jihadisti provenienti dall’ISIS e da al-Nustra (al-Qaeda in Siria), dai primi giorni del dicembre 2024.

L’intenzione del presidente turco Erdogan di dare un colpo mortale al Rojava e cancellare l’esperimento rivoluzionario è stata palese. A frenare i piani del despota turco sono state le milizie YPG, YPJ e SDF, sostenute da una grandiosa mobilitazione popolare, che hanno attualmente fermato i tagliagole dello SNA alla diga di Tishrin sull’Eufrate e respinto l’attacco dalla citta martire di Kobane.

Negli ultimi giorni sembra che Ankara abbia ammorbidito la sua posizione, poiché diverse nazioni arabe hanno respinto la crescente influenza della Turchia in Siria, dove dall’8 dicembre a Damasco, dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, governa una propaggine di al-Qaeda.

Foza Yusuf, un funzionario chiave nell’amministrazione guidata dai curdi, ha sottolineato che l’appello di Öcalan non allude alla Siria. “La sua dichiarazione rivela ancora una volta la sua brillantezza strategica. Sapevamo che non ci avrebbe reso parte di alcun patto. I nostri accordi, i nostri affari devono essere fatti con Damasco, non con la Turchia”.

Il partito turco filo-curdo DEM ha prontamente diffuso l’appello mostrando Öcalan, su schermi giganti, affiancato da deputati del DEM che lo avevano incontrato sulla sua isola-prigione. Migliaia di persone si sono radunate davanti ai maxi schermi installati nelle piazze di Istanbul e nelle principali città del Kurdistan turco per guardare la conferenza stampa. Il giornalista locale Selim Kurt ad Al-Monitor da Diyarbakir ha riferito che mentre ascoltavano le parole del leader curdo le persone si sono chieste perché Öcalan avesse rinunciato a così tanto senza ottenere nulla in cambio.

Sentimenti simili sono riecheggiati a Istanbul, spingendo il parlamentare DEM Sırrı Sureyya Onder a notare che il leader del PKK aveva anche affermato che erano necessarie “politiche democratiche e un quadro giuridico” da parte di Ankara, affinché i suoi seguaci disarmassero e si sciogliessero. Ancora non è chiaro cosa abbia offerto il governo in cambio dell’appello di Öcalan. Molto probabilmente si profila l’amnistia per i combattenti del PKK e la liberazione degli altri leader curdi come Demirtaş. Al-Monitor riferisce che è probabile che il governo regionale del Kurdistan (KRG) in Iraq abbia offerto asilo ai quadri superiori del PKK.

Ovviamente il primo passo per iniziare il processo di pace passa dal cessate il fuoco reciproco fra Esercito turco e PKK.
La liberazione di Öcalan è la condizione chiave per portare a buon fine il processo di pacificazione in Turchia, rafforzando contemporaneamente le conquiste rivoluzionarie del Confederalismo Democratico.
Tante ombre rimangono ma un barlume di luce sembra apparire all’orizzonte.

 

Nelle carceri talebane, donne torturate e abusate

La difficile situazione delle donne nelle prigioni talebane: confessioni costrette da spogliarelli e abusi
Amin Kawa, 8 AM Media, 2 marzo 2025

In questa indagine cinque manifestanti donne arrestate e imprigionate dai talebani condividono i loro resoconti di torture fisiche e psicologiche avvenute nei centri di detenzione talebani a Kabul. Tra i metodi di tortura descritti: appenderle per i piedi, mettere sacchetti di plastica sulla testa e sul viso, legare le mani dietro la schiena, tenerle in stanze umide, frustarle con cinture, mettere la canna di un kalashnikov vicino alle orecchie e minacciarle di morte. Inoltre, le donne hanno sopportato insulti volgari, abusi verbali, l’essere chiamate prostitute, accuse di essere serve e spie americane e minacce di danni ai loro familiari. Tutte queste donne soffrono attualmente di gravi problemi di salute mentale e fisica, tra cui dolori articolari.

Due delle ex detenute hanno confermato di essere state costrette a confessare nude o seminude per assicurarsi che non avrebbero più protestato contro le politiche dei talebani. È stato loro negato l’accesso all’assistenza legale, al contatto con la famiglia, alla comunicazione con altre prigioniere o guardie e alle cure mediche per le esigenze legate al ciclo mestruale.

Le indagini di “Hasht-e Subh Daily” indicano che tutte le donne arrestate dai talebani sono state sottoposte a torture fisiche e psicologiche nei centri di detenzione e nelle prigioni. La gravità della tortura era proporzionale alla popolarità e al riconoscimento delle detenute nella società, in particolare sui social media. Alcune manifestanti hanno subito torture più gravi, altre relativamente meno. Le interviste con cinque prigioniere hanno rivelato che tutte avevano subito torture e confessioni forzate ed erano state minacciate di morte, lapidazione, esecuzione tramite plotone di esecuzione e rappresaglie contro le loro famiglie.

Il trattamento variava da una detenuta all’altra, alcune trattenute per brevi periodi e altre per diversi mesi. I talebani costrinsero tutte le donne rilasciate a fornire confessioni, preparate prima degli interrogatori e con la costrizione di recitarle di fronte alle telecamere con quelle precise parole. Se rifiutavano venivano sottoposte ad abusi fisici e verbali, tra cui percosse con cinture, schiaffi e insulti degradanti.

Racconti terribili

Humaira (pseudonimo), una delle donne che protestavano, ha confermato in un’intervista con Hasht-e Subh Daily di essere stata torturata dai talebani, descrivendo la detenzione come brutale e disumana. Ha raccontato che ogni volta che veniva portata per l’interrogatorio, veniva prima appesa per i piedi, le mani legate dietro la schiena, e poi frustata prima di essere tenuta in stanze umide. Gli interrogatori comprendevano umiliazioni, insulti e confessioni forzate.

Humaira ha dichiarato che le era consentito usare il bagno solo tre volte al giorno e le era proibito parlare con le guardie. Non aveva contatti con la sua famiglia e le erano state negate le medicine nonostante la sua malattia. Era stata anche privata dell’assistenza legale e le venivano estorte confessioni forzate a giorni alterni. I talebani la costringevano a rilasciare dichiarazioni su azioni che non aveva mai commesso. Sebbene fosse presente in prigione  personale femminile talebano, tutti gli atti di tortura venivano eseguiti da combattenti maschi, che la picchiavano e la insultavano.

Quando parlava delle confessioni forzate, la voce di Humaira tremava e scoppiò a piangere. Spiegò che, a causa delle norme culturali dell’Afghanistan e per proteggere la sua famiglia da traumi psicologici, aveva nascosto loro l’entità della sua sofferenza. “La mia famiglia non sa delle mie confessioni forzate perché l’ambiente culturale dell’Afghanistan è molto duro. Se venissero a sapere cosa mi è successo, i miei famigliari cadrebbero in depressione e subirebbero un duro colpo emotivo. I talebani ci hanno spogliate completamente, hanno filmato le confessioni e hanno minacciato di pubblicare i video se avessimo parlato degli interrogatori. Hanno usato questo metodo con tutte le prigioniere, facendoci ripetere  davanti alla telecamera confessioni preparate, mentre tre uomini armati stavano lì vicino, minacciandoci. Immagina una donna nuda o seminuda davanti a una telecamera: cosa potrebbe esserci di peggio?”

Humaira ha aggiunto che le confessioni estortele erano del tutto inventate. “I talebani mi hanno costretta a dire che avevo ricevuto denaro dall’America per protestare contro le loro politiche. Mi hanno minacciata di confessare che avevo ricevuto denaro da Richard Bennett, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, per protestare contro l’hijab. Volevano che dicessi che intendevo reclutare ragazze per attività immorali e addestrarle come ballerine da inviare in Occidente per essere sfruttate. Queste false confessioni sono state estorte a tutte, spesso mentre erano nude o seminude”.

Nelle celle di isolamento non c’era nessuno che offrisse anche solo un briciolo di compassione. “I talebani hanno avuto accesso al mio telefono e ai miei account sui social media, interrogandomi sugli indirizzi di altre manifestanti donne e mostrandomi le loro foto, chiedendomi di scrivere i loro nomi”, ha affermato Humaira, che non riusciva a sopportare la tortura e sveniva entro dieci minuti quando veniva appesa per i piedi, dopodiché veniva trasferita in stanze umide e picchiata.

Humaira ha raccontato le storie di altri prigionieri, dicendo che facevano sembrare meno grave la sua sofferenza. “I talebani hanno offerto a una giovane donna la libertà se avesse sposato un membro dei talebani. Ho visto un’altra donna imprigionata con i suoi figli, senza visitatori. I bambini erano depressi, i loro corpi senza vita, indeboliti dallo shock della loro situazione. Erano stati arrestati con accuse che non capivano nemmeno. Ogni giorno diventavano più deboli, subendo un enorme trauma psicologico”.

Dice di essere sotto shock e di provare un grave disagio mentale ed emotivo. Secondo lei, nessuno aiuta nessuno nella situazione attuale. Aggiunge: “Purtroppo, le mie condizioni non sono buone. Non posso parlare con i dottori al telefono. Vorrei che ci fosse un dottore che potesse ascoltare tutte le mie parole e avesse un rimedio per la sofferenza e la tortura che ho sopportato. Finora, nessuno mi ha aiutato e sto lottando con un dolore e un’incertezza immensi”.

Condizioni detentive disumane

Anche Parnian (pseudonimo), un’altra donna che ha protestato e che ha sperimentato l’amara e dolorosa realtà delle prigioni talebane, conferma che le donne nei centri di detenzione talebani sono sottoposte a torture, umiliazioni e insulti. Afferma che sebbene le sue ferite fisiche siano guarite, non dimenticherà mai gli insulti e le parolacce che ha sentito dai talebani. Racconta che i talebani l’hanno arrestata in modo orribile e che durante i suoi giorni in isolamento le è stato permesso di usare il bagno solo una volta al giorno, costretta a sopportare due cicli mestruali in isolamento senza servizi igienici o prodotti per l’igiene. L’umidità della cella, la mancanza di pulizia e la malattia hanno fatto sì che tutto il suo corpo emanasse un cattivo odore. Dice: “Ho pregato molte volte senza abluzioni, chiedendo a Dio di attribuire il peccato ai talebani. Lì puzzavo, e sento che quell’odore è ancora nel mio corpo”.

Parnian conferma che anche a lei i combattenti talebani le hanno legato le mani dietro la schiena e le hanno messo un sacco nero sulla testa durante l’arresto. Dice che è stata portata all’interrogatorio almeno tre giorni dopo essere stata messa in isolamento, e aggiunge: “C’era un tavolo a forma di croce. La sedia dietro era molto bassa, mettevano le mani sul tavolo e le ammanettavano. Ma non era un vero interrogatorio: ti facevano sedere, ti insultavano, ti picchiavano, ti chiamavano prostituta, ti accusavano di andare dagli americani di notte, ti dicevano che sette o otto uomini ti sarebbero stati addosso e usavano parole volgari. Poi recitavano testi religiosi, si soffiavano addosso come per proteggersi dai presunti peccati e dicevano che Dio li aveva salvati dal nostro male. Se dicevo qualcosa, mi prendevano a pugni e schiaffi”.

“Durante l’interrogatorio, un talebano aveva una cintura in mano, che usava spesso, colpendo con la parte metallica, che poteva farti svenire se colpiva l’osso. Non facevano domande, ti prendevano con la scusa dell’interrogatorio e ti torturavano. Dicevano di ripetere tutto quello che ci suggerivano. Quando ho detto che non l’avrei fatto e che non avrei mentito, mi hanno schiaffeggiato così forte che mi sono bruciati gli occhi. Hanno detto: “Hai dato il tuo corpo agli occidentali e ora non ci parli?” Quando ho sistemato il mio velo, hanno detto: “Hai camminato a piedi nudi per le strade, resta qui allo stesso modo e parla”. Alla fine, ho dovuto fare una confessione forzata e ripetere tutto quello che dicevano per sfuggire al loro tormento”.

Questa ex prigioniera talebana afferma che le torture psicologiche e fisiche dei talebani sono indimenticabili. Sottolinea che il pestaggio di una donna da parte di uomini, gli insulti e le umiliazioni che lei e altri hanno sopportato non saranno mai dimenticati e un giorno i talebani saranno ritenuti responsabili di tutte queste atrocità. Dice di aver assistito ad altri incidenti scioccanti in prigione. Aggiunge: “Un giorno volevo andare in bagno e una donna era malata. La donna era sdraiata nell’angolo della stanza, soffriva per le doglie e nessuno si preoccupava di lei. Ha sopportato il suo dolore e ha partorito da sola nelle sporche condizioni carcerarie. E’ stato orribile. C’erano donne in prigione i cui figli non avevano mai visto il mondo esterno. Il motivo per cui la maggior parte delle donne venivano imprigionate era sconosciuto, molte venivano arrestate solo per la loro etnia”.

Parnian racconta che nei primi tempi i talebani le bruciarono una mano e in seguito, poiché la bruciatura raggiunse l’osso, non la appesero più per i piedi, ma la sottoposero ad altre torture, tra cui pugni, calci e percosse con cinture. Aggiunge: “Quando mi dicevano di dire qualcosa e mi rifiutavo, mi coprivano il viso con sacchetti di plastica finché non ero costretta a parlare. Mi picchiavano con le cinture. Una volta, la cintura mi colpì l’occhio e ho ancora la cicatrice. L’acqua del riscaldamento si infiltrava nella stanza, bagnando tutto. Mi diedero una vecchia, sporca e sottile coperta e i suoi effetti rimangono: ho ancora dolore alle gambe e alla schiena. Ho visto ragazze trascinate per i piedi e ho sentito le loro urla mentre imploravano il religioso di fermarsi, dicendo che le stavano tagliando le gambe. Ho persino sentito le urla di uomini a cui erano appese pietre ai testicoli”.

Parnian aggiunge: “Un giorno, quando mi hanno portato all’interrogatorio, mi hanno chiesto chi mi sosteneva. Uno di loro si è messo dietro di me con una baionetta innestata su un Kalashnikov e ha detto che se non avessi confessato, mi avrebbe tagliato la carne con il coltello e mi avrebbe staccato la pelle dalla mano”.

Le cicatrici psicologiche non si possono dimenticare

Mehrafarin (pseudonimo), un’altra ragazza che protesta e che ha subito la detenzione da parte dei talebani, dice di aver protestato per il diritto delle donne all’istruzione e alla fine ha dovuto sopportare varie forme di umiliazione, insulti e torture da parte dei talebani, così come lo sguardo discriminatorio della società. Aggiunge che le ferite fisiche guariscono nel tempo, ma le cicatrici psicologiche che ha sopportato non saranno mai guarite o dimenticate. Con voce strozzata dice: “Quando una ragazza viene detenuta in Afghanistan, la sua vita sociale non torna mai alla normalità. Nessuno può sopportare questa amarezza. Le persone fanno commenti estremamente duri e ingiusti e ricorrono a insulti e umiliazioni”.

Aggiunge: “I talebani non mi hanno permesso di incontrare la mia famiglia in prigione. Ci picchiavano e ci insultavano, ci chiedevano perché non eravamo sposate. Dicevamo che eravamo minorenni e che dovevamo studiare, ma ci chiamavano infedeli e ci picchiavano con pugni, calci e calci dei fucili. Mia sorella, a causa dei colpi alla testa, ha sviluppato disturbi neurologici e forti mal di testa. Sono anche malata e sotto shock. I talebani non consideravano le donne in prigione come esseri umani ”.

Sandokht (pseudonimo), una delle donne che protestavano, dice: “Quando i talebani ci hanno arrestate, avevo paura di essere aggredite sessualmente. Tutte le ragazze erano spaventate e le nostre mani e i nostri piedi tremavano. Quando sono arrivate le dipendenti talebane, ci hanno spaventate e minacciate ancora di più. Ci dicevano che ci avrebbero lapidate, che avrebbero sparso del sale sulla neve e sul cemento e poi ci avrebbero lasciate all’aria fredda a camminarci sopra. Ci chiedevano se capivamo contro chi ci stavamo schierando. Dicevano che ora che eravamo lì, avremmo dovuto piangere così tanto che i nostri volti si sarebbero spellati dalle lacrime”.

Aggiunge: “Avevo paura delle minacce delle dipendenti talebane. Avevo un bambino piccolo che piangeva e diceva che dovevamo andare a casa perché faceva freddo e non c’era acqua. Anche l’acqua del water era tagliata e gocciolava. Non importa quanto mio figlio chiedesse acqua, non riuscivo a trovare acqua pulita per lui. Gli ho dato un po’ di acqua del water in una brocca e il giorno dopo non riusciva a sollevare la testa, ammalato gravemente. Non c’erano né dottori né medicine. I talebani hanno chiesto soldi alla mia famiglia per il mio rilascio, ma loro hanno detto che non avevano più una figlia. Mi hanno rinnegata per liberarsi dei talebani”.

Mehrasa (pseudonimo), un’altra donna che protesta, dice che i talebani le hanno legato le mani dietro la schiena durante il suo arresto. La prima notte in prigione le hanno versato acqua fredda sulla testa, l’hanno portata per interrogarla e le hanno chiesto perché stesse protestando contro il regime dei talebani. “Mi hanno puntato una pistola all’orecchio e hanno detto che mi avrebbero uccisa, giustiziata. Mi hanno chiesto perché stessi protestando. Mi hanno picchiata e sono stata così spaventata che sono svenuta”.

I talebani hanno negato alla sua famiglia di averla portata dentro e poi hanno detto: “Siete disonorevoli e senza dignità perché non sapete che vostra moglie e vostra figlia stanno servendo degli stranieri”. Secondo lei, il peggior tipo di tortura è quando i talebani detengono una donna senza alcun crimine, senza accesso a un avvocato difensore e senza un giusto processo.

Questa ex prigioniera talebana afferma che tutto è possibile nelle prigioni talebane. Le donne arrestate dai talebani immaginano di tutto, dalla lapidazione allo stupro. Aggiunge anche che le donne i cui arresti sono pubblicizzati dai media vengono risparmiate dalla morte e dalla lapidazione, ma vengono comunque torturate.

Nel frattempo, negli ultimi tre anni, i talebani hanno arbitrariamente arrestato diverse donne con varie accuse. Oltre a tenere tribunali extragiudiziali e a fustigare pubblicamente le donne, i talebani hanno imprigionato centinaia di donne e ragazze in un processo ingiusto, accusandole di collaborare con fronti anti-talebani, di avere relazioni extraconiugali o di parlare al telefono con uomini che considerano non-mahram (uomini non imparentati).

Già precedentemente Hasht-e Subh Daily, in diverse indagini, aveva scoperto che alcune donne nelle prigioni e nei centri di detenzione dei talebani erano state sottoposte ad aggressioni sessuali sia individuali che di gruppo da parte di membri talebani e che durante gli interrogatori i talebani avevano ordinato alle detenute di spogliarsi e gravemente torturate quelle che si rifiutavano, al punto che i loro organi genitali venivano picchiati.

I talebani mandano le figlie in scuole “occidentali”


L’attore e filantropo scozzese David Hayman ha affermato che i talebani stanno mandando le loro figlie in una scuola in Afghanistan finanziata dalla sua organizzazione benefica, Spirit Aid

Kabul Now, 26 febbraio 2025

In un’intervista al quotidiano scozzese The Herald, Hayman ha affermato che attualmente la scuola accoglie circa 80 studenti, sia maschi che femmine.

“Ho ancora la mia piccola scuola in Afghanistan, che ospita 80 alunni, ragazzi e ragazze. I talebani mandano le loro figlie a scuola”, ha detto.

Hayman ha condannato le azioni dei talebani, definendoli “bastardi doppi” per aver negato l’istruzione alla maggior parte delle ragazze afghane, mentre vi iscrivevano le proprie figlie.

Non ha rivelato l’ubicazione della scuola in Afghanistan.

L’attore, che ha fondato Spirit Aid nel 2001, ha dichiarato che spera di mettere in scena un’opera teatrale che metta in luce la difficile situazione delle donne afghane.

“Le donne sono ormai delle non cittadine, non possono più ridere o cantare nelle loro case, dove l’istruzione è limitata alla scuola primaria e non possono accettare un lavoro”, ha affermato.

Secondo il sito web dell’organizzazione benefica, Spirit Aid è attiva in Afghanistan dal 2002 e fornisce aiuti umanitari, tra cui servizi medici, alle comunità isolate.

Dopo il loro ritorno al potere nel 2021 i talebani hanno vietato l’istruzione alle ragazze oltre la sesta elementare e hanno escluso le donne dalle università e dalla maggior parte dei lavori. Nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite, delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale, compresi i paesi islamici, i talebani non hanno ancora invertito le loro politiche.

Tuttavia, diversi resoconti indicano che alcuni membri senior dei talebani stanno silenziosamente assicurando l’istruzione alle proprie figlie. Un‘indagine del 2022 dell’Afghanistan Analysts Network (AAN) ha scoperto che membri di alto rango dei talebani stanno mandando le proprie figlie in scuole e università all’estero.

AAN ha citato un funzionario talebano in Qatar che ha ammesso di aver iscritto le sue figlie nelle scuole locali: “Dato che tutti nel quartiere andavano a scuola, le nostre figlie hanno preteso di andarci anche loro”.

Il rapporto ha anche scoperto che la figlia di un attuale ministro talebano sta studiando medicina presso un’università in Qatar.

“I membri dei talebani e le loro famiglie che vivono qui [in Qatar] hanno forti richieste per un’istruzione moderna, e nessuno si oppone né per i ragazzi né per le ragazze, di qualsiasi età”, ha detto ad AAN un ex funzionario talebano di stanza in Qatar.

Trump azzera Usaid, fondi all’estero ridotti del 92%

ANSA, Redazione, 27 febbraio 2025

Donald Trump azzera il 92% dei finanziamenti destinati all’estero di Usaid, l’agenzia per lo sviluppo finita nel mirino del presidente e del first buddy Elon Musk fin dalle prime ore alla Casa Bianca.

I tagli a circa 10.000 progetti consentiranno di risparmiare 60 miliardi di dollari, contribuendo così in modo sostanziale all’obiettivo di riduzione delle spese pubbliche del Dipartimento per l’Efficienza del governo.

La sforbiciata agli aiuti esteri arriva al termine di una revisione dei contratti di Usaid e rappresenta una ritirata degli Stati Uniti dall’assistenza oltreoceano, considerata per decenni nell’interesse americano in quanto in grado di portare stabilità e creare alleanze. Il quasi azzeramento degli aiuti si inserisce nella volontà del presidente di smantellare l’Usaid, come dimostrato anche dai licenziamenti di massa del suo personale. Agli ex dipendenti sono stati concessi solo 15 minuti per raccogliere i loro averi dalle scrivanie e lasciare l’edificio. Davanti alla sede decine di manifestanti hanno espresso la loro solidarietà ai lavoratori licenziati, ringraziandoli di quanto fatto per anni.

“Stiamo eliminando notevoli sprechi causati da decenni di deriva istituzionale”, ha spiegato l’amministrazione Trump in una comunicazione interna, assicurando di essere al lavoro per un utilizzo “saggio dei soldi dei contribuenti”, così che vadano realmente a “promuovere gli interessi americani”. Musk e il presidente da settimane lamentano gli sprechi e gli abusi commessi dall’Usaid senza fornire però prove al riguardo. La loro azione è mossa da un unico obiettivo: quello di realizzare risparmi per almeno 1.000 miliardi da usare per risanare i conti pubblici.

La picconata di Trump e Musk si è abbattuta su circa 5.800 iniziative di Usaid e 4.100 del Dipartimento di stato, lasciando intatti solo 500 progetti dell’agenzia di sviluppo e 2.700 del ministero guidato da Marco Rubio. L’annuncio della Casa Bianca sui tagli è arrivato mentre è in corso una dura battaglia legale, che ha visto il coinvolgimento anche della Corte Suprema.

I saggi hanno infatti sospeso fino a venerdì alle 12 la decisione di un tribunale che obbligava l’amministrazione Trump a sbloccare entro la mezzanotte di mercoledì circa due miliardi di dollari di assistenza all’estero congelati dal governo. La partita resta così ancora aperta ma pochi ritengono che il presidente la perderà: la Corte Suprema a maggioranza repubblicana – è l’idea – gli regalerà un’altra vittoria dopo quella dell’immunità presidenziale, forte della quale sta conducendo la sua azione senza fermarsi di fronte a nulla.

La dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri è una ricetta per il caos e la distruzione permanenti

Questo saggio di opinione analizza la dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri: “Senza la jihad finanziata dall’estero degli anni ’80 e i miliardi versati dopo il 2001 il regime oppressivo, anti-istruzione, anti-donne e anti-libertà dei talebani non sarebbe emerso all’interno della società afghana. L’attuale crisi è il risultato diretto della dipendenza dai finanziamenti esteri, una malattia che ha plasmato la traiettoria dell’Afghanistan negli ultimi decenni”.

Younus Negah, Zan Times, 26 febbraio 2025

Nel 2021, gli Stati Uniti hanno ritirato le loro forze dall’Afghanistan, ma hanno lasciato dietro di sé un vasto arsenale di attrezzature militari e non hanno interrotto il flusso di dollari verso il Paese. Le ultime dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump lasciano intendere che gli stanziamenti di bilancio per l’Afghanistan e i trasferimenti finanziari di aiuti esteri ai Talebani potrebbero continuare sotto la sua amministrazione.

Inizialmente, l’ordine di Trump di sospendere tutti gli aiuti esteri tramite l’USAID, l’agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti, ha fatto pensare che una cruciale ancora di salvezza finanziaria dei Talebani potesse essere tagliata. Di certo, gli aiuti umanitari e allo sviluppo destinati alla popolazione afghana sono stati sospesi. All’inizio, il mercato valutario afghano ha subito qualche turbolenza.

Tuttavia, ben presto è apparso chiaro che forze al di fuori dell’autorità di Trump stavano impedendo l’interruzione di tutte le transazioni in dollari con i Talebani. Trump ora dice che dare soldi ai Talebani potrebbe non essere un problema: “Voglio esaminare la questione, ma se stiamo per dare loro dei soldi, va bene”, ma vuole che “restituiscano il nostro equipaggiamento militare”. Alcuni oppositori dei Talebani hanno espresso la volontà di aiutare a recuperare le armi americane, anche se John Sopko, ex Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), ha dichiarato alla Conferenza sulla Sicurezza di Herat a Madrid che le armi americane rimaste in Afghanistan “non valgono la pena di essere recuperate”.

L’ufficio SIGAR, che ha monitorato i flussi di aiuti statunitensi in Afghanistan dal 2008 e che sarà sciolto dopo la pubblicazione del suo rapporto finale nel gennaio 2026, rimane una fonte relativamente credibile per indagare sulle specifiche dell’assistenza diretta degli Stati Uniti all’Afghanistan. Ogni tre mesi, l’agenzia pubblica un rapporto completo sugli aiuti statunitensi. L’ultimo rapporto, pubblicato il 30 gennaio, è stato diffuso a pochi giorni di distanza dall’annuncio della sospensione di tre mesi degli aiuti esteri da parte dell’amministrazione Trump. Secondo questo rapporto, dal ritorno dei Talebani al potere, gli Stati Uniti hanno stanziato 3,71 miliardi di dollari in aiuti all’Afghanistan. Di questo importo, il 64% è stato convogliato attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale e il Fondo fiduciario per la resilienza dell’Afghanistan (ARTF), mentre i restanti 1,2 miliardi di dollari rimangono disponibili per un’eventuale erogazione.

Cosa si aspettano gli Stati Uniti da questo investimento?

L’importo totale dei fondi spesi pubblicamente e promessi dagli Stati Uniti per l’Afghanistan dal mese di agosto 2021 è significativamente superiore ai 3,7 miliardi di dollari menzionati in precedenza. Nel suo rapporto, il SIGAR include altri tre importi, portando il totale a oltre 21,4 miliardi di dollari. Questi includono:

– 8,7 miliardi di dollari per il “sostegno agli sfollati afghani che si reinsediano negli Stati Uniti attraverso il programma Operation Allies Welcome (OAW)”
– 5,5 miliardi di dollari per il “Programma governativo successivo all’OAW”, che prevede il trasferimento e il reinsediamento degli afghani negli Stati Uniti.
– 3,5 miliardi di dollari “in beni della banca centrale afghana precedentemente congelati negli Stati Uniti e destinati al Fondo per il popolo afghano (Afghan Fund), con sede in Svizzera”.

I 3,7 miliardi di dollari erogati in Afghanistan dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) attraverso organizzazioni internazionali e ONG per sostenere i settori della sanità, dell’agricoltura e dell’istruzione fanno effettivamente parte del sostegno statunitense all’amministrazione talebana. Secondo il SIGAR, questi fondi sono stati assegnati con i seguenti obiettivi:

– evitare il collasso dell’economia afghana sotto il governo talebano

– impedire che l’Afghanistan diventi un rifugio sicuro per i terroristi

– garantire il rilascio degli ostaggi americani detenuti nei campi di prigionia talebani

– prevenire la persecuzione degli ex dipendenti del governo afghano

– proteggere la libertà dei media e i diritti delle donne.

Tuttavia, secondo il rapporto del SIGAR, nessuno degli altri obiettivi è stato raggiunto, a parte il primo (stabilizzazione economica).

Il SIGAR afferma inoltre che diversi altri Paesi e istituzioni internazionali, tra cui la Germania, il Regno Unito, la Banca asiatica di sviluppo, l’Unione europea, la Banca mondiale, il Canada, l’Australia, la Svezia e altri, hanno contribuito agli aiuti multilaterali negli ultimi tre anni. Collettivamente, questi Paesi e gli Stati Uniti hanno immesso 8,3 miliardi di dollari nell’economia afghana.

Tale importo supera le entrate interne dei Talebani. Secondo l’Autorità nazionale di statistica e informazione dell’Afghanistan:

12021-22: Le entrate interne sono state di 160,3 miliardi di afghani.
2022-23: Entrate interne pari a 198,7 miliardi di afghani
2023-24: Entrate interne pari a 210 miliardi di afghani

Nel settembre 2023, la Banca Mondiale ha riferito che le entrate dell’Afghanistan per il 2024-25 dovrebbero superare i guadagni dell’anno precedente. Se consideriamo una media di 200 miliardi di afghani di entrate interne annue in tre anni, ciò equivale a circa 2,7 miliardi di dollari all’anno al tasso di cambio attuale.

Ciò significa che le entrate interne dei Talebani negli ultimi tre anni sono, nella migliore delle ipotesi, pari solo agli aiuti esteri ufficiali e dichiarati che l’Afghanistan ha ricevuto.

Queste cifre evidenziano la forte dipendenza dell’Emirato talebano dagli aiuti esteri. Oltre agli importi dichiarati ufficialmente, nell’economia afghana sotto il governo talebano continuano a fluire ingenti fondi non dichiarati e segreti. Si possono identificare almeno tre principali fonti finanziarie non ufficiali:

1 – Donazioni religiose e assistenza di intelligence: una parte significativa dei finanziamenti non ufficiali probabilmente proviene da donazioni religiose e da aiuti segreti di intelligence, convogliati verso diverse fazioni talebane, gruppi jihadisti come al-Qaeda e ISIS e altri attori militanti provenienti dalla regione e dal resto del mondo.
2 – Rimesse degli espatriati afghani: anche i fondi inviati dai lavoratori e dai residenti afghani all’estero alle loro famiglie o per progetti di sviluppo locale e di beneficenza contribuiscono in modo significativo.
3 – Entrate derivanti dalla droga: nonostante il calo della produzione di oppio, l’economia legata al traffico di droga continua a generare entrate.

Questo ambiente finanziario consente al leader supremo dei Talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada, di mantenere le sue forze di repressione a Kandahar, che contano decine di migliaia di uomini. Permette inoltre a ministri, comandanti e funzionari talebani di creare orfanotrofi e madrase come centri di reclutamento per bambini e adolescenti, assicurando così un continuo rifornimento di combattenti. Se il mondo finanzia i servizi di base ed essenziali, i Talebani possono dedicarsi liberamente alle lotte di potere interne e alla soppressione delle forze di opposizione.

Una ricetta per l’instabilità e l’inevitabile caduta dell’Emirato talebano

La fragilità delle finanze pone anche le basi per un eventuale crollo dell’Emirato talebano. La dipendenza dei Talebani dall’assistenza straniera a breve termine e dai finanziamenti dell’intelligence, che potrebbero esaurirsi in qualsiasi momento, più il denaro illecito della droga sostenuto dall’oppressione e dalla discriminazione, è una ricetta per il caos e la distruzione.

Attualmente, la fonte di finanziamento non statale più affidabile per mantenere operativo il sistema talebano sono gli Stati Uniti. Tuttavia, questi aiuti non sono destinati a durare all’infinito. Sebbene Trump abbia indicato che il denaro degli aiuti stranieri continuerà ad affluire ai Talebani, i rapporti SIGAR mostrano un calo dell’assistenza ufficiale degli Stati Uniti:

2022: 1,2 miliardi di dollari
2023: 1,4 miliardi di dollari
2024: 798,8 milioni di dollari
2025: 255,3 milioni di dollari.
Gli aiuti statunitensi all’Afghanistan si stanno rapidamente riducendo, il che rafforza l’idea che la dipendenza dei Talebani dai finanziamenti esteri sia difficilmente sostenibile.

L’impatto della riduzione degli aiuti sui gruppi non talebani

La sospensione di tre mesi degli aiuti esteri decisa da Trump ha colpito sia le popolazioni talebane che quelle non talebane, ma il peso immediato ricade maggiormente sui gruppi non talebani: i programmi educativi sono stati chiusi per le donne e le ragazze, che sono state private della scolarizzazione; innumerevoli famiglie di migranti si trovano in un limbo, senza protezione né risorse; i media anti-talebani stanno lottando con gravi carenze di fondi. Nel frattempo, i talebani continuano a ricevere gli stipendi, le madrase e gli orfanotrofi da loro gestiti sono aperti e operativi e il sostegno finanziario ai talebani pakistani e ad altri alleati estremisti continua a fluire.

Per tutte le fazioni politiche afghane, dovrebbe essere ormai chiaro che gli aiuti stranieri non sono la salvezza del Paese, ma hanno finito per diventare un importante ostacolo alla formazione di un governo nazionale e di un’economia autosufficiente. Se da un lato gli aiuti sono necessari per costruire scuole e cliniche e sfamare gli affamati, dall’altro arricchiscono alcuni individui e hanno contribuito ad alimentare guerra, distruzione, instabilità e dipendenza.

La dipendenza dell’Afghanistan dai finanziamenti stranieri, sia militari che per lo sviluppo, ha una lunga storia, ma l’ondata più dannosa è iniziata dopo il colpo di Stato dell’aprile 1978. Come una dipendenza da oppio, si è diffusa in tutti i gruppi sociali e politici, indebolendo le basi culturali, politiche ed economiche del Paese.

Senza la jihad finanziata dall’estero negli anni ’80 e i miliardi versati dopo il 2001, il regime oppressivo, anti-istruzione, anti-donna e anti-libertà dei Talebani non sarebbe emerso dall’interno della società afghana. La crisi attuale è il risultato diretto della dipendenza dai finanziamenti esteri, una malattia che ha segnato il destino dell’Afghanistan negli ultimi decenni.

Anche se la riduzione degli aiuti esteri causerà sofferenze a breve termine, nel lungo periodo è necessaria per l’Afghanistan, perché gli permetterà di costruire un governo nazionale e di liberarsi dai progetti di intelligence stranieri che hanno dettato il suo destino per troppo tempo.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

Ocalan: Appello per la Pace e una Società Democratica

Woman Jin Solidarity,  27 febbraio 2025
Oggi Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo incarcerato da oltre 25 anni sull’isola di Imrali, dopo anni di silenzio forzato ha rilasciato la seguente dichiarazione

Appello per la Pace e una Società Democratica

Il PKK è nato nel XX secolo—il secolo più violento della storia—nel contesto creato da due guerre mondiali, la Guerra Fredda, la repressione delle libertà e, soprattutto, la negazione dell’identità curda.
Dal punto di vista teorico, programmatico, strategico e tattico, è stato profondamente influenzato dalla realtà del sistema socialista reale del secolo scorso. Tuttavia, il crollo del socialismo reale negli anni ’90, dovuto a ragioni interne, insieme alla dissoluzione delle politiche di negazione dell’identità nel paese e ai progressi nella libertà di espressione, hanno portato il PKK a uno stato di perdita di significato e ripetizione eccessiva. Di conseguenza, come movimenti simili, ha esaurito il proprio ciclo di vita, rendendo necessaria la sua dissoluzione.
Nel corso di una storia lunga oltre 1.000 anni, turchi e curdi hanno mantenuto un’alleanza—prevalentemente basata su una cooperazione volontaria—per preservare la loro convivenza e resistere alle potenze egemoniche.

Gli ultimi 200 anni di modernità capitalista hanno cercato di smantellare questa alleanza. Le forze coinvolte, in linea con i propri interessi di classe, hanno principalmente servito questo obiettivo. Questo processo si è accelerato con le interpretazioni assimilazioniste della Repubblica. Oggi, il nostro dovere fondamentale è riorganizzare questa fragile relazione storica in uno spirito di fratellanza, senza ignorare le fedi.

L’emergere e l’ampio sostegno al PKK—la più lunga e vasta insurrezione e movimento armato nella storia della Repubblica—sono derivati dalla chiusura dei canali politici democratici.
Il risultato inevitabile di una traiettoria ultranazionalista—come richieste di uno Stato-nazione separato, federalismo, autonomia amministrativa o soluzioni culturaliste—non riesce a fornire una risposta alla sociologia storica e sociale.
Il rispetto delle identità, il diritto alla libera espressione e la possibilità di organizzarsi democraticamente—permettendo a ogni segmento della società di plasmare le proprie strutture socio-economiche e politiche—possono realizzarsi solo attraverso l’esistenza di una società e di uno spazio politico democratici.

Il secondo secolo della Repubblica (Turca) potrà ottenere una continuità duratura e fraterna solo se sarà coronato dalla democrazia. Non esiste un’alternativa alla democrazia per costruire e attuare un sistema. Non può esserci un’altra via. La riconciliazione democratica è il metodo fondamentale.

Anche il linguaggio di questa era di pace e società democratica deve essere sviluppato in conformità con la realtà.
Alla luce dell’attuale clima, plasmato dall’appello del signor Devlet Bahçeli, dalla volontà espressa dal signor Presidente e dagli approcci positivi di altri partiti politici nei confronti di tale appello, faccio un appello al disarmo e ne assumo la responsabilità storica.

Così come ogni organizzazione e partito contemporaneo, la cui esistenza non sia stata interrotta con la forza, farebbe volontariamente, convocate il vostro congresso e prendete la decisione di integrarsi con lo Stato e la società: tutti i gruppi devono deporre le armi e il PKK deve sciogliersi.

Rivolgo i miei saluti a tutti i segmenti della società che credono nella convivenza e ascoltano il mio appello.
Abdullah Öcalan

Resistenze femminili a Kabul (o Teheran)

Cristina Giudici, il Post, 25 febbraio 2025

«Credo di avere intuito cosa sia il coraggio solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere l’apartheid di genere»

Alla fine degli anni Ottanta vivevo a Managua. Per incontrare i gruppi armati controrivoluzionari dei Contras, andai in un territorio minato in una foresta del Nicaragua. Ero convinta di fare la cosa giusta per stare dalla parte dei sandinisti (che hanno fatto una bruttissima fine, ma questa è un’altra storia). Fu un atto di coraggio? Non so, ma ci voleva parecchia incoscienza per trovarsi in quel luogo. Feci molte altre esperienze simili, soprattutto all’inizio del mio lavoro da giornalista.

Sono andata da sola nella foresta amazzonica peruviana, certa di incontrare un leader leggendario dei guerriglieri Tupac Amaru sulla base di una vaga promessa ottenuta da un loro dirigente che si era trasferito in Germania dopo essere rimasto cieco per aver maneggiato ordigni esplosivi rudimentali. Ci rimasi diversi giorni da sola, camminando giorno e notte, senza una rete di sostegno su cui contare. Alla fine il gran capo non si fece vedere. Incontrai solo agguerriti soldati dell’esercito che mi scacciarono dalla zona del conflitto. Anche quella fu una scelta rischiosa che non avrebbe certo reso il mondo migliore.

Racconto questi episodi, magari un po’ deformati dalla memoria, perché non è stato sfidando la ragionevolezza per inseguire il mio spirito di avventura e il desiderio di un giornalismo “in presa diretta” che ho capito cosa sia il coraggio. Credo di averlo intuito solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere pacificamente regimi che impongono l’apartheid di genere. Ma non è possibile cogliere appieno la forza di una donna disposta a immolarsi anche solo per ottenere il diritto di vedere una partita di calcio dal vivo.

La forza delle donne

Sahar Khodayari aka Blue Girl si è data fuoco il 2 settembre 2019 per non sottostare al processo che la vedeva imputata per essere entrata in abiti maschili in uno stadio, interdetto alle donne dal 1981, due anni dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Grazie al suo gesto, il 25 agosto del 2022 cinquecento donne hanno potuto assistere a una partita di calcio del campionato nazionale nello stadio Azadi di Teheran e cantare in coro dagli spalti Girl Blue di Stevie Wonder: «Bambina, sei triste. Anche se tutto quello che hai è visibile a te, nel tuo cuore resta una parte che è blu come il cielo».

Samia Hamasi, invece, si è ribellata per giocare. L’ho incontrata in un centro di accoglienza milanese dove era arrivata nell’agosto del 2021 in fuga dall’Afghanistan riconquistato dai talebani e vergognosamente abbandonato dalla missione internazionale guidata dalla NATO (dopo aver spacciato dosi massicce di tesi infondate su come la democrazia potesse essere esportata con le armi). Indossava i jeans e una t-shirt della sua squadra.

La sua passione per il calcio – mi ha raccontato in inglese stentato – era nata guardando Holly e Benji, un cartone animato giapponese, poi era diventata calciatrice e allenatrice della squadra femminile afghana under 17. Il suo racconto si è improvvisamente interrotto quando un altro profugo afghano si è avvicinato. Davanti alla sua espressione corrucciata, ho smesso di farle le domande e ci siamo lasciate con la promessa di risentirci al telefono e rivederci presto. Invece è scomparsa. «Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi. Ti chiamo presto, ciao Sam», mi ha scritto prima di inabissarsi di nuovo.

Semplicemente ineluttabile

È stata lei a dettare i tempi dei nostri contatti, che ho accettato perché sentivo la necessità di conoscere i dettagli della sua storia e di come era riuscita a scappare, mentre gli studenti coranici le puntavano contro il fucile. Sapevo che Samia vagava fra l’Italia, dove ogni tanto tornava per vedere sua madre, e la Germania, dove sperava di ottenere l’asilo e l’opportunità di scendere in campo di nuovo. Ci siamo ritrovate un anno dopo il nostro primo incontro. Era riuscita a ricominciare a giocare con il VfL Bienrode, una squadra di Braunschweig, in Bassa Sassonia. Mi ha mostrato i suoi disegni: si era autoritratta coperta da un burqa ma abbracciata a un pallone, davanti allo sguardo di un talebano con una frusta. «L’ho fatto per ricordarmi come sarebbe andata a finire se non fossi scappata», mi ha detto. Le ho chiesto dove avesse trovato il coraggio, ha alzato le spalle, con un’espressione scanzonata come se fosse stato semplicemente ineluttabile.

Ho fatto la stessa domanda ad Atefa Ghafoory, giornalista afghana di Herat, che mi aveva raccontato di quando i talebani avevano devastato la sua casa, picchiato il padre e ammazzato lo zio. Prima di riuscire a oltrepassare i confini e arrivare in Europa, aveva dovuto attraversare il paese con il figlio in braccio e i genitori anziani, cambiando cinquanta rifugi in tre mesi. Era angosciata all’idea di non poter salvare altre donne, alcune delle quali resistono e costruiscono scuole clandestine, rimaste in un paese dove ora alle donne si impedisce perfino di avere una finestra. Anche Atefa Ghafoory mi ha risposto con un sorriso: «Vuol dire fare ciò che è necessario, ma è comunque troppo poco».

Vorrei tanto sapere dove abbia trovato la forza anche Khalida Popal, che nel 2007 ha fondato la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, ed è stata così abile e intelligente da diventare responsabile finanziaria della federazione afghana di calcio e sfidare gli uomini che preferivano restare senza stipendio piuttosto che prendere l’assegno mensile dalle sue mani. Recentemente ho letto la sua autobiografia, My Beautiful Sisters, non ancora tradotta in Italia. Khalida racconta di aver iniziato a palleggiare in un campo profughi in Pakistan nel 1996, quando aveva solo nove anni, dopo la fuga della famiglia durante il primo emirato dei talebani, e di aver continuato anche una volta rientrata a Kabul, protetta dalle alte mura del cortile della scuola e dalla complicità della madre, insegnante di educazione fisica.

All’inizio di ogni capitolo Khalida Popal, che a scuola veniva soprannominata la «calciatrice matta», riassume la sua filosofia sportiva con un paragrafo che si conclude sempre con la stessa frase: «Apri gli occhi».

“Apri gli occhi”

«La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Apri gli occhi».

Dopo essere stata minacciata, aggredita e intrappolata in un conflitto di potere fra il presidente del comitato olimpionico e quello della federazione di calcio, che la teneva sorvegliata in ufficio con una videocamera, nel 2011 Khalida è riuscita a scappare in India con un passaporto falso. Oggi vive in Danimarca, dove ha creato Girl Power, un’organizzazione che usa lo sport come strumento di attivismo politico con lo scopo di connettere, unire e aumentare il potere delle ragazze in tutto il mondo. È stata lei, nell’agosto del 2021, a far evacuare in Australia, in Portogallo e a Londra le calciatrici delle nazionali senior e giovanili dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari.

Ho chiesto cos’è il coraggio a molte donne afghane e iraniane che hanno scelto di essere libere di scegliere. Ognuna di loro mi ha dato una risposta diversa. «Quando sono andata a vivere da sola, lasciavo una piccola luce accesa ogni sera per sentirmi al sicuro. Con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà quella luce non mi avrebbe aiutato a superare le mie ansie e l’ho spenta», mi ha detto Sadaf Baghbani, un’attrice iraniana di 29 anni arrivata in Italia per curare le ferite provocate da circa 150 pallini di piombo che le avevano sparato addosso i pasdaran nel settembre del 2022, durante la rivolta scoppiata dopo l’omicidio di Jina Mahsa Amini. «Il coraggio è la paura di non farcela a vivere senza libertà», mi ha detto poi. Quindi si diventa coraggiosi perché si ha paura e si deve imparare a camminare nel buio?

Cristina Giudici
Scrive per Il Foglio, Grazia, Linkiesta. Da diversi anni si occupa di immigrazione e fondamentalismo. Nel 2018 ha fondato la testata online NuoveRadici.world e dal 2022 collabora con la Fondazione Gariwo. Ha scritto diversi libri: con L’Italia di Allah ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli. Nel 2024 ha vinto il Nuovo Premio Guido Vergani. A marzo uscirà il suo nuovo libro, scritto con Fabio Poletti: Vita e Libertà contro il fondamentalismo (Campo Libero, collana della Fondazione Gariwo, Mimesis).