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Tag: Afghanistan

Alberto Cairo: “Il mio Afghanistan dimenticato”

Anna Spena, Vita, 19 marzo 2025

Il fisioterapista Alberto Cairo vive nel Paese dal 1990. Ha ridato braccia e gambe a 240mila mutilati. È stato il protagonista di uno degli incontri organizzato durante la fiera “Fa’ la cosa giusta!”. «È un Paese che mi ha fatto innamorare», racconta. «Mettere una protesi non è la parte più difficile del lavoro, reinventare la vita di qualcuno lo è. Ma ora ha la percezione che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan»

Si è appena conclusa la ventunesima edizione di “Fa’ la cosa giusta!”, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili quest’anno organizzata nella nuova sede di Fiera Milano Rho, a ingresso libero per tutti. Tre giorni di dialoghi, confronti e approfondimenti per far crescere la fiducia – il filo rosso di questa edizione – e costruire un mondo più giusto e una società più coesa per tutti. 52.200 visitatori, 400 relatori, 400 relatori, 300 incontri e workshop per adulti e bambini.

Tra gli incontri, moderato dalla giornalista Laura Silvia Battaglia, anche quello con il fisioterapista Alberto Cairo, 73 anni. Dal 1990 vive stabilmente in Afghanistan. Per oltre 30 anni ha guidato i centri per la riabilitazione della Croce Rossa internazionale, assistendo oltre 200mila persone con disabilità vittime della guerra. Ha contribuito a sviluppare e migliorare i servizi di riabilitazione del Paese, e a offrire percorsi di studio, lavoro e sport per molti riabilitati.

Oggi abita in un quartiere popolare di Kabul, è ancora consulente per i programmi di reinserimento sociale della Croce Rossa e continua ad assistere i pazienti anche a domicilio. È stato testimone della guerra civile del 1992, della presa del potere da parte dei talebani, dell’invasione americana del 2001 fino alla ritirata del 2021 e del ritorno al governo dei talebani. È presidente della ong Nove, Caring Humans (presente in fiera), che dal 2013 opera in Afghanistan con diversi progetti, soprattutto per le donne e per le persone con disabilità.

“Un paese che mi ha fatto innamorare”

La scelta di vivere a Kabul «è una storia lunga», racconta. «Io sono laureato in legge e per un periodo della mia vita ho fatto l’avvocato, ma non ero contento. All’inizio la fisioterapia era un hobby, poi è diventata il mio mestiere. Volevo fare un’esperienza in Africa, solo una per capire se potevo essere utile con il mio lavoro. Sono stato due anni e mezzo a Juba, nel Sud Sudan. Mi sono innamorato del lavoro del fisioterapista in posti non facili, dove potevi fare la differenza. Una volta tornato ho contattato la Croce Rossa per iniziare a lavorare con loro, ero stato riassegnato all’Africa. Due settimane prima della partenza mi chiamano per dire “Non vai in Africa, ma in Afghanistan”. Sono partito nel 1990 e non sono più tornato».

Un Paese «che mi ha fatto innamorare. Io in Afghanistan ricevo molto di più di quello che do. Se facciamo un bilancio vinco io, non gli afghani purtroppo», dice. «Anche se ho visto e vedo ancora oggi cose bruttissime». Il lavoro di Cairo è passato attraverso tante fasi. «Quando sono arrivato nel 1990 facevo riabilitazione ai feriti di guerra, persone che avevano perso braccia e gambe. Ma io i feriti di guerra non li avevo mai visti prima. Mettere le protesi in Afghanistan non è difficile, la maggior parte delle persone che perde un arto è giovane, ha tutta la vita davanti. La strada del recupero è l’unica possibilità».

Quindi per Cairo la cura non è stata la parte più complicata: «le persone tornavano, ci dicevano “grazie per la protesi, grazie per quello che avete fatto. Ma adesso che ne sarà di me?” Insomma ci chiedevano un reinserimento sociale e inclusione. Devo ripeterlo: curare non è la parte più difficile, reinventare la vita di qualcuno lo è. Mettere insieme i pezzi di anima di cuore che si sono rotti con le mine antiuomo lo è. Ridare alle persone un ruolo dignitoso in società è molto più complesso perché bisogna tener conto delle aspirazioni di quella persona, della comunità in cui vive. Ci sono mille cose che devono essere messe insieme». E quindi «la scuola, i corsi di formazione, i micro prestiti, trovare un lavoro. Per dimostrare che questa cosa era possibile abbiamo cominciato a dare lavoro e a formare solo persone con disabilità.

Nei sette centri in cui lavoravo sono impiegate 850 persone, 800 hanno una disabilità. Medici, infermieri, addetti alle pulizie, guardiani. Questa cosa aiuta molto perché è un segno. Fa capire che la vita non finisce con la disabilità. L’Afghanistan poi è una barriera architettonica naturale: se non cammini, se non sei forte, la vita diventa particolarmente difficile».

 

Essenziale trasmettere positività

In questi anni per Cairo non sono mancati i momenti di scoraggiamento: «Però ho imparato», racconta, «anche quando vedi i pazienti che continuano ad arrivare e tu non sai da che parte cominciare, a pensare “questa persona adesso non ha le gambe, ma tra un mese o due camminerà di nuovo“. Pensare in maniera positiva e trasmettere questa positività è essenziale».

Nel 2010 l’incontro con dei ragazzi che gli hanno fatto una richiesta: «che all’inizio mi sembrava fuori posto», dice. «Mi chiesero “Perché non fate qualcosa per il nostro tempo libero?”. Ecco l’Afghanistan è un Paese difficilissimo, dove manca tutto. Pensare al tempo libero mi sembrava un lusso. I ragazzi chiedevano soprattutto di partecipare ad attività sportive. Organizzammo qualche partita di calcio, ma nel calcio bisogna saper correre e molti di quei ragazzi vivevano su una sedia a rotelle. Allora qualcuno suggerì la palla a canestro. Non ero ancora convinto ma poi ho capito che lo sport è un diritto, e dopo un lungo momento di cecità sono stati gli afghani stessi a risvegliarmi e mi sono deciso ad ascoltare quello che loro dicevano, quello che loro chiedevano. Vi assicuro che anche nel settore umanitario, molto spesso, pensiamo che le nostre opinioni, le nostre idee, siano quelle giuste, e invece no. Io a volte ci definisco “colonialisti umanitari”. Comunque, per fortuna, mi sono lasciato convincere e abbiamo iniziato con la pallacanestro in carrozzina. Ho visto in quei giovani una trasformazione fisica e psicologica incredibile».

Quando i talebani hanno ripreso il controllo del Governo i fondi della cooperazione destinati al Paese sono diminuiti. «La gente pensa che i fondi vadano ai talebani, ma invece no. Vanno alle organizzazioni. Ma da qui, dal Paese, la percezione è che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan. Questa è una fase molto triste. Ci sono così tante guerre. Ucraina, Sudan, Gaza…Chiudete gli occhi, mettete un dito sopra la carta geografica e trovate una guerra. Credo ci sia anche una stanchezza proprio dei donatori».

Immaginare un Afghanistan senza Talebani è possibile

Zan Times, 8 marzo 2025

Il popolo afghano non è condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Accettare che la mullahcrazia talebana sia un destino inevitabile significa negarne al popolo  l’umanità, la capacità e il diritto a determinare il proprio destino

Quest’anno ricorre la quarta Giornata internazionale della donna in cui i talebani hanno imprigionato donne e ragazze afghane all’interno delle loro case. Da quando i talebani sono emersi come gruppo armato islamico nel 1994, sono diventati famosi per le loro politiche anti-donne.

Durante il loro primo periodo al potere, dal 1996 al 2001, hanno vietato l’istruzione e il lavoro delle donne e hanno sguinzagliato per le strade la loro zelante polizia religiosa, colpendo le donne con cavi se non erano accompagnate da un mahram o se non aderivano al codice di abbigliamento regressivo imposto dai talebani: le donne erano costrette a indossare burqa avvolgenti e scarpe che non facevano rumore.

Una progressione scioccante

Dal loro ritorno al potere nel 2021, i Talebani hanno perseguito senza sosta le stesse politiche misogine volte a rendere le donne invisibili, facendole sparire dalla vita pubblica e imprigionandole nelle loro case. Nella prima settimana di ritorno al potere, hanno imposto il divieto di lavoro per le donne nel settore pubblico. Nel primo mese, hanno imposto il divieto di istruzione per le ragazze oltre la sesta classe. Dopo quattro mesi, hanno imposto alle donne di viaggiare esclusivamente in compagnia di un mahram o di un accompagnatore maschio. Ogni giorno i Talebani introducono un nuovo decreto, un nuovo divieto o un’altra nuova restrizione nei confronti delle donne.

Proprio quando pensavamo di aver visto tutto, nell’agosto 2024 i Talebani hanno introdotto un altro decreto scioccante: il divieto di far sentire la voce delle donne in pubblico. Hanno dichiarato che la voce delle donne è aurat, qualcosa da nascondere. Questo decreto criminalizza di fatto il diritto delle donne di parlare in pubblico o di parlare con estranei.

I Talebani sono ancora insoddisfatti. Ritengono che la sharia non sia ancora stata pienamente applicata nel Paese. Il loro leader, il Mullah Hibatullah, giura regolarmente di creare le condizioni per un sistema islamico puro e di far applicare la sharia in modo completo. Il sistema talebano della sharia è caratterizzato da punizioni corporali, esecuzioni pubbliche e fustigazioni. Nonostante abbiamo già assistito a diverse esecuzioni pubbliche e a migliaia di fustigazioni, i Talebani hanno promesso al mondo che una brutalità ancora maggiore è in arrivo: Hibatullah ha giurato che le donne saranno presto lapidate pubblicamente.

Il nucleo centrale della leadership talebana insiste nel voler stabilire la propria società ideale, delineata nella Legge sul vizio e la virtù, che non solo vieta la voce delle donne ma anche le immagini e i video. È evidente che i Talebani stanno incontrando difficoltà nell’attuare pienamente le loro politiche, dato che non riescono nemmeno a metterle in atto all’interno dei loro ranghi e delle loro strutture.

Esiste un’ala moderata?

Il mullah Hibatullah si oppone regolarmente alla richiesta di scattargli foto, non permette a nessuno di farlo, perché la Legge sul vizio e la virtù vieta di rappresentare gli esseri viventi. Eppure diversi ministri posano regolarmente per foto e video da utilizzare a scopi di propaganda online. Queste contraddizioni hanno alimentato la speculazione sull’esistenza di un’“ala moderata” all’interno dei Talebani, che rappresenterebbe una “migliore speranza di cambiamento”.

All’interno e all’esterno dell’Afghanistan circolano da sempre voci secondo cui, se questi elementi “moderati” all’interno dei Talebani riuscissero a prendere il comando, a modificare le proprie politiche e a formare un “governo inclusivo”, il loro emirato diventerebbe accettabile.

Questa convinzione deriva dal presupposto che il popolo afghano sia condannato a vivere sotto il dominio dei Talebani. Non riesce a immaginare uno scenario alternativo in cui la popolazione possa vivere in pace e in condizioni normali. Accettare che la mullahcrazia talebana sia il destino inevitabile del popolo afghano significa negarne l’umanità, la capacità e il diritto di determinare il proprio destino. Questa mancanza di speranza porta a un torpore intellettuale e a una sconfitta politica che prolungherà l’oppressione talebana.

Dobbiamo quindi valutare la capacità di resistenza del nostro popolo e apprezzare e rafforzare i modi dinamici e creativi che hanno usato per sfidare i Talebani e mantenere viva la speranza. Dobbiamo anche capire che, a prescindere dalle loro piccole differenze interne, i Talebani sono un movimento e un’ideologia uniti dal desiderio di instaurare una tirannia teocratica. Questa tirannia è progettata per negare alle donne la loro umanità, discriminare le minoranze etniche e fare guerra al popolo, alla scienza e all’istruzione moderna.

Il governo talebano si basa essenzialmente sull’esclusione della popolazione. La loro dottrina prevede una società in cui solo il leader supremo detta le politiche pubbliche e sociali, mentre la popolazione rimane in silenzio e sottomessa. Tale impostazione è dunque in contrasto con gli interessi fondamentali della popolazione del Paese.

Nel celebrare la Giornata internazionale della donna di quest’anno dobbiamo riconoscere che i valori progressisti e democratici sono sotto attacco in tutto il mondo. Misoginia, transfobia, razzismo e fascismo sono in aumento. È importante ricordare a noi stessi che se non saremo vigili sui nostri diritti e sul nostro diritto di governarci da soli, ci saranno sempre forze pronte a toglierceli.

Pertanto, se il popolo afghano, in particolare le donne, vuole riaffermare la propria umanità, deve lavorare e pianificare per prendere in mano il proprio destino collettivo e costruire un Afghanistan pacifico e democratico al di là dei Talebani. Solo costruendo una società democratica e laica, il popolo afghano potrà ottenere pace, diritti umani e libertà.

I talebani stanno rimuovendo la voce delle donne dalla radio afghana

The Guardian, Rawa, 15 marzo 2025

Mentre una delle ultime stazioni gestite da donne nel paese viene messa a tacere, un’ex giornalista offre una visione interna della repressione delle donne che lavorano nei media

Quando i talebani hanno iniziato a marciare verso le città dell’Afghanistan nell’estate del 2021, Alia*, una giornalista afghana di 22 anni, si è ritrovata a svolgere uno dei lavori più importanti della sua breve vita e carriera.

Nelle settimane che hanno preceduto la presa del potere da parte dei talebani in agosto, la voce di Alia alla radio è diventata familiare a molti nel nord dell’Afghanistan. Ha riferito del ritiro delle truppe straniere, dell’assedio degli uffici governativi e della detenzione di ex funzionari nella sua provincia.

Soprattutto, Alia ha raccontato la situazione delle donne e le loro paure e preoccupazioni, emozioni che stava vivendo lei stessa. Mentre i talebani cominciavano gradualmente a imporre loro delle restrizioni, Alia stava documentando la storia che si ripeteva.

“Sono cresciuta con la storia del dominio dei talebani sulle donne [durante il loro primo periodo al potere tra il 1996 e il 2001] e gran parte del mio lavoro si è concentrato sull’impatto che questa ideologia radicale ha avuto sul progresso delle donne in Afghanistan”, afferma.

“Ero entrata a far parte della stazione subito dopo l’università nel 2019 e ho lavorato per due anni prima che i talebani prendessero il potere. Nei mesi successivi, mi sono sentita più appassionata del mio lavoro e della scelta della mia carriera, anche se c’era sempre la paura dei talebani.

Non ci è voluto molto perché i talebani iniziassero a reprimere i media e i giornalisti nel Paese, con 336 casi noti di arresti, torture e intimidazioni tra agosto 2021 e settembre 2024, secondo le Nazioni Unite.

È stato particolarmente duro per i giornalisti radiofonici che possono essere riconosciuti e presi di mira dal loro volto e dalla loro voce. In diverse province, i talebani hanno vietato alle donne di trasmettere in radio.

Nei primi giorni dopo la presa del potere, tra il caos, l’incertezza e gli attacchi dei membri dei talebani, alcuni giornalisti furono costretti a nascondersi o a fuggire dal paese. I datori di lavoro di Alia la tolsero temporaneamente dalle trasmissioni per proteggerla, ma lei continuò a raccogliere notizie, in particolare su questioni femminili, e le sue storie spesso irritarono i nuovi poteri.

La radio è un mezzo potente nel paese in povertà

Nel 2022, dopo che i datori di lavoro di Alia iniziarono a ricevere minacce dai leader talebani locali per aver assunto e trasmesso giornaliste donne, licenziarono Alia per la loro reciproca sicurezza.

“Mi è stato chiesto di andarmene a causa del mio genere. Volevo amplificare le voci delle donne, non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata.”

Nei due anni successivi, le donne hanno continuato a essere escluse dal pubblico e dai media. Prima c’è stato un divieto nazionale alle voci delle donne in pubblico e ora, questo mese, uno degli ultimi media gestiti da donne rimasti è stato messo a tacere, con gli uffici di una stazione radio femminile con sede a Kabul, Radio Begum, perquisiti, il personale arrestato e la stazione tolta dalle trasmissioni.

Mentre i talebani accusano Radio Begum di violare la politica di trasmissione, i membri dello staff di Begum insistono sul fatto che hanno semplicemente fornito “servizi educativi per ragazze e donne in Afghanistan”. Con i recenti divieti alle donne di frequentare l’istruzione superiore, piattaforme come Radio Begum hanno cercato di colmare il vuoto per le ragazze che desiderano continuare a studiare.

Sotto minacce, pressioni immense e persino chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi tre anni. Prima della presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan aveva circa 543 punti vendita di media che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi punti vendita era chiuso, con solo 4.360 lavoratori dei media rimasti. È stato anche peggio per le donne nei media.

Una stima recente della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha documentato che a marzo 2024 in Afghanistan erano presenti solo 600 giornaliste attive, in calo rispetto alle 2.833 donne nel giornalismo prima di agosto 2021.

“Non riesco a esprimere il senso di disperazione e miseria che provo. Devi essere una donna afghana per capire davvero quanto sia stato difficile rinunciare a tutto ciò per cui hai lavorato. Abbiamo mostrato al mondo che i talebani non sono cambiati e non cambieranno. E questo li spaventa”, dice Alia.

Alcune voci femminili rimangono in onda nelle province settentrionali, a causa delle opinioni contrastanti all’interno dei talebani sull’esclusione delle donne dalla società. Alia afferma che la radio in particolare rimane un mezzo potente in un paese con povertà diffusa e scarso accesso a Internet o alla televisione. Molte famiglie si affidano alla radio per notizie e informazioni.

“I media sono l’unica fonte che può esporre i crimini dei talebani alla gente e al mondo, per esporre come hanno deprivato le donne e altri gruppi. E aiuta anche gli afghani a essere più consapevoli attraverso programmi come Radio Begum”, afferma.

*Il nome è stato cambiato per proteggere la loro identità

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il nuovo podcast che racconta la lotta delle donne afghane

pressenza.com 14 marzo 2025

“Vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore”

14 Marzo 2025 – Large Movements lancia su Spotify “Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan”, il podcast che vuole riaccendere i riflettori su un paese in guerra per decenni, poi magicamente dimenticato dalla tragica data del 15 agosto 2021.

“Un Paese in guerra: il caso dell’Afghanistan” è un viaggio tra le vicende storiche e il dramma umano che il conflitto afghano porta con sè. Attraverso 6 puntate, in uscita ogni sabato dall’8 marzo al 12 aprile, racconta la storia dell’avvento dei Talebani, dalle origini del gruppo, risalenti a più di 40 anni fa, fino alla situazione attuale in cui è costretta a vivere la popolazione, quella rimasta in Afghanistan e coloro che sono riusciti a essere evacuati.

“Con questo podcast vogliamo ricordare la storia di donne che, nonostante i continui tentativi di cancellarne l’esistenza dalla vita pubblica, continuano a resistere ed a combattere per un futuro migliore per il loro Paese. Vogliamo raccontare la storia delle donne afghane e delle numerose violazioni dei diritti umani che subiscono” dichiara Rainer Maria Baratti, Vicepresidente di Large Movements.

Il secondo episodio, intitolato “Strade interrotte verso l’equità di genere”, uscirà il 15 marzo e si concentrerà sulla condizione delle donne afghane dopo la presa di potere dei Talebani il 15 agosto 2021. Attraverso testimonianze dirette, il podcast mette in luce la repressione e le difficoltà quotidiane delle donne nel Paese, esplorando anche il ruolo delle organizzazioni internazionali impegnate a sostenere i loro diritti.

Nei successivi episodi, il podcast andrà ad esplorare anche il ruolo della comunità internazionale nella gestione delle varie fasi diplomatiche attraversate dal Paese nonché le motivazioni e gli interessi geopolitici che contribuiscono tuttora a rendere la situazione in Afghanistan di difficile soluzione.

Il podcast, scritto da Martina Bossi, Laura Sacher, Sara Massimi e Rainer Maria Baratti, con il contributo di Mattia Ignazzi, è frutto di un attento lavoro di ricerca e di raccolta di testimonianze. Alla produzione hanno collaborato Nove Caring Humans, mentre la registrazione e la post-produzione sono a cura di William Frezzotti.

L’obiettivo del progetto è offrire un racconto approfondito e umano di un Paese segnato dalla guerra, dando voce a chi vive ogni giorno le sue conseguenze. La serie si compone di sei episodi, in uscita ogni sabato fino al 12 aprile 2025.

Dove ascoltarlo: https://open.spotify.com/show/7slKxrlnBgLIx1zgYcvOfe?si=a217e89b6ce244ce

Sostieni il progetto: Un Paese in guerra è una produzione indipendente. È possibile supportare il lavoro di Large Movements APS partecipando al crowdfunding su www.largemovements.it/sostienici.

Large Movements APS è un’associazione che vuole decostruire le fake news sulla migrazione e promuovere la partecipazione di migranti e rifugiati nei dibattiti politici e nei progetti che li coinvolgono direttamente. Tutto questo tramite la divulgazione, la sensibilizzazione e la progettazione. L’obiettivo principale dell’associazione è informare e sensibilizzare l’opinione pubblica per promuovere, influenzare e/o modificare le politiche pubbliche stimolando la partecipazione attiva sia della società che delle comunità di migranti, rifugiati e della diaspora.

 

 

 

I novantamila occhi dei talebani a Kabul regna il Grande Fratello

La Repubblica, 6 marzo 2025, di Alberto Cairo

Gli afgani hanno appreso da tv e radio la notizia del piano di installare novantamila telecamere di videosorveglianza nella capitale. Nessun annuncio ufficiale è venuto fino ad ora dalle autorità. I proprietari di svariati condomini riferiscono comunque di avere ricevuto nelle ultime settimane la richiesta di installare delle telecamere a proprie spese. Senza minacce ma in maniera pressante, ad invitarli hanno pensato i wakìl, i rappresentanti di quartiere, una volta eletti dai residenti, ora nominati d’ufficio. Ogni condominio deve averne, hanno spiegato, soprattutto quelli d’angolo, posti agli incroci. L’invito non è avvenuto in maniera uniforme, essendo nel Paese molto lasciato all’iniziativa personale dei funzionari, alle loro opinioni e al loro zelo, creando confusione.

Si tratterebbe secondo alcuni di una cifra di apparecchi molto alta, volutamente esagerata per intimorire, per altri invece è un numero credibile in una città ormai enorme e in continua espansione. Dove saranno installati? la domanda. Ovunque o soprattutto nei quartieri considerati ribelli, quelli a maggioranza tajika, l’etnia rivale del regime, o sciita? I talebani hanno rivelato alla Bbc che si tratta di telecamere cinesi ad alta precisione in grado di identificare persone e cose a grande distanza e ad ogni ora. La convinzione che funzioneranno solo parzialmente è però legittima, viste le continue e lunghe interruzioni nell’erogazione dell’elettricità.

Comunque sia, rafforzeranno i controlli e la pressione sulla popolazione, al momento già pesanti grazie perquisizioni, fermi, delazioni. La gente tace, non esprime opinioni in pubblico, non rischia. Il numero degli informatori è alto.

In realtà niente di nuovo in questo. Ognuno degli ultimi regimi se ne è servito copiosamente, reclutando collaboratori ovunque. Ho dei precisi ricordi in proposito. Arrivato a Kabul nel 1990 – i comunisti erano al potere – avevo ingaggiato un insegnante che mi aiutasse a capire un po’ il Paese, usanze e tradizioni e mi insegnasse i rudimenti della lingua.Mi accorsi presto che era malvisto dai guardiani e dalla signora cuoca-donna delle pulizie. Di solito loquaci, in sua presenza parlavano a malapena. Pensai a beghe personali e non badai quando mi dissero che era affiliato al Khad, la polizia segreta. Dovetti ricredermi quando sparìimprovvisamente una settimana prima della caduta del presidente Najibullah.

Sotto il primo regime talebano e quello instaurato dagli occidentali dopo il 2001, lavorando a un programma di riabilitazione fisica e sociale, aiutavamo con micro-prestiti le persone disabili a iniziare piccole attività commerciali. Alcuni misero su dei chioschi per vendere sigarette e piccole cose. Per quanto il capitale investito fosse minimo e gli affari decisamente magri, ripagavano
puntualmente le rate. Ammirevoli, pensavo. Invece il chiosco nascondeva un’altra attività, ben remunerata. Piazzati in punti cruciali, riportavano ogni movimento considerato sospetto. A uno di loro un giorno cadde di tasca una radio ricetrasmittente. «L’ho trovata per strada», si giustificò. Sparì anche lui con il cambio di regime nel 2021.

C’è comunque chi applaude alle nuove telecamere, non solo i sostenitori dei talebani, una larga fetta della popolazione. Rapine e furti diminuiranno, dicono (già sono diminuiti, va ammesso). Per le donne, ormai punite da una interminabile lista di divieti, la vita potrebbe invece diventare sempre più soffocante, specie per quelle che ancora lavorano o continuano in qualche modo a studiare. Darebbe alla polizia per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù un ulteriore strumento di controllo. Facilmente immaginabili poi gli effetti sulla dissidenza, su quel poco che ne rimane. Il Ministero degli Interni sarà a capo dell’intera operazione.

Altri sono tuttavia i problemi che tormentano gli afgani oggi. L’economia in primo luogo. La disoccupazione (giovanile in particolare) è altissima. Non passa giorno senza che qualcuno contatti NOVE Caring Humans, la mia organizzazione, per chiedere aiuto o un lavoro. Il numero dei poveri e dei bambini a rischio malnutrizione riportato dalle Nazioni Unite resta spaventoso. Posso solamente confermare che tantissime famiglie hanno perso gli introiti che consentivano loro una vita decente e si arrabattano miseramente. I programmi governativi non hanno per ora portato miglioramenti. Circa l’istruzione femminile, la promessa delle autorità di riaprire le scuole alle ragazze appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno, dopo tre anni resta una promessa. E poi l’incertezza dovuta alle lotte interne al regime, con il gruppo di Kandahar opposto al clan degli Haqqani e il rafforzamento della politica più intransigente; i ritorni forzati da Pakistan e Iran che hanno riportato nel Paese migliaia di afgani senza una casa e un lavoro; le numerose cliniche chiuse a causa della sospensione dei progetti sostenuti da USAID decisa dalla nuova amministrazione americana, le piccole e medie organizzazioni umanitarie che devono licenziare il personale perché senza fondi.

Quello del taglio agli aiuti internazionali desta un enorme timore. Migliaia le persone che vivono e si curano grazie ad essi. Attraverso i media e internet gli afgani sono informati, pensano che sia solo l’inizio. L’Inghilterra è stata la prima a dichiararlo: aumenterà le spese militari a scapito dei fondi che invia all’estero. Nella corsa agli armamenti, altri paesi potrebbero imitarla. L’Afghanistan sa di rischiare un isolamento ancora maggiore, economico e politico. Non potrà che contare sulla propria resilienza. Quanta dovrà averne?

Alberto Cairo, fisioterapista, lavora in Afghanistan per NOVE Caring Humans, ong italiana

Nelle carceri talebane, donne torturate e abusate

La difficile situazione delle donne nelle prigioni talebane: confessioni costrette da spogliarelli e abusi
Amin Kawa, 8 AM Media, 2 marzo 2025

In questa indagine cinque manifestanti donne arrestate e imprigionate dai talebani condividono i loro resoconti di torture fisiche e psicologiche avvenute nei centri di detenzione talebani a Kabul. Tra i metodi di tortura descritti: appenderle per i piedi, mettere sacchetti di plastica sulla testa e sul viso, legare le mani dietro la schiena, tenerle in stanze umide, frustarle con cinture, mettere la canna di un kalashnikov vicino alle orecchie e minacciarle di morte. Inoltre, le donne hanno sopportato insulti volgari, abusi verbali, l’essere chiamate prostitute, accuse di essere serve e spie americane e minacce di danni ai loro familiari. Tutte queste donne soffrono attualmente di gravi problemi di salute mentale e fisica, tra cui dolori articolari.

Due delle ex detenute hanno confermato di essere state costrette a confessare nude o seminude per assicurarsi che non avrebbero più protestato contro le politiche dei talebani. È stato loro negato l’accesso all’assistenza legale, al contatto con la famiglia, alla comunicazione con altre prigioniere o guardie e alle cure mediche per le esigenze legate al ciclo mestruale.

Le indagini di “Hasht-e Subh Daily” indicano che tutte le donne arrestate dai talebani sono state sottoposte a torture fisiche e psicologiche nei centri di detenzione e nelle prigioni. La gravità della tortura era proporzionale alla popolarità e al riconoscimento delle detenute nella società, in particolare sui social media. Alcune manifestanti hanno subito torture più gravi, altre relativamente meno. Le interviste con cinque prigioniere hanno rivelato che tutte avevano subito torture e confessioni forzate ed erano state minacciate di morte, lapidazione, esecuzione tramite plotone di esecuzione e rappresaglie contro le loro famiglie.

Il trattamento variava da una detenuta all’altra, alcune trattenute per brevi periodi e altre per diversi mesi. I talebani costrinsero tutte le donne rilasciate a fornire confessioni, preparate prima degli interrogatori e con la costrizione di recitarle di fronte alle telecamere con quelle precise parole. Se rifiutavano venivano sottoposte ad abusi fisici e verbali, tra cui percosse con cinture, schiaffi e insulti degradanti.

Racconti terribili

Humaira (pseudonimo), una delle donne che protestavano, ha confermato in un’intervista con Hasht-e Subh Daily di essere stata torturata dai talebani, descrivendo la detenzione come brutale e disumana. Ha raccontato che ogni volta che veniva portata per l’interrogatorio, veniva prima appesa per i piedi, le mani legate dietro la schiena, e poi frustata prima di essere tenuta in stanze umide. Gli interrogatori comprendevano umiliazioni, insulti e confessioni forzate.

Humaira ha dichiarato che le era consentito usare il bagno solo tre volte al giorno e le era proibito parlare con le guardie. Non aveva contatti con la sua famiglia e le erano state negate le medicine nonostante la sua malattia. Era stata anche privata dell’assistenza legale e le venivano estorte confessioni forzate a giorni alterni. I talebani la costringevano a rilasciare dichiarazioni su azioni che non aveva mai commesso. Sebbene fosse presente in prigione  personale femminile talebano, tutti gli atti di tortura venivano eseguiti da combattenti maschi, che la picchiavano e la insultavano.

Quando parlava delle confessioni forzate, la voce di Humaira tremava e scoppiò a piangere. Spiegò che, a causa delle norme culturali dell’Afghanistan e per proteggere la sua famiglia da traumi psicologici, aveva nascosto loro l’entità della sua sofferenza. “La mia famiglia non sa delle mie confessioni forzate perché l’ambiente culturale dell’Afghanistan è molto duro. Se venissero a sapere cosa mi è successo, i miei famigliari cadrebbero in depressione e subirebbero un duro colpo emotivo. I talebani ci hanno spogliate completamente, hanno filmato le confessioni e hanno minacciato di pubblicare i video se avessimo parlato degli interrogatori. Hanno usato questo metodo con tutte le prigioniere, facendoci ripetere  davanti alla telecamera confessioni preparate, mentre tre uomini armati stavano lì vicino, minacciandoci. Immagina una donna nuda o seminuda davanti a una telecamera: cosa potrebbe esserci di peggio?”

Humaira ha aggiunto che le confessioni estortele erano del tutto inventate. “I talebani mi hanno costretta a dire che avevo ricevuto denaro dall’America per protestare contro le loro politiche. Mi hanno minacciata di confessare che avevo ricevuto denaro da Richard Bennett, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani, per protestare contro l’hijab. Volevano che dicessi che intendevo reclutare ragazze per attività immorali e addestrarle come ballerine da inviare in Occidente per essere sfruttate. Queste false confessioni sono state estorte a tutte, spesso mentre erano nude o seminude”.

Nelle celle di isolamento non c’era nessuno che offrisse anche solo un briciolo di compassione. “I talebani hanno avuto accesso al mio telefono e ai miei account sui social media, interrogandomi sugli indirizzi di altre manifestanti donne e mostrandomi le loro foto, chiedendomi di scrivere i loro nomi”, ha affermato Humaira, che non riusciva a sopportare la tortura e sveniva entro dieci minuti quando veniva appesa per i piedi, dopodiché veniva trasferita in stanze umide e picchiata.

Humaira ha raccontato le storie di altri prigionieri, dicendo che facevano sembrare meno grave la sua sofferenza. “I talebani hanno offerto a una giovane donna la libertà se avesse sposato un membro dei talebani. Ho visto un’altra donna imprigionata con i suoi figli, senza visitatori. I bambini erano depressi, i loro corpi senza vita, indeboliti dallo shock della loro situazione. Erano stati arrestati con accuse che non capivano nemmeno. Ogni giorno diventavano più deboli, subendo un enorme trauma psicologico”.

Dice di essere sotto shock e di provare un grave disagio mentale ed emotivo. Secondo lei, nessuno aiuta nessuno nella situazione attuale. Aggiunge: “Purtroppo, le mie condizioni non sono buone. Non posso parlare con i dottori al telefono. Vorrei che ci fosse un dottore che potesse ascoltare tutte le mie parole e avesse un rimedio per la sofferenza e la tortura che ho sopportato. Finora, nessuno mi ha aiutato e sto lottando con un dolore e un’incertezza immensi”.

Condizioni detentive disumane

Anche Parnian (pseudonimo), un’altra donna che ha protestato e che ha sperimentato l’amara e dolorosa realtà delle prigioni talebane, conferma che le donne nei centri di detenzione talebani sono sottoposte a torture, umiliazioni e insulti. Afferma che sebbene le sue ferite fisiche siano guarite, non dimenticherà mai gli insulti e le parolacce che ha sentito dai talebani. Racconta che i talebani l’hanno arrestata in modo orribile e che durante i suoi giorni in isolamento le è stato permesso di usare il bagno solo una volta al giorno, costretta a sopportare due cicli mestruali in isolamento senza servizi igienici o prodotti per l’igiene. L’umidità della cella, la mancanza di pulizia e la malattia hanno fatto sì che tutto il suo corpo emanasse un cattivo odore. Dice: “Ho pregato molte volte senza abluzioni, chiedendo a Dio di attribuire il peccato ai talebani. Lì puzzavo, e sento che quell’odore è ancora nel mio corpo”.

Parnian conferma che anche a lei i combattenti talebani le hanno legato le mani dietro la schiena e le hanno messo un sacco nero sulla testa durante l’arresto. Dice che è stata portata all’interrogatorio almeno tre giorni dopo essere stata messa in isolamento, e aggiunge: “C’era un tavolo a forma di croce. La sedia dietro era molto bassa, mettevano le mani sul tavolo e le ammanettavano. Ma non era un vero interrogatorio: ti facevano sedere, ti insultavano, ti picchiavano, ti chiamavano prostituta, ti accusavano di andare dagli americani di notte, ti dicevano che sette o otto uomini ti sarebbero stati addosso e usavano parole volgari. Poi recitavano testi religiosi, si soffiavano addosso come per proteggersi dai presunti peccati e dicevano che Dio li aveva salvati dal nostro male. Se dicevo qualcosa, mi prendevano a pugni e schiaffi”.

“Durante l’interrogatorio, un talebano aveva una cintura in mano, che usava spesso, colpendo con la parte metallica, che poteva farti svenire se colpiva l’osso. Non facevano domande, ti prendevano con la scusa dell’interrogatorio e ti torturavano. Dicevano di ripetere tutto quello che ci suggerivano. Quando ho detto che non l’avrei fatto e che non avrei mentito, mi hanno schiaffeggiato così forte che mi sono bruciati gli occhi. Hanno detto: “Hai dato il tuo corpo agli occidentali e ora non ci parli?” Quando ho sistemato il mio velo, hanno detto: “Hai camminato a piedi nudi per le strade, resta qui allo stesso modo e parla”. Alla fine, ho dovuto fare una confessione forzata e ripetere tutto quello che dicevano per sfuggire al loro tormento”.

Questa ex prigioniera talebana afferma che le torture psicologiche e fisiche dei talebani sono indimenticabili. Sottolinea che il pestaggio di una donna da parte di uomini, gli insulti e le umiliazioni che lei e altri hanno sopportato non saranno mai dimenticati e un giorno i talebani saranno ritenuti responsabili di tutte queste atrocità. Dice di aver assistito ad altri incidenti scioccanti in prigione. Aggiunge: “Un giorno volevo andare in bagno e una donna era malata. La donna era sdraiata nell’angolo della stanza, soffriva per le doglie e nessuno si preoccupava di lei. Ha sopportato il suo dolore e ha partorito da sola nelle sporche condizioni carcerarie. E’ stato orribile. C’erano donne in prigione i cui figli non avevano mai visto il mondo esterno. Il motivo per cui la maggior parte delle donne venivano imprigionate era sconosciuto, molte venivano arrestate solo per la loro etnia”.

Parnian racconta che nei primi tempi i talebani le bruciarono una mano e in seguito, poiché la bruciatura raggiunse l’osso, non la appesero più per i piedi, ma la sottoposero ad altre torture, tra cui pugni, calci e percosse con cinture. Aggiunge: “Quando mi dicevano di dire qualcosa e mi rifiutavo, mi coprivano il viso con sacchetti di plastica finché non ero costretta a parlare. Mi picchiavano con le cinture. Una volta, la cintura mi colpì l’occhio e ho ancora la cicatrice. L’acqua del riscaldamento si infiltrava nella stanza, bagnando tutto. Mi diedero una vecchia, sporca e sottile coperta e i suoi effetti rimangono: ho ancora dolore alle gambe e alla schiena. Ho visto ragazze trascinate per i piedi e ho sentito le loro urla mentre imploravano il religioso di fermarsi, dicendo che le stavano tagliando le gambe. Ho persino sentito le urla di uomini a cui erano appese pietre ai testicoli”.

Parnian aggiunge: “Un giorno, quando mi hanno portato all’interrogatorio, mi hanno chiesto chi mi sosteneva. Uno di loro si è messo dietro di me con una baionetta innestata su un Kalashnikov e ha detto che se non avessi confessato, mi avrebbe tagliato la carne con il coltello e mi avrebbe staccato la pelle dalla mano”.

Le cicatrici psicologiche non si possono dimenticare

Mehrafarin (pseudonimo), un’altra ragazza che protesta e che ha subito la detenzione da parte dei talebani, dice di aver protestato per il diritto delle donne all’istruzione e alla fine ha dovuto sopportare varie forme di umiliazione, insulti e torture da parte dei talebani, così come lo sguardo discriminatorio della società. Aggiunge che le ferite fisiche guariscono nel tempo, ma le cicatrici psicologiche che ha sopportato non saranno mai guarite o dimenticate. Con voce strozzata dice: “Quando una ragazza viene detenuta in Afghanistan, la sua vita sociale non torna mai alla normalità. Nessuno può sopportare questa amarezza. Le persone fanno commenti estremamente duri e ingiusti e ricorrono a insulti e umiliazioni”.

Aggiunge: “I talebani non mi hanno permesso di incontrare la mia famiglia in prigione. Ci picchiavano e ci insultavano, ci chiedevano perché non eravamo sposate. Dicevamo che eravamo minorenni e che dovevamo studiare, ma ci chiamavano infedeli e ci picchiavano con pugni, calci e calci dei fucili. Mia sorella, a causa dei colpi alla testa, ha sviluppato disturbi neurologici e forti mal di testa. Sono anche malata e sotto shock. I talebani non consideravano le donne in prigione come esseri umani ”.

Sandokht (pseudonimo), una delle donne che protestavano, dice: “Quando i talebani ci hanno arrestate, avevo paura di essere aggredite sessualmente. Tutte le ragazze erano spaventate e le nostre mani e i nostri piedi tremavano. Quando sono arrivate le dipendenti talebane, ci hanno spaventate e minacciate ancora di più. Ci dicevano che ci avrebbero lapidate, che avrebbero sparso del sale sulla neve e sul cemento e poi ci avrebbero lasciate all’aria fredda a camminarci sopra. Ci chiedevano se capivamo contro chi ci stavamo schierando. Dicevano che ora che eravamo lì, avremmo dovuto piangere così tanto che i nostri volti si sarebbero spellati dalle lacrime”.

Aggiunge: “Avevo paura delle minacce delle dipendenti talebane. Avevo un bambino piccolo che piangeva e diceva che dovevamo andare a casa perché faceva freddo e non c’era acqua. Anche l’acqua del water era tagliata e gocciolava. Non importa quanto mio figlio chiedesse acqua, non riuscivo a trovare acqua pulita per lui. Gli ho dato un po’ di acqua del water in una brocca e il giorno dopo non riusciva a sollevare la testa, ammalato gravemente. Non c’erano né dottori né medicine. I talebani hanno chiesto soldi alla mia famiglia per il mio rilascio, ma loro hanno detto che non avevano più una figlia. Mi hanno rinnegata per liberarsi dei talebani”.

Mehrasa (pseudonimo), un’altra donna che protesta, dice che i talebani le hanno legato le mani dietro la schiena durante il suo arresto. La prima notte in prigione le hanno versato acqua fredda sulla testa, l’hanno portata per interrogarla e le hanno chiesto perché stesse protestando contro il regime dei talebani. “Mi hanno puntato una pistola all’orecchio e hanno detto che mi avrebbero uccisa, giustiziata. Mi hanno chiesto perché stessi protestando. Mi hanno picchiata e sono stata così spaventata che sono svenuta”.

I talebani hanno negato alla sua famiglia di averla portata dentro e poi hanno detto: “Siete disonorevoli e senza dignità perché non sapete che vostra moglie e vostra figlia stanno servendo degli stranieri”. Secondo lei, il peggior tipo di tortura è quando i talebani detengono una donna senza alcun crimine, senza accesso a un avvocato difensore e senza un giusto processo.

Questa ex prigioniera talebana afferma che tutto è possibile nelle prigioni talebane. Le donne arrestate dai talebani immaginano di tutto, dalla lapidazione allo stupro. Aggiunge anche che le donne i cui arresti sono pubblicizzati dai media vengono risparmiate dalla morte e dalla lapidazione, ma vengono comunque torturate.

Nel frattempo, negli ultimi tre anni, i talebani hanno arbitrariamente arrestato diverse donne con varie accuse. Oltre a tenere tribunali extragiudiziali e a fustigare pubblicamente le donne, i talebani hanno imprigionato centinaia di donne e ragazze in un processo ingiusto, accusandole di collaborare con fronti anti-talebani, di avere relazioni extraconiugali o di parlare al telefono con uomini che considerano non-mahram (uomini non imparentati).

Già precedentemente Hasht-e Subh Daily, in diverse indagini, aveva scoperto che alcune donne nelle prigioni e nei centri di detenzione dei talebani erano state sottoposte ad aggressioni sessuali sia individuali che di gruppo da parte di membri talebani e che durante gli interrogatori i talebani avevano ordinato alle detenute di spogliarsi e gravemente torturate quelle che si rifiutavano, al punto che i loro organi genitali venivano picchiati.

I talebani mandano le figlie in scuole “occidentali”


L’attore e filantropo scozzese David Hayman ha affermato che i talebani stanno mandando le loro figlie in una scuola in Afghanistan finanziata dalla sua organizzazione benefica, Spirit Aid

Kabul Now, 26 febbraio 2025

In un’intervista al quotidiano scozzese The Herald, Hayman ha affermato che attualmente la scuola accoglie circa 80 studenti, sia maschi che femmine.

“Ho ancora la mia piccola scuola in Afghanistan, che ospita 80 alunni, ragazzi e ragazze. I talebani mandano le loro figlie a scuola”, ha detto.

Hayman ha condannato le azioni dei talebani, definendoli “bastardi doppi” per aver negato l’istruzione alla maggior parte delle ragazze afghane, mentre vi iscrivevano le proprie figlie.

Non ha rivelato l’ubicazione della scuola in Afghanistan.

L’attore, che ha fondato Spirit Aid nel 2001, ha dichiarato che spera di mettere in scena un’opera teatrale che metta in luce la difficile situazione delle donne afghane.

“Le donne sono ormai delle non cittadine, non possono più ridere o cantare nelle loro case, dove l’istruzione è limitata alla scuola primaria e non possono accettare un lavoro”, ha affermato.

Secondo il sito web dell’organizzazione benefica, Spirit Aid è attiva in Afghanistan dal 2002 e fornisce aiuti umanitari, tra cui servizi medici, alle comunità isolate.

Dopo il loro ritorno al potere nel 2021 i talebani hanno vietato l’istruzione alle ragazze oltre la sesta elementare e hanno escluso le donne dalle università e dalla maggior parte dei lavori. Nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite, delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale, compresi i paesi islamici, i talebani non hanno ancora invertito le loro politiche.

Tuttavia, diversi resoconti indicano che alcuni membri senior dei talebani stanno silenziosamente assicurando l’istruzione alle proprie figlie. Un‘indagine del 2022 dell’Afghanistan Analysts Network (AAN) ha scoperto che membri di alto rango dei talebani stanno mandando le proprie figlie in scuole e università all’estero.

AAN ha citato un funzionario talebano in Qatar che ha ammesso di aver iscritto le sue figlie nelle scuole locali: “Dato che tutti nel quartiere andavano a scuola, le nostre figlie hanno preteso di andarci anche loro”.

Il rapporto ha anche scoperto che la figlia di un attuale ministro talebano sta studiando medicina presso un’università in Qatar.

“I membri dei talebani e le loro famiglie che vivono qui [in Qatar] hanno forti richieste per un’istruzione moderna, e nessuno si oppone né per i ragazzi né per le ragazze, di qualsiasi età”, ha detto ad AAN un ex funzionario talebano di stanza in Qatar.

Trump azzera Usaid, fondi all’estero ridotti del 92%

ANSA, Redazione, 27 febbraio 2025

Donald Trump azzera il 92% dei finanziamenti destinati all’estero di Usaid, l’agenzia per lo sviluppo finita nel mirino del presidente e del first buddy Elon Musk fin dalle prime ore alla Casa Bianca.

I tagli a circa 10.000 progetti consentiranno di risparmiare 60 miliardi di dollari, contribuendo così in modo sostanziale all’obiettivo di riduzione delle spese pubbliche del Dipartimento per l’Efficienza del governo.

La sforbiciata agli aiuti esteri arriva al termine di una revisione dei contratti di Usaid e rappresenta una ritirata degli Stati Uniti dall’assistenza oltreoceano, considerata per decenni nell’interesse americano in quanto in grado di portare stabilità e creare alleanze. Il quasi azzeramento degli aiuti si inserisce nella volontà del presidente di smantellare l’Usaid, come dimostrato anche dai licenziamenti di massa del suo personale. Agli ex dipendenti sono stati concessi solo 15 minuti per raccogliere i loro averi dalle scrivanie e lasciare l’edificio. Davanti alla sede decine di manifestanti hanno espresso la loro solidarietà ai lavoratori licenziati, ringraziandoli di quanto fatto per anni.

“Stiamo eliminando notevoli sprechi causati da decenni di deriva istituzionale”, ha spiegato l’amministrazione Trump in una comunicazione interna, assicurando di essere al lavoro per un utilizzo “saggio dei soldi dei contribuenti”, così che vadano realmente a “promuovere gli interessi americani”. Musk e il presidente da settimane lamentano gli sprechi e gli abusi commessi dall’Usaid senza fornire però prove al riguardo. La loro azione è mossa da un unico obiettivo: quello di realizzare risparmi per almeno 1.000 miliardi da usare per risanare i conti pubblici.

La picconata di Trump e Musk si è abbattuta su circa 5.800 iniziative di Usaid e 4.100 del Dipartimento di stato, lasciando intatti solo 500 progetti dell’agenzia di sviluppo e 2.700 del ministero guidato da Marco Rubio. L’annuncio della Casa Bianca sui tagli è arrivato mentre è in corso una dura battaglia legale, che ha visto il coinvolgimento anche della Corte Suprema.

I saggi hanno infatti sospeso fino a venerdì alle 12 la decisione di un tribunale che obbligava l’amministrazione Trump a sbloccare entro la mezzanotte di mercoledì circa due miliardi di dollari di assistenza all’estero congelati dal governo. La partita resta così ancora aperta ma pochi ritengono che il presidente la perderà: la Corte Suprema a maggioranza repubblicana – è l’idea – gli regalerà un’altra vittoria dopo quella dell’immunità presidenziale, forte della quale sta conducendo la sua azione senza fermarsi di fronte a nulla.

La dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri è una ricetta per il caos e la distruzione permanenti

Questo saggio di opinione analizza la dipendenza dell’Afghanistan dagli aiuti esteri: “Senza la jihad finanziata dall’estero degli anni ’80 e i miliardi versati dopo il 2001 il regime oppressivo, anti-istruzione, anti-donne e anti-libertà dei talebani non sarebbe emerso all’interno della società afghana. L’attuale crisi è il risultato diretto della dipendenza dai finanziamenti esteri, una malattia che ha plasmato la traiettoria dell’Afghanistan negli ultimi decenni”.

Younus Negah, Zan Times, 26 febbraio 2025

Nel 2021, gli Stati Uniti hanno ritirato le loro forze dall’Afghanistan, ma hanno lasciato dietro di sé un vasto arsenale di attrezzature militari e non hanno interrotto il flusso di dollari verso il Paese. Le ultime dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump lasciano intendere che gli stanziamenti di bilancio per l’Afghanistan e i trasferimenti finanziari di aiuti esteri ai Talebani potrebbero continuare sotto la sua amministrazione.

Inizialmente, l’ordine di Trump di sospendere tutti gli aiuti esteri tramite l’USAID, l’agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti, ha fatto pensare che una cruciale ancora di salvezza finanziaria dei Talebani potesse essere tagliata. Di certo, gli aiuti umanitari e allo sviluppo destinati alla popolazione afghana sono stati sospesi. All’inizio, il mercato valutario afghano ha subito qualche turbolenza.

Tuttavia, ben presto è apparso chiaro che forze al di fuori dell’autorità di Trump stavano impedendo l’interruzione di tutte le transazioni in dollari con i Talebani. Trump ora dice che dare soldi ai Talebani potrebbe non essere un problema: “Voglio esaminare la questione, ma se stiamo per dare loro dei soldi, va bene”, ma vuole che “restituiscano il nostro equipaggiamento militare”. Alcuni oppositori dei Talebani hanno espresso la volontà di aiutare a recuperare le armi americane, anche se John Sopko, ex Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), ha dichiarato alla Conferenza sulla Sicurezza di Herat a Madrid che le armi americane rimaste in Afghanistan “non valgono la pena di essere recuperate”.

L’ufficio SIGAR, che ha monitorato i flussi di aiuti statunitensi in Afghanistan dal 2008 e che sarà sciolto dopo la pubblicazione del suo rapporto finale nel gennaio 2026, rimane una fonte relativamente credibile per indagare sulle specifiche dell’assistenza diretta degli Stati Uniti all’Afghanistan. Ogni tre mesi, l’agenzia pubblica un rapporto completo sugli aiuti statunitensi. L’ultimo rapporto, pubblicato il 30 gennaio, è stato diffuso a pochi giorni di distanza dall’annuncio della sospensione di tre mesi degli aiuti esteri da parte dell’amministrazione Trump. Secondo questo rapporto, dal ritorno dei Talebani al potere, gli Stati Uniti hanno stanziato 3,71 miliardi di dollari in aiuti all’Afghanistan. Di questo importo, il 64% è stato convogliato attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale e il Fondo fiduciario per la resilienza dell’Afghanistan (ARTF), mentre i restanti 1,2 miliardi di dollari rimangono disponibili per un’eventuale erogazione.

Cosa si aspettano gli Stati Uniti da questo investimento?

L’importo totale dei fondi spesi pubblicamente e promessi dagli Stati Uniti per l’Afghanistan dal mese di agosto 2021 è significativamente superiore ai 3,7 miliardi di dollari menzionati in precedenza. Nel suo rapporto, il SIGAR include altri tre importi, portando il totale a oltre 21,4 miliardi di dollari. Questi includono:

– 8,7 miliardi di dollari per il “sostegno agli sfollati afghani che si reinsediano negli Stati Uniti attraverso il programma Operation Allies Welcome (OAW)”
– 5,5 miliardi di dollari per il “Programma governativo successivo all’OAW”, che prevede il trasferimento e il reinsediamento degli afghani negli Stati Uniti.
– 3,5 miliardi di dollari “in beni della banca centrale afghana precedentemente congelati negli Stati Uniti e destinati al Fondo per il popolo afghano (Afghan Fund), con sede in Svizzera”.

I 3,7 miliardi di dollari erogati in Afghanistan dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) attraverso organizzazioni internazionali e ONG per sostenere i settori della sanità, dell’agricoltura e dell’istruzione fanno effettivamente parte del sostegno statunitense all’amministrazione talebana. Secondo il SIGAR, questi fondi sono stati assegnati con i seguenti obiettivi:

– evitare il collasso dell’economia afghana sotto il governo talebano

– impedire che l’Afghanistan diventi un rifugio sicuro per i terroristi

– garantire il rilascio degli ostaggi americani detenuti nei campi di prigionia talebani

– prevenire la persecuzione degli ex dipendenti del governo afghano

– proteggere la libertà dei media e i diritti delle donne.

Tuttavia, secondo il rapporto del SIGAR, nessuno degli altri obiettivi è stato raggiunto, a parte il primo (stabilizzazione economica).

Il SIGAR afferma inoltre che diversi altri Paesi e istituzioni internazionali, tra cui la Germania, il Regno Unito, la Banca asiatica di sviluppo, l’Unione europea, la Banca mondiale, il Canada, l’Australia, la Svezia e altri, hanno contribuito agli aiuti multilaterali negli ultimi tre anni. Collettivamente, questi Paesi e gli Stati Uniti hanno immesso 8,3 miliardi di dollari nell’economia afghana.

Tale importo supera le entrate interne dei Talebani. Secondo l’Autorità nazionale di statistica e informazione dell’Afghanistan:

12021-22: Le entrate interne sono state di 160,3 miliardi di afghani.
2022-23: Entrate interne pari a 198,7 miliardi di afghani
2023-24: Entrate interne pari a 210 miliardi di afghani

Nel settembre 2023, la Banca Mondiale ha riferito che le entrate dell’Afghanistan per il 2024-25 dovrebbero superare i guadagni dell’anno precedente. Se consideriamo una media di 200 miliardi di afghani di entrate interne annue in tre anni, ciò equivale a circa 2,7 miliardi di dollari all’anno al tasso di cambio attuale.

Ciò significa che le entrate interne dei Talebani negli ultimi tre anni sono, nella migliore delle ipotesi, pari solo agli aiuti esteri ufficiali e dichiarati che l’Afghanistan ha ricevuto.

Queste cifre evidenziano la forte dipendenza dell’Emirato talebano dagli aiuti esteri. Oltre agli importi dichiarati ufficialmente, nell’economia afghana sotto il governo talebano continuano a fluire ingenti fondi non dichiarati e segreti. Si possono identificare almeno tre principali fonti finanziarie non ufficiali:

1 – Donazioni religiose e assistenza di intelligence: una parte significativa dei finanziamenti non ufficiali probabilmente proviene da donazioni religiose e da aiuti segreti di intelligence, convogliati verso diverse fazioni talebane, gruppi jihadisti come al-Qaeda e ISIS e altri attori militanti provenienti dalla regione e dal resto del mondo.
2 – Rimesse degli espatriati afghani: anche i fondi inviati dai lavoratori e dai residenti afghani all’estero alle loro famiglie o per progetti di sviluppo locale e di beneficenza contribuiscono in modo significativo.
3 – Entrate derivanti dalla droga: nonostante il calo della produzione di oppio, l’economia legata al traffico di droga continua a generare entrate.

Questo ambiente finanziario consente al leader supremo dei Talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada, di mantenere le sue forze di repressione a Kandahar, che contano decine di migliaia di uomini. Permette inoltre a ministri, comandanti e funzionari talebani di creare orfanotrofi e madrase come centri di reclutamento per bambini e adolescenti, assicurando così un continuo rifornimento di combattenti. Se il mondo finanzia i servizi di base ed essenziali, i Talebani possono dedicarsi liberamente alle lotte di potere interne e alla soppressione delle forze di opposizione.

Una ricetta per l’instabilità e l’inevitabile caduta dell’Emirato talebano

La fragilità delle finanze pone anche le basi per un eventuale crollo dell’Emirato talebano. La dipendenza dei Talebani dall’assistenza straniera a breve termine e dai finanziamenti dell’intelligence, che potrebbero esaurirsi in qualsiasi momento, più il denaro illecito della droga sostenuto dall’oppressione e dalla discriminazione, è una ricetta per il caos e la distruzione.

Attualmente, la fonte di finanziamento non statale più affidabile per mantenere operativo il sistema talebano sono gli Stati Uniti. Tuttavia, questi aiuti non sono destinati a durare all’infinito. Sebbene Trump abbia indicato che il denaro degli aiuti stranieri continuerà ad affluire ai Talebani, i rapporti SIGAR mostrano un calo dell’assistenza ufficiale degli Stati Uniti:

2022: 1,2 miliardi di dollari
2023: 1,4 miliardi di dollari
2024: 798,8 milioni di dollari
2025: 255,3 milioni di dollari.
Gli aiuti statunitensi all’Afghanistan si stanno rapidamente riducendo, il che rafforza l’idea che la dipendenza dei Talebani dai finanziamenti esteri sia difficilmente sostenibile.

L’impatto della riduzione degli aiuti sui gruppi non talebani

La sospensione di tre mesi degli aiuti esteri decisa da Trump ha colpito sia le popolazioni talebane che quelle non talebane, ma il peso immediato ricade maggiormente sui gruppi non talebani: i programmi educativi sono stati chiusi per le donne e le ragazze, che sono state private della scolarizzazione; innumerevoli famiglie di migranti si trovano in un limbo, senza protezione né risorse; i media anti-talebani stanno lottando con gravi carenze di fondi. Nel frattempo, i talebani continuano a ricevere gli stipendi, le madrase e gli orfanotrofi da loro gestiti sono aperti e operativi e il sostegno finanziario ai talebani pakistani e ad altri alleati estremisti continua a fluire.

Per tutte le fazioni politiche afghane, dovrebbe essere ormai chiaro che gli aiuti stranieri non sono la salvezza del Paese, ma hanno finito per diventare un importante ostacolo alla formazione di un governo nazionale e di un’economia autosufficiente. Se da un lato gli aiuti sono necessari per costruire scuole e cliniche e sfamare gli affamati, dall’altro arricchiscono alcuni individui e hanno contribuito ad alimentare guerra, distruzione, instabilità e dipendenza.

La dipendenza dell’Afghanistan dai finanziamenti stranieri, sia militari che per lo sviluppo, ha una lunga storia, ma l’ondata più dannosa è iniziata dopo il colpo di Stato dell’aprile 1978. Come una dipendenza da oppio, si è diffusa in tutti i gruppi sociali e politici, indebolendo le basi culturali, politiche ed economiche del Paese.

Senza la jihad finanziata dall’estero negli anni ’80 e i miliardi versati dopo il 2001, il regime oppressivo, anti-istruzione, anti-donna e anti-libertà dei Talebani non sarebbe emerso dall’interno della società afghana. La crisi attuale è il risultato diretto della dipendenza dai finanziamenti esteri, una malattia che ha segnato il destino dell’Afghanistan negli ultimi decenni.

Anche se la riduzione degli aiuti esteri causerà sofferenze a breve termine, nel lungo periodo è necessaria per l’Afghanistan, perché gli permetterà di costruire un governo nazionale e di liberarsi dai progetti di intelligence stranieri che hanno dettato il suo destino per troppo tempo.

Younus Negah è un ricercatore e scrittore afghano attualmente in esilio in Turchia.

Resistenze femminili a Kabul (o Teheran)

Cristina Giudici, il Post, 25 febbraio 2025

«Credo di avere intuito cosa sia il coraggio solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere l’apartheid di genere»

Alla fine degli anni Ottanta vivevo a Managua. Per incontrare i gruppi armati controrivoluzionari dei Contras, andai in un territorio minato in una foresta del Nicaragua. Ero convinta di fare la cosa giusta per stare dalla parte dei sandinisti (che hanno fatto una bruttissima fine, ma questa è un’altra storia). Fu un atto di coraggio? Non so, ma ci voleva parecchia incoscienza per trovarsi in quel luogo. Feci molte altre esperienze simili, soprattutto all’inizio del mio lavoro da giornalista.

Sono andata da sola nella foresta amazzonica peruviana, certa di incontrare un leader leggendario dei guerriglieri Tupac Amaru sulla base di una vaga promessa ottenuta da un loro dirigente che si era trasferito in Germania dopo essere rimasto cieco per aver maneggiato ordigni esplosivi rudimentali. Ci rimasi diversi giorni da sola, camminando giorno e notte, senza una rete di sostegno su cui contare. Alla fine il gran capo non si fece vedere. Incontrai solo agguerriti soldati dell’esercito che mi scacciarono dalla zona del conflitto. Anche quella fu una scelta rischiosa che non avrebbe certo reso il mondo migliore.

Racconto questi episodi, magari un po’ deformati dalla memoria, perché non è stato sfidando la ragionevolezza per inseguire il mio spirito di avventura e il desiderio di un giornalismo “in presa diretta” che ho capito cosa sia il coraggio. Credo di averlo intuito solamente quando ho cominciato a conoscere le storie di donne afghane e iraniane che si sono ribellate al fondamentalismo religioso per combattere pacificamente regimi che impongono l’apartheid di genere. Ma non è possibile cogliere appieno la forza di una donna disposta a immolarsi anche solo per ottenere il diritto di vedere una partita di calcio dal vivo.

La forza delle donne

Sahar Khodayari aka Blue Girl si è data fuoco il 2 settembre 2019 per non sottostare al processo che la vedeva imputata per essere entrata in abiti maschili in uno stadio, interdetto alle donne dal 1981, due anni dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Grazie al suo gesto, il 25 agosto del 2022 cinquecento donne hanno potuto assistere a una partita di calcio del campionato nazionale nello stadio Azadi di Teheran e cantare in coro dagli spalti Girl Blue di Stevie Wonder: «Bambina, sei triste. Anche se tutto quello che hai è visibile a te, nel tuo cuore resta una parte che è blu come il cielo».

Samia Hamasi, invece, si è ribellata per giocare. L’ho incontrata in un centro di accoglienza milanese dove era arrivata nell’agosto del 2021 in fuga dall’Afghanistan riconquistato dai talebani e vergognosamente abbandonato dalla missione internazionale guidata dalla NATO (dopo aver spacciato dosi massicce di tesi infondate su come la democrazia potesse essere esportata con le armi). Indossava i jeans e una t-shirt della sua squadra.

La sua passione per il calcio – mi ha raccontato in inglese stentato – era nata guardando Holly e Benji, un cartone animato giapponese, poi era diventata calciatrice e allenatrice della squadra femminile afghana under 17. Il suo racconto si è improvvisamente interrotto quando un altro profugo afghano si è avvicinato. Davanti alla sua espressione corrucciata, ho smesso di farle le domande e ci siamo lasciate con la promessa di risentirci al telefono e rivederci presto. Invece è scomparsa. «Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi. Ti chiamo presto, ciao Sam», mi ha scritto prima di inabissarsi di nuovo.

Semplicemente ineluttabile

È stata lei a dettare i tempi dei nostri contatti, che ho accettato perché sentivo la necessità di conoscere i dettagli della sua storia e di come era riuscita a scappare, mentre gli studenti coranici le puntavano contro il fucile. Sapevo che Samia vagava fra l’Italia, dove ogni tanto tornava per vedere sua madre, e la Germania, dove sperava di ottenere l’asilo e l’opportunità di scendere in campo di nuovo. Ci siamo ritrovate un anno dopo il nostro primo incontro. Era riuscita a ricominciare a giocare con il VfL Bienrode, una squadra di Braunschweig, in Bassa Sassonia. Mi ha mostrato i suoi disegni: si era autoritratta coperta da un burqa ma abbracciata a un pallone, davanti allo sguardo di un talebano con una frusta. «L’ho fatto per ricordarmi come sarebbe andata a finire se non fossi scappata», mi ha detto. Le ho chiesto dove avesse trovato il coraggio, ha alzato le spalle, con un’espressione scanzonata come se fosse stato semplicemente ineluttabile.

Ho fatto la stessa domanda ad Atefa Ghafoory, giornalista afghana di Herat, che mi aveva raccontato di quando i talebani avevano devastato la sua casa, picchiato il padre e ammazzato lo zio. Prima di riuscire a oltrepassare i confini e arrivare in Europa, aveva dovuto attraversare il paese con il figlio in braccio e i genitori anziani, cambiando cinquanta rifugi in tre mesi. Era angosciata all’idea di non poter salvare altre donne, alcune delle quali resistono e costruiscono scuole clandestine, rimaste in un paese dove ora alle donne si impedisce perfino di avere una finestra. Anche Atefa Ghafoory mi ha risposto con un sorriso: «Vuol dire fare ciò che è necessario, ma è comunque troppo poco».

Vorrei tanto sapere dove abbia trovato la forza anche Khalida Popal, che nel 2007 ha fondato la nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, ed è stata così abile e intelligente da diventare responsabile finanziaria della federazione afghana di calcio e sfidare gli uomini che preferivano restare senza stipendio piuttosto che prendere l’assegno mensile dalle sue mani. Recentemente ho letto la sua autobiografia, My Beautiful Sisters, non ancora tradotta in Italia. Khalida racconta di aver iniziato a palleggiare in un campo profughi in Pakistan nel 1996, quando aveva solo nove anni, dopo la fuga della famiglia durante il primo emirato dei talebani, e di aver continuato anche una volta rientrata a Kabul, protetta dalle alte mura del cortile della scuola e dalla complicità della madre, insegnante di educazione fisica.

All’inizio di ogni capitolo Khalida Popal, che a scuola veniva soprannominata la «calciatrice matta», riassume la sua filosofia sportiva con un paragrafo che si conclude sempre con la stessa frase: «Apri gli occhi».

“Apri gli occhi”

«La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Apri gli occhi».

Dopo essere stata minacciata, aggredita e intrappolata in un conflitto di potere fra il presidente del comitato olimpionico e quello della federazione di calcio, che la teneva sorvegliata in ufficio con una videocamera, nel 2011 Khalida è riuscita a scappare in India con un passaporto falso. Oggi vive in Danimarca, dove ha creato Girl Power, un’organizzazione che usa lo sport come strumento di attivismo politico con lo scopo di connettere, unire e aumentare il potere delle ragazze in tutto il mondo. È stata lei, nell’agosto del 2021, a far evacuare in Australia, in Portogallo e a Londra le calciatrici delle nazionali senior e giovanili dell’Afghanistan, insieme ai loro familiari.

Ho chiesto cos’è il coraggio a molte donne afghane e iraniane che hanno scelto di essere libere di scegliere. Ognuna di loro mi ha dato una risposta diversa. «Quando sono andata a vivere da sola, lasciavo una piccola luce accesa ogni sera per sentirmi al sicuro. Con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà quella luce non mi avrebbe aiutato a superare le mie ansie e l’ho spenta», mi ha detto Sadaf Baghbani, un’attrice iraniana di 29 anni arrivata in Italia per curare le ferite provocate da circa 150 pallini di piombo che le avevano sparato addosso i pasdaran nel settembre del 2022, durante la rivolta scoppiata dopo l’omicidio di Jina Mahsa Amini. «Il coraggio è la paura di non farcela a vivere senza libertà», mi ha detto poi. Quindi si diventa coraggiosi perché si ha paura e si deve imparare a camminare nel buio?

Cristina Giudici
Scrive per Il Foglio, Grazia, Linkiesta. Da diversi anni si occupa di immigrazione e fondamentalismo. Nel 2018 ha fondato la testata online NuoveRadici.world e dal 2022 collabora con la Fondazione Gariwo. Ha scritto diversi libri: con L’Italia di Allah ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli. Nel 2024 ha vinto il Nuovo Premio Guido Vergani. A marzo uscirà il suo nuovo libro, scritto con Fabio Poletti: Vita e Libertà contro il fondamentalismo (Campo Libero, collana della Fondazione Gariwo, Mimesis).