Skip to main content

Tag: Curdi

Processo di pace a rischio, la Turchia ora chiede lo scioglimento delle Sdf

Il manifesto, 13 settembre 2025, di Tiziano Saccucci

Il governo turco ha annunciato lunedì una riunione di gabinetto convocata da Recep Tayyip Erdogan. Sul tavolo il futuro delle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza curdo-araba che ha guidato la resistenza contro l’Isis. Ankara continua a considerare le Sdf un’emanazione del Pkk, definito «organizzazione terroristica». Giovedì il portavoce del ministero della difesa turco, Zeki Aktürk, ha ribadito che il mancato disarmo delle Sdf «mina l’integrità siriana e la nostra sicurezza nazionale».

AL CENTRO dell’irritazione turca c’è l’accordo firmato a marzo tra Mazloum Abdi, comandante delle Sdf, e il presidente ad interim siriano Ahmed al-Sharaa: un primo passo verso l’integrazione delle istituzioni della Siria del nord-est nel nuovo assetto post-Assad. L’intesa è rimasta però lettera morta, bloccata dall’intransigenza di Damasco e le ingerenze di Ankara, che considera lo scioglimento delle forze curde come l’unico esito accettabile.

Il leader nazionalista Devlet Bahçeli, alleato imprescindibile di Erdogan, ha invocato un’azione militare diretta contro le Sdf se non accetteranno lo scioglimento. Un déjà vu: dal 2016 la Turchia ha condotto tre operazioni militari nel nord della Siria, costringendo centinaia di migliaia di civili curdi alla fuga. Intervistato su Hürriyet, Bahçeli ha chiesto esplicitamente ad Abdullah Öcalan di «fare un nuovo appello» che includa anche le forze curde in Siria e le associazioni curde in Europa: «In quanto fondatore del Pkk e unico promotore del suo scioglimento, sarebbe opportuno che Öcalan ricordasse che l’appello del 27 febbraio riguarda anche la branca siriana e quella europea».

Dietro l’appello di Bahçeli si intravede la consueta ossessione securitaria: liquidare l’esperienza dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord-est come minaccia esistenziale per la Turchia. «Non possiamo permettere che restino un problema di sicurezza» ha scandito, rimettendo il destino della regione «alla decisione del nostro presidente Erdogan».

LA REPLICA CURDA è arrivata con un’intervista a JinTV di Pervin Buldan, deputata del partito Dem, che negli ultimi mesi ha incontrato più volte Öcalan: «Un’operazione turca o la cancellazione delle conquiste dei curdi in Siria provocherebbe devastazione anche tra i curdi in Turchia. Nessuno lo accetterebbe, soprattutto Öcalan». Buldan ha rivelato che il leader curdo ha più volte definito la Siria del nord-est e il Rojava come una «linea rossa». «Con noi – ha spiegato Buldan – Öcalan ha parlato soprattutto di politica turca, ma con la delegazione statale ha discusso apertamente della Siria».

La strategia del governo ad interim di al-Shaara per uscire dal pantano sembra configurarsi ancora una volta come un tentativo di divisione del fronte curdo. L’Enks, coalizione vicina al Partito democratico del Kurdistan della famiglia Barzani, secondo diverse fonti avrebbe ricevuto un nuovo invito a Damasco: un tentativo di indicare nell’Enks l’interlocutore curdo privilegiato del governo. Il portavoce dell’Enks, Faysal Yusuf, pur senza confermare l’invito ha affermato che ogni loro azione sarà in linea con il principio di unità del fronte curdo.

Lo stesso Masoud Barzani, storico leader del Kdp, secondo un report di Rudaw avrebbe inviato un messaggio a diverse tribù siriane: in caso di aggressione al Rojava, «l’intera forza peshmerga del Kurdistan verrà a Qamishlo, e io stesso sarò tra loro». Resta difficile credere che, in caso di intervento turco, le Sdf possano contare sul sostegno della famiglia Barzani, legata a doppio filo, politicamente ed economicamente, ad Ankara.

«NON VOGLIAMO la divisione della Siria, ma una pace giusta», ha detto Salih Muslim, figura di spicco del Rojava, a margine di una conferenza con organizzazioni progressiste del mondo arabo, organizzata dall’Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) a Sulaymaniyya. «Non accetteremo mai un ritorno a un sistema completamente centralizzato in Siria, né alle condizioni esistenti prima del 2011 – ha affermato Muslim – Se il nuovo governo siriano si rifiuta di riconoscere il decentramento, saremo costretti a chiedere l’indipendenza».

sinistra ROJHILAT (Kurdistan “iraniano”): forse una nuova fase per il movimento Jin Jiyan Azadî

Brescia anticapitalista, 7 settembre 2025, di Gianni Sartori

Anche nel Kurdistan “iraniano” (Rojhilat) la questione curda rimane fondamentale per il Medio oriente. Tra condanne a morte e repressione, aspettative di nuove rivolte e politiche anti-sindacali

Sempre più intricato il groviglio medio-orientale e quello curdo in particolare.

Con lo smantellamento (preannunciato, effettivo, in corso…?) del PKK e la determinazione di FDS, YPG e YPJ nel nord est della Siria di NON consegnare le armi ai tagliagole di Damasco. Come ha detto chiaramente la esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan (kjk) Çiğdem Doğu.
Spiegando come la Siria odierna si definisca “attraverso una molteplicità di etnie e religioni diverse” e sottolineando quanto sia “altrettanto distintivo il ruolo assunto dalle donne (…) con l’auto-organizzazione femminile”.

In riferimento poi a quanto avviene nelle regioni alawite e druse (“ripetuti massacri contro la popolazione e ripetute violenze sulle donne”) ha aggiunto che “solo pensare di imporre la resa delle armi alle forze democratiche siriane (Fds) significa semplicemente dire: venite a farvi sgozzare”. Non esiste infatti “alcuna garanzia di sopravvivenza”. Così come sarebbe “priva di senso l’idea dell’integrazione delle Fds nell’esercito siriano”. In quanto semplicemente “oggi non esiste un vero esercito siriano, ma soltanto varie gang. Gruppi sanguinari che conducono attacchi contro le diverse identità nazionali, etniche e religiose”.

Altro discorso (ma complementare) su quanto potrebbe avvenire in Rojhilat (Rojhilatê Kurdistanê, il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana).

Il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê – Pjak; sorto nel 2004, attivo in Iran e allineato sui principi del Confederalismo democratico), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà) scoppiata nel 2022 dopo l’assassinio della ventiduenne curda Jina (Mahsa) Amini.

Precisando comunque che quella condotta da USA e Israele (in riferimento ai bombardamenti israeliani e statunitensi) è “una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni”

“Solo una lotta popolare – proseguiva il comunicato del Pjak – può portare alla libertà in Iran: il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale”.

Fermo restando che “la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica”.

In un contesto generale di inasprimento della repressione e dell’utilizzo di metodi brutali. Per l’Ong curda Hengaw già alla fine di luglio sarebbero state oltre 800 (ottocento !) le condanne a morte eseguite dall’inizio del 2025. Tra le vittime, oltre a una trentina di prigionieri politici, 22 donne e un minorenne. Colpendo soprattutto le minoranze (116 Curdi, 107 Lur, 92 Beluci, 82 Turchi, 46 Afgani).

Tra le condanne che potrebbero venir eseguite in qualsiasi momento, quella riconfermata in luglio di Sharifeh Mohammadi , femminista curda e militante di un sindacato legale. Nel luglio 2024 Condannata a morte per aver manifestato pubblicamente la sua opposizione alla tortura e all’uso sistematico delle esecuzioni capitali. Equiparandola prima a “propaganda contro lo Stato” e poi a “ribellione armata”.

In carcere dal 2023, ha subito maltrattamenti e torture (sia fisiche che psichiche per estorcerle confessioni), posta in isolamento per oltre tre mesi con la proibizione di visite e telefonate. Sulla drammatica vicenda in agosto è intervenuta l’Assemblea delle donne del partito filo-curdo Dem (Partito dell’uguaglianza e della democrazia del popolo) che ha definito Sharifeh Mohammadi “una militante che ha difeso i diritti delle donne e dei lavoratori”. Affermando di considerare “ogni attacco contro le donne, ovunque avvenga nel mondo, come un’attacco contro il nostro corpo”: Per cui “intensificheremo la nostra ribellione. Il regime fascista dei Mullà ha per l’ennesima volta commesso un crimine contro l’umanità e contro le donne per conservare il proprio potere dominato dagli uomini”.

Alla fine del mese scorso intanto giungevano altri dati allarmanti sulle condanne a morte eseguite nel Kurdistan “iraniano” (v. Rapporto mensile dell’organizzazione dei diritti umani del Kurdistan).

Sarebbero 28 (tra cui una donna) i curdi impiccati dal regime di Teheran in agosto. E almeno altrettanti venivano arrestati nel corso del mese.

Inoltre, stando al rapporto, le autorità giudiziarie iraniane avrebbero applicato pene arbitrarie condannando a 64 anni complessivi di carcere una dozzina di cittadini curdi per accuse “prive di fondamento giuridico”.

Mentre il capo del potere giudiziario iraniano, Hossein Mohseni Ejei, annunciava in conferenza stampa che oltre 2000 persone erano state arrestate nel corso del recente conflitto (durato una dozzina di giorni) tra Iran e Israele, la Rete dei diritti dell’uomo del Kurdistan, denunciava che dall’inizio dei bombardamenti israeliani le forze di sicurezza e i servizi segreti avevano arresto più di 335 militanti e cittadini curdi “senza mandato giudiziario”. In particolare nelle città di Ilam, Kermanshah (Kirmaşan), Urmia, Sanandaj (Sînê), Téhéran e Khorasan.

Sempre da un recente rapporto dell’ONG di difesa dei dei diritti umani Hengaw (del 30 agosto, Giornata internazionale delle vittime di sparizioni forzate) si ricava che “dal 1979 i prigionieri politici curdi sono diventati sistematicamente vittime di sparizioni forzate. Molti venivano fucilati per ordine di tribunali quantomeno improvvisati, spesso senza processo”.

Dall’arresto alla sepoltura in fosse comuni tenute poi segrete, i processi intentati diventavano di fatto propedeutici alla sparizione forzata.

Aggiungo – si parva licet – che nel Rojhilat anche le libertà sindacali e individuali rischiano di subire ulteriori restrizioni. Come viene confermato dalle sanzioni disciplinari imposte alla fine di agosto dal ministero dell’Educazione a 14 insegnanti (curdi e militanti sindacali).

Si tratta di Nasrin Karimi (in pensione forzata con retrocessione); Faysal Nouri (esilio per cinque anni – al confino – nella regione di Kermanshah); Majid Karimi (licenziamento con esclusione perenne dalla funzione pubblica); Ghiyas Nemati (licenziamento perenne dal Ministero dell’Educazione pubblica); Omid Shah-Mohammadi (licenziamento perenne dalla funzione pubblica); Salah Haji-Mirzaei (sospensione dall’insegnamento); Leyla Zarei (sollevata dal ruolo di vice-presidente della scuola e in pensione forzata con retrocessione); Shahram Karimi (sospensione di sei mesi); Loghman Allah-Moradi (sospensione di un anno); Soleyman Abdi (pensione forzata con retrocessione); Hiwa Ghoreishi, Parviz Ahsani e Kaveh Mohammadzadeh (licenziamento dal ministero dell’educazione).

Più un altro insegnante curdo – di cui per ragioni di sicurezza non viene fornita l’identità – ugualmente licenziato.

Vicenda forse minore nel contesto generale, ma comunque indicativa.

«La pace non riguarda solo i curdi, in ballo c’è il futuro della Turchia»

Il manifesto, 17 agosto 2025, di Tiziano Saccucci

Fare fuoco Intervista a Berdan Öztürk, deputato del partito Dem: «Il Pkk ha compiuto passi importanti, ora Ankara dovrà riformarsi»

Il 15 agosto ha segnato il quarantunesimo anniversario della prima azione del Pkk contro lo Stato turco. Per la prima volta da allora il partito e i suoi sostenitori celebreranno l’anniversario di una lotta armata dichiarata conclusa. Nel suo comunicato, l’Unione delle comunità del Kurdistan (Kck) invita il popolo curdo a proseguire la battaglia sul terreno politico, contribuendo al processo di pace «con lo spirito dell’offensiva del 15 agosto» e dedica le celebrazioni a Nûreddîn Sofî e Koçero Urfa: il primo, uno dei comandanti più carismatici del Pkk; il secondo, cugino di Abdullah Öcalan. Entrambi uccisi nel 2021, la loro morte è stata resa pubblica solo alla vigilia dell’anniversario.

Se le armi tacciono, alla politica spetta il compito più difficile: trasformare la tregua in un percorso irreversibile. È la sfida che racconta Berdan Öztürk, co-presidente del Congresso della Società Democratica e deputato del partito Dem.

Qual è la situazione attuale del processo di pace? È stata appena formata una commissione parlamentare a cui partecipano quasi tutti i principali partiti, tranne il partito Iyi, di estrema destra.

Il 12° congresso del Pkk ha deciso di sciogliere l’organizzazione, hanno anche bruciato simbolicamente le proprie armi, tutti passi compiuti unilateralmente. Per questo, la formazione della commissione era fondamentale. Iyi ha una visione politica ristretta, legata a calcoli elettorali. Sarà presto dimenticato o ricordato solo come il partito contrario alla pace. Bahçeli non è solo il leader dell’Mhp, rappresenta lo «Stato profondo» e agisce quando lo Stato ne trae beneficio. Il fatto che l’appello venga da lui indica che non è un’iniziativa del governo, ma una volontà dello Stato. Ciò rende questo processo di pace diverso dai precedenti. La commissione dovrebbe ampliare il proprio raggio d’azione, includendo non solo i partiti in Parlamento, ma anche quelli fuori, insieme ad accademici, giornalisti, ricercatori e cittadini.

Ora che lo Stato ha compiuto il suo primo passo, pensa che il Pkk debba fare un altro passo o, per il momento, ha già fatto la sua parte?

Non è un baratto in cui si dà qualcosa e si riceve qualcos’altro in cambio. È un processo. In Turchia ci sono molte questioni da affrontare e, come ha dichiarato Öcalan, il fulcro è la democratizzazione del Paese. Il Pkk e il movimento di liberazione curdo hanno già compiuto passi molto importanti, dimostrando al mondo la loro sincerità. Perché si realizzi una vera soluzione politica in Turchia, è necessario modificare alcune leggi che attualmente impediscono alle persone di esprimere liberamente le proprie idee e opinioni. Non si tratta solo della questione curda: molti partiti di opposizione, incluso il Chp, hanno sindaci attualmente in prigione e questo contraddice il processo di pace. Se si vuole costruire un Paese democratico, non si può attaccare il principale partito di opposizione in Turchia.

Qual è il ruolo e l’atteggiamento del Chp in questo processo? All’inizio sembrava poco convinto, ora pare coinvolto.

Abbiamo dimostrato più volte al popolo turco, al Chp e ai suoi sostenitori, soprattutto durante le elezioni, che ci atteniamo ai principi: lottiamo per la democrazia, la libertà, la giustizia e una pace onorevole. All’inizio, il Chp e altri partiti erano scettici, sospettando un accordo tra Erdogan e Öcalan. Noi, invece, abbiamo sempre detto che non si tratta della rielezione di Erdogan, ma del modo in cui vivremo insieme d’ora in poi. Quando il governo ha nominato commissari nei nostri comuni, abbiamo avvertito il Chp che un giorno sarebbe potuto succedere anche a loro. Credevano che non fosse possibile, essendo il partito fondatore dello Stato. Ora, però, assistiamo a numerose operazioni contro membri e sindaci del Chp, come Imamoglu a Istanbul. Inoltre, il Medio Oriente ha vissuto cambiamenti e ne seguiranno altri: L’Iraq sotto Saddam non è durato. In Siria la popolazione ha chiesto più libertà e democrazia, Assad ha risposto con oppressione e una guerra civile durata quattordici anni e oggi non è più al potere. La Turchia deve cambiare: non c’è altra opzione, altrimenti non potrà sopravvivere. Il Chp e altri partiti politici riconoscono questa realtà, per questo partecipano alla commissione.

Come crede che l’opinione pubblica stia prendendo questo processo?

All’inizio c’erano molti sospetti da parte dei curdi. Öcalan ha più volte cercato di avviare un processo di pace con i governi turchi in passato. L’ultima volta tra il 2013 e il 2015, ma purtroppo quel tentativo non ha avuto successo. La prosecuzione del processo di pace non conveniva a Erdogan: ha interrotto il dialogo, avviando una guerra contro il movimento di liberazione curdo, insieme a un’intensificazione dell’oppressione contro il partito politico curdo in Turchia e contro l’intero popolo. Questo ha alimentato la diffidenza verso il governo, ma se oggi lo Stato turco si trova a questo punto è grazie alla lotta e ai sacrifici del popolo curdo. Anche i turchi erano diffidenti, pensando si trattasse solo di un tentativo per la rielezione di Erdogan. Ma ora numerosi sondaggi mostrano che il 70% della popolazione sostiene il processo di pace. Sono certo che questo sostegno crescerà ancora di più.

Ci sono altri attori che hanno un ruolo in questo processo?

Certo, non si tratta solo di ottenere sostegno in Turchia, abbiamo bisogno anche del supporto dei nostri amici, compagni e tutte le persone che desiderano la pace in Turchia. So che moltissimi compagni hanno sostenuto a lungo la causa curda, lottando al nostro fianco. Ma oggi la lotta è cambiata. Dobbiamo fare in modo che lo Stato turco compia passi concreti. È fondamentale ricordare loro le responsabilità che hanno. Non dovremmo sederci, ovunque siamo, ad aspettare che succeda qualcosa. Dobbiamo far sì che accada.

Sotto assedio. Intervista ai Co-presidenti del Campo profughi Martyr Rustem Cudi di Maxmur

Città futura, 10 agosto 2025, di Carla Gagliardini

Il Campo profughi Martyr Rustem Cudi di Maxmur (Iraq), abitato da famiglie curde fuggite negli anni novanta dal Bakur, ossia dal Kurdistan del nord situato nella parte meridionale della Turchia, a causa della distruzione dei loro villaggi e città da parte del governo di Ankara, vive nuovamente dei momenti di forte tensione. Criminalizzato dalla Turchia, dal KDP (Partito democratico del Kurdistan) e dal governo centrale iracheno per essere strettamente legato al PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), dal 2021 ciclicamente viene minacciato da Baghdad che invia il suo esercito nel tentativo di circondarlo con il filo spinato e erigendo torrette per il controllo pervasivo dei suoi abitanti.

Dopo il 2021 il governo iracheno ci aveva riprovato a maggio del 2023 e adesso di nuovo. Il 5 agosto infatti i militari iracheni si sono presentati alle porte del Campo con tutto il necessario per isolarlo e chiuderlo ermeticamente, ma per ora l’incontro tra i rappresentanti del Martyr Rustem Cudi e del governo ha evitato che il piano venisse portato a buon fine.

Che la situazione tra il governo e il Campo fosse in rapido peggioramento si era capito già ad Aprile, quando il primo aveva deciso di mettere sotto embargo il campo, il quale dal 2019 è sottoposto anche a quello del Kurdistan iracheno. Una delegazione di cinque rappresentanti era partita da Maxmur per incontrare il Ministro della Giustizia a Baghdad ma tre di loro, sulla strada del ritorno, sono stati fermati e incarcerati.

I Co-presidenti del Campo, Fatma Bilen e Edban Abudullah Yilma, hanno così descritto gli avvenimenti.

1. Quando e come è peggiorata la situazione nel Campo di Maxmur?

Il Campo di Maxmur è stato sottoposto a continui attacchi, embarghi e blocchi durante questi 31 anni in cui è stato riconosciuto come campo di rifugiati. Dopo l’assassinio a Erbil nel 2019 di un ufficiale del Mit (servizi segreti turchi, ndr), senza alcuna motivazione il governo regionale del Kurdistan, guidato da Barzani, ha imposto un embargo al Campo, sponsorizzato dallo Stato turco. La libertà di movimento dei residenti verso la regione del Kurdistan è stata completamente vietata e questa situazione si protrae da anni. Questo divieto ha fatto sì che centinaia di giovani perdessero l’accesso all’istruzione universitaria e centinaia di lavoratori che lavoravano nelle città del Kurdistan meridionale (il Bashur, attuale Kurdistan iracheno, ndr) per sostenere le proprie famiglie sono stati espulsi.

Inoltre, ci sono molte persone con malattie croniche che non possono essere curate, molte delle quali hanno perso la vita a causa di gravi patologie.

In aggiunta, dal 10 aprile 2025, senza fornire alcuna motivazione, il Campo è stato sottoposto a embargo e blocco da parte del governo centrale iracheno. I materiali da costruzione non possono entrare, creando un impatto molto negativo sugli abitanti. Invece di fare l’embargo e il blocco, il governo iracheno è tenuto a rispettare l’articolo 51 della Legge sull’asilo del 1971, che riconosce il diritto all’asilo politico e i diritti ad esso connessi. Purtroppo, si comporta in modo opposto e fa tutto il possibile per mettere gli abitanti del Campo in situazioni ancora più difficili. Il governo iracheno e i suoi partner, come lo Stato turco, vogliono inasprire ulteriormente questo blocco.

2. Con quale accusa sono stati arrestati i tre membri del Consiglio del Campo che si erano recati a Baghdad per discutere con il governo della situazione creatasi?

Ci hanno solo detto che i documenti d’identità erano stati sequestrati. Con l’arresto dei tre membri del Consiglio del Campo hanno cercato di distruggere la volontà del popolo, la sua lingua, la sua cultura e la sua identità. Questo è illegale e le autorità competenti non dimostrano di voler risolvere la questione.

Il 13 maggio 2025, su richiesta ufficiale del Ministero della giustizia iracheno, Khaled Shwani, una delegazione di cinque persone, in rappresentanza del Campo, si era recata al Ministero per confrontarsi sulla situazione e sui diversi problemi che ci sono.

La delegazione doveva discutere le questioni relative ai residenti del Campo e alla loro registrazione, oltre ad altri problemi generali. Dopo aver completato l’incontro, il 14 maggio 2025, era partita per tornare al Campo ma, una volta lasciata Baghdad, è stata arrestata e trasferita in una località sconosciuta. La detenzione era illegale e non aveva nulla a che fare con le leggi e i regolamenti iracheni; si può solo affermare che fosse arbitraria. Dopo 37 giorni di arresto, è stata rilasciata. Questo episodio dimostra ancora una volta e chiaramente il trattamento abusivo riservato alla nostra popolazione.

3. Qual è la situazione attuale? Il governo ha fatto qualcosa per migliorare la situazione a Maxmur?

Non c’è stato alcun cambiamento nell’approccio, ora ci sono molti problemi con l’ingresso e l’uscita dal Campo e nei cantieri. Ci sono tante difficoltà e nessun cambiamento visibile è stato apportato. Da circa tre anni, i documenti d’identità dei residenti e delle residenti del Campo sono scaduti e non vengono rinnovati. Questo ha determinato una situazione di “prigionia” delle persone per giorni, a volte mesi, e le ha costrette ad affrontare molte difficoltà. I documenti d’identità non vengono rinnovati dal governo iracheno.

4. Quale pressione esercita lo Stato turco sul governo e sui rifugiati?

Lo Stato turco sta facendo pressione sia sul governo regionale del Kurdistan sia sul governo iracheno affinché sgomberino il Campo. Questo è chiaro ed evidente. Oltre a queste pressioni, la Turchia nel corso degli anni ha sorvolato il Campo con i suoi droni decine di volte e l’ha attaccato, causando la morte di molti dei nostri civili, donne, bambini e uomini. La ragione delle incursioni turche è legata al comportamento dell’ONU. Dal 1994, il Campo è sotto l’egida delle Nazioni Unite che però non adempiono ai loro doveri umanitari nei confronti della popolazione residente. Ciò consente allo Stato turco e al governo iracheno di aumentare la pressione su di noi. Stanno facendo tutto il possibile per sgomberare il Campo.

5. Per quanto riguarda il processo di pace in corso in Turchia avviato con l’appello di Abdullah Öcalan “Per la pace e una società democratica”, avete mai visto cambiamenti nel KDP che supportino questo processo, anche nei confronti del Campo di Maxmur?

Purtroppo non si sono osservati cambiamenti significativi nell’approccio del KDP verso il Campo. La situazione di embargo e blocco persiste. Il campo profughi di Maxmur è parte del processo di pace avviato in Turchia. Sia il KDP che l’Iraq devono cambiare la loro posizione nei confronti della popolazione del Campo.

6. Qual è la vostra previsione rispetto al processo di pace in corso in Turchia e che tipo di impatto, positivo o negativo, pensate possa avere sul Campo?

Noi, come popolazione del Campo, non nascondiamo di avere delle aspettative dal processo di pace. La pace sarà raggiunta, i diritti del popolo curdo saranno garantiti dalla Costituzione turca, la guerra in corso sarà fermata e arriverà finalmente la pace in Turchia.

Senza dubbio, se questo processo avrà successo, la popolazione del Campo ne beneficerà enormemente. Il fatto che il Campo sarà vuoto sarà il risultato positivo di questo processo. La popolazione tornerà ai propri luoghi e alle proprie terre e si libererà dalla pressione e dall’oppressione delle forze locali. Ma se il processo di pace non dovesse andare a buon fine, la guerra diventerà ancora più feroce, ancora più intensa e i sogni legati al giorno del ritorno saranno resi vani.

7. Considerata la recente situazione generale in Medio Oriente, ritenete che il campo di Maxmur sia stato o sarà interessato dagli avvenimenti? Perché?

Certamente i cambiamenti in Medio Oriente stanno influenzando e plasmando anche il Campo di Maxmur.

Attualmente in Medio Oriente è in corso una guerra il cui centro è il Kurdistan. Ci sono attacchi al popolo curdo da tutte le parti. Non è possibile separare il Campo dai processi che si stanno sviluppando nella regione.

L’incompetenza del governo iracheno consente alle forze straniere di intervenire sul suo suolo e lo Stato turco, che ha occupato completamente il territorio del Kurdistan meridionale, sta saccheggiando il Kurdistan. Questo fa sì che le sue pressioni sull’Iraq e sulla regione aumentino. Inoltre, le pretese della Turchia di stringere la morsa intorno al Campo accrescono. Si può affermare che sia stato raggiunto un accordo tripartito per smantellare il Campo di Maxmur.

Di fronte a tutti questi attacchi, nessuna negazione, distruzione, occupazione, embargo o detenzione potrà reprimere la volontà del popolo del Campo di Maxmur. Se il processo di pace avviato dal leader APO (Abdullah Öcalan, ndr) avrà successo, la pace prevarrà in Medio Oriente. La negazione e la distruzione perpetrate contro il popolo curdo per anni giungeranno al termine. Tutta l’umanità vivrà insieme sulla base della fratellanza dei popoli e i problemi saranno risolti attraverso il dialogo. Ciò avrà un impatto positivo sull’intero Medio Oriente e ovviamente sui profughi del Campo di Maxmur.

A seguito dell’ultimo tentativo di assedio del Campo di pochi giorni fa, Murat Karayılan, Comandante dell’HPG (Forze di difesa del popolo), l’ala armata del PKK, intervistato da Sterk TV, si è rivolto al Presidente dell’Iraq, il curdo Abdul Latif Rashid, esortandolo a intervenire per porre fine ai tentativi di assedio. Ha poi dichiarato che il popolo di Maxmur resisterà, così come ha fatto di fronte all’avanzata dell’Isis il 6 agosto del 2014, e ha aggiunto che l’HPG è pronto a intervenire a difesa del Campo.

Anche Öcalan si è rivolto al popolo di Maxmur attraverso un messaggio inviato l’8 agosto con il quale l’ha definito la spina dorsale della battaglia passata e, guardando al processo di pace che sta conducendo, di quella futura.

Maxmur resiste, come ha sempre fatto, nella speranza che il processo avviato in Turchia per la costruzione della democrazia nel paese e il riconoscimento dei diritti dei popoli che la abitano possa finalmente porre fine a un conflitto che ha segnato generazioni di curdi.

CURDI-TURCHIA. Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora?

Pagine Esteri, 12 luglio 2025

Le fiamme che hanno avvolto i mitra ieri mattina nella valle montuosa di Jasana, nel nord dell’Iraq, hanno illuminato non solo una cerimonia simbolica, ma un momento decisivo per un intero popolo. Davanti agli occhi di funzionari turchi, iracheni e curdi, trenta combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – metà dei quali donne – hanno dato fuoco al proprio arsenale, suggellando con quel gesto la fine di una lotta armata durata oltre quarant’anni. Con le armi allineate in un grande calderone di metallo, i militanti, in uniformi beige, hanno consegnato simbolicamente un pezzo della propria identità e della loro esistenza.

Al centro della cerimonia Bese Hozat, comandante del PKK, che ha letto ad alta voce – prima in turco, poi in curdo – la dichiarazione con cui il movimento armato nato nel 1978 annunciava la sua trasformazione: «Distruggiamo volontariamente le nostre armi, in vostra presenza, come gesto di buona volontà e determinazione». Alle sue spalle i militanti più giovani, molti dei quali nati quando il conflitto era già in corso, e quelli dei funzionari dei servizi segreti turchi e iracheni, rappresentanti del governo regionale del Kurdistan, esponenti del partito filo-curdo turco DEM. Presenze che fino a pochi anni fa sarebbero state impensabili accanto a dirigenti del PKK.

Il processo di disarmo era stato annunciato pubblicamente già a maggio, dopo un appello di Abdullah Ocalan, storico leader del PKK detenuto dal 1999 nell’isola-prigione turca di Imrali. In un raro videomessaggio diffuso mercoledì scorso, Ocalan è tornato a parlare, invocando la creazione di una commissione parlamentare turca che supervisioni il disarmo e apra la strada a una pace duratura.

Un conflitto lungo quattro decenni
La nascita del PKK, nel 1978, fu la risposta di una generazione curda all’annichilimento delle istanze culturali e politiche nel sud-est della Turchia. La svolta armata arrivò nel 1984, con il primo attacco contro obiettivi militari turchi. Da allora, ondate di repressione, operazioni militari, controinsurrezioni e una diaspora curda sempre più politicizzata hanno accompagnato la storia del movimento. Negli ultimi anni, pressato militarmente, il PKK aveva arretrato oltreconfine, rifugiandosi in zone montuose nel nord dell’Iraq. È da lì che, paradossalmente, ora arriva il segnale più forte di cambiamento.

La portata di quanto accaduto ieri non si ferma al gesto simbolico del rogo delle armi. La fine delle ostilità tra il PKK e Ankara potrebbe incidere direttamente anche in Siria, dove milizie curde alleate del PKK, come le YPG, controllano ampie porzioni del nord-est del Paese. Gli Stati Uniti, che hanno sostenuto tali forze nella lotta all’ISIS, premono da mesi per una loro integrazione nella futura architettura di sicurezza siriana post- Bashar Assad, il presidente caduto a dicembre. Ankara, che ha sempre considerato le YPG un’estensione del PKK, potrebbe ora attenuare le proprie opposizioni.

Un processo fragile
Secondo fonti del governo turco, il disarmo rappresenta una «svolta irreversibile». I prossimi passi, dicono, includeranno la reintegrazione dei membri del PKK nella società turca, un’amnistia selettiva e programmi per la riconciliazione nelle province curde. Un processo che non sarà privo di ostacoli. All’interno del partito di governo e tra i vertici dell’apparato militare e giudiziario, rimane forte l’opposizione a qualsiasi concessione percepita come una “legittimazione” del PKK. Allo stesso tempo, esiste un’aspettativa crescente tra le comunità curde per riforme concrete: il riconoscimento della lingua curda nei programmi scolastici, la decentralizzazione amministrativa, la fine dello stato di emergenza de facto in molte province orientali.

Il partito DEM, che ha svolto un ruolo di mediazione nel processo e che ha ottenuto importanti successi alle recenti elezioni amministrative, ha già presentato una lista di richieste che includono la revisione delle leggi antiterrorismo e l’abolizione dei limiti alla partecipazione politica dei curdi. La loro posizione è chiara: la pace non potrà fondarsi soltanto sulla resa delle armi, ma dovrà costruirsi sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza.

Oltre il disarmo, una questione politica
Il disarmo del PKK segna un passaggio epocale, ma non rappresenta la conclusione della “questione curda” in Turchia. Come sottolineano numerosi osservatori, la vera sfida è politica. E la figura di Ocalan, pur detenuto da oltre venticinque anni, rimane centrale. La sua immagine, ben visibile alla cerimonia di Jasana, ha confermato che il suo ruolo simbolico non è venuto meno. Ma ora serve altro, soprattutto occorre verificare le reali intenzioni di Erdogan che riceve il “regalo” della fine della lotta armata del PKK offrendo in cambio garanzie vaghe su diritti fondamentali che i curdi reclamano da decenni. Uno dei pericoli è che il leader turco, liberatosi della spina nel fianco rappresentata dal PKK, usi il rafforzamento della sua leadership per portare avanti la sua politica ultranazionalista in forma più attenuata verso i curdi in patria e allo stesso tempo continui la linea del pugno di ferro contro gli altri curdi nella regione.

Il partito curdo Pjak: «Questa non è una guerra di liberazione»

Il Manifesto, 17 giugno 2025, di Tiziano Saccucci

Intervista Parla il membro del Politburo, Siamand Moeini

In risposta ai raid aerei israeliani sul territorio iraniano, il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Pjak), promotore del progetto del confederalismo democratico nel Rojhilat (Kurdistan orientale), ha diffuso un comunicato in cui si dichiara disponibile a sostenere l’apertura di una nuova fase della rivolta Jin Jiyan Azadî (Donna, Vita, Libertà), slogan che nel 2022 ha scosso l’Iran dopo l’assassinio da parte delle forze di sicurezza della ventiduenne curda Jina Amini.

Nel comunicato, il Pjak afferma: «Questa è una guerra di potere e interessi contrapposti, non una guerra di liberazione per i popoli e le nazioni», aggiungendo che solo una lotta popolare può portare alla libertà in Iran: «Il popolo iraniano non deve essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale». Per Siamand Moeini, membro del consiglio di leadership del Pjak e co-presidente del partito dal 2018 al 2024, «la caduta della dittatura sarebbe motivo di celebrazione, in particolare per il popolo curdo. È anche un passo verso la partecipazione alla più ampia lotta contro la tirannia e per la costruzione di una società libera e democratica». Moeini ha ricordato come «fin dall’inizio, la Repubblica islamica dell’Iran ha avviato il suo dominio assassinando la gioventù iraniana e trasformando il Kurdistan in una terra di fuoco e sangue».

NATO NEL 2004, il Pjak è stato coinvolto in numerosi scontri con le forze di sicurezza iraniane, culminati nel 2011 in una vasta operazione militare guidata dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica terminata con un cessate il fuoco firmato da entrambe le parti. «I governanti hanno dato inizio a questa guerra e i costi sono sopportati da una popolazione già colpita da crisi sociali ed economiche. L’alto numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, mette in luce la tragica realtà che gli Stati attribuiscono scarso valore alla vita umana», prosegue Moeini, secondo cui tuttavia un indebolimento della Repubblica islamica «creerebbe un’opportunità per il popolo iraniano di proseguire la propria lotta contro la dittatura in varie forme».

Il leader di Pjak rivela che i raid israeliani hanno spaventano non poco i funzionari del regime nella regione curda: «Negli ultimi tempi appartenenti alle forze armate locali al servizio del regime hanno cercato di contattarci per assicurarsi un futuro, e questi contatti sono aumentati notevolmente nelle ultime settimane».

Nel suo comunicato, Pjak ha invitato la comunità curda, in particolare i partiti politici, a collaborare, a partire dalla creazione di gruppi di sostegno per le vittime della guerra e comitati di soccorso e cooperazione finanziaria. «Abbiamo buone relazioni con gli altri partiti curdi. Abbiamo incontri regolari e, in alcuni casi, cooperazione pratica – racconta Moeini – Abbiamo anche relazioni strette e sincere con gruppi di altre nazionalità, comprese le comunità baluche e arabe».

NONOSTANTE IL PJAK non sia l’unico partito curdo attivo in Iran, dopo lo scoppio delle proteste del 2022, Teheran ha reagito bombardando i campi dei gruppi curdi-iraniani nella Regione del Kurdistan in Iraq e firmando un accordo con il governo regionale guidato dalla famiglia Barzani, che ha costretto tre partiti – Pdk-I, Pak e Komala – al disarmo e alla ricollocazione nell’entroterra. L’accordo non ha colpito il Pjak, che rivendica ancora una presenza attiva in territorio iraniano: «Siamo l’unica organizzazione con una struttura e forze militari operanti all’interno dell’Iran. Abbiamo la capacità di intervenire in difesa del nostro popolo se necessario. Se le forze repressive della Repubblica islamica agiscono violentemente, la nostra nazione ha il diritto innegabile all’autodifesa», afferma Moeini.

DOPO LA DECISIONE del Pkk di concludere la lotta armata, Amir Karimi, neo eletto co-presidente del Pjak, aveva dichiarato: «Noi non deporremo le armi né ci scioglieremo», chiarendo tuttavia che «le armi servono per l’autodifesa». Anche Moeini ha ribadito la linea del partito nel cercare di evitare il conflitto: «Non abbiamo mai cercato guerra o spargimento di sangue e abbiamo sempre sostenuto soluzioni dialogiche e democratiche all’interno della società. Sebbene ci siano stati diversi scontri negli ultimi anni, abbiamo sempre cercato di evitare il confronto militare. Ma se il regime agisce violentemente contro il popolo, consideriamo l’autodifesa attiva come nostro diritto naturale».

OCALAN: PROPOSTE PER UNA SOLUZIONE POLITICA

labottegadelbarbieri.org  Gian Luigi Deiana 21 aprile 2025

La proposta di pacificazione di Abdullah Ocalan

La primavera kurda segna giorno dopo giorno, in questo anno sempre più oscuro, tracce di luce molto significative e importanti:

a febbraio si è riunito a Bruxelles il tribunale permanente per il diritto dei popoli, e negli stessi giorni Abdullah Ocalan, dal carcere turco nel quale è recluso da ventisei anni, rendeva pubblico il manifesto per la “soluzione politica” della questione kurda;

a marzo la complessa situazione siriana vedeva da un lato l’intensificazione della guerra sporca del governo turco sulle componenti curde ed alawite, con bombardamenti e stragi, e dall’altro la crescente volontà di composizione pacifica della nuova realtà del mosaico;

e infine, in questi giorni di aprile, la conferenza tenuta a roma proprio sul tema della “soluzione politica” ha potuto offrire in tempo reale una attenta e fiduciosa ponderazione della situazione: non solo in tempo reale, nello svolgersi delle vicende presenti, ma soprattutto, nella vasta pluralità delle voci, la forte significatività delle “voci interne” del mondo kurdo, e del rojava in particolare;

di qui il messaggio, con la forza di un appello universale, transita alla giornata mondiale della pace, prevista per il 1 settembre: e dunque proviamo a riflettere su come arrivarci; per semplificare questa riflessione ricorrerò qui alla sottolineatura di alcuni concetti essenziali, sui quali si sono soffermati tutti gli interventi della conferenza romana;

– coerenza: il messaggio del presidente Ocalan non è frutto di una opzione estemporanea: tutta la monumentale opera di scrittura carceraria, ormai più che ventennale, è indirizzata a questo fine: la cessazione delle ostilità e la costruzione della società democratica;

– sociologia della libertà: l’opera teorica del presidente Ocalan non è circoscritta alla situazione kurda e non è temporizzata sulla storia recente: è in senso pieno una “visione del mondo”, che ricomprende la storia della civiltà dalle prime formazioni mesopotamiche all’orizzonte attuale, e che è compresa nel senso di una “sociologia della libertà” finalmente svincolata dagli idoli più recenti e più tragici della storia: il nazionalismo e lo stato;

– prassi: il messaggio del presidente Ocalan, pur interno a questa ampia e profonda riflessione teorica, si propone essenzialmente per la sua realizzabilità pratica: non tanto come enfasi della “pace”, quanto piuttosto come prassi della “pacificazione”; egli stesso, nel rivendicare a se stesso questo indirizzo (che comporterebbe in primo luogo la fine della lotta armata) lo assume come propria “responsabilità storica”; una dichiarazione così solenne, nella scrittura di un carcerato, indica che egli stesso non è semplicemente un filosofo della pace, ma intende se stesso, e invita tutti a questo intendimento, intende se stesso come “incarnazione” concreta della costruzione della pacificazione;

– soluzione politica: il percorso della pacificazione non è mai facile: quanto più facile e scontata e duratura è stata la guerra, tanto più difficoltosa e creativa e paziente deve essere la pacificazione; quindi tutti gli attori in campo devono riconoscersi vicendevolmente; ne deriva che il popolo kurdo, in quanto riconosce il presidente Ocalan come proprio irrinunciabile rappresentante, pone come primo passaggio della “soluzione politica” la sua liberazione.

– jnealogie: la “scienza della donna”, o la ricomposizione della visione del mondo sulla liberazione dell’universo femminile, è la condizione essenziale dell’intero processo; il presidente Ocalan considera la processualità storica sotto il segno della “lunga durata”; e non vi è alcuna possibilità di “lunga durata” senza la primarietà attiva dell’universo femminile;

– coralità: la partecipazione alla conferenza “politica” di Roma, come peraltro la partecipazione alla sessione “giuridica” di Bruxelles, è stata appassionata ma soprattutto “corale”; ciò non era affatto scontato, laddove si consideri che i convenuti, circa quattrocento in ambedue le occasioni, provenivano da situazioni disparate sia in Kurdistan, sia in Europa; quindi con intuibili disparità di analisi e di giudizio; e tuttavia nel succedersi delle ore il discorso ha preso la forma di un discorso profondamente condiviso; ed è questa disposizione corale, in fondo, ciò continua nel tempo a dare garanzia di continuità e di apprendimento pedagogico, ovvero anche di interiorizzazione, del pensiero del presidente Ocalan.

A Roma la conferenza delle reti sociali e movimenti sulla questione curda: “Rompiamo il silenzio”

La Repubblica, 9 aprile 2025

L’11 e il 12 aprile al palazzo dei congressi di via dei Frentani si svolgerà la due giorni dedicata alla campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan e al suo progetto legato al Confederalismo democratico

Roma al centro della conferenza internazionale sulla questione curda. L’11 e il 12 aprile al palazzo dei congressi di via dei Frentani si svolgerà la due giorni dedicata alla campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan e al suo progetto legato al Confederalismo democratico: “Libertà per Öcalan – Una soluzione politica per la questione curda”. La conferenza è aperta a tutte le realtà sociali, movimenti, organizzazioni sindacali e politiche ma anche ai tanti intellettuali, artisti e giornalisti che hanno contribuito a rompere l’isolamento del popolo curdo. Nell’ambito della conferenza, ogni rete avrà la possibilità di condividere il proprio punto di vista e le proprie riflessioni e proposte per il futuro.”Negli ultimi anni, insieme abbiamo compiuto passi importanti nella costruzione di reti internazionali di solidarietà in tutta Europa e oltre, organizzando azioni, scrivendo lettere alle istituzioni chiave e portando davvero questo tema alla ribalta della politica internazionale e dell’opinione pubblica – spiega Yilmaz Orkan responsabile dell’Ufficio informazione Kurdistan Italia, UIKI-ONLUS – Dal 23 dicembre, ci sono stati diversi incontri con Abdullah Öcalan, nei quali egli ha sottolineato la soluzione della questione curda. Ora, per raggiungere tutti i nostri obiettivi, è necessario lavorare di più insieme. Dal suo inizio nell’ottobre 2023, la campagna è riuscita a riunire sindacati, movimenti sociali, avvocati, giuristi, partiti politici, funzionari eletti, artisti, intellettuali, attivisti, premi Nobel e milioni di curdi, costruendo reti di solidarietà a livello locale e internazionale. In questo modo, ha cercato di rompere l’isolamento di Ocalan e di rendere possibile una soluzione politica giusta e democratica alla secolare questione curda in Turchia, consentendo la sua partecipazione a un nuovo dialogo”.

Negli ultimi tre anni sono state tante le iniziative e le manifestazioni a Roma per accendere un faro sulla lotta di resistenza del popolo curdo. “La questione curda rimane la questione politica contemporanea più centrale del Medio Oriente, la sua risoluzione pacifica è quindi cruciale per la pace e la stabilità dell’intera regione. Inoltre, fornendo un approccio paradigmatico a molte delle crisi sociali e politiche più pressanti di oggi, le soluzioni di Öcalan servono come tabella di marcia per la stabilità e la coesistenza in Medio Oriente – aggiunge il responsabile dell’Ufficio informazione Kurdistan Italia – Nonostante le enormi difficoltà, affidandosi al paradigma del Confederalismo Democratico ideato da Öcalan, il popolo del Rojava ha dimostrato una straordinaria capacità di costruire una società inclusiva basata su principi di democrazia, uguaglianza di genere e giustizia sociale. Con la caduta del regime di Assad, questa esperienza potrebbe essere un modello positivo per la nuova Siria, ma è in pericolo, minacciata dalle politiche oppressive del regime turco e dai continui attacchi dei suoi mercenari”.

Al termine del primo giorno della conferenza, venerdi 11 aprile dalle 19,30, è prevista una serata culturale presso il Centro Socio-Culturale Ararat. Durante la serata saranno serviti piatti tipici della tradizione curda e italiana, in un clima di condivisione e convivialità. La serata sarà animata da un’esibizione di danza e dalla musica popolare napoletana del gruppo I Cumpari. SEGUI La Città che resiste

Programma 11 aprile

Yilmaz Orkan, Ufficio Informazione Kurdistan in Italia (UIKI Onlus)

• Salvatore Marra, Responsabile relazioni estere della Confederazione Generale Italiana dal Lavoro CGIL

• Massimiliano Smeriglio, Assessore alla Cultura del Comune di Roma: Saluti istituzionali per conto del Sindaco di Roma.

• Prof.ssa Kariane Westerheim, Messaggio dai Premi Nobel per la campagna

• Simon Dubbins, Network Internazionale Libertà per Öcalan e UNITE the Union

• Zübeyde Zümrüt, Portavoce della Campagna Libertà per Öcalan breve video sulla campagna

16:00 – 18:30 Panel I: Brevi dichiarazioni sulla campagna e sull’appello di Öcalan per la pace

Moderatori:

• Dott.ssa Gisela Penteker, IPPNW Germania

• Father Aris, Prete e membro di MIGRANTE, Filippine

Relatori:

• Zilan Diyar:TJK-E, risultati generali e sfide della campagna

• Nicola Fratoianni, deputato e segretario nazionale di Sinistra Italiana

• Emmanuel Fernandes, parlamentare e membro dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa

• Diana Urrea Herrera, deputata di EHBildu nei Paesi Baschi: l’impegno dei Paesi Baschi per la libertà di Öcalan

• Maurizio Acerbo, Segretario Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

• Mike Arnott, Segretario del Consiglio dei Sindacati di Dundee, ex Presidente del Congresso dei Sindacati Scozzesi (STUC): Importanza della solidarietà internazionale dei sindacati per la libertà di Öcalan.

• Keskin Bay?nd?r, Deputato del Partito DEM e Co-presidente del Partito delle Regioni Democratiche (DBP).

• Emily Clancy, Vicesindaca di Bologna

• Piero Bernocchi, Portavoce Confederazione COBAS

• Julian Aguirre, Secretaria de Relaciones Internacionales CTA Autonoma

19:30 Cena curda, performance di danza e musica popolare italiana dal vivo con I Cumpari

Venerdì 11 Aprile 2025

Centro Culturale Curdo, Ararat

Sabato 12 aprile

9:30 – 11:00 Panel II: 26 anni di sistema di isolamento ad Imral? come massimo banco di prova del diritto e della politica

Moderatori:

• Ögmunder Jonasson, ex Ministro della Giustizia d’Islanda e membro della Delegazione Imrali

• Serife Ceren Uysal, avvocata e Co-Segretaria Generale dell’ELDH

Relatori:

Serife Ceren Uysal avvocata e membro di MAF-DAD: Il Diritto alla Speranza e il Diritto Internazionale sotto il sistema di isolamento di Imrali

Faik Özgür Erol, Studio Legale Asrn: Istituzionalizzare lo stato di eccezione: il regime di isolamento di Imrali

11:00-11:20 Pausa

11:20-13:00 Panel III: Impatti locali, regionali e globali delle prospettive di pace e società democratica di Öcalan

Moderatori:

• Amedeo Ciaccheri, Presidente del Municipio VIII di Roma

• Consuelo Nùñez, Comitato della campagna nello Stato spagnolo

Relatori:

• Pervin Buldan, Depuatata del Partito DEM e membro della delegazione ad Imrali: la strategia di Öcalan di trasformare un regime oppressivo attraverso la forza della società democratica

• Idris Baluken, Membro del Team di Negoziazione di Imrali (2013-2015): esperienze dei colloqui di Imrali 2013-2015 e situazione attuale

• Ömer Öcalan, Deputato del Partito DEM: Impatto della strategia democratica di Öcalan sulla Turchia e sul Medio Oriente.

• Fouza Alyoussef, DAANES: Transizione democratica della Siria attraverso i successi del Rojava

• Idris Said, Portavoce del comitato Libertà per Öcalan, Siria del Nord-Est

Sabato 12 Aprile 2025

13:00-14:30 Pranzo

14:30-16:00 Forum I: Considerazioni, prospettive future e piani

Moderatori:

• Nilüfer Koç, membro del Consiglio del Congresso Nazionale del Kurdistan

• Michela Arricale, co-Presidente di CRED, avvocata

Contributi:

• Giovanni Russo Spena, portavoce Comitato italiano Il Tempo è Arrivato; Libertà per Öcalan

• Aynur Pasha, Giurista, comitato Libertà per Öcalan, Siria del Nord-Est

• Accademia della Modernità Democratica

• Solidarietà con il Kurdistan-Norvegia

• Domenico Mucignat, Retekurdistan

• Women in Exile

• Retejin

• Ms.Fernaz Attia Ahmed Farajallah Said, member of Nûn initiative for

Öcalan

• Movimento dei giovani

• Jineoloji

• Mujeres y la sexta

• Mr. Amidou Diamoutene, Union Luttes

Discussione generale con comitati, reti e associazioni

16:00-16:20 Pausa

Forum II: Considerazioni, prospettive future e piani

Moderatori:

• Nilüfer Koç, membro del Consiglio del Congresso Nazionale del Kurdistan

• Michela Arricale, Co-Presidente di CRED, avvocata

Siria ultimo sangue

Enrico Campofreda dal Blog 12 marzo 2025

Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi. Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi.

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra. Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.

Siria, accordo tra governo e curdi: il Rojava tra speranze e insidie

dinamopress.it carla-gagliardini 14 marzo 2025

Il collasso del regime di Assad e la formazione di un nuovo governo di origine jihadista e sotto protezione turca apre nuovi problemi per il Rojava. Il recente accordo tattico fra la nuova amministrazione centrale e le Sdf curde promette il riconoscimento dei diritti di quel popolo ma persistono molte difficoltà, vista anche l’intolleranza del nuovo regime verso gli alawiti

In un Medio Oriente in fiamme la situazione del Rojava, regione nel nord-est della Siria dove da più di un decennio governa la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est) a guida curda, è davvero complicata. L’Amministrazione Autonoma è difesa dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane), accusate dalla Turchia di essere una propaggine del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Così Ankara bombarda da sempre quelle terre e ciclicamente lancia delle campagne militari con le quali intensifica la sua azione. L’ultima è quella partita lo scorso novembre quando da Idlib, roccaforte dell’organizzazione Hts (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziata dalla Turchia, si è scatenata l’offensiva delle forze di opposizione arabe sunnite contro l’allora presidente Bashar al-Assad.

Mentre l’Hts procedeva spedita verso Damasco, caduta a dicembre senza sostanziale resistenza, le Sna (Esercito Nazionale Siriano), milizie al soldo di Ankara, costituite prevalentemente da foreign fighters, ricevevano gli ordini di penetrare nel Rojava. Il tentativo dell’operazione militare era di conquistare del territorio per allargare la zona cuscinetto, già esistente, al confine tra Turchia e Rojava e infrangere il sogno delle popolazioni di quelle zone che da anni praticano il confederalismo democratico, secondo il paradigma politico di Abdullah Ocalan.

I nuovi padroni della Siria, sbrigativamente rinominati ribelli dalle cancellerie occidentali, sebbene fino alla fuga di Assad fossero considerati spietati jihadisti formatisi nelle fila di al-Qaeda e dell’Isis, come il loro leader Ahmed al-Shaara, attuale presidente della Siria, si sono presentati al mondo con la faccia candida di chi vuole un paese pacificato, inclusivo, rispettoso di culture, lingue, tradizioni e religioni diverse. L’obiettivo chiaro di queste dichiarazioni è dare rassicurazioni e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali che affliggono la Siria e la sua popolazione. Senza esitazioni, i leader europei sono volati a Damasco e tra strette di mano e raccomandazioni paterne e materne hanno riaperto le ambasciate.

La taglia statunitense sulla testa di al-Shaara è stata rimossa e la gara a intervistarlo è stata vinta dalla BBC con un colloquio di oltre mezz’ora nel quale il neo-presidente siriano con fare pacato ha rassicurato il mondo delle buone intenzioni del suo governo. Alle domande spinose, come ad esempio quale sarà la politica rispetto alle donne, ha risposto rimandando tutto al futuro parlamento e dichiarando che sarà la legge a determinare le regole. Davvero vago e poco rassicurante, visti i precedenti delle organizzazioni a cui è stato affiliato. Non può essere dimenticato infatti quanto accaduto alle donne ezide rapite dall’Isis in Iraq, vendute come schiave in appositi “mercati” allestiti a Mosul, a Raqqa e persino su piattaforme on-line.

Per quello che riguarda invece il Rojava, sin dalla vittoria contro Assad, che per la verità nessuno ha difeso, nemmeno l’alleato russo, al-Shaara è stato chiaro e ha mantenuto la linea: nessuna regione autonoma e ogni formazione militare dovrà entrare nel corpo militare siriano. Insomma, sembra che alla Daanes e alle Sdf non venga fatta nessuna concessione, nonostante i proclami di una Siria inclusiva.

Le Sdf, attraverso i propri comandi, hanno cercato da subito un dialogo con al-Shaara, consapevoli del crinale scosceso su cui il Rojava si trova. Infatti le Sna, con attacchi da terra e il supporto della Turchia dai cieli, hanno conquistato a novembre la città strategica di Mambij e hanno iniziato ad attaccare la diga di Tishreen, sperando di espugnare successivamente la città simbolo della resistenza del Rojava contro l’Isis, ossia Kobane. A disturbare ci sono poi persino le cellule dell’Isis che, approfittando della situazione ancora instabile in Siria, conducono azioni militari contro le Sdf.

Dall’avvio dell’offensiva contro Assad, è cambiata la guida dell’amministrazione statunitense e alla Casa Bianca siede adesso Donald Trump, considerato oggi più che mai un alleato inaffidabile da parte di tutti. Ma le Sdf conoscono molto bene questo tratto del suo “carattere” perché, pur essendo gli Usa loro alleati, nel 2019, una volta sconfitto l’Isis in Siria, Trump ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi ben sapendo che ciò avrebbe comportato un attacco turco contro il Rojava, cosa prontamente avvenuta.

La partita aperta in Siria, dove anche la Russia e Israele sono parte del gioco, trasforma il paese in un terreno davvero periglioso, metaforicamente (e non solo!) minato.

Per questo le Sdf hanno ritenuto necessario il dialogo con i nuovi capi di Damasco. A renderlo ancor più necessario è stato l’appello del leader curdo Ocalan che lo scorso 27 febbraio, accogliendo l’invito al dialogo per porre fine al conflitto tra Stato turco e movimento di liberazione curdo lanciato a ottobre dal presidente del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), partito di ultra-destra islamista, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, ha chiesto a tutti di deporre le armi e al Pkk di avviare anche un congresso per decidere dello scioglimento del partito, dichiarando la sua ragion d’essere esaurita.

Il Comandante Generale delle Sdf, Mazlum Abdi, aveva immediatamente replicato che il negoziato in corso in Turchia riguardava solo quel paese e non la Siria ma che si aspettava risvolti positivi anche per il Rojava.

Lunedì 10 marzo è arrivata la notizia che al-Shaara e Abdi hanno siglato un accordo in più punti che deve trovare attuazione entro la fine dell’anno. Il portavoce del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) Salih Muslim, in un’intervista rilasciata a ANF News ha commentato gli otto punti del documento in modo positivo, sostenendo che la rivoluzione del Rojava si è consolidata e oggi la regione può dire di aver acquisito uno status che gli permette di essere un partner all’interno dello stato siriano.

Nel complesso l’accordo prevede: il riconoscimento di tutti i popoli a partecipare al nuovo processo politico e a lavorare dentro le istituzioni; il popolo curdo è considerato parte integrante della Siria e dunque gli sono garantiti il diritto di cittadinanza, negato sotto Assad padre e figlio, e i diritti costituzionali; l’impegno a lavorare per un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano, ciò significa secondo Salih Muslim che le Sna e gli attacchi turchi in Rojava verranno combattuti insieme dall’esercito siriano e dalle Sdf; il ritorno dei rifugiati siriani nelle loro terre e nelle loro case, quindi sempre secondo Muslim il territorio siriano verrà liberato della presenza turca che ha occupato dei territori; la lotta congiunta contro dichiarazioni e comportamenti volti a alimentare l’odio e a dividere il paese in fazioni; l’assorbimento da parte delle forze armate siriane delle organizzazioni civili e militari del nord-est della Siria, ossia del Rojava, oltre all’integrazione nello Stato dei valichi di frontiera, degli aeroporti e dei giacimenti di petrolio e gas; la lotta congiunta contro i gruppi legati al regime di Assad.

Questi ultimi due punti sono di particolare rilevanza. Con le immagini terrificanti che corrono sui social delle violenze senza freni delle milizie Hts nei confronti degli alawiti, sostenitori di Assad, è importante che le Sdf facciano prevalere l’approccio non vendicativo, sostenendo la necessità di un esercito teso alla sola difesa, come il confederalismo democratico insegna. A maggior ragione adesso che inizierà il loro processo di integrazione all’interno del corpo militare nazionale.

PROBLEMI E AMBIGUITÀ CHE RESTANO

Nell’accordo manca però ogni riferimento a cosa accadrà della Daanes, che con i suoi giacimenti di petrolio e gas, la cui amministrazione e redistribuzione delle risorse fiscali sarà oggetto di successive intese, fa gola al governo centrale.

Secondo il paradigma del confederalismo democratico l’Autonomia per sostenersi deve avere delle forze di autodifesa, che nel Rojava sono rappresentate proprio dalle Sdf. Cosa succederà una volta che le Sdf diventeranno parte del corpo militare nazionale? Ma soprattutto, cosa si sono detti al-Shaara e Abdi rispetto al destino della Daanes, avendo due posizioni così radicalmente diverse sull’idea di Stato?

Non bisogna dimenticarsi che nella conferenza convocata dal presidente siriano per confrontarsi con politici e società civile sul futuro della Siria, tenutasi il 25 febbraio scorso, né la Daanes né le Sdf sono state invitate e in due dei punti scritti sul documento finale è stato detto chiaramente che nella nuova Siria non c’è lo spazio per organizzazioni militari fuori dall’alveo statale e neppure per regioni autonome.

Come riuscirà o potrà convivere il confederalismo democratico, che è già una pratica reale nel Rojava, con la Siria degli jihadisti dell’Hts è difficile da vedere con nitidezza oggi.

È una partita molto tattica quella che si gioca, certamente costretta dagli eventi politici e militari in rapido mutamento che il Medio Oriente sta vivendo. La regione siriana è ancora una volta dentro fino al collo in questo turbine di violenza, speranze e timori per il futuro.

Nella foto Mazlum Ebdî, comandante in capo delle Forze siriane democratiche. Immagine di Zana Omer – VOAIsis