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Tag: Curdi

OCALAN: PROPOSTE PER UNA SOLUZIONE POLITICA

labottegadelbarbieri.org  Gian Luigi Deiana 21 aprile 2025

La proposta di pacificazione di Abdullah Ocalan

La primavera kurda segna giorno dopo giorno, in questo anno sempre più oscuro, tracce di luce molto significative e importanti:

a febbraio si è riunito a Bruxelles il tribunale permanente per il diritto dei popoli, e negli stessi giorni Abdullah Ocalan, dal carcere turco nel quale è recluso da ventisei anni, rendeva pubblico il manifesto per la “soluzione politica” della questione kurda;

a marzo la complessa situazione siriana vedeva da un lato l’intensificazione della guerra sporca del governo turco sulle componenti curde ed alawite, con bombardamenti e stragi, e dall’altro la crescente volontà di composizione pacifica della nuova realtà del mosaico;

e infine, in questi giorni di aprile, la conferenza tenuta a roma proprio sul tema della “soluzione politica” ha potuto offrire in tempo reale una attenta e fiduciosa ponderazione della situazione: non solo in tempo reale, nello svolgersi delle vicende presenti, ma soprattutto, nella vasta pluralità delle voci, la forte significatività delle “voci interne” del mondo kurdo, e del rojava in particolare;

di qui il messaggio, con la forza di un appello universale, transita alla giornata mondiale della pace, prevista per il 1 settembre: e dunque proviamo a riflettere su come arrivarci; per semplificare questa riflessione ricorrerò qui alla sottolineatura di alcuni concetti essenziali, sui quali si sono soffermati tutti gli interventi della conferenza romana;

– coerenza: il messaggio del presidente Ocalan non è frutto di una opzione estemporanea: tutta la monumentale opera di scrittura carceraria, ormai più che ventennale, è indirizzata a questo fine: la cessazione delle ostilità e la costruzione della società democratica;

– sociologia della libertà: l’opera teorica del presidente Ocalan non è circoscritta alla situazione kurda e non è temporizzata sulla storia recente: è in senso pieno una “visione del mondo”, che ricomprende la storia della civiltà dalle prime formazioni mesopotamiche all’orizzonte attuale, e che è compresa nel senso di una “sociologia della libertà” finalmente svincolata dagli idoli più recenti e più tragici della storia: il nazionalismo e lo stato;

– prassi: il messaggio del presidente Ocalan, pur interno a questa ampia e profonda riflessione teorica, si propone essenzialmente per la sua realizzabilità pratica: non tanto come enfasi della “pace”, quanto piuttosto come prassi della “pacificazione”; egli stesso, nel rivendicare a se stesso questo indirizzo (che comporterebbe in primo luogo la fine della lotta armata) lo assume come propria “responsabilità storica”; una dichiarazione così solenne, nella scrittura di un carcerato, indica che egli stesso non è semplicemente un filosofo della pace, ma intende se stesso, e invita tutti a questo intendimento, intende se stesso come “incarnazione” concreta della costruzione della pacificazione;

– soluzione politica: il percorso della pacificazione non è mai facile: quanto più facile e scontata e duratura è stata la guerra, tanto più difficoltosa e creativa e paziente deve essere la pacificazione; quindi tutti gli attori in campo devono riconoscersi vicendevolmente; ne deriva che il popolo kurdo, in quanto riconosce il presidente Ocalan come proprio irrinunciabile rappresentante, pone come primo passaggio della “soluzione politica” la sua liberazione.

– jnealogie: la “scienza della donna”, o la ricomposizione della visione del mondo sulla liberazione dell’universo femminile, è la condizione essenziale dell’intero processo; il presidente Ocalan considera la processualità storica sotto il segno della “lunga durata”; e non vi è alcuna possibilità di “lunga durata” senza la primarietà attiva dell’universo femminile;

– coralità: la partecipazione alla conferenza “politica” di Roma, come peraltro la partecipazione alla sessione “giuridica” di Bruxelles, è stata appassionata ma soprattutto “corale”; ciò non era affatto scontato, laddove si consideri che i convenuti, circa quattrocento in ambedue le occasioni, provenivano da situazioni disparate sia in Kurdistan, sia in Europa; quindi con intuibili disparità di analisi e di giudizio; e tuttavia nel succedersi delle ore il discorso ha preso la forma di un discorso profondamente condiviso; ed è questa disposizione corale, in fondo, ciò continua nel tempo a dare garanzia di continuità e di apprendimento pedagogico, ovvero anche di interiorizzazione, del pensiero del presidente Ocalan.

A Roma la conferenza delle reti sociali e movimenti sulla questione curda: “Rompiamo il silenzio”

La Repubblica, 9 aprile 2025

L’11 e il 12 aprile al palazzo dei congressi di via dei Frentani si svolgerà la due giorni dedicata alla campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan e al suo progetto legato al Confederalismo democratico

Roma al centro della conferenza internazionale sulla questione curda. L’11 e il 12 aprile al palazzo dei congressi di via dei Frentani si svolgerà la due giorni dedicata alla campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan e al suo progetto legato al Confederalismo democratico: “Libertà per Öcalan – Una soluzione politica per la questione curda”. La conferenza è aperta a tutte le realtà sociali, movimenti, organizzazioni sindacali e politiche ma anche ai tanti intellettuali, artisti e giornalisti che hanno contribuito a rompere l’isolamento del popolo curdo. Nell’ambito della conferenza, ogni rete avrà la possibilità di condividere il proprio punto di vista e le proprie riflessioni e proposte per il futuro.”Negli ultimi anni, insieme abbiamo compiuto passi importanti nella costruzione di reti internazionali di solidarietà in tutta Europa e oltre, organizzando azioni, scrivendo lettere alle istituzioni chiave e portando davvero questo tema alla ribalta della politica internazionale e dell’opinione pubblica – spiega Yilmaz Orkan responsabile dell’Ufficio informazione Kurdistan Italia, UIKI-ONLUS – Dal 23 dicembre, ci sono stati diversi incontri con Abdullah Öcalan, nei quali egli ha sottolineato la soluzione della questione curda. Ora, per raggiungere tutti i nostri obiettivi, è necessario lavorare di più insieme. Dal suo inizio nell’ottobre 2023, la campagna è riuscita a riunire sindacati, movimenti sociali, avvocati, giuristi, partiti politici, funzionari eletti, artisti, intellettuali, attivisti, premi Nobel e milioni di curdi, costruendo reti di solidarietà a livello locale e internazionale. In questo modo, ha cercato di rompere l’isolamento di Ocalan e di rendere possibile una soluzione politica giusta e democratica alla secolare questione curda in Turchia, consentendo la sua partecipazione a un nuovo dialogo”.

Negli ultimi tre anni sono state tante le iniziative e le manifestazioni a Roma per accendere un faro sulla lotta di resistenza del popolo curdo. “La questione curda rimane la questione politica contemporanea più centrale del Medio Oriente, la sua risoluzione pacifica è quindi cruciale per la pace e la stabilità dell’intera regione. Inoltre, fornendo un approccio paradigmatico a molte delle crisi sociali e politiche più pressanti di oggi, le soluzioni di Öcalan servono come tabella di marcia per la stabilità e la coesistenza in Medio Oriente – aggiunge il responsabile dell’Ufficio informazione Kurdistan Italia – Nonostante le enormi difficoltà, affidandosi al paradigma del Confederalismo Democratico ideato da Öcalan, il popolo del Rojava ha dimostrato una straordinaria capacità di costruire una società inclusiva basata su principi di democrazia, uguaglianza di genere e giustizia sociale. Con la caduta del regime di Assad, questa esperienza potrebbe essere un modello positivo per la nuova Siria, ma è in pericolo, minacciata dalle politiche oppressive del regime turco e dai continui attacchi dei suoi mercenari”.

Al termine del primo giorno della conferenza, venerdi 11 aprile dalle 19,30, è prevista una serata culturale presso il Centro Socio-Culturale Ararat. Durante la serata saranno serviti piatti tipici della tradizione curda e italiana, in un clima di condivisione e convivialità. La serata sarà animata da un’esibizione di danza e dalla musica popolare napoletana del gruppo I Cumpari. SEGUI La Città che resiste

Programma 11 aprile

Yilmaz Orkan, Ufficio Informazione Kurdistan in Italia (UIKI Onlus)

• Salvatore Marra, Responsabile relazioni estere della Confederazione Generale Italiana dal Lavoro CGIL

• Massimiliano Smeriglio, Assessore alla Cultura del Comune di Roma: Saluti istituzionali per conto del Sindaco di Roma.

• Prof.ssa Kariane Westerheim, Messaggio dai Premi Nobel per la campagna

• Simon Dubbins, Network Internazionale Libertà per Öcalan e UNITE the Union

• Zübeyde Zümrüt, Portavoce della Campagna Libertà per Öcalan breve video sulla campagna

16:00 – 18:30 Panel I: Brevi dichiarazioni sulla campagna e sull’appello di Öcalan per la pace

Moderatori:

• Dott.ssa Gisela Penteker, IPPNW Germania

• Father Aris, Prete e membro di MIGRANTE, Filippine

Relatori:

• Zilan Diyar:TJK-E, risultati generali e sfide della campagna

• Nicola Fratoianni, deputato e segretario nazionale di Sinistra Italiana

• Emmanuel Fernandes, parlamentare e membro dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa

• Diana Urrea Herrera, deputata di EHBildu nei Paesi Baschi: l’impegno dei Paesi Baschi per la libertà di Öcalan

• Maurizio Acerbo, Segretario Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

• Mike Arnott, Segretario del Consiglio dei Sindacati di Dundee, ex Presidente del Congresso dei Sindacati Scozzesi (STUC): Importanza della solidarietà internazionale dei sindacati per la libertà di Öcalan.

• Keskin Bay?nd?r, Deputato del Partito DEM e Co-presidente del Partito delle Regioni Democratiche (DBP).

• Emily Clancy, Vicesindaca di Bologna

• Piero Bernocchi, Portavoce Confederazione COBAS

• Julian Aguirre, Secretaria de Relaciones Internacionales CTA Autonoma

19:30 Cena curda, performance di danza e musica popolare italiana dal vivo con I Cumpari

Venerdì 11 Aprile 2025

Centro Culturale Curdo, Ararat

Sabato 12 aprile

9:30 – 11:00 Panel II: 26 anni di sistema di isolamento ad Imral? come massimo banco di prova del diritto e della politica

Moderatori:

• Ögmunder Jonasson, ex Ministro della Giustizia d’Islanda e membro della Delegazione Imrali

• Serife Ceren Uysal, avvocata e Co-Segretaria Generale dell’ELDH

Relatori:

Serife Ceren Uysal avvocata e membro di MAF-DAD: Il Diritto alla Speranza e il Diritto Internazionale sotto il sistema di isolamento di Imrali

Faik Özgür Erol, Studio Legale Asrn: Istituzionalizzare lo stato di eccezione: il regime di isolamento di Imrali

11:00-11:20 Pausa

11:20-13:00 Panel III: Impatti locali, regionali e globali delle prospettive di pace e società democratica di Öcalan

Moderatori:

• Amedeo Ciaccheri, Presidente del Municipio VIII di Roma

• Consuelo Nùñez, Comitato della campagna nello Stato spagnolo

Relatori:

• Pervin Buldan, Depuatata del Partito DEM e membro della delegazione ad Imrali: la strategia di Öcalan di trasformare un regime oppressivo attraverso la forza della società democratica

• Idris Baluken, Membro del Team di Negoziazione di Imrali (2013-2015): esperienze dei colloqui di Imrali 2013-2015 e situazione attuale

• Ömer Öcalan, Deputato del Partito DEM: Impatto della strategia democratica di Öcalan sulla Turchia e sul Medio Oriente.

• Fouza Alyoussef, DAANES: Transizione democratica della Siria attraverso i successi del Rojava

• Idris Said, Portavoce del comitato Libertà per Öcalan, Siria del Nord-Est

Sabato 12 Aprile 2025

13:00-14:30 Pranzo

14:30-16:00 Forum I: Considerazioni, prospettive future e piani

Moderatori:

• Nilüfer Koç, membro del Consiglio del Congresso Nazionale del Kurdistan

• Michela Arricale, co-Presidente di CRED, avvocata

Contributi:

• Giovanni Russo Spena, portavoce Comitato italiano Il Tempo è Arrivato; Libertà per Öcalan

• Aynur Pasha, Giurista, comitato Libertà per Öcalan, Siria del Nord-Est

• Accademia della Modernità Democratica

• Solidarietà con il Kurdistan-Norvegia

• Domenico Mucignat, Retekurdistan

• Women in Exile

• Retejin

• Ms.Fernaz Attia Ahmed Farajallah Said, member of Nûn initiative for

Öcalan

• Movimento dei giovani

• Jineoloji

• Mujeres y la sexta

• Mr. Amidou Diamoutene, Union Luttes

Discussione generale con comitati, reti e associazioni

16:00-16:20 Pausa

Forum II: Considerazioni, prospettive future e piani

Moderatori:

• Nilüfer Koç, membro del Consiglio del Congresso Nazionale del Kurdistan

• Michela Arricale, Co-Presidente di CRED, avvocata

Siria ultimo sangue

Enrico Campofreda dal Blog 12 marzo 2025

Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi. Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi.

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra. Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.

Siria, accordo tra governo e curdi: il Rojava tra speranze e insidie

dinamopress.it carla-gagliardini 14 marzo 2025

Il collasso del regime di Assad e la formazione di un nuovo governo di origine jihadista e sotto protezione turca apre nuovi problemi per il Rojava. Il recente accordo tattico fra la nuova amministrazione centrale e le Sdf curde promette il riconoscimento dei diritti di quel popolo ma persistono molte difficoltà, vista anche l’intolleranza del nuovo regime verso gli alawiti

In un Medio Oriente in fiamme la situazione del Rojava, regione nel nord-est della Siria dove da più di un decennio governa la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est) a guida curda, è davvero complicata. L’Amministrazione Autonoma è difesa dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane), accusate dalla Turchia di essere una propaggine del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Così Ankara bombarda da sempre quelle terre e ciclicamente lancia delle campagne militari con le quali intensifica la sua azione. L’ultima è quella partita lo scorso novembre quando da Idlib, roccaforte dell’organizzazione Hts (Hay’at Tahrir al-Sham) finanziata dalla Turchia, si è scatenata l’offensiva delle forze di opposizione arabe sunnite contro l’allora presidente Bashar al-Assad.

Mentre l’Hts procedeva spedita verso Damasco, caduta a dicembre senza sostanziale resistenza, le Sna (Esercito Nazionale Siriano), milizie al soldo di Ankara, costituite prevalentemente da foreign fighters, ricevevano gli ordini di penetrare nel Rojava. Il tentativo dell’operazione militare era di conquistare del territorio per allargare la zona cuscinetto, già esistente, al confine tra Turchia e Rojava e infrangere il sogno delle popolazioni di quelle zone che da anni praticano il confederalismo democratico, secondo il paradigma politico di Abdullah Ocalan.

I nuovi padroni della Siria, sbrigativamente rinominati ribelli dalle cancellerie occidentali, sebbene fino alla fuga di Assad fossero considerati spietati jihadisti formatisi nelle fila di al-Qaeda e dell’Isis, come il loro leader Ahmed al-Shaara, attuale presidente della Siria, si sono presentati al mondo con la faccia candida di chi vuole un paese pacificato, inclusivo, rispettoso di culture, lingue, tradizioni e religioni diverse. L’obiettivo chiaro di queste dichiarazioni è dare rassicurazioni e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali che affliggono la Siria e la sua popolazione. Senza esitazioni, i leader europei sono volati a Damasco e tra strette di mano e raccomandazioni paterne e materne hanno riaperto le ambasciate.

La taglia statunitense sulla testa di al-Shaara è stata rimossa e la gara a intervistarlo è stata vinta dalla BBC con un colloquio di oltre mezz’ora nel quale il neo-presidente siriano con fare pacato ha rassicurato il mondo delle buone intenzioni del suo governo. Alle domande spinose, come ad esempio quale sarà la politica rispetto alle donne, ha risposto rimandando tutto al futuro parlamento e dichiarando che sarà la legge a determinare le regole. Davvero vago e poco rassicurante, visti i precedenti delle organizzazioni a cui è stato affiliato. Non può essere dimenticato infatti quanto accaduto alle donne ezide rapite dall’Isis in Iraq, vendute come schiave in appositi “mercati” allestiti a Mosul, a Raqqa e persino su piattaforme on-line.

Per quello che riguarda invece il Rojava, sin dalla vittoria contro Assad, che per la verità nessuno ha difeso, nemmeno l’alleato russo, al-Shaara è stato chiaro e ha mantenuto la linea: nessuna regione autonoma e ogni formazione militare dovrà entrare nel corpo militare siriano. Insomma, sembra che alla Daanes e alle Sdf non venga fatta nessuna concessione, nonostante i proclami di una Siria inclusiva.

Le Sdf, attraverso i propri comandi, hanno cercato da subito un dialogo con al-Shaara, consapevoli del crinale scosceso su cui il Rojava si trova. Infatti le Sna, con attacchi da terra e il supporto della Turchia dai cieli, hanno conquistato a novembre la città strategica di Mambij e hanno iniziato ad attaccare la diga di Tishreen, sperando di espugnare successivamente la città simbolo della resistenza del Rojava contro l’Isis, ossia Kobane. A disturbare ci sono poi persino le cellule dell’Isis che, approfittando della situazione ancora instabile in Siria, conducono azioni militari contro le Sdf.

Dall’avvio dell’offensiva contro Assad, è cambiata la guida dell’amministrazione statunitense e alla Casa Bianca siede adesso Donald Trump, considerato oggi più che mai un alleato inaffidabile da parte di tutti. Ma le Sdf conoscono molto bene questo tratto del suo “carattere” perché, pur essendo gli Usa loro alleati, nel 2019, una volta sconfitto l’Isis in Siria, Trump ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi ben sapendo che ciò avrebbe comportato un attacco turco contro il Rojava, cosa prontamente avvenuta.

La partita aperta in Siria, dove anche la Russia e Israele sono parte del gioco, trasforma il paese in un terreno davvero periglioso, metaforicamente (e non solo!) minato.

Per questo le Sdf hanno ritenuto necessario il dialogo con i nuovi capi di Damasco. A renderlo ancor più necessario è stato l’appello del leader curdo Ocalan che lo scorso 27 febbraio, accogliendo l’invito al dialogo per porre fine al conflitto tra Stato turco e movimento di liberazione curdo lanciato a ottobre dal presidente del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), partito di ultra-destra islamista, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, ha chiesto a tutti di deporre le armi e al Pkk di avviare anche un congresso per decidere dello scioglimento del partito, dichiarando la sua ragion d’essere esaurita.

Il Comandante Generale delle Sdf, Mazlum Abdi, aveva immediatamente replicato che il negoziato in corso in Turchia riguardava solo quel paese e non la Siria ma che si aspettava risvolti positivi anche per il Rojava.

Lunedì 10 marzo è arrivata la notizia che al-Shaara e Abdi hanno siglato un accordo in più punti che deve trovare attuazione entro la fine dell’anno. Il portavoce del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) Salih Muslim, in un’intervista rilasciata a ANF News ha commentato gli otto punti del documento in modo positivo, sostenendo che la rivoluzione del Rojava si è consolidata e oggi la regione può dire di aver acquisito uno status che gli permette di essere un partner all’interno dello stato siriano.

Nel complesso l’accordo prevede: il riconoscimento di tutti i popoli a partecipare al nuovo processo politico e a lavorare dentro le istituzioni; il popolo curdo è considerato parte integrante della Siria e dunque gli sono garantiti il diritto di cittadinanza, negato sotto Assad padre e figlio, e i diritti costituzionali; l’impegno a lavorare per un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano, ciò significa secondo Salih Muslim che le Sna e gli attacchi turchi in Rojava verranno combattuti insieme dall’esercito siriano e dalle Sdf; il ritorno dei rifugiati siriani nelle loro terre e nelle loro case, quindi sempre secondo Muslim il territorio siriano verrà liberato della presenza turca che ha occupato dei territori; la lotta congiunta contro dichiarazioni e comportamenti volti a alimentare l’odio e a dividere il paese in fazioni; l’assorbimento da parte delle forze armate siriane delle organizzazioni civili e militari del nord-est della Siria, ossia del Rojava, oltre all’integrazione nello Stato dei valichi di frontiera, degli aeroporti e dei giacimenti di petrolio e gas; la lotta congiunta contro i gruppi legati al regime di Assad.

Questi ultimi due punti sono di particolare rilevanza. Con le immagini terrificanti che corrono sui social delle violenze senza freni delle milizie Hts nei confronti degli alawiti, sostenitori di Assad, è importante che le Sdf facciano prevalere l’approccio non vendicativo, sostenendo la necessità di un esercito teso alla sola difesa, come il confederalismo democratico insegna. A maggior ragione adesso che inizierà il loro processo di integrazione all’interno del corpo militare nazionale.

PROBLEMI E AMBIGUITÀ CHE RESTANO

Nell’accordo manca però ogni riferimento a cosa accadrà della Daanes, che con i suoi giacimenti di petrolio e gas, la cui amministrazione e redistribuzione delle risorse fiscali sarà oggetto di successive intese, fa gola al governo centrale.

Secondo il paradigma del confederalismo democratico l’Autonomia per sostenersi deve avere delle forze di autodifesa, che nel Rojava sono rappresentate proprio dalle Sdf. Cosa succederà una volta che le Sdf diventeranno parte del corpo militare nazionale? Ma soprattutto, cosa si sono detti al-Shaara e Abdi rispetto al destino della Daanes, avendo due posizioni così radicalmente diverse sull’idea di Stato?

Non bisogna dimenticarsi che nella conferenza convocata dal presidente siriano per confrontarsi con politici e società civile sul futuro della Siria, tenutasi il 25 febbraio scorso, né la Daanes né le Sdf sono state invitate e in due dei punti scritti sul documento finale è stato detto chiaramente che nella nuova Siria non c’è lo spazio per organizzazioni militari fuori dall’alveo statale e neppure per regioni autonome.

Come riuscirà o potrà convivere il confederalismo democratico, che è già una pratica reale nel Rojava, con la Siria degli jihadisti dell’Hts è difficile da vedere con nitidezza oggi.

È una partita molto tattica quella che si gioca, certamente costretta dagli eventi politici e militari in rapido mutamento che il Medio Oriente sta vivendo. La regione siriana è ancora una volta dentro fino al collo in questo turbine di violenza, speranze e timori per il futuro.

Nella foto Mazlum Ebdî, comandante in capo delle Forze siriane democratiche. Immagine di Zana Omer – VOAIsis

 

Il governo siriano ha detto di aver raggiunto un accordo con i principali gruppi curdi

ilpost.it 10 marzo 2025

Prevede che vengano integrati nelle istituzioni politiche e militari siriane: le informazioni certe però sono ancora poche

I principali gruppi della comunità curda sono riuniti nelle Forze democratiche siriane (SDF), un’organizzazione militare e politica che include varie milizie come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda, e altri gruppi locali. Da sei anni amministrano autonomamente circa un terzo del territorio siriano, nel nord-est del paese, dopo aver sconfitto in quell’area lo Stato Islamico con il sostegno degli Stati Uniti.

Le informazioni certe sul contenuto dell’accordo sono ancora poche e le Forze democratiche siriane non l’hanno ancora commentato pubblicamente. Le uniche disponibili sono contenute in un comunicato della presidenza siriana pubblicato dall’agenzia di stampa statale siriana SANA, in cui si legge che l’accordo integrerebbe «tutte le istituzioni civili e militari nel nord-est della Siria nell’amministrazione dello stato siriano, compresi i varchi di frontiera, gli aeroporti e i giacimenti di petrolio e gas». Non è ancora chiaro però quale sarebbe l’esatto status del territorio oggi controllato dalle SDF.

L’accordo inoltre riconoscerebbe la comunità curda come «parte integrante dello stato siriano, che le garantisce i diritti di cittadinanza e costituzionali». La nuova Costituzione siriana deve essere ancora redatta, ma per decenni il regime di Bashar al Assad ha negato ai curdi moltissimi diritti, fra cui l’insegnamento e l’uso della loro lingua e qualsiasi forma di autonomia amministrativa.

Le Forze democratiche siriane erano il più importante fra i gruppi siriani che ancora non si erano aggiunti ufficialmente alle trattative sulla transizione politica del paese. Lo scorso dicembre non avevano preso parte all’accordo di sciogliersi e confluire in un unico esercito insieme agli altri gruppi armati che avevano contribuito a rovesciare il regime di Assad. Poche settimane fa, a fine febbraio, non avevano partecipato all’incontro organizzato dal governo ad interim nell’ex palazzo di Assad per ascoltare le varie raccomandazioni sulla direzione che dovrebbe prendere il paese.

A dicembre i curdi siriani avevano approfittato della ritirata dell’esercito di Assad durante la fine del regime per conquistare nuovi territori, ma erano stati parallelamente attaccati con una campagna di bombardamenti dalla Turchia, che li considera un pericolo per la propria sicurezza nazionale, e dall’Esercito nazionale siriano, una milizia controllata dal governo turco.

 

 

Kurdistan. Öcalan chiede al Pkk di deporre le armi: e ora?

Volerelaluna, 7 marzo 2025, di Laura Schrader

l “primo sparo” echeggiò a Eruh il 15 agosto 1984 contro un edificio della polizia militare e quasi in contemporanea si ripeté contro una caserma a Semdinli. Era l’inizio della guerriglia di resistenza dell’Argk, il braccio armato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk). La Turchia, Stato assolutista, mentre negava l’esistenza del popolo kurdo lo colpiva con massacri e deportazioni e ne vietava lingua e cultura.

Ora, dopo oltre 40 anni di un conflitto che negli anni Novanta ha toccato vertici di feroce intensità da parte del secondo esercito Nato, la guerriglia del Pkk è chiamata a deporre le armi, e a convocare un congresso per decidere le modalità del proprio scioglimento nell’ambito di un processo di pace e di democratizzazione dello stato turco. È questo il contenuto dell’appello inviato il 27 febbraio dal leader del Pkk Abdullah Öcalan con un video registrato nel corso di un incontro con tre parlamentari del partito filo kurdo DEM avvenuto nel carcere di Imrali dove Öcalan è detenuto in isolamento dal febbraio 1999.

In risposta all’appello, il 1° marzo, il Pkk ha diffuso una dichiarazione in cui si legge: «L’appello alla pace e alla società democratica è un manifesto che illumina il cammino di tutte le forze della libertà e della democrazia […]. Siamo d’accordo con il contenuto dell’appello così come è. Tuttavia vogliamo sottolineare che anche la politica democratica e le basi legali devono essere garantite […]. A partire da oggi dichiariamo un cessate il fuoco effettivo. Nessuna delle nostre forze intraprenderà azioni armate a meno che non venga attaccata». A tale dichiarazione fa eco la nipote del leader, Ayney Öcalan: «È chiaro che con questo appello è iniziato un nuovo processo storico in Kurdistan e in Medio Oriente. Ciò avrà anche un impatto importante sullo sviluppo della vita libera e della governance democratica in tutto il mondo. L’accordo sull’appello di Öcalan potrà portare stabilità anche in altre parti del Kurdistan, si verificheranno nuovi sviluppi politici e sociali e verranno compiuti passi verso la democratizzazione. Anche la crisi in Siria e Iraq potrebbe essere risolta. Stiamo attraversando quindi un periodo importante e delicato. La pace e la democrazia che deriveranno dal dialogo andranno a beneficio del mondo. Anche la Turchia ne ha bisogno, perché sta vivendo una grave crisi economica e politica».

Un appello alla pace e all’avvio di un processo di democratizzazione in Turchia che riconoscesse i diritti non soltanto del popolo kurdo ma di tutte le minoranze etniche e religiose era già stato lanciato da Öcalan nel 2013 con un video trasmesso nel corso di una gigantesca festa di Nawroz nella piazza di Amed (Diyarbakir). L’appello era il frutto di negoziati cominciati a Oslo nel 2009 tra il partito filo kurdo di allora, il leader imprigionato e la delegazione governativa guidata dall’attuale ministro degli Esteri Hakan Fidan, allora capo del Mit, il Servizio segreto. L’esercito della guerriglia non depose le armi ma rispettò a lungo il cessate il fuoco. I risultati del processo di democratizzazione furono, peraltro, irrisori e nel luglio del 2015 l’esercito turco riprese le ostilità su vasta scala.

L’attuale appello pare maturato in tempi molto brevi (https://volerelaluna.it/mondo/2024/11/13/una-nuova-fase-politica-in-kurdistan/). Paradossalmente era stato il leader del partito ultranazionalista Mhp, Devlet Bahceli, nell’ottobre scorso a sostenere l’opportunità di autorizzare la prima visita al leader in carcere dopo quattro anni di isolamento totale, durante i quali non gli era consentita nessuna comunicazione con l’esterno, neppure una telefonata con familiari o avvocati. Nel corso dell’incontro con alcuni parlamentari del Dem il leader aveva parlato della possibilità di guidare un processo di pace. Dopo l’appello del 27 febbraio il parlamentare del Dem Sirri Surreya Onder, ha comunicato che, da lunedì 10 marzo, è prevista una serie di incontri con esponenti governativi e parlamentari e che le trattative si concluderanno in tre mesi.

Il premier Erdogan si dichiara d’accordo sulla necessità di porre fine al conflitto. Ma continua la politica di repressione che in gennaio aveva portato la magistratura, totalmente asservita all’esecutivo, a incarcerare 300 parlamentari, sindaci, intellettuali per reati di opinione con l’accusa di “attività terroristiche”. Continua la destituzione dei sindaci eletti in Kurdistan, il loro arresto e il commissariamento dei comuni lasciati nelle mani di funzionari governativi (https://volerelaluna.it/mondo/2025/01/08/erdogan-e-i-curdi-tra-caute-aperture-e-repressione-permanente/). E Erdogan continua a dichiarare la volontà di eliminare l’Amministrazione autonoma del Rojava in Siria (Daanes). Allo scopo, si avvale del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (Ens), finanziato, armato, addestrato da Ankara e composto da jihadisti di 40 diverse nazionalità che da un mese assedia il ponte sulla diga di Tishrin sull’Eufrate, presidiato dalla popolazione, per arrivare alla città-simbolo di Kobane. L’Ens è sostenuto dai bombardamenti dell’aviazione turca, che ha fatto numerose vittime tra i civili che difendono la diga e che ha distrutto l’importantissimo ponte di Qereqozat. Dal canto suo, il 4 marzo, la Forza di Difesa Popolare (Hpg) ha comunicato che l’esercito turco, dopo la dichiarazione del cessate il fuoco, ha continuato a bombardare da terra e dall’aria le aree della guerriglia costringendola ad esercitare il suo diritto di autodifesa.

Il successo dell’iniziativa di pace ha alcune condizioni. Lo dichiara esplicitamente il Pkk: «Siamo pronti a convocare il congresso del Partito tuttavia il leader Apo (appellativo familiare di Öcalan, ndr) deve dirigerlo e guidarlo personalmente. Al leader Apo devono essere concesse le condizioni per vivere e lavorare in libertà fisica e per stabilire relazioni senza ostacoli con chi desidera» (https://volerelaluna.it/mondo/2025/02/25/turchia-liberare-oclan-per-costruire-la-pace/). Tale richiesta è ribadita dalla nipote di Apo, Ayney Öcalan, che si spinge oltre: «È essenziale un cambiamento nelle condizioni di prigionia di Öcalan, che deve essere messo in grado di stabilire un dialogo con tutti, di rivolgersi alla sua gente, di trasmettere messaggi e di ricevere visite. Non solo deve finire il suo isolamento ma deve essergli restituita la libertà. Lo Stato turco non deve temere la pace. La lotta politica democratica deve produrre soluzioni ai problemi, eliminare la povertà, la disoccupazione, la fame, l’ingiustizia e la disuguaglianza. Assicuriamoci che i miliardi di dollari invece di essere spesi per la guerra vadano direttamente a beneficio del popolo. Non dimentichiamo che la pace è anche pane, cibo e lavoro».

Con un comunicato del 28 febbraio il Kurdistan National Congress (KnK), coalizione di partiti politici e di organizzazioni della società civile di ogni parte del Kurdistan e della diaspora, ha dichiarato il proprio pieno sostegno all’appello del leader e si è impegnato a usare tutte le proprie risorse per una soluzione pacifica e democratica. Ha, tuttavia, aggiunto: «Finora la risposta internazionale è stata buona ma non è sufficiente. Facciamo appello alle potenze globali: le parole da sole non bastano, tutti gli attori rilevanti devono cogliere questa opportunità e svolgere il loro ruolo per la pace e il dialogo». In effetti la rapidità con la quale si sono avvicendati gli eventi dall’ottobre scorso potrebbe far pensare che essi siano stati preceduti e possano essere accompagnati da una concertazione internazionale. Si sono espressi a favore dell’appello di Öcalan la Casa Bianca, Londra e Berlino e il relatore per la Turchia al Parlamento europeo. Anche l’ex premier italiano D’Alema, in una dichiarazione all’Ansa, ha definito l’appello di Ocalan «un fatto positivo, un messaggio coraggioso». Tuttavia non risultano, al momento, passi concreti a sostegno del processo di pace.

Come è noto, il Pkk affida alle donne un ruolo determinante nel governo della società. E il Movimento delle Donne Libere (Tevgera Jinen Azad, Tja) si è impegnato a mobilitarsi «per l’attuazione del pensiero di Öcalan e invita tutte le donne a abbracciare la sua chiamata» anche con una forte presenza femminile nelle manifestazioni dell’8 e del 21 marzo (giorno del Nawroz, capodanno kurdo). La rivoluzione delle donne è il risultato più luminoso nato dal pensiero di Öcalan. La pace e la democrazia in questa parte del Medio oriente nasceranno dal pieno coinvolgimento delle donne libere del Kurdistan?

Droni turchi contro i giornalisti curdi: così Erdogan impone il silenzio

Il Manifesto, 6 marzo 2025, di Anna Irma Battino

Siria. Tre i reporter uccisi in poche settimane sulla diga di Tishreen, fronte strategico nella Siria del nord-est: se cade, i filo-turchi arriverebbero alle porte di Kobane. Per Ankara è uno dei modi per indebolire il fronte militare e popolare.

«Forse non vedrò la vittoria, ma credo che un giorno la mia città, Afrin, sarà libera». Questo è il testamento di Egîd Roj, giornalista freelance curdo ucciso da un drone tre settimane fa. Il 19 dicembre 2024 la stessa sorte era toccata a Nazım Daştan e Cihan Bilgin: il primo lavorava per Anf, la seconda era corrispondente per Anha. Un altro giornalista, Aziz Köyllüoğlu, è rimasto ucciso il 27 gennaio nel distretto di Ranya, a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno.

La Federazione Internazionale dei Giornalisti (Ifj) ha riferito che nel 2024 sono stati assassinati 122 giornalisti (di cui la metà uccisi a Gaza dall’esercito israeliano), tra cui 14 donne, segnalando un’escalation delle minacce globali alla libertà di stampa. Sei giornalisti curdi sono stati uccisi in Iraq e Siria in attacchi condotti da droni turchi, aumentando le preoccupazioni sulla repressione esercitata da Ankara contro i media.

LE ORGANIZZAZIONI giornalistiche curde Dicle Fırat Journalists Association (Dfg) e Mezopotamya Women Journalists Association (Mkg) con sede in Turchia e l’Unione della stampa libera (Yra), con sede nel nord-est della Siria, hanno denunciato in una dichiarazione congiunta «le gravi condizioni in cui operano i giornalisti in Kurdistan, Turchia e Medio Oriente».

Da oltre due mesi Erdoğan, con il supporto delle fazioni alleate dell’Esercito nazionale siriano (Sna), sta intensificando gli attacchi intorno alla diga di Tishreen, un impianto idroelettrico fondamentale per la sussistenza di centinaia di migliaia di persone nel nord della Siria. Per difenderla, la popolazione locale ha avviato una mobilitazione pacifica, radunandosi nella zona. Nonostante ciò, i bombardamenti di Ankara proseguono senza sosta dall’8 gennaio con il presunto obiettivo di colpire i gruppi armati curdi, quando in realtà a perdere la vita sono soprattutto civili e giornalisti.

Dilyar Jazizi, co-presidente dell’Unione dei media del nord-est della Siria, traccia un quadro della situazione alla diga di Tishreen, divenuta un punto chiave del conflitto nell’era post-Assad: «Le forze turche e i loro mercenari continuano ad attaccare questo luogo strategico, ancora sotto il controllo dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria settentrionale e orientale (Daanes). Con aerei da guerra e droni cercano di prenderne il controllo e distruggere le infrastrutture che garantiscono servizi essenziali a oltre cinque milioni di civili».

Non è solo una diga: è un pilastro della sopravvivenza dell’idea di una Siria democratica. Nel contesto del regime-change in corso, il suo controllo è diventato cruciale: dalla sua integrità dipende la continuità dell’esperienza rivoluzionaria. Se dovesse cadere, le bande jihadiste sostenute e dirette dalla Turchia avrebbero via libera verso Kobane e il cuore della rivoluzione confederale.

JAZIZI AFFERMA che la resistenza alla diga di Tishreen si basa su tre pilastri: militare, civile e mediatico. Gli fa eco Ziyad Rusteem, co-presidente del Consiglio per l’energia di Daanes che in una recente intervista ha dichiarato: «La Turchia ha condotto una guerra mediatica sui social diffondendo informazioni false, come se la città di Manbij fosse caduta e la diga fosse sotto il loro controllo. Tuttavia, quando i giornalisti curdi hanno raggiunto Tishreen, la verità è emersa. Hanno rivelato chi ne detiene realmente il controllo, confermando che è ancora nelle mani delle Forze democratiche siriane (Sdf), ossia della popolazione locale».

L’eliminazione dei giornalisti curdi non è un effetto collaterale, ma una strategia deliberata per spegnere chi contrasta la propaganda di Erdoğan e svela la realtà sul campo. Con le trattative tra Daanes e il governo provvisorio di Damasco in corso e il recente appello del fondatore del Pkk Abdullah Öcalan per la fine della lotta armata, Ankara punta a delegittimare le Sdf, mostrandole come deboli e frammentate.

Indebolirle mediaticamente significa minare il peso politico del movimento curdo e rafforzare la propria posizione negoziale. Intanto, sul terreno, la repressione continua: con bombe, droni e il silenzio imposto a chi racconta la verità.

 

KURDISTAN: LE PRIME REAZIONI ALL’APPELLO STORICO DI OCALAN E I POSSIBILI SCENARI FUTURI

Radio onda d’urto, 3 marzo 2025

Come è stato accolto lo storico appello pronunciato dal leader e cofondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan, giovedì 27 febbraio 2025?
Dalle diverse organizzazioni del movimento di liberazione curdo – disseminate tra Iran, Iraq, Siria e Turchia – sono arrivati nel fine settimana comunicati di approvazione e allineamento all’appello di Ocalan. Proprio il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha aperto il giro, dichiarando un cessate il fuoco unilaterale con lo stato turco e confermando di essere pronto a convocare un congresso per discutere la proposta di scioglimento del PKK qualora venissero create le condizioni di sicurezza per svolgerlo e si garantisse una discussione guidata dallo stesso Ocalan, che deve essere quindi liberato.

Approvazioni all’appello di Ocalan sono arrivate anche dalle Forze Siriane democratiche e dal Pyd, il partito che guida la rivoluzione in Rojava, dal Pjak curdo-iraniano, dalle istituzioni dell’autonomia di Shengal in nord-Iraq e dal Congresso nazionale del Kurdistan. Dallo stato turco, però, nel fine settimana sono arrivate solo bombe (di nuovo): in Siria del nord-est, nei pressi della Diga di Tishreen, e, secondo alcune fonti, anche sulle montagne del Kurdistan iracheno, dove si trova la guerriglia del Pkk.

Ai microfoni di Radio Onda D’Urto si può ascoltare l’intervista a Tiziano Saccucci dell’Ufficio Informazione Kurdistan Italia

Perché Erdogan è interessato a una pace con i curdi del PKK

Il Post, 3 marzo 2025

La storica richiesta di Abdullah Öcalan al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) di abbandonare la lotta armata, sciogliersi e avviare un processo di pace è legata anche a un cambio di atteggiamento da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che potrebbe avvantaggiarsi da un riavvicinamento con i curdi. Da un lato la distensione potrebbe facilitare l’approvazione di una riforma costituzionale che permetterebbe a Erdogan di restare al potere oltre la fine del suo secondo mandato, nel 2028. Dall’altro la fine delle ostilità con il PKK potrebbe indebolire o condizionare anche i curdi siriani, contro cui la Turchia combatte da tempo.

Da oltre quarant’anni il PKK, fondato proprio da Öcalan, combatte una guerra contro lo stato turco per ottenere maggiore autonomia politica e sociale per la popolazione curda in Turchia. Gli ultimi negoziati erano falliti nel 2015, e in quell’occasione il governo turco aveva attaccato duramente i curdi, sia con l’esercito sia attraverso un’intensa repressione politica.

Da qualche mese Erdogan ha però cambiato approccio. Non si è espresso direttamente sulla questione, ma ha usato la stampa e alcuni alleati di governo per far capire di essere pronto a negoziare.

Tra i vari motivi alla base di questo cambio potrebbe esserci il tentativo di garantirsi il sostegno del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), un partito filocurdo da tempo considerato dalla maggioranza di governo un’espressione politica del PKK. Lo scorso ottobre il leader del partito di estrema destra Movimento Nazionalista (MHP) Devlet Bahceli, alleato di Erdogan, aveva prima allacciato rapporti con DEM, poi proposto una grazia a Öcalan se il PKK avesse deciso di abbandonare la lotta armata e sciogliersi. Le iniziative di Bahceli non erano personali, ma riflettevano il nuovo approccio del governo.

Il riavvicinamento è dovuto in parte a ragioni di opportunismo politico. I voti di DEM servirebbero a Erdogan per approvare un progetto di riforma costituzionale che gli permetterebbe di restare al potere anche dopo il 2028, quando scadrà il suo secondo e ultimo mandato presidenziale. Per approvarla servono almeno due terzi dei voti: DEM ha 57 seggi in parlamento, sui 600 totali (la maggioranza che sostiene Erdogan ne ha 324, 7 seggi sono vacanti, altri voti potrebbero arrivare da partiti più piccoli o parlamentari indipendenti).

DEM persegue per via democratica gli stessi obiettivi del PKK: riconoscimento costituzionale dell’identità curda, insegnamento della lingua curda nelle scuole e maggiore autonomia per la regione. Sono richieste avanzate da anni, ma che il governo ha sempre respinto. Non è chiaro al momento quanto Erdogan sia disposto a concedere, anche sul tema della scarcerazione dei prigionieri politici e dell’amnistia per i guerriglieri del PKK.

Negli ultimi dieci anni il partito e i suoi esponenti sono stati sottoposti a varie misure repressive: 150 sindaci curdi sono stati rimossi e decine di attivisti e politici sono stati incarcerati. Per esempio Selahattin Demirtaş, ex co-presidente di DEM che fu anche candidato alla presidenza, è in prigione dal 2016.

La fine delle ostilità con i curdi della Turchia potrebbe anche avere ripercussioni sui curdi siriani, che controllano la regione del Rojava, nel nord-est della Siria e vicino al confine con la Turchia.

L’appello di Öcalan per l’avvio di un processo di pace non è stato rivolto ai curdi siriani (la Siria non è mai nominata nel messaggio), ma in questi anni molti esponenti del PKK sono confluiti nelle Forze democratiche siriane (SDF), l’esercito che contiene al suo interno sia i principali gruppi armati curdi della Siria (come l’YPG, Unità di protezione popolare, la più famosa milizia curda) sia altre milizie locali. L’attuale comandante in capo delle SDF, Mazloum Kobane (nome di guerra di Mazloum Abdi), ha fatto parte del PKK ed è stato a lungo il principale collaboratore di Abdullah Öcalan. Agli occhi della Turchia, non c’è differenza tra il PKK e le SDF.

In questi anni l’esercito turco e le milizie filoturche hanno combattuto contro le SDF. Il governo turco ritiene che fare la pace con il PKK potrebbe depotenziare anche i curdi siriani, che in passato sono stati sostenuti dagli Stati Uniti principalmente per combattere l’ISIS nella regione, ma che oggi sono molto più isolati.

Il progetto di Erdogan, ambizioso e ancora in una fase iniziale, è quindi quello di smettere di fare la guerra ai gruppi curdi per consolidare ulteriormente il proprio potere nel paese. Allo stesso tempo, il presidente turco vorrebbe che l’influenza della Turchia sulla regione circostante si estendesse.

Kurdistan, una svolta di pace?

Pressenza, 2 marzo 2025, di Renato Franzitta

Il PKK ha dichiarato un cessate il fuoco effettivo immediato accettando la dichiarazione storica di Abdullah Öcalan. Di ieri, primo marzo, sono le dichiarazioni ufficiali del Comitato Esecutivo del PKK in merito all’appello del leader Apo Abdullah Öcalan.

La dirigenza del PKK dichiara che l’“Appello per la pace e una società democratica, fatto il 27 febbraio è un Manifesto dell’epoca che illumina il cammino di tutte le forze della libertà e della democrazia. […] In quanto PKK, condividiamo il contenuto dell’appello così com’è e affermiamo che rispetteremo e metteremo in pratica i requisiti dell’appello da parte nostra. Tuttavia, vorremmo sottolineare che per avere successo, anche la politica democratica e le basi giuridiche [in Turchia, nda] devono essere adeguate. […]

È chiaro che con questo Appello è iniziato un nuovo processo storico nel Kurdistan e nel Medio Oriente. Ciò avrà un impatto importante anche sullo sviluppo della vita libera e della governance democratica in tutto il mondo. Su questa base, la responsabilità ricade su tutti noi; tutti devono assumersi i propri oneri e assolvere ai propri doveri e al proprio ruolo.

La consapevolezza data dal leader Apo e la grande esperienza creata dal PKK danno al nostro popolo la forza di portare avanti la lotta per il bene, la verità, la bellezza e la libertà con una politica democratica. […] In questo contesto, dichiariamo un cessate il fuoco effettivo da oggi, per spianare la strada all’attuazione dell’appello del leader Apo per la pace e una società democratica.”

La dichiarazione del PKK è precisa in modo lapidario: “Per il successo del congresso, il leader Apo deve condurlo personalmente, […] è necessario creare un ambiente di sicurezza adeguato e il leader Apo deve guidare e gestire personalmente il congresso [del PKK, nda] affinché vada a buon fine.
L’esperienza creata dal PKK fornisce al nostro popolo il potere di portare a termine la lotta
[…] Nessuna delle nostre forze intraprenderà un’azione armata a meno che non venga attaccata. Inoltre, solo la leadership pratica del leader Apo può rendere pratiche questioni come il disarmo. […]

I fatti concreti mostrano chiaramente che, affinché l’Appello per la pace e una società democratica possa essere attuato con successo, affinché la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente si basi sulla soluzione democratica del problema curdo e affinché si sviluppi un movimento democratico globale, il leader Abdullah Öcalan deve poter vivere e lavorare in piena libertà fisica e poter stabilire relazioni senza ostacoli con chiunque desideri, compresi i suoi amici. Ci auguriamo che le istituzioni statali competenti rispettino tali requisiti […]. L’appello del Leader Apo non è certamente una fine, ma piuttosto un nuovo inizio. […]

È di importanza storica affrontare il contenuto dell’appello con grande responsabilità e serietà e attuarlo con successo in ogni campo. […] l’Appello per la pace e una società democratica sta avviando un nuovo processo di lotta per tutti gli oppressi, in particolare, donne e giovani. […] Sviluppiamo la nostra organizzazione democratica e la nostra lotta per la libertà in ogni campo con grande coraggio e dedizione, nel Kurdistan, nel Medio Oriente e in tutto il mondo.

[…] Stiamo costruendo la Rivoluzione per la libertà delle donne sulla base della Jineologia e organizzando la vita morale e politica della comunità sulla linea della civiltà democratica. […] Lunga vita all’eroico leader del nostro popolo, il PKK!”

La dichiarazione ufficiale del Comitato esecutivo del PKK viene fatta a soli due giorni della diffusione dell’appello storico per la risoluzione del conflitto turco-curdo e la democratizzazione della Turchia fatto nel corso della visita di una delegazione del partito DEM il 27 febbraio 2025, al leader curdo Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999 nell’isola carceraria di Imral nel mar di Marmara, dove sta scontando l’ergastolo.

L’appello di Öcalan solleva la speranza di porre fine a più di quarant’anni di conflitto fra il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e l’esercito della Turchia, sollevando però diversi interrogativi sul futuro della politica curda in tutta la regione mediorientale. Certamente l’invito a deporre le armi e a sciogliere il PKK ha lasciato molti interdetti. Come lascia da pensare il credito elargito a Devlet Bahçeli presidente del MHP (Partito del Movimento Nazionalista) e fondatore dell’organizzazione di estrema destra Lupi Grigi, e allo stesso Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan.

Non è la prima volta che Abdullah Öcalan tende la mano per intavolare colloqui di pace col governo turco. Già il 28 settembre 2006 Öcalan chiedeva al PKK di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia. La dichiarazione affermava che “Il PKK non dovrebbe utilizzare le armi tranne che se attaccato con l’intento di annichilimento” e che “è molto importante costruire un’unione democratica tra i Turchi e i Curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta”.

Ricordo benissimo mentre ero, nel marzo 2015, nel Kurdistan turco, dopo la vittoriosa battaglia di Kobane contro i tagliagole dell’ISIS, che i dirigenti dell’HDP e i militanti che facevano riferimento al PKK aspettavano con ansia la notizia della liberazione del loro leader, data per imminente, convinti che l’amministrazione Erdoğan fosse in procinto di attuare la pacificazione con il movimento di resistenza curdo e la conseguente liberazione delle migliaia di detenuti politici rinchiusi nelle carceri turche da tanti anni.

Come ben sappiamo le aspettative dei curdi non furono esaudite, anzi cominciò una pesante campagna militare che portò la guerra dentro città e villaggi del Kurdistan, l’arresto di centinaia e centinaia di militanti, la deposizione di tutti i sindaci curdi e lo scioglimento dei municipi. Fu persino arrestato, nel novembre 2016, il Presidente dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli) Selahattin Demirtaş, deputato al Parlamento di Ankara, e successivamente condannato a 42 anni di carcere per aver sostenuto le manifestazioni in sostegno della resistenza di Kobane contro i tagliagole dell’ISIS, represse violentemente da esercito e polizia nel 2014.

L’appello di Öcalan a deporre le armi e a sciogliere il PKK è riferito essenzialmente alla componente turca del movimento curdo. Nell’appello non c’è alcun riferimento all’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, diretta dal Consiglio Democratico Siriano, dove è in corso l’esperimento rivoluzionario di una società basata sul Confederalismo Democratico, né alle propaggini del PKK operanti in Iraq e Iran.

Da Kobane fanno sapere, “le dichiarazioni di Öcalan: niente che ci riguardi in Siria”. Il Rojava rivoluzionario è sotto attacco dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA), formazione creata e finanziata da Ankara, composta da jihadisti provenienti dall’ISIS e da al-Nustra (al-Qaeda in Siria), dai primi giorni del dicembre 2024.

L’intenzione del presidente turco Erdogan di dare un colpo mortale al Rojava e cancellare l’esperimento rivoluzionario è stata palese. A frenare i piani del despota turco sono state le milizie YPG, YPJ e SDF, sostenute da una grandiosa mobilitazione popolare, che hanno attualmente fermato i tagliagole dello SNA alla diga di Tishrin sull’Eufrate e respinto l’attacco dalla citta martire di Kobane.

Negli ultimi giorni sembra che Ankara abbia ammorbidito la sua posizione, poiché diverse nazioni arabe hanno respinto la crescente influenza della Turchia in Siria, dove dall’8 dicembre a Damasco, dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, governa una propaggine di al-Qaeda.

Foza Yusuf, un funzionario chiave nell’amministrazione guidata dai curdi, ha sottolineato che l’appello di Öcalan non allude alla Siria. “La sua dichiarazione rivela ancora una volta la sua brillantezza strategica. Sapevamo che non ci avrebbe reso parte di alcun patto. I nostri accordi, i nostri affari devono essere fatti con Damasco, non con la Turchia”.

Il partito turco filo-curdo DEM ha prontamente diffuso l’appello mostrando Öcalan, su schermi giganti, affiancato da deputati del DEM che lo avevano incontrato sulla sua isola-prigione. Migliaia di persone si sono radunate davanti ai maxi schermi installati nelle piazze di Istanbul e nelle principali città del Kurdistan turco per guardare la conferenza stampa. Il giornalista locale Selim Kurt ad Al-Monitor da Diyarbakir ha riferito che mentre ascoltavano le parole del leader curdo le persone si sono chieste perché Öcalan avesse rinunciato a così tanto senza ottenere nulla in cambio.

Sentimenti simili sono riecheggiati a Istanbul, spingendo il parlamentare DEM Sırrı Sureyya Onder a notare che il leader del PKK aveva anche affermato che erano necessarie “politiche democratiche e un quadro giuridico” da parte di Ankara, affinché i suoi seguaci disarmassero e si sciogliessero. Ancora non è chiaro cosa abbia offerto il governo in cambio dell’appello di Öcalan. Molto probabilmente si profila l’amnistia per i combattenti del PKK e la liberazione degli altri leader curdi come Demirtaş. Al-Monitor riferisce che è probabile che il governo regionale del Kurdistan (KRG) in Iraq abbia offerto asilo ai quadri superiori del PKK.

Ovviamente il primo passo per iniziare il processo di pace passa dal cessate il fuoco reciproco fra Esercito turco e PKK.
La liberazione di Öcalan è la condizione chiave per portare a buon fine il processo di pacificazione in Turchia, rafforzando contemporaneamente le conquiste rivoluzionarie del Confederalismo Democratico.
Tante ombre rimangono ma un barlume di luce sembra apparire all’orizzonte.