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Tag: Talebani

I residenti di Kunar segnalano la lentezza degli aiuti

I residenti della provincia di Kunar dicono che gli aiuti di emergenza non sono ancora arrivati a molti dei sopravvissuti al terremoto che ha colpito l’Afghanistan orientale, lasciando le famiglie senza cibo né assistenza medica

Yasin Shayan, Amu TV, 2 settembre 2025

Domenica sera un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito Kunar, uccidendo più di 1.400 persone e ferendone oltre 3.100, secondo i funzionari talebani. Almeno 5.400 case sono state distrutte. A Nangarhar, Laghman e Nuristan ci sono state meno vittime, mentre a Panjshir ci sono stati solo danni materiali.

I sopravvissuti nel distretto di Nurgal e a Mazar Dara hanno detto di non aver ricevuto né pane né assistenza sanitaria da quando il terremoto ha distrutto i villaggi domenica notte. “Non abbiamo né cibo né dottori. Nessuno ci ha dato una mano”, ha detto ad Amu una persona sopravvissuta. Un’altra ha detto che sono arrivati veicoli dei talebani e personale di alcune organizzazioni, “ma non è arrivato nemmeno un aereo con gli aiuti, anche se ci sono molti posti dove atterrare”.

I residenti locali hanno detto che le strade bloccate hanno reso impossibile il trasporto dei corpi, quindi le famiglie hanno dovuto portare i morti a seppellire a piedi. “Tutte le strade sono chiuse. Il governo non ha i mezzi per aiutare qui. Anche solo per spostare i corpi, la gente fa fatica”, ha detto un uomo.

Gli ospedali di Kunar rimangono sovraffollati. Testimoni oculari hanno descritto sepolture di massa e hanno riferito che i bambini senza casa sono stati costretti a dormire all’aperto. I sopravvissuti devono inoltre affrontare difficoltà dovute alla mancanza di medici donne, che ha lasciato molte donne ferite senza cure.

Amnesty International ha dichiarato che le restrizioni dei Talebani – tra cui il divieto per le donne di lavorare – hanno ostacolato i gruppi di aiuto. L’organizzazione per i diritti ha chiesto ai Talebani di eliminare le barriere burocratiche, assicurare l’accesso umanitario e garantire che i soccorsi siano forniti senza discriminazioni.

“I Talebani devono rispondere alle esigenze delle comunità colpite e garantire che gli sforzi di ricerca e di soccorso siano condotti senza discriminazioni”, ha dichiarato Amnesty, sollecitando misure speciali per proteggere i gruppi vulnerabili, soprattutto donne e ragazze.

Le Nazioni Unite hanno promesso 5 milioni di dollari dal loro fondo di emergenza per i sopravvissuti, ma hanno avvertito che gli attuali finanziamenti umanitari sono insufficienti. La Gran Bretagna ha impegnato oltre 1,3 milioni di dollari in aiuti, mentre l’Iran ha consegnato 80 tonnellate di farina e olio da cucina. L’inviato iraniano Alireza Bikdeli si è recato a Kunar martedì per supervisionare la distribuzione degli aiuti.

 

La carenza di medici donne aggrava la tragedia del terremoto: le politiche dei talebani lasciano le donne senza assistenza

Avizha Khorshid, 8AM Media, 2 settembre 2025

Ieri sera, le province di Kunar e Nangarhar sono state colpite da un terremoto mortale. I talebani hanno dichiarato che 800 persone hanno perso la vita e 2.500 sono rimaste ferite nell’incidente. Tuttavia, fonti locali affermano che la carenza di medico donna nei centri sanitari di queste due province ha impedito alle vittime del terremoto di ricevere cure urgenti e di accedere ai servizi sanitari di emergenza. Le fonti affermano che le donne ferite, a causa della mancanza di personale sanitario donna, sono costrette ad attendere ore o che le loro cure subiscono ritardi. Fonti locali avvertono che se non si interviene con urgenza per aumentare la capacità dei centri sanitari e la presenza di medico donna, la situazione peggiorerà.

Diverse vittime del terremoto e fonti locali, intervistate dall’Hasht-e Subh Daily, affermano che i dati sulle vittime forniti vanno oltre quanto riportato dai media. Secondo loro, donne e ragazze sono in condizioni peggiori e necessitano di assistenza medica urgente.

Zamir Sardarkhel, uno degli abitanti del distretto di Kunar, afferma che le donne e le ragazze ferite dal terremoto versano in condizioni più difficili e che, con l’aumento del numero di feriti, la carenza di personale medico si fa sentire in modo significativo. Ritiene che le statistiche fornite dai media siano errate e sottolinea che, in base alla situazione attuale, il numero di vittime e feriti è superiore a quanto riportato e che queste cifre sono in continuo aumento.

Sardarkhel afferma: “La maggior parte delle vittime e dei feriti sono donne e bambini, e gli ospedali stanno affrontando una grave carenza di personale femminile. Inoltre, il numero attuale non soddisfa i bisogni”. E continua: “Chiediamo alle organizzazioni umanitarie di intervenire il prima possibile, perché le vittime vivono nelle peggiori condizioni e hanno urgente bisogno di cibo, medicine, cure e riparo. Le statistiche di morti e feriti aumentano di momento in momento”.

Inoltre, un’altra fonte che ha chiesto l’anonimato nel rapporto afferma: “Un gran numero di donne e bambini colpiti dal terremoto sono stati trasferiti nei centri sanitari nei distretti di Kunar e Nangarhar; ma sfortunatamente, la carenza di medico donna ha causato seri problemi nell’assistenza a questo gruppo vulnerabile“. Avverte che se non vengono prese misure urgenti per aumentare la capacità dei centri sanitari e la presenza di medico donna, la situazione potrebbe peggiorare.

Questa fonte aggiunge: “Questa è una società afghana in cui un uomo non può toccare o curare una donna. Molte donne sono state costrette ad aspettare ore per ricevere assistenza medica e, in alcuni casi, l’assistenza è stata ritardata a causa dell’assenza di medico donna. Questo problema fa aumentare il numero di vittime e molte donne perdono la vita”.

In precedenza, il Ministero della Salute Pubblica dei Talebani aveva anche confermato che alcune province orientali del Paese stavano affrontando una carenza di medico donna. Le vittime del mortale terremoto di Kunar lamentano la carenza di medico e personale sanitario, mentre i Talebani hanno chiuso le università, in particolare gli istituti di formazione medica, a ragazze e donne in Afghanistan negli ultimi quattro anni, compresi i corsi di ostetricia, infermieristica e tecnologia medica.

Le donne e le ragazze vittime del mortale terremoto di Kunar e Nangarhar soffrono per la carenza di medico e personale sanitario donna e lottano contro la morte, mentre Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, nelle sue ultime dichiarazioni ha definito la questione dell’istruzione femminile “minore”; questa decisione ha messo a rischio di morte e distruzione la vita di centinaia di donne e ragazze.

In precedenza, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) aveva lanciato l’allarme: la carenza di personale sanitario qualificato e la mancanza di strutture sanitarie mettono a serio rischio la vita di un gran numero di cittadine.

Afghanistan, oltre 1.400 le vittime del terremoto: portiamo a valle i corpi a spalla

Questa è una testimonianza di attivisti accorsi nell’area colpita. «I massi caduti bloccano le vie di accesso. È difficilissimo portare aiuto, mancano cibo e tende: aiutateci». Anche le associazioni di donne afghane che il CISDA sostiene si stanno mobilitando per portare aiuto e ci hanno richiesto un sostegno economico, cui abbiamo già cominciato a rispondere

Francesca Ghirardelli, Avvenire, 2 settembre 2025

Uno dei peggiori terremoti che la storia recente dell’Afghanistan ricordi: almeno 1.411 vittime, 8mila feriti. Vastissime aree dell’est del Paese sono isolate e difficilissime da raggiungere a causa del montagne e del tempo inclemente. Il governo dell’Emirato islamico ha fatto appello agli aiuti internazionali.

«Finora abbiamo trasportato una trentina di corpi, diciannove erano di bambini», ha raccontato oggi pomeriggio ad Avvenire Matiullah Shahab, attivista afghano per i diritti umani. Insieme a un gruppo di amici è partito all’alba ed è arrivato attorno alle 7 del mattino nella lunga valle di Devagal, provincia di Kunar, a nord est di Jalalabad. È lì che questo nuovo terremoto ha colpito con maggiore violenza l’Afghanistan. Per tutta la giornata hanno portato a spalla i feriti e i morti, camminando per tre ore lungo quello che resta della strada a picco sulle pendici della valle, tra blocchi di pietra dei costoni franati e distese di sassi impossibili da superare in auto. In un video che mostra online, si vedono gruppi di quattro o cinque soccorritori a sorreggere ciascun khat, le brandine di legno usate di solito per dormire, adesso caricate dei cadaveri coperti da teli e lenzuoli.

Procedono incerte, dondolando sul ciglio della scarpata. «Sentiamo ancora le scosse, le montagne tremano», ha aggiunto l’attivista, fra un messaggio e l’altro via Whatsapp, quando la connessione è buona. Con difficoltà è riuscito a raggiungere il villaggio di Andarlachak Tangi, nel distretto di Sawki. «Almeno duecento persone sono morte qui. Grandi massi sono caduti sulle strade. Le montagne sono venute giù, i detriti sono caduti sulle vie d’accesso. È difficile fare arrivare gli aiuti». Le tre auto del suo gruppo sono bloccate a valle. A piedi portano giù i corpi, li caricano a bordo, poi fanno la spola verso l’ospedale più vicino, quello di Asadabad, capoluogo della provincia di Kunar, ventisei chilometri più in là. «Le squadre di soccorso sono arrivate nella zona. Ci sono i medici della Mezzaluna Rossa afghana (Arcs)», conferma l’attivista. «Poi qui c’è il personale di Ong nazionali come la Afghan Paramount Welfare & Development Organization (Apwdo) e la Afghan Youth Services Organization (Ayso). Sul posto, ho visto anche auto delle Nazioni Unite». Nel corso della giornata diverse organizzazioni e in particolare ospedali privati hanno fornito assistenza medica direttamente sul posto, come HealthNet e il Rokhan Hospital. «Molte abitazioni sono distrutte, ora non possiamo accedervi per cercare superstiti, è troppo pericoloso».

Invia però foto di case sventrate e muri crollati. Oltre al trasferimento dei cadaveri, lui e il suo gruppo di sei amici e volontari hanno cercato di prestare soccorso ai feriti distribuendo acqua e bevande fresche. «La popolazione qui è affamata e in cattive condizioni». Chiediamo se le autorità locali dei taleban si stiano dimostrando in grado di gestire l’emergenza e di coordinare gli aiuti. «No, non sembra affatto, ma ci stanno provando», risponde. L’altra notte, quando il sisma è cominciato, l’attivista si trovava a casa sua.

«Abito qui nella provincia di Kunar. Stavo dormendo. È la prima volta in vita mia che assisto a un terremoto così intenso. Ho due figli, si sono spaventati, sono rimasti scioccati. Malgrado sia stata una scossa molto forte, però, la nostra casa è salva. Anche il nostro quartiere è ancora in piedi». In serata, quando fa buio, Matiullah Shahab torna dalla sua famiglia. Chi resta nelle aree terremotate, passa la notte all’aperto. «Le tende lassù non sono ancora disponibili», conclude.

 

Un forte terremoto ha colpito l’Afghanistan orientale: oltre 800 morti

Il devastante terremoto dell’1 settembre 2025 ha colpito più gravemente nelle province di Kunar e Nangarhar, dove i centri sanitari sono alle prese con una grave carenza di medico donna che mette a rischio la salute di donne e bambini che sono la maggior parte delle vittime, riferisce  8AM Media. I residenti hanno lanciato un appello urgente ai talebani affinché consentano alle dottoresse di recarsi nelle zone colpite per fornire cure salvavita, evidenziando l’urgente necessità di un supporto medico specifico per genere

Haq Nawaz Khan, Rick NoackE Grace Moon, The Washington Post,  1 settembre 2025

Almeno 812 persone sono morte e più di 2.800 sono rimaste ferite dopo che un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito l’Afghanistan orientale, ha dichiarato lunedì il governo guidato dai talebani, citando dati preliminari.

Secondo l’US Geological Survey, il terremoto ha colpito domenica notte a circa 27 chilometri dalla città orientale di Jalalabad. Danni e vittime sono stati segnalati nella provincia di Nangahar, che comprende Jalalabad, così come nelle vicine province di Konar e Laghman; il sisma è stato avvertito in tutta la regione, compresi il vicino Pakistan e Kabul, la capitale afghana.

“Sono in corso le operazioni di soccorso e di salvataggio”, ha affermato Abdul Ghani Musamim, portavoce del governatore della provincia orientale di Konar, dove sembra essersi verificata la maggior parte delle perdite.

Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali non hanno pubblicato immediatamente stime sul numero di vittime e sull’entità dei danni. Durante i passati disastri naturali in Afghanistan, le cifre fornite dal governo talebano erano talvolta significativamente superiori a quelle finali fornite dalle Nazioni Unite.

Lunedì, le autorità afghane hanno trasportato i sopravvissuti feriti all’aeroporto di Jalalabad, dove sono stati trasferiti negli ospedali regionali. Le autorità di Kabul hanno dichiarato che il governo ha dispiegato tutti gli operatori della protezione civile, il personale medico e militare disponibili nella zona colpita dal terremoto.

Interi villaggi distrutti

I testimoni hanno descritto interi villaggi distrutti dal terremoto di domenica.

Sharifullah Sharafat, residente nel distretto di Chawkay, nella provincia di Konar, ha dichiarato di essere sopravvissuto per un pelo al terremoto di domenica. “Molte case del nostro villaggio sono crollate”, ha dichiarato Sharafat in un’intervista telefonica.

“Non ci sono parole per descrivere le urla che abbiamo sentito”, ha detto, aggiungendo che molte vittime nel villaggio non sono ancora state recuperate. La mancanza di elettricità e le frane causate dal terremoto hanno rallentato le operazioni di soccorso, ha aggiunto.

Mawlawi Sanaullah, residente di Konar, ha trovato la sua casa crollata e molti familiari sepolti sotto le macerie. “Mio figlio non c’è più”, ha detto Sanaullah, trattenendo le lacrime, in un’intervista alla televisione statale RTA.

Lunedì mattina le autorità hanno dichiarato che stanno ancora lavorando per stabilire un contatto con alcuni dei villaggi che si teme siano stati colpiti.

L’Afghanistan è stato spesso colpito da terremoti mortali, compresi quelli del 2022 e del 2023. Più di 1.000 persone sono morte in ciascuno di questi disastri. “Quest’ultimo terremoto rischia di eclissare l’entità dei bisogni umanitari causati dai terremoti di Herat del 2023 “, ha dichiarato Sherine Ibrahim, direttrice per l’Afghanistan dell’International Rescue Committee.

Negli ultimi 12 mesi, mentre i donatori internazionali tagliavano i budget per gli aiuti, gli operatori umanitari avevano lanciato l’allarme sul peggioramento della crisi sanitaria in Afghanistan. Il colpo più duro è stato il taglio di quasi tutti i progetti umanitari ed economici finanziati dagli Stati Uniti all’inizio di quest’anno , che rappresentavano oltre il 40% di tutti gli aiuti esteri.

“Questo terremoto colpisce un Paese che sta già affrontando la mancanza di sostegno globale per una grave crisi umanitaria”, ha dichiarato Graham Davison, direttore per l’Afghanistan dell’organizzazione umanitaria CARE, in una nota. “Quasi metà della popolazione afghana – 23 milioni di persone – dipende già dagli aiuti umanitari, eppure il Piano di risposta umanitaria è finanziato solo per il 28%”.

Il governo guidato dai talebani sta lottando per rifornire cliniche e ospedali, e il Programma alimentare mondiale ha dichiarato di poter sostenere solo 1 milione dei 10 milioni di afghani che hanno urgente bisogno di assistenza alimentare.

Afghanistan, la crisi dimenticata: l’umanità perduta nei silenzi di Kabul

Lo sciopero delle donne- Post su Facebook, 24 agosto 2025

Afghanistan, donne e bambine vivono schiave dei Talebani. La crisi dimenticata: l’umanità perduta nei silenzi di Kabul tra fame, violenza e cure impossibili. Le promesse di libertà e di miglioramento dell’Occidente non si sono mai realizzate.

Articolo da La Stampa di Francesca Mannocchi

Dalle otto di mattina, ogni mattina, la zona riservata alle donne della struttura sanitaria di Intersos in Uruzgan, si riempie ora dopo ora, burqa dopo burqa. Le donne arrivano camminando sul letto del fiume dove l’acqua ha lasciato posto ai sassi e ai greggi in pascolo, tengono i figli in braccio o per mano, li accudiscono e si fanno accudire perché senza un marham, un guardiano, non possono uscire di casa.
Il loro guardiano può avere anche UN ANNO, PURCHÉ SIA MASCHIO, purché sia di famiglia.
Così, in questa realtà ribaltata in cui chi accudisce dipende da chi è accudito, i bambini diventano uomini troppo presto e le bambine troppo presto vengono violate.
Nella sala d’aspetto si riconoscono subito, si riconoscono dai burqa un po’ più chiari, o po’ meno lisi, dalla silhouette minuta, e poi, quando parlano, dalla voce che è l’unica traccia di infanzia che resta nella loro vita a respingere un destino segnato.
Sadi ha tredici anni, è arrivata alla clinica con sua madre Badam dopo aver camminato per due ore sotto il sole d’agosto. Sadi non sa né leggere né scrivere, una scuola non l’ha vista mai. Ha fatto una vita povera di pastorizia e raccolto finché è stata coi suoi genitori e fa lo stesso dopo che l’hanno data in sposa. Mostra il suo viso per pochi secondi. Gli occhi di un verde acceso sull’espressione di chi, suo malgrado, ha già conosciuto troppo. Dal burqa escono solo le mani, irrequiete, mani che non hanno mai stretto un giocattolo perché Sadi dice che un giocattolo non l’ha mai avuto. Le sarebbe tanto piaciuto studiare, ma qui funziona così, la vita non si sceglie.
La vita si subisce e si sopporta.
Tarin Kot è il centro urbano principale dell’area, è una zona aspra, ruvida, vicino non c’è nulla, la prima città è Kandahar, e dista più di cento chilometri. A nord le montagne, ripide, brulle, e al di là delle montagne una distesa di grotte e sentieri. Tarin Kot e tutta la provincia hanno sempre avuto un’importanza simbolica per i Talebani, è una zona dominata da alcuni dei gruppi etnici Pashtun più intransigenti del Paese, è qui che si è trasferito con la sua famiglia il fondatore del gruppo, il Mullah Omar durante l’occupazione sovietica negli anni’80. Uruzgan è stata la prima provincia a cadere nelle mani dei talebani nel 1994, è da qui che sono partite le spinte insurrezionali contro gli americani e gli alleati.
Un tempo qui c’era Campo Holland, c’erano le truppe olandesi, c’erano gli australiani, dovevano stanare e combattere i Talebani, poi addestrare i soldati e poliziotti locali e intraprendere progetti di miglioramento urbano.
L’operazione si chiamava ancora “Enduring Freedom”. Ma è durata poco, sia la storia dei progetti di miglioramento della vita dei civili, sia la (presunta) libertà duratura.
Camp Holland, dice la gente, era molto curato, circondato da alti muri di protezione, vari posti di blocco, barriere anti esplosione. I Talebani evitavano lo scontro diretto preferendo le imboscate. O gli attacchi suicidi, o le mine.
La gente moriva, i soldati pure. Così nel 2014 le forze Nato sono state drasticamente ridotte, le truppe afgane si sono indebolite sempre di più sotto l’assalto dei miliziani, molte hanno abbandonato le posizioni per mancanza di munizioni e molte altre per mancanza di motivazione, il resto è la storia di una guerra persa e finita male nell’agosto del 2021.
E guardando i posti, guardandoli da vicino, si capisce perché la guerra ha fallito, perché l’insurrezione non solo non è stata sconfitta ma alla fine ha avuto la meglio. I soldati di base qui chiamavano la provincia “l’ultima frontiera”. I militari statunitensi e alleati provavano a conquistare un pezzo di quest’area e i miliziani si nascondevano sulle montagne e nelle valli.
I lavori di “miglioramento” delle infrastrutture, della ricostruzione, dello sviluppo non sono davvero mai iniziati, le organizzazioni umanitarie non potevano lavorare perché non c’erano le condizioni di sicurezza necessarie per farlo.
Muhubullah, che è un pastore, ha 34 anni, quando ne aveva 20 è saltato su una mina e ha le caviglie ricucite male dopo decine di operazioni, vive in una casa di fango e fieno, dice che certo oggi non può lavorare e non sa come sfamare la moglie e i tre figli, ma almeno c’è sicurezza. Nessuno spara, nessuno muore più di guerra.
Però in Afghanistan oggi si muore di fame.
Anche Bib vive in una casa di fango e fieno in Uruzgan, senza acqua corrente e con la poca elettricità che forniscono gli altrettanto pochi pannelli solari. È una donna senza tempo, come tante qui non sa la sua età. Presume di essere stata data in sposa quando ne aveva dodici, ma potevano essere uno in più o uno in meno. Non importa. Quello che importa è che il marito è anziano, oggi più di quanto non lo fosse già quando la sua famiglia gliel’ha ceduta in sposa, solo che ora hanno sei figli, quattro femmine e due maschi e lei non sa come sfamarli.
Intersos, grazie ai fondi dei programmi dell’Unione Europea che ancora resistono, le ha fornito una macchina da cucire, con cui prova a fare reddito, realizzando dei vestiti che tiene appesi in una delle stanze dove dormono i figli.
Sono tutti intorno a lei, i maschi e le femmine. I primi sorridono, le seconde no. Una, la più grande, di undici anni, è seduta all’angolo della stanza, il più vicino alla porta, e guarda all’esterno, come se volesse scappare. Verso dove è difficile immaginarlo, visto che nessuno di questi bambini ha visto altro se non il letto del fiume poco distante per andare a prendere l’acqua, e i più fortunati la scuola.
Per lei, per Amira, la scuola finisce l’anno prossimo. Così vogliono le nuove leggi talebane per tutto l’Afghanistan. Anche se qui, in fondo, le cose non sono cambiate, né sui burqa indossati dalle donne in strada, né sull’istruzione delle bambine.
Quando il ministero dell’Istruzione del governo sostenuto dall’Occidente magnificava progressi a livello nazionale, nelle aree rurali e nelle province contese tra governo e talebani, le ragazze non studiavano nemmeno prima.
Secondo un rapporto Unicef dell’inverno 2020, pochi mesi prima della caduta di Kabul, il 90% delle ragazze in Uruzgan non andava a scuola. Sua madre dice che Amira è la più intelligente dei figli, la più dotata.
Ma Amira, come le sorelle di nove e otto anni, è già stata promessa in sposa. Sono circa 500 dollari a figlia, dice Bib, e servono, perché altrimenti è difficile sfamare gli altri. A maggior ragione ora, dopo i tagli decisi da Trump a febbraio e la drastica riduzione degli aiuti del resto del mondo che, attento a crisi che sembrano più urgenti, ha dimenticato l’Afghanistan e la sua gente.
Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo, quattro anni fa, il Paese è sull’orlo del collasso economico.
Sulle prime gli aiuti umanitari hanno colmato l’emergenza. Poi, all’inizio dell’anno, il presidente americano Donald Trump ha bloccato gli aiuti e le conseguenze qui sono state immediate e paralizzanti.
Da febbraio, oltre l’80% dei programmi Usaid è stato cancellato e mentre il Paese è alle prese con nuove epidemie di morbillo, malaria e poliomielite, la riduzione degli aiuti ha fatto sì che si interrompessero anche le campagne di vaccinazione.
L’impatto si sente ovunque, certo, ma qui fa più rumore. Un suono che però l’Occidente sembra non sentire, tappandosi le orecchie perché pesa ancora troppo il fallimento della ventennale guerra che ha riconsegnato il Paese ai nemici di un tempo, e perché con quei nemici che però ora amministrano il Paese, l’Occidente ha scelto di non parlare.
Il dilemma, per i governi, è semplice e crudele: aiutare la popolazione in Afghanistan significa, volenti o nolenti, passare attraverso i talebani. Non si può portare cibo, cure, acqua o istruzione senza il loro permesso. Quindi o si collabora con loro per salvare vite, rischiando di legittimare un regime o si rifiuta di collaborare per non sporcarsi le mani (peraltro già abbondantemente sporcate dalla guerra) condannando milioni di persone alla fame.
In mezzo, ci sono le Ong e le agenzie umanitarie, costrette a muoversi in equilibrio tra principio e necessità.
È in posti come l’Uruzgan che si capiscono le contraddizioni di una guerra come questa. Dove contraddizione è una parola che non calza con la realtà. Servirebbe paradosso, se non fosse un paradosso tragico.
Oggi le zone che fino a quattro anni fa non potevano essere raggiunte da nessuna organizzazione umanitaria, teatro di insurrezioni e contro insurrezioni, sono accessibili. Alla gente e alle organizzazioni umanitarie. È così che ha aperto questa clinica, così che le donne possono finalmente curarsi, e i bambini curare la malnutrizione, e provare a sopravvivere alla fame.
Jan Gula ha 17 anni, un figlio di tre, una di un anno e mezzo ed è di nuovo incinta. È quasi l’una, è seduta in una stanza della clinica di Intersos perché l’esterno è asfissiante e non si tiene in piedi. Ha camminato quasi tre ore per arrivare, fare una visita prenatale e far controllare il peso della figlia più piccola, malnutrita come quasi tutti gli altri bambini in attesa di essere visitati e dovrà camminare altre tre ore per tornare a casa. L’alternativa è raggiungere l’ospedale di Tarin Kot, che è troppo lontano, e qui quasi nessuno ha un mezzo di trasporto, oppure non curarsi. Anche lei alza il burqa solo per dare il tempo di far capire che non mente, che sotto quel pesante telo blu che copre il suo corpo e la sua libertà fino a poco tempo fa c’era una bambina, che come le altre a tredici anni è stata data in sposa. Poi ricopre il volto e il corpo, si tocca la pancia e dice «sono infelice».
Due parole appuntite, chiodi nel silenzio della stanza, monito nel silenzio del mondo che l’ha abbandonata.

Nella foto
Uruzgan, a sinistra Bin (con il burqa a destra) e i suoi figli nella propria casa nel villaggio di Sarkum.

Nell’Afghanistan dei talebani, il tempo non guarisce, ferisce soltanto

Zan Times, 18 agosto 2025, di Mahnaz*

Si dice che il tempo guarisca tutte le ferite, ma questo detto non è vero in Afghanistan, dove i talebani governano e hanno privato ragazze e donne dei loro diritti umani. Qui, il passare del tempo non è un balsamo; è una lama conficcata in profondità in migliaia di giovani ragazze imprigionate nelle loro case.

Mi chiamo Mahnaz. Prima della caduta della repubblica, ero come migliaia di altre ragazze, vivevo una vita semplice con modeste libertà. Ero una studentessa diciannovenne appena ammessa all’Università di Kabul. La mia più grande preoccupazione era se sarei riuscita a tenere il passo con le donne del resto del mondo, promuovendo il mio sviluppo personale, economico e sociale.

Poco prima di mezzogiorno del 15 agosto 2021, stavo aspettando la navetta per l’università, come facevo ogni giorno. Era un po’ più tardi del solito. Ho chiamato l’autista, ma il suo telefono era fuori servizio. Stavo per chiamare una delle ragazze che viaggiavano sulla navetta quando mia madre mi ha telefonato dal suo posto di lavoro. Mi ha detto in fretta di non uscire di casa, spiegandomi che Kabul era invasa da talebani armati. Non potevo crederci, così ho chiamato un’amica che viveva vicino all’Università di Kabul e le ho chiesto della situazione in quella zona. Mi ha detto: “Se ami la morte, allora vai all’università!”

Mia sorella maggiore era andata all’università quella mattina e da allora non l’avevo più sentita. L’ho chiamata, ma non ha risposto. La maggior parte dei miei familiari era fuori ed era difficile contattarli. Quella maledetta giornata si è protratta fino al tardo pomeriggio, quando finalmente tutti i membri della mia famiglia sono tornati a casa.

L’anno e alcuni mesi successivi sotto la bandiera dei talebani hanno segnato il periodo più infelice della mia vita: un periodo in cui la speranza ha perso il suo significato e ogni sentiero conduceva a una valle di silenzio. Il mio unico vero successo era stato essere ammessa all’Università di Kabul, ma poiché le università rimanevano chiuse, quel traguardo ha iniziato a prendere polvere.

Alla fine riaprirono, ma la domanda rimaneva: perché riaprirono solo le università e non le scuole? Nel dicembre 2022, le università chiusero di nuovo e la risposta divenne chiara: noi studentesse non eravamo altro che pedine nel gioco egoistico dei talebani.

Le settimane precedenti la chiusura furono dominate dagli esami del semestre autunnale. A me ne restava solo uno. La sera prima di sostenerlo, ci arrivarono notizie non confermate che l’esame non si sarebbe tenuto e che le università sarebbero state chiuse. Nessuno ci credeva fino in fondo, anche se non era al di là della nostra immaginazione.

La mattina dopo, non lasciavano entrare nessuno all’università. Mi diressi verso il cancello di ingegneria, che di solito attirava poca attenzione. Supplicando le guardie, riuscii a entrare. Si vedevano alcune ragazze sparse per il campus. Nella mia aula c’erano solo sette o otto studentesse presenti. Il professore aveva già dato l’esame in anticipo. Presi velocemente un foglio e finii in meno di 10 minuti. Durante l’esame, il professore continuava a ripetere: “Sbrigati. Darò un voto anche a un foglio bianco. L’unica cosa che conta è evitare guai se ci beccano”.

Oggi, la maggior parte delle mie compagne di classe è sposata e ha perso la speranza di poter continuare gli studi. Alcune sono partite per l’Iran, dove lavorano in laboratori di cucito per salari miseri.

Dopo aver trascorso un anno in una società in cui il tempo si era fermato per metà della popolazione, ho deciso di tentare la fortuna in Pakistan. La parte più difficile di questa migrazione è stata recuperare i miei documenti e certificati di studio.

Nel novembre 2022, ho lasciato Kabul con la mia famiglia per Islamabad, sperando di raggiungere un paese sicuro grazie all’aiuto della comunità internazionale. Ma una volta arrivata in Pakistan, mi sono resa conto che il mio caso di immigrazione era di scarso interesse per le agenzie umanitarie, in particolare le Nazioni Unite. Non ero mai stata imprigionata dai talebani, né ero stato una figura di spicco nella società prima del crollo.

Volevo salvare la mia vita dalla palude del tempo sprecato il più rapidamente possibile e dare nuova vita ai miei sogni polverosi. Immaginavo di potermi concentrare sui miei obiettivi a breve termine: imparare una seconda lingua, acquisire maggiore familiarità con la tecnologia e con il suo utilizzo efficace, e lavorare sulle mie capacità mentali e fisiche. Ora, dopo quasi tre anni trascorsi in Pakistan, vedo che tutto in questa città straniera è l’opposto di ciò che avevo immaginato.

Ho fatto volontariato diverse volte per organizzazioni educative online, pensando che potesse alleviare il peso di questi giorni. Ma so fin troppo bene che la combinazione delle rigide leggi pakistane sui rifugiati, della crisi economica e delle difficoltà sociali ha contribuito a farmi tornare indietro nel tempo ancora una volta. Sento il dolore dell’arretratezza fino alle ossa e mi sono rifugiata nei libri, immergendomi nelle parole e sfogliandone le pagine più e più volte, sperando che potessero compensare questi anni perduti.

Il tempo non ha guarito le ferite della privazione della libertà, dell’istruzione e di una vita normale; le ha solo trasformate in piaghe purulente che bruciano in tutto il mio essere. So che le ferite che ho sopportato come ragazza e studentessa afghana non guariranno mai veramente. Non riavrò mai indietro quegli anni. So anche che nessuno si assumerà la responsabilità di recuperare questo tempo perduto. Al contrario, i talebani, responsabili di tutta questa miseria nella mia vita, credono che io sia da biasimare a causa del mio genere.

Non sono l’unica ragazza abbandonata dal tempo. Migliaia di ragazze afghane, sia in Afghanistan che nei paesi limitrofi, sono legate dal passare del tempo. Respiriamo come morti viventi. E la miseria si estende alle molestie quotidiane della polizia, alle difficoltà economiche, all’incertezza sul futuro e alla separazione dalla scuola e dall’istruzione. Convivo con queste ferite ogni giorno. Per esse non ho altro rimedio che pazienza e perseveranza.

*Mahnaz è uno pseudonimo.

[Trad. automatica]

Donne all’ombra del fascismo globale: la narrazione di una ragazza afghana e una verità che non conosce confini

Socialist Feminism by Frieda Afary, 19 agosto 2025, di Azadeh Omid

Negli ultimi quattro anni ho vissuto in un Paese in cui il cielo crolla costantemente sulla testa delle donne. Da ragazza afghana, accolgo ogni alba senza sapere se quel giorno vedrò il tramonto. Nell’ombra minacciosa dei talebani, essere donna non è solo una limitazione, ma un crimine, un crimine la cui punizione è l’esclusione dalla vita sociale e umana. Ogni
volta che sento che i talebani hanno arrestato donne per motivi come “non indossare l’hijab” o “insubordinazione”, mi si stringe il cuore. Quando esco di casa, l’hijab obbligatorio non solo mi copre il corpo, ma agisce anche come una catena intorno al collo e alla mente. La sicurezza è inutile anche a casa. Il silenzio della sera è rotto dal pensiero che “domani potrebbe essere il mio turno”.

Questo incubo non è personale. È collettivo. Centinaia di migliaia di donne in Afghanistan oggi stanno vivendo questa ansia e repressione. Siamo intrappolate in una trappola che non ci offre alcuna via di fuga né il coraggio di resistere. Ma devo dire che questo inferno non è stato costruito solo dai talebani. È il prodotto diretto degli accordi presi dalle grandi potenze: Stati Uniti, NATO, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Qatar, Russia e Cina. Ognuna di loro ha trasformato il nostro Paese in una scacchiera con i propri interessi economici e militari. Una scacchiera in cui la vita e la libertà delle donne sono solo pedine inutili.

Questa catastrofe non riguarda solo l’Afghanistan. Il fascismo, indipendentemente dalle sue forme e dal suo linguaggio, è nemico della libertà e dell’uguaglianza delle donne, sia che si manifesti nei fondamentalisti religiosi di Kabul o nei nuovi governanti di Washington DC, che usano il linguaggio dell’odio e della discriminazione per aprire la strada alla violenza e alla disuguaglianza. L’ascesa di Trump negli Stati Uniti è stata una sirena d’allarme globale e non solo una crisi interna. Quando una donna perde il diritto al controllo del proprio corpo, l’eco di questa sconfitta raggiunge anche l’Afghanistan, l’Iran, la Palestina, la Siria…

La storia delle lotte delle donne ha dimostrato che fascismo e autoritarismo possono crescere solo quando il silenzio e la complicità prendono il sopravvento. Questo silenzio, che si manifesti sotto forma di indifferenza delle nazioni o di conciliazione tra i governanti, è l’ossigeno che mantiene vive le fiamme dell’autoritarismo. Le donne negli Stati Uniti, in Iran, in Palestina, in Kurdistan, in Turchia, in Ucraina, in Russia, in Cile, in Spagna, in Sudafrica, in Afghanistan e in molte altre parti del mondo hanno imparato attraverso la lotta e la resistenza che l’emancipazione non è un dono dall’alto. La libertà deve venire dal basso, dal cuore delle strade, dalle voci delle donne, dal coraggio e dalla solidarietà.

Sono ancora qui, in un Paese che vuole farmi tacere e dimenticarmi. Ma ogni giorno, anche se nessuno sente la mia voce, dentro di me c’è una fiamma che dice “no”. Questo “no” non è rivolto solo ai talebani, ma a qualsiasi sistema che emargini le donne, in nome della religione o sotto la copertura di una falsa democrazia.

La nostra emancipazione è strettamente legata alla presa in carico del nostro destino. Nessuna potenza straniera, nemmeno con la pretesa di libertà, potrà liberarci. Proprio come il fascismo non ha confini, anche la nostra lotta deve essere globale, una rete di donne e uomini che si ribellano al dominio, alla disuguaglianza e alla violenza in ogni parte del mondo.

Sono una ragazza afghana, ma la mia storia è la storia di tutte le donne che lottano nel mondo di oggi per il diritto di respirare, prendere decisioni e vivere. Finché questa lotta continuerà, il fascismo non durerà per sempre.
Azadeh Omid

15 agosto 2025

Foto originariamente pubblicata su https://femena.net/2024/08/15/three-years-and-counting-the-struggle-and-resistance-of-afghan-women/

[Trad. automatica]

Kabul si sta prosciugando e le soluzioni potrebbero arrivare troppo tardi

The New York Times, 13 agosto 2025, di Elian Peltier*, Immagini di Jim Huylebroek
Reportage da Kabul, Afghanistan.

I sei milioni di persone che vivono nella capitale afghana potrebbero rimanere senza acqua entro il 2030. Il governo sta cercando soluzioni, ma le riserve finanziarie sono esaurite come i bacini idrici di Kabul.

Mentre il tramonto avvolgeva Kabul in una recente sera d’estate, due vicini si scambiavano insulti per l’accesso a una risorsa in rapida diminuzione: l’acqua.

“Se vieni con quattro taniche, salti la fila”, sibilò Aman Karimi a una donna mentre le strappava un tubo dalle mani e riempiva i propri secchi dal rubinetto di una moschea. “È il mio turno, ed è un mio diritto.”

Kabul è arida, prosciugata dalle scarse precipitazioni e dallo scioglimento delle nevi, e prosciugata da pozzi non regolamentati. La città è diventata così arida che i suoi sei milioni di abitanti potrebbero rimanere senza acqua entro il 2030, e ora stanno lottando per questo.

Le sue riserve idriche si stanno esaurendo quasi due volte più velocemente di quanto si stiano rigenerando. L’amministrazione talebana, a corto di fondi, non è stata finora in grado di portare l’acqua dalle dighe e dai fiumi vicini alla città soffocata.

Ora Kabul rischia di diventare la prima capitale moderna ad esaurire le riserve idriche sotterranee, ha avvertito l’organizzazione no-profit Mercy Corps in un recente rapporto .

“Stiamo lottando sempre di più perché per noi l’acqua è come l’oro”, ha detto il signor Karimi, mentre spingeva una carriola piena di 180 litri d’acqua che la sua famiglia di cinque persone avrebbe usato per cucinare, lavare e bere. Il signor Karimi, un sarto, ha detto che si sono trasferiti di recente in una nuova casa a causa dell’impennata dei prezzi delle case, ma la nuova casa non ha l’acqua corrente.

Kabul, circondata da montagne innevate e attraversata da tre fiumi, non è mai stata considerata una città arida. Ma, nonostante la sua popolazione sia cresciuta di circa sei volte negli ultimi 25 anni, non è stato ancora messo in atto un sistema di gestione idrica adeguato per attingere acqua da altre fonti o per regolamentare l’estrazione sotterranea da serre, fabbriche ed edifici residenziali che stanno proliferando in tutta la città.

L’approvvigionamento idrico è un problema critico in tutto l’Afghanistan. Secondo le Nazioni Unite, almeno 700.000 afghani vengono sfollati ogni anno a causa dei cambiamenti climatici, principalmente a causa della siccità. Un terzo dei 42 milioni di abitanti dell’Afghanistan non ha accesso all’acqua potabile.

I donatori internazionali hanno finanziato numerosi progetti di dighe e iniziative per collegare le case di Kabul a una rete fognaria affidabile, stanziando centinaia di milioni di dollari. La maggior parte di questi progetti non ha mai visto la luce o è stata bruscamente interrotta dopo il 2021, quando i talebani hanno preso il controllo e altre nazioni si sono rifiutate di riconoscere il nuovo governo dopo il ritiro degli Stati Uniti.

“Kabul lotta con problemi idrici da due decenni, ma non è mai stata una priorità”, ha affermato Najibullah Sadid, esperto di risorse idriche. “Ora i pozzi si stanno prosciugando ed è un’emergenza”.

Gli abitanti di Kabul hanno scavato sempre più pozzi nei cortili e negli scantinati, prosciugando una città prosciugata dall’estrazione idrica incontrollata.

Secondo un rapporto del 2021 dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, solo un quinto degli abitanti di Kabul ha accesso all’acqua corrente. Ma anche le tubature sono sempre più fuori servizio. Persino l’agenzia nazionale per l’ambiente fa affidamento su un’autocisterna che trasporta più di 2.600 galloni d’acqua al giorno, perché il suo pozzo si è prosciugato e le sue tubature sono fuori servizio.

Kabul è come se fosse sotto flebo, con migliaia di litri d’acqua forniti da centinaia di tricicli di fabbricazione cinese e camion dell’era sovietica che attraversano la città.

Centinaia di tricicli di fabbricazione cinese sono disponibili anche con consegna a domicilio.
Chi non può permettersi di acquistare acqua dalle aziende di distribuzione si affida ai pozzi sempre più scarsi delle moschee o alla carità dei residenti benestanti. Al tramonto, le carriole escono e le strade tortuose e le ripide colline brillano di grandi taniche di olio da cucina giallo girasole trasformate in contenitori per l’acqua.

Una mattina di recente, Haji Muhammad Zahir è corso giù per le scale dopo aver sentito un messaggio registrato che pubblicizzava l’acqua che scorreva a cascata lungo la sua strada alberata. Le aziende di distribuzione idrica sono spuntate come funghi in tutta Kabul, anche in quartieri benestanti come il suo, dove residenti di lunga data ora condividono le loro strade con ex combattenti e funzionari talebani.

Ex presidente del Consiglio Comunale e ingegnere meccanico in pensione, il signor Zahir ha affermato che il suo pozzo si era prosciugato anni fa e che la conduttura pubblica della sua casa a due piani perdeva acqua solo ogni tre giorni. Ha esortato i talebani a tenere a galla Kabul, ma ha aggiunto: “Dove sono i soldi per questo?”

Il governo sta cercando disperatamente di reperire fondi. In tutto il Paese, dal 2021 sono state completate quattro dighe, tra cui una a 32 chilometri da Kabul che, se collegata tramite una conduttura, potrebbe portare acqua a migliaia di famiglie. Un altro progetto di oleodotto nella vicina valle del Panjshir deve ancora ricevere l’approvazione definitiva dalla leadership del Paese.

Entrambi mancano di finanziamenti: i donatori stranieri hanno chiuso i rubinetti e gli investimenti privati sono scarsi. “I nostri progetti sono grandi e possiamo fornire solo metà dei fondi”, ha dichiarato in un’intervista Matiullah Abid, portavoce del Ministero dell’acqua e dell’energia afghano.

Nei pressi della moschea dove il signor Karimi aveva rimproverato un vicino, la fila di persone in attesa dell’acqua si era lentamente assottigliata.

Tra gli ultimi c’era Atefeh Kazimi, 26 anni, che ha riempito alcune taniche in cambio di qualche afghano, la moneta nazionale, per la moschea. Poi ha trascinato la sua carriola per 30 minuti fino a casa.

C’era una moschea più vicina a casa sua, ma il pozzo era asciutto.

Safiullah Padshah e Yaqoob Akbary hanno contribuito al reportage.

*Elian Peltier è un corrispondente internazionale del Times e si occupa di Afghanistan e Pakistan.

[Trad. automatica]

L’anniversario. Afghanistan, l’incubo taleban compie 4 anni. Le donne? Cancellate

Avvenire, 15 agosto 2025, di Lia Capuzzi

L’addio tumultuoso degli Usa il 15 agosto 2021 ha segnato uno spartiacque: nel Paese c’è un vero e proprio apartheid di genere, mentre l’assistenza umanitaria si è ridotta

«Come sto? Come in una prigione». Soraya, il nome è di fantasia per ragioni di sicurezza, 30 anni, era una docente di inglese in un liceo fino a undici mesi fa. Prima, ai tempi della Repubblica, lavorava in una scuola della sua comunità – che è preferibile non indicare –, a due ore a nord di Kabul. Ha continuato a farlo anche dopo il 15 agosto 2021, quando i taleban sono tornati al potere in seguito al ritiro precipitoso delle forze Usa e Nato. Poco dopo che l’ultimo aereo statunitense è partito lasciando dietro di sé migliaia di collaboratori locali e le loro famiglie, gli ex studenti coranici hanno vietato l’istruzione femminile dalla fine delle elementari. Soraya impartiva ugualmente lezioni alle studentesse delle superiori in una “scuola clandestina”, una delle tante cresciute nell’esteso “cono d’ombra” dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Un’area che il regime estende o restringe a propria discrezione. «Sapevano della nostra esistenza. Solo per un po’ ci hanno lasciato fare per non irritare il consiglio degli anziani che ci proteggeva. Poi, un anno fa sono cambiate le autorità locali. E un mese dopo hanno fatto irruzione ei hanno arrestati tutti». Soraya e le altre quattro colleghe sono state rilasciate nel giro di poche ore. I due colleghi maschi sono in cella da dieci mesi. «In fondo neanche noi siamo mai uscite. Nel quartiere tutti ci evitano. Pensano che siamo state violentate in carcere… Ora sopravvivo facendo piccoli oggetti di artigianato. Ma ho paura che tornino a prendermi.….».

Una società senza donne
La cancellazione della componente femminile dalla vita civile, come l’ha definita nel nuovo rapporto la missione Onu in Afghanistan (Unama), è senza dubbio il tratto più vistoso di quattro anni di potere taleban. Attraverso una sfilza di oltre un centinaio di editti – sempre temporanei e senza, di fatto, cambiare la Costituzione – il regime ha realizzato una vera e propria apartheid di genere: le donne sono escluse dalla pubblica amministrazione, da quasi tutte le professioni, dal sistema educativo. Non possono viaggiare se non accompagnate da un “mahram”, parente maschio, devono coprire corpo e volto, non possono entrare nei parchi e nemmeno parlare ad alta voce. Misure applicate con crescente intensità fino all’attuale giro di vite attuale, denunciato da Unama.

Il ritorno di Mosca
A quest’ultimo ha contribuito lo spazio conquistato dal regime in ambito internazionale. Al principio isolati e con 7 miliardi di dollari di fondi congelati nelle banche statunitensi, i taleban sono riusciti progressivamente a insinuarsi nelle sempre più evidenti fratture della comunità internazionale. In particolare, quella tra Occidente – o Occidenti – e asse russo-cinese. Cruciale la rottura dei legami con al-Qaeda e l’impegno contro il terrorismo internazionale, in particolare i rivali estremisti di Isis-K. E il “bottino” offerto: le terre rare che fanno gola al mondo, da Donald Trump a Xi Jinping. Lo scorso febbraio, il portavoce dei taleban Zabihullah Mujahid, ha dichiarato di avere avviato «contatti» diplomatici con 40 Paesi. Il ministero degli Esteri di Kabul, in realtà, nel sito ufficiale, restringe la lista a 29. Di fatto, poi, di questi, con una mossa inedita, solo la Russia di Vladimir Putin ha riconosciuto l’Emirato il mese scorso. A 46 anni dal ritiro dell’Armata Rossa dalla nazione, Mosca si è ritagliata un ruolo da protagonista nel “Grande gioco” afghano battendo sul tempo la Cina che – insieme Emirati, Uzbekistan e Pakistan – non ha mai chiuso l’ambasciata a Kabul. La scelta del Cremlino non sembra comunque destinata a restare isolata. India, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan hanno aperto alla collaborazione diplomatica e consolare con i taleban. L’imminente missione del presidente di Teheran, Masoud Pezeshkian, sarebbe la seconda di alto dopo quella del premier uzbeko Abdulla Aripov di un anno fa. Ad accelerare la svolta iraniana, la determinazione a ridurre la pressione dei rifugiati afghani: oltre 1,5 milioni sono stati rispediti indietro nell’ultimo anno, 250mila solo a giugno. Proprio il nodo migratorio sta causando mutamenti anche nell’orientamento europeo. Ufficialmente la linea non cambia. Retorica e condanne verbali a parte, però, la Germania ha appena siglato un accordo con cui accetta due inviati dell’Emirato per gestire i rimpatri mentre la Norvegia ha accettato una delegazione taleban all’ambasciata di Oslo. Pur senza una presenza fissa, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Bulgaria hanno già concordato protocolli di liberazione. Perfino l’Onu ha ospitato un gruppo di osservatori alla Conferenza sul clima di Baku e, nel giugno 2024, complice lo smantellamento dei campi di papaveri da oppio, ha avuto a Doha il primo incontro formale con i rappresentanti del governo di fatto.

Le macerie della guerra
Il processo è, però, lento e i taleban – a differenza del vecchio detto afghano – non hanno più il tempo. Senza l’aiuto del mondo, da cui dipendeva per tre quarti il bilancio nazionale, l’economia è al collasso e 23 milioni di persone hanno necessità di assistenza umanitaria per sopravvivere. Tre afghani su cinque non possono pagare sono costretti a indebitarsi per avere accesso alle cure di base, come denuncia Emergency. «L’Afghanistan attuale è la cartina tornasole di cosa resta dopo decenni di conflitto», dice il direttore locale Dejan Panic. Dopo oltre mezzo secolo di scontro civile, i combattimenti sono finiti. La pace asfissiante dei taleban, però, è l’altra faccia della guerra.

Afghanistan, la resistenza delle donne. Seconda parte

Pressenza, 14 agosto 2025, di Fiorella Carollo

Negli ultimi quattro anni, le organizzazioni, tra cui Rawa, che cercavano di organizzare proteste e di far sentire la voce delle donne afghane come resistenza contro i Talebani hanno subìto arresti, minacce, uccisioni delle loro aderenti e questo è il motivo per cui la protesta ha cambiato forma.

Ora, come organizzazione, e credo che questo valga anche per la maggioranza delle donne afghane, ci stiamo concentrando su metodi clandestini di resistenza e crediamo che una di queste forme di resistenza sia aumentare la consapevolezza delle donne e il loro livello di istruzione. Ed è per questo che negli ultimi quattro anni abbiamo cercato di organizzare corsi segreti a domicilio di inglese, informatica o scienze, per le ragazze che non possono andare a scuola e per le donne più grandi. Abbiamo cercato di mobilitare un grande numero di donne per poter dare più consapevolezza e coraggio alle giovani generazioni affinché resistano ai Talebani.

Anche la resistenza delle donne in Iran ci ha incoraggiato e ispirato molto, facendoci capire che il fascismo religioso e il fondamentalismo religioso, sebbene siano al governo da decenni, non possono mettere a tacere le donne.

Le donne più istruite e consapevoli dei propri diritti saranno sicuramente in grado di affrontare le minacce e di trovare il modo di resistere. E lo vediamo ancora di più attraverso l’uso dei social media, dei corsi online, attraverso corsi segreti e opportunità educative. Le donne stanno cercando di mobilitarsi di più contro i Talebani e soprattutto contro la polizia religiosa.

Posso sicuramente dire che il nostro lavoro sta migliorando rispetto a quanto si faceva prima. E la semplice ragione è che prima del 2021 c’erano molte opportunità per le donne, università private, college, scuole, tutto. Ora solo organizzazioni come Rawa e alcune ONG offrono opportunità di istruzione o corsi di alfabetizzazione per le donne.

Il problema che abbiamo è la sicurezza. Purtroppo, non possiamo costruire classi numerose o centri per le donne. Non possiamo portare più donne in alcune regioni, soprattutto non possiamo portare avanti alcun progetto dove i Talebani sono molto forti e nelle piccole città. Nelle grandi città è più facile prenderci cura delle misure di sicurezza.

La maggior parte sono lezioni clandestine o segrete a domicilio. Si svolgono all’interno delle case degli insegnanti. Non paghiamo l’affitto per l’edificio o per la lezione. Una normale stanza per la vita quotidiana è usata anche come una classe. La rete degli insegnanti è composta da persone che già conosciamo e di cui ci fidiamo, che sono molto creative nel trovare studenti affidabili e nell’ampliare le loro reti senza trasformare la loro casa in una scuola ufficiale. In ogni classe, il numero medio di studentesse è di 15-20.

In alcune zone vediamo che 50-60 donne vorrebbero partecipare e purtroppo, per motivi di sicurezza, non possiamo permetterlo. Non possiamo nemmeno scegliere due o tre case molto vicine, perché se succedesse qualcosa a una delle nostre classi segrete potrebbe venire coinvolta anche l’altra. Quindi, dobbiamo stare attente a mantenere la distanza tra le nostre classi. L’insegnante e le studentesse sono molto creative nel trovare soluzioni ai loro problemi di sicurezza. È comune in Afghanistan che le donne si riuniscano per confezionare abiti e per insegnare/imparare il Corano, che è considerato un atto religioso. In ognuna di queste lezioni abbiamo il Corano e l’insegnante, qualora i Talebani entrassero in casa, direbbe che si tratta di studi coranici e che la lavagna e tutto il resto servono per insegnare il Corano. E ai Talebani va bene.

Nelle nostre classi nel tempo si sviluppa una grande solidarietà tra le ragazze, le donne e le insegnanti. Di recente, una delle ragazze a causa delle pressioni della famiglia aveva abbandonato la classe; è accaduto a Kabul, che è la zona più sicura rispetto ad altre. Le sue compagne di classe indagano e quando scoprono che è il fratello a non permetterlo, un folto gruppo di 10-12 compagne di classe si è unito per convincerlo. Sfortunatamente, non ci sono riuscite, pur avendo ottenuto il consenso dei membri maschi della sua famiglia e sebbene si fossero offerte di alternarsi nell’accompagnarla.

La politica di Rawa non è solo quella di fornire l’alfabetizzazione, ma anche di dare alle donne ferite l’opportunità di parlare tra di loro di cosa soffrono, che tipo di discriminazione subiscono all’interno della famiglia, cosa possiamo fare. In moltissimi casi l’insegnante va a trovare la famiglia quando sorgono problemi di qualsiasi tipo. E’ successo recentemente a Jila, una giovane studentessa; la famiglia voleva darla in matrimonio, mentre lei voleva continuare le sue lezioni. L’insegnante è andata a parlare con i membri maschi della famiglia per dire loro che la figlia non era ancora pronta per questa proposta di matrimonio e fortunatamente loro hanno acconsentito a rimandarlo.

Abbiamo molti esempi di questi piccoli successi nel migliorare la vita delle donne, delle bambine e delle ragazze afghane, il che ci dà molto coraggio. Come organizzazione nutriamo grande speranza nel futuro; ora viviamo un momento buio della nostra storia, ma non è destinato a durare per sempre. Prima o poi la luce tornerà a risplendere sull’Afghanistan.