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Tag: Talebani

«Così puntiamo a cambiare il diritto internazionale»

Il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (CISDA) ha lanciato una campagna perché la Corte penale internazionale e l’ONU riconoscano l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Ne abbiamo parlato con la presidente dell’associazione, Graziella Mascheroni

Giacomo Butti, Il Corriere del Ticino, 22 novembre 2025

Era il 1999 quando l’espressione «apartheid di genere» entrò nelle sale delle Nazioni Unite. Abdelfattah Amor, allora relatore speciale ONU per l’eliminazione delle discriminazioni basate su religione o credo, definì così – «un sistema di apartheid nei confronti delle donne» – il trattamento riservato dai talebani alla popolazione femminile afghana. A quei tempi, le immagini dell’apartheid sudafricano erano fresche nella mente di tutti. Violenza, segregazione, oppressione, negazione dei diritti fondamentali. Era questo che anche le donne afghane stavano vivendo in quel momento, sotto il controllo del primo governo talebano (1996-2001). Ed è questo che stanno vivendo oggi, dopo il ritiro delle truppe statunitensi, la fine della Repubblica e il ritorno al potere degli «studenti» coranici.

Restrizioni alla libertà di movimento, divieto di studio e lavoro, divieto di parlare in pubblico. A quattro anni dalla caduta di Kabul, ne abbiamo parlato a più riprese, l’Afghanistan è tornato indietro nel tempo. Non è un caso, allora, che l’espressione «apartheid di genere», già largamente utilizzata dalle donne afghane un ventennio fa per descrivere la propria condizione, sia oggi ancora in uso. Ed è per questo che un gruppo della vicina Penisola, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (CISDA), punta a portare nuovamente il tema sotto i riflettori internazionali, con un’iniziativa che chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto quale crimine contro l’umanità (come già è il caso per l’apartheid razziale) all’interno dei Trattati internazionali. Ne abbiamo parlato con Graziella Mascheroni, presidente del CISDA.

La raccolta firme

Sin dal 1999 il CISDA è attivo per promuovere progetti di solidarietà a favore delle donne afghane. Ma nel suo statuto, voce “Oggetto e scopi”, viene esplicitato: tra gli obiettivi dell’associazione c’è quello di «realizzare una crescita ed uno sviluppo, sia a livello locale che internazionale, nella ricerca di una maggiore giustizia tra i popoli». Non stupisce, allora, che l’ente non profit si sia lanciato in un’azione particolarmente ambiziosa: cambiare il diritto internazionale, per combattere l’apartheid di genere in Afghanistan e nel mondo.

«Per lanciare il nostro progetto abbiamo lavorato in modo molto approfondito, consultandoci con giuristi ed esperti di diritto internazionale», ci racconta Mascheroni. «Da questa collaborazione è nato un documento sul quale abbiamo basato la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere“».

La campagna, si legge sul sito del CISDA, chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto come crimine contro l’umanità e si riconosca che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre, al fine di non legittimare i fondamentalisti al governo a Kabul, il CISDA chiede che l’ONU non dia riconoscimento né giuridico né di fatto al regime talebano, che il fondamentalismo talebano sia dichiarato illegale, che sia impedito il finanziamento e l’invio di armi da Paesi amici, che i rappresentanti talebani siano estromessi da incontri di diplomazia internazionale e riunioni ONU.

La petizione collegata alla campagna, aperta a dicembre 2024 e chiusa lo scorso aprile (ma firmare è ancora possibile), ha raccolto circa 2.000 firme e il sostegno di un’ottantina di associazioni. «La raccolta firma è stata inviata al governo italiano, perché si faccia portavoce degli obiettivi della campagna dinanzi alle istituzioni internazionali. Siamo in attesa, ora, di avere un’audizione in Senato», ci spiega Mascheroni, che sottolinea: «Il documento è stato inviato anche alla Sesta commissione ONU e alla Corte penale internazionale (CPI). Quest’ultima ci ha risposto spiegando i prossimi passi». Un grande orgoglio per una associazione come il CISDA, ci spiega la presidente, che tuttavia non si fa illusioni: «C’è ancora tantissimo da fare». Perché questa proposta di modifica dello Statuto di Roma (il trattato internazionale istitutivo della CPI) venga presa in considerazione, dovrà essere patrocinata da uno Stato membro. «Negli ultimi mesi ci siamo mossi per cercare l’appoggio di un Paese che senta l’importanza di questo tema». Sudafrica e Congo sono tra i papabili, ma ci vorrà ancora del tempo perché vengano avanzate proposte concrete. Certo è che se l’iniziativa dovesse avere successo, l’impatto sarebbe fondamentale, e globale.

La situazione in Afghanistan

Per le donne afghane ogni mese conta, perché ogni mese è peggiore del precedente. «La situazione continua a deteriorarsi», conferma la presidente del CISDA, che con i gruppi locali di sostegno alle donne mantiene stretti contatti. «E questo anche per colpa del progressivo riconoscimento – formale o informale – da parte di Paesi terzi, che con i talebani stanno portando avanti rapporti diplomatici». Proprio negli scorsi giorni, la Segreteria di Stato della migrazione (SEM) ha confermato di aver «invitato rappresentati del governo talebano non ufficiale all’aeroporto di Ginevra» per trattare il tema delle espulsioni di cittadini afghani verso il loro Paese d’origine. Negoziazioni che hanno permesso il ristabilimento di un canale con l’Afghanistan per le espulsioni di uomini la cui domanda di asilo è stata respinta.

A Kabul, intanto, le donne di RAWA – l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane, gruppo politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana – non hanno intenzione di mollare di fronte alle terribili condizioni di vita. «Le sentiamo regolarmente. Sono convinte che nessun vero cambiamento possa venire dall’esterno. Dicono che giustizia e libertà possano giungere solo attraverso la lotte cosciente e unita della popolazione. Questo è il credo di RAWA, che dagli anni Settanta – dall’invasione sovietica, passando per guerre civili, i governi talebani e anche il periodo americano – non ha mai smesso di lottare. Loro vivono da sempre in clandestinità e quindi stanno portando avanti il loro lavoro come fatto in passato. Più difficile, invece, operare per le ONG che fino a qualche anno fa lavoravano indisturbate e oggi devono stare invece molto attente alla sorveglianza dei talebani per portare avanti in segreto la formazione delle bambine, la cui istruzione è stata proibita».

Chi non fa parte di associazioni o gruppi, porta avanti l’opposizione come può. «Con il progressivo assestarsi del potere talebano, scendere in strada come nei mesi seguenti la caduta di Kabul non è più possibile. La resistenza si è quindi spostata sui social. Non è un caso se nelle ultime settimane alcune regioni dell’Afghanistan abbiano subito un blocco dell’accesso alla rete». E questo fenomeno, ci racconta Mascheroni, non riguarda solo le donne. «Tutta la popolazione è stanca, e anche gli uomini sono contrari al dominio talebano. La società afghana è patriarcale: nei centri abitati al di fuori delle grandi città, i capi villaggio sono esclusivamente uomini. Eppure collaborano strettamente con le associazioni femminili con cui siamo in contatto, specialmente nelle zone colpite recentemente dai terremoti, dove i talebani si sono ben guardati dal portare aiuti».

L’importanza dell’alfabetizzazione

Parallelamente alla campagna contro l’apartheid di genere, da anni il CISDA porta avanti una lunga serie di progetti in Afghanistan a sostegno della popolazione. «Grazie a un nostro generoso sponsor, a Kabul e in altre quattro province possiamo finanziare un corso di cucito che garantisce, parallelamente, l’alfabetizzazione delle bambine. Contemporaneamente sosteniamo un’unità mobile, un team sanitario che va di villaggio in villaggio a visitare i pazienti». In passato l’organizzazione italiana, spiega la presidente, finanziava «grandi case protette per le donne afghane, ma molte sono state chiuse dopo l’arrivo dei talebani nel 2021. In questo momento, quindi, stiamo aiutando uno “shelter” più piccolo – che passa quindi inosservato – che al momento ospita quattro donne vittime di violenza e i loro 9 figli». Ma non finisce qui. «Da una decina d’anni, il nostro progetto Vite preziose permette il sostegno a distanza per chi ha subito violenze: così sponsor esterni possono aiutare finanziariamente, di solito per un anno, una donna afghana in difficoltà. Giallo fiducia, invece, supporta una coltivazione di zafferano nelle zone di Herat. Le dodici donne che lavorano in questo campo partecipano a un corso di alfabetizzazione e a uno sui diritti umani».

Piccoli numeri che, moltiplicati per la loro capillarità, fanno la differenza in una resistenza che vede l’alfabetizzazione, come già evidenziato, tema principale. «In risposta alla chiusura degli istituti scolastici, sono sorte migliaia di piccole scuole clandestine che, sparse un po’ ovunque, vedono insegnanti mettere a disposizione la propria casa per portare avanti la formazione di piccoli numeri di ragazze. La risposta a simili iniziative è alta, perché c’è la consapevolezza che l’istruzione è alla base della società. Senza, ottenere o mantenere libertà diventa molto più difficile».

I bambini lavoratori vengono radunati, picchiati e imprigionati dai talebani

In Afghanistan oggi i più giovani e i più poveri sono intrappolati tra la fame in casa e la violenza per strada. I bambini lavoratori, già oberati dal sostentamento delle loro famiglie, rischiano l’arresto, i lavori forzati e il rischio di sparizione sotto in custodia dei talebani

Yalda Amini e Mahtab Safi, Zan Times, 2o novembre 2025

Haron aveva cinque anni quando iniziò a lavorare per le strade di Kabul. Ora che ha 11 anni, vende calzini da un cesto intrecciato e porta con sé una piccola bilancia affinché le persone possano pesarsi. Nei giorni migliori guadagna 200 afghani, appena sufficienti per sfamare la sua famiglia di sei persone, che comprende il padre paralizzato e la madre a cui non è permesso lavorare fuori casa.

Sogna di andare a scuola come gli altri bambini, ma sa che non è possibile, date le sue responsabilità nel provvedere alla famiglia. In questi giorni, la sua più grande paura non è la fame, sono i talebani. È stato arrestato sei volte dallo scorso inverno.

Haron è tra il numero crescente di bambini costretti a vivere per strada a causa della fame, che minaccia circa 23 milioni di persone in Afghanistan, tra cui 12 milioni di bambini, secondo l’UNICEF. Una volta in strada, diventano bersaglio dei talebani e della loro lunga campagna di “rastrellamento dei mendicanti”. Con oltre 800.000 bambini che si prevede saranno deportati in Afghanistan da Iran e Pakistan solo quest’anno, il numero di bambini vulnerabili che vivono per strada è in aumento, così come i pericoli che corrono.

“Rastrellare i mendicanti”

Zan Times ha parlato con alcuni di questi bambini arrestati dai talebani, che hanno raccontato le loro esperienze di arresto, lavori forzati e brutali percosse da parte delle forze talebane. Alcuni hanno trascorso fino a 15 notti in prigione. Tutti i bambini raccontano storie simili, rivelando un modello di violenza all’interno di centri di detenzione come Badam Bagh, dove bambini di appena nove anni raccontano di aver visto teste spaccate a causa delle percosse.

Haron ricorda ognuno dei suoi sei arresti. Il primo fu a Pul-e-Sorkh. “Stavo vendendo calzini quando diversi talebani mi chiamarono”, racconta. “Quando andai da loro, mi misero nella loro Ranger e mi portarono in prigione”. Trascorse 15 giorni in detenzione. I suoi genitori lo cercarono per tutta la prima notte, finché non trovarono altri bambini di strada che dissero loro che era stato rapito dai talebani.

Basandosi sulle sue esperienze e su quelle di altri mendicanti di strada, Haron racconta a Zan Times come funziona la repressione a Kabul: i bambini, sia mendicanti che lavoratori di strada, vengono portati a Badam Bagh, una prigione femminile che ora ospita anche minori. Alcuni dei bambini sono trasferiti da Badam Bagh a Qasaba. Due amici di Haron, Murtaza e Nasir, “sono ancora dispersi” dopo essere stati trasferiti a Qasaba, racconta.

La campagna per “rastrellare i mendicanti” ha ricevuto un’accelerazione nell’aprile 2024, quando il leader talebano ha approvato la legge sulla raccolta dei mendicanti e sulla prevenzione dell’accattonaggio. In base a questa legge, chiunque abbia “cibo a sufficienza per un giorno” è considerato un criminale se trovato a mendicare.

La commissione incaricata dell’attuazione della legge è guidata dal vice-ministro antidroga del Ministero dell’Interno talebano. Nell’ottobre 2024, il suo leader ha dichiarato alla radio e televisione nazionale afghana che le autorità avevano rastrellato circa 58.000 mendicanti in tutto il Paese, tra cui un gran numero di bambini. La trasmissione mostrava file di bambini spaventati, alcuni apparentemente non più grandi di cinque anni, che fissavano direttamente la telecamera.

I funzionari hanno affermato che i detenuti sono classificati come “indigenti”, “professionisti” o “in rete”, e che i loro dati biometrici sono stati raccolti e archiviati in un database. Coloro che sono sospettati di essere “professionisti” e “in rete” rischiano punizioni, affermano.

Violenze e lavori forzati

Secondo Haron e altri bambini intervistati da Zan Times, le condizioni a Badam Bagh sono dure e violente. “Ci hanno fatto pulire i muri”, racconta l’undicenne, descrivendo il lavoro forzato imposto ai bambini al loro arrivo nel centro di detenzione. I bambini che disobbediscono o “lavorano troppo lentamente”, aggiunge, vengono trasferiti a Qasaba.

Ricorda di aver sentito anche le urla delle donne. “Anche le mendicanti venivano portate lì”, racconta. “Potevamo sentire il rumore delle loro percosse”. Haron e altri due bambini detenuti raccontano di aver visto ragazzi picchiati fino a spaccarsi il cranio. “Un ragazzo è stato picchiato così forte che gli è scoppiato un occhio”, ricorda Haron. In prigione era presente un solo medico. A nessun detenuto era permesso accedere a cure mediche esterne.

Il cibo era scarso: ogni 24 ore tre persone condividevano una pagnotta di pane secco e una ciotola di lenticchie. “Nessuno di noi era sazio”, racconta.

Durante la detenzione, le forze talebane hanno preso le impronte digitali e fotografato i bambini con la forza. “Ci hanno afferrato per il colletto per i dati biometrici”, racconta Haron. “Ci hanno detto che ci avrebbero dato le tessere di aiuto, ma non ci hanno dato nulla”. Hanno anche confiscato i beni dei bambini e la paghetta. “Ci hanno preso tutto”, racconta. “Quando ci hanno rilasciato, non ci hanno restituito nulla”.

Questa inchiesta fa seguito a un precedente articolo di Zan Times su come una donna, detenuta per “accattonaggio”, abbia assistito alla morte di due bambini in custodia dei talebani. La donna ha dichiarato a Zan Times che le guardie hanno picchiato i ragazzi con dei cavi “fino alla morte”, ricordando come i detenuti fossero minacciati di percosse se avessero protestato o parlato.

La legge dei talebani sembra prevedere che i detenuti muoiano in custodia. L’articolo 25 della legge del 2024 delinea le procedure di sepoltura per chiunque muoia in detenzione senza che vi siano parenti che ne reclamino il corpo.

Costretti dalla fame all’accattonaggio

Per molte famiglie, la fame a casa non lascia altra scelta che mandare i figli in strada, anche a rischio di essere arrestati dai talebani. Esmat, un bambino lavoratore di nove anni a Kabul, ha trascorso 10 giorni a Badam Bagh. È stato rilasciato dopo che i suoi genitori hanno implorato i funzionari talebani e firmato una garanzia. “Ci hanno detto di non lavorare più per strada”, racconta. Ma né lui né i suoi genitori hanno ricevuto assistenza.

Salima deve mandare il figlio dodicenne a raccogliere la spazzatura perché non le è permesso lavorare e suo marito è scomparso 12 anni fa. “A volte mio figlio piange”, racconta allo Zan Times. “Lo picchiano. È molto difficile mandarlo fuori con un carrello a rovistare tra i rifiuti. Ma non ho altra scelta”. Nessuna agenzia umanitaria o ufficio talebano le ha offerto aiuto.

La pressione sulle famiglie sta aumentando in tutto l’Afghanistan. Secondo Save the Children, i bambini vengono deportati in Afghanistan dall’Iran al ritmo di uno ogni 30 secondi. Migliaia di questi bambini arrivano soli e molti sono nati all’estero e non hanno mai vissuto in Afghanistan. Tornano in un Paese alle prese con fame, sfollamenti interni di massa, terremoti e siccità causati dai cambiamenti climatici nel nord, che stanno distruggendo i raccolti e prosciugando le fonti d’acqua.

A Kandahar, Ali, 12 anni, racconta che la sua famiglia di 13 persone è stata rimpatriata forzatamente da Karachi sei mesi fa. Suo padre è paralizzato, il che rende Ali il principale sostentamento della famiglia. “Esco di casa alle cinque del mattino e resto fuori fino alle undici di sera”, racconta. Raccoglie lattine in un sacco. “Guadagno dai 60 ai 70 afghani al giorno. Compriamo pane secco. A volte dormiamo affamati. Il nostro affitto costa 2.500 afghani e siamo sempre indebitati”.

Quindici bambini lavoratori intervistati da Zan Times a Kabul, Kandahar e Jawzjan affermano di essere i principali fornitori di cibo per le loro famiglie.

Uno di questi è Ahmed, 11 anni, che vende sambusa per le strade di Sheberghan. Suo padre è partito per l’Iran dopo la presa del potere da parte dei talebani e da allora la sua famiglia non ha più sue notizie. Non potendo permettersi le cure mediche per una ferita alla gamba, Ahmed sopravvive per strada con 60 afghani al giorno. “Voglio crescere e andare in Iran a trovare mio padre”, dice.

Come Ahmed, Saboor, 12 anni, vive a Sherberghan. Raccoglie lattine insieme ai suoi due fratelli minori. “Ci sono troppi ragazzi che raccolgono lattine ormai”, dice. “Quando qualcuno lancia una lattina, tutti corrono”. Anche suo padre è partito per l’Iran e non è mai tornato. “Indossiamo sempre i vestiti vecchi della gente”, dice. Sogna di andare a scuola e che sua sorella malnutrita torni in salute.

L’Afghanistan è oggi un paese in cui i più giovani e i più poveri sono intrappolati tra la fame in casa e la violenza per strada. I bambini lavoratori, già oberati dal sostentamento delle loro famiglie, rischiano l’arresto, i lavori forzati e il rischio di sparizione sotto la custodia dei talebani.

Per Haron, ogni giorno porta con sé la stessa paura. Continua a vendere calzini, sperando che i Rangers non si fermino più per lui.

I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati e dell’autore. Mahtab Safi è lo pseudonimo di un giornalista dello Zan Times in Afghanistan. Sana Atef e Hura Omar hanno contribuito a questo articolo.

 

Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea

A fine ottobre la Commissione europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul

Beatrice Biliato, Altreconomia, 18 novembre 2025

L’Unione europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi.

Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi.

L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa.

Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro.

E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto.

La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan sono stati ceduti nelle loro mani.

Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani.

Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan.

Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan.

Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei.

Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’Ue”.

A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’Ue, è un Paese Schengen.

Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche ai Paesi occidentali in quanto giustificata da esigenze pragmatiche.

Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei.

A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan.

Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa Ue continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’Ue con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante Ue per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’Ue a portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani- offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli.

È quanto del resto ha ribadito il Parlamento europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee.

In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba.

La guerra segreta della CIA ai papaveri afghani, il piano costoso poi fallito

La V0ce di New York, 15 novembre 2025, di Dania Ceragioli

Per vent’anni, nei cieli dell’Afghanistan non sono caduti soltanto missili e ordigni. Fra un bombardamento e l’altro, spesso si diffondevano minuscoli semi di papavero: miliardi di granelli protettivi per indebolire il traffico di eroina. Non era una leggenda contadina, ma una delle operazioni più riservate condotte dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, un programma che, come raccontato dal The Washington Post , avrebbe dovuto trasformare il cuore dell’economia dell’oppio afghano intervenendo direttamente sulla genetica delle coltivazioni.

Dal 2004 al 2015, la CIA ha lanciato dall’alto sementi selezionate per generare piante quasi private degli alcaloidi necessari alla produzione di droga. Una strategia definita da alcune fonti del giornale americano come un tentativo “creativo e non militare” per indebolire la base finanziaria dei talebani, e allo stesso tempo tagliare alla principale fonte di “polvere bianca” destinata ai mercati europei e asiatici.

In base a quanto riportato, quattordici persone che erano a conoscenza dell’operazione, tutte rimaste rigorosamente anonime, hanno confermato che l’iniziativa fu autorizzata direttamente dall’ex presidente George W. Bush attraverso un documento classificato. Il programma prevedeva voli notturni, spesso con aerei cargo britannici, per disperdere i microscopici bambini senza essere intercettati e senza attirare l’attenzione degli agricoltori.

Le piante nate da quei semi non solo avevano un contenuto di morfina insignificante, ma erano anche progettate per germogliare prima e produrre fiori più appariscenti, così da indurre i contadini a conservarne e ripiantarne i derivati. L’obiettivo dichiarato era quello di far incrociare le nuove piantagioni con quelle locali, facendole divenire nel tempo dominanti e indebolendo il raccolto dei trafficanti.

Fonti citate dal quotidiano sostengono che in alcuni periodi, in particolare tra il 2007 e il 2011, l’ambizioso progetto sembrò funzionare: le superfici coltivate diminuivano sensibilmente, e le intercettazioni registravano la frustrazione dei produttori. Qualcuno lo definisce un raro esempio di “pensiero fuori dagli schemi” all’interno della guerra alla droga.

Il piano era talmente riservato che, perfino alti funzionari del Pentagono e del Dipartimento di Stato affermano di non esserne mai stati informati. Intanto, il costo dell’operazione lievitava: tanto che negli anni finali la CIA tentò di coinvolgere altre agenzie per coprire spese come carburante e manutenzione. Gli Stati Uniti, dal 2001, si stima abbiano speso circa 9 miliardi di dollari nel contrasto alla lotta all’eroina che uscì dalla Nazione,

La segretezza non impedì però la diffusione dei sospetti nelle campagne afghane: per anni si mormorò che “gli stranieri avrebbero adulterato i campi”, modificando fertilizzanti o spargendo sostanze sconosciute. Una versione che, alla luce dei fatti, non era così distante dalla realtà.

Il contesto, ricostruito dal Washington Post , appareva come un intrico di responsabilità sovrapposte, tensione tra le diversi organismi federali e profonde divergenze con gli alleati: alcuni spingevano per l’irrorazione di erbicidi, altri mettevano in guardia dai possibili danni alle comunità rurali e altri ancora, ritenevano invece prioritario mantenere il controllo militare delle aree sensibili.

L’intera strategia antidroga in Afghanistan, osservano vari funzionari citati, fu minata da dispute politiche, dall’instabilità del governo Karzai e da un’economia che faceva dell’oppio un pilastro quasi insostituibile. Mentre Washington combatteva per ridurre i raccolti, i talebani continuavano ad autofinanziare la loro insurrezione grazie al “gasdotto dell’eroina”.

Alla fine, il programma dei semi “sterili” non resistette ai tagli di bilancio, quando venne chiuso, nel 2015, i raccolti avevano ricominciato a crescere. Un rapporto del 2018 dell’ispettorato speciale statunitense per la ricostruzione del Paese che non era stato informato dell’operazione segreta, concluse che nessuna delle iniziative antinarcotici americane aveva provocato “riduzioni durature” della produzione di oppio.

Quando gli USA lasciano il territorio nel 2021, la sostanza rappresentava ancora fino al 14% del PIL afghano e anche il divieto imposto dai talebani nel 2022 ha solo temporaneamente fermato le coltivazioni, poi rimbalzate l’anno successivo, spostandosi verso altre regioni.

Australia: i talebani afghani potrebbero dover affrontare nuove sanzioni

Human Rights Watch, 12 novembre 2025, Comunicato stampa

I regolamenti modificati consentiranno di agire contro chi viola i diritti e promuoveranno la responsabilità

Le modifiche proposte dal governo australiano alle sue norme sulle sanzioni rappresentano un passo importante verso l’assunzione di responsabilità da parte dei funzionari talebani e di altri responsabili di gravi abusi in Afghanistan , ha affermato Human Rights Watch in una recente comunicazione al governo australiano.

Il Regolamento sulle Sanzioni Autonome modificato introduce nuovi criteri di inserimento nell’elenco specifici per l’Afghanistan e consentirà al governo australiano di imporre sanzioni mirate e divieti di viaggio a individui ed entità in Afghanistan che siano coinvolti, responsabili o complici dell’oppressione di donne, ragazze e gruppi minoritari, o dell’oppressione in generale. Permetterà inoltre di imporre sanzioni contro chiunque comprometta il buon governo e lo stato di diritto in Afghanistan.

“È fondamentale che il governo australiano intervenga contro i leader talebani responsabili della violazione dei diritti delle donne e delle ragazze e di altri gravi abusi in Afghanistan”, ha affermato Daniela Gavshon , direttrice per l’Australia di Human Rights Watch. “Le modifiche apportate alle norme sulle sanzioni consentiranno all’Australia di unirsi ad altri paesi che stanno già adottando misure per contrastare la diffusa e sistematica oppressione dei talebani”.

Da quando hanno preso il controllo del Paese nell’agosto 2021, i Talebani hanno intensificato i loro attacchi ai diritti delle donne e delle ragazze, il che equivale al crimine contro l’umanità della persecuzione di genere. Esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani e attivisti afghani per i diritti delle donne hanno descritto le violazioni sistematiche e strutturali dei Talebani contro donne e ragazze come “ apartheid di genere “.

Le autorità talebane hanno inoltre progressivamente limitato lo spazio civico, attuato una censura su larga scala e arrestato e torturato giornalisti e attivisti. Lesbiche, gay, bisessuali e transgender afghani, e le persone che non si conformano alle rigide norme di genere in Afghanistan, si trovano ad affrontare una situazione sempre più disperata e gravi minacce alla loro sicurezza e alla loro vita sotto il controllo dei talebani. Inoltre, gruppi affiliati allo Stato Islamico (ISIS) hanno effettuato attentati contro gli sciiti di etnia Hazara e altre, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

“Il governo australiano dovrebbe utilizzare sanzioni mirate come importante strumento di politica estera contro i talebani per sollecitare l’assunzione di responsabilità per i gravi abusi”, ha affermato Gavshon. “Imporre sanzioni ai leader autori di abusi è una delle numerose misure che possono aumentare il costo delle violazioni dei diritti umani in Afghanistan e altrove”.

I talebani arrestano e poi rilasciano una dottoressa durante una nuova repressione delle donne a Herat

amu.tv, 10 novembre 2025, di  Ahmad Azizi

Fonti locali hanno riferito che i talebani hanno arrestato e poi rilasciato una chirurga a Herat, nell’ambito di una nuova stretta sull’abbigliamento femminile e sull’accesso agli spazi pubblici, comprese le strutture mediche.

La dottoressa Shabnam Fazli, chirurgo generale presso l’ospedale regionale di Herat, è stata arrestata dai funzionari talebani nei pressi dell’ospedale all’inizio di questa settimana, secondo quanto riferito da alcune fonti ad Amu. Suo marito, Quddus Khatibi, ha successivamente confermato l’arresto sulla sua pagina Facebook. Nel frattempo è stata rilasciata.

L’incidente segue le nuove restrizioni imposte dai talebani, che impongono a pazienti e medici di indossare il burqa negli ospedali pubblici. Sebbene la direzione talebana per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio di Herat abbia negato di aver emanato tale direttiva, diversi testimoni oculari e il personale ospedaliero affermano che l’applicazione è già iniziata.

Fonti affermano che la situazione è degenerata quando a una donna incinta, che aveva già subito due tagli cesarei, è stato negato l’ingresso al Gozargah Maternity Hospital perché non indossava il burqa. Mentre soffriva per le doglie fuori dalla struttura, il suo utero si è rotto. La sua famiglia, disperata, l’ha trasportata in risciò in un altro ospedale, il Rezai Regional Maternity Hospital.

Quando è stata sottoposta a un intervento chirurgico d’urgenza, il suo bambino non ancora nato era morto a causa di un’emorragia interna e della mancanza di ossigeno, hanno spiegato le fonti. La donna è attualmente in coma e rimane ricoverata in terapia intensiva, hanno aggiunto le fonti.

Il caso ha suscitato indignazione tra i professionisti del settore medico e i sostenitori dei diritti delle donne, i quali affermano che le rigide norme di abbigliamento dei talebani mettono in pericolo vite umane e violano l’etica medica di base.

“Non si tratta di cultura o tradizione, ma di controllo”, ha affermato un medico di Herat che ha chiesto di rimanere anonimo per timore di ritorsioni. “Quando l’accesso all’assistenza sanitaria diventa condizionato da ciò che una donna indossa, si perdono delle vite”.

Da quando sono tornati al potere nel 2021, i Talebani hanno reintrodotto una serie di restrizioni di genere simili a quelle applicate durante il loro primo regime negli anni ’90. Alle donne è ora vietato accedere alla maggior parte dei lavori, all’istruzione secondaria e superiore e spesso sono obbligate a viaggiare con un tutore maschio. La visibilità pubblica è ulteriormente limitata dai codici di abbigliamento che impongono l’uso di indumenti che coprano il viso, come il burqa.

Le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani hanno ripetutamente chiesto ai talebani di revocare queste politiche, avvertendo che esse equivalgono a una “persecuzione di genere” e potrebbero costituire crimini secondo il diritto internazionale.

Nonostante le pressioni internazionali, i talebani continuano a sostenere che le loro politiche sono in linea con la loro interpretazione della legge islamica.

[Trad. automatica]

Islamabad accusa talebani pakistani per l’attentato, Kabul chiude il commercio

Asia News, 12 novembre 2025

Dopo le 12 persone uccise dall’esplosione al tribunale distrettuale, il governo pakistano punta il dito contro Tehrik-i Taliban Pakistan (TTP), formazione accusata di agire col sostegno di Kabul e dell’India. In risposta, l’Afghanistan ha sospeso tutti gli scambi commerciali, bloccando anche le importazioni di farmaci. Mentre un rapporto dell’ONU denuncia una situazione umanitaria sempre più grave tra profughi afghani rimpatriati in estrema povertà e il 90% delle famiglie alla fame.

Islamabad (AsiaNews) – L’Afghanistan ha annunciato che non riprenderà i commerci con il Pakistan in seguito all’attentato che si è verificato ieri a Islamabad. Anche le importazioni di farmaci sono state bloccate, hanno riferito i talebani, nonostante nel Paese la stragrande maggioranza della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà.

Il ministro dell’Interno pakistano, sebbene abbia dichiarato che le autorità stiano “esaminando tutti gli aspetti” riguardo all’esplosione, ieri ha incolpato come responsabili “elementi sostenuti dall’India e agenti dei talebani afghani”, riferendosi ai Tehrik-i Taliban Pakistan, conosciuti come TTP, principali responsabili dell’aumento degli attentati terroristici negli ultimi anni. La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nel 2021 ha infatti galvanizzato i TTP che puntano a ricreare anche in Pakistan un Emirato islamico su modello di quello afghano.

L’attacco di ieri di fronte al tribunale distrettuale di Islamabad, in cui sono morte 12 persone, ha fatto riemergere una serie di preoccupazioni nell’opinione pubblica: nonostante le diverse operazioni delle forze di sicurezza lanciate nelle aree di confine nel tentativo di eliminare i gruppi terroristici legati al TTP, questi sembrano essere in grado di organizzare attentati nella capitale, che era considerata, come diversi altri centri urbani, un territorio tutto sommato sicuro.

Il TTP ha negato il proprio coinvolgimento, mentre una fazione separatista, la Jamaat-ul-Ahrar, ne ha poi in un primo momento rivendicato la responsabilità, poi smentita dal comandante del gruppo. La Jamaat-ul-Ahrar ha un rapporto conflittuale con i TTP: si era separata come fazione indipendente nel 2014 e aveva scelto come base operativa la provincia afghana di Nangarhar, per poi tornare tra i ranghi nel 2020, ma le recenti dichiarazioni mostrano come i TTP non siano un gruppo unitario, ma un insieme di milizie che a volte perseguono azioni in maniera indipendente. Nel 2022 il leader della Jamaat-ul-Ahrar, conosciuto come Abdul Wadi, era stato ucciso in Afghanistan.

L’attentato a Islamabad, inoltre, ha fatto seguito a un assalto a una scuola militare a Wana, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, epicentro delle violenze e degli scontri tra esercito pakistano e talebani. Secondo le autorità i combattenti che hanno preso d’assalto l’istituto (dove centinaia di studenti sono stati evacuati) volevano replicare gli attentati contro le scuole di Peshawar del 2014.

Nel frattempo, il mullah Baradar Akhund, vice ministro per gli Affari economici, ha dichiarato: “Per salvaguardare la dignità nazionale, gli interessi economici e i diritti dei nostri cittadini, i commercianti afghani dovrebbero ridurre al minimo i loro scambi commerciali con il Pakistan e cercare vie di transito alternative. Se, a partire da oggi, un commerciante dovesse incontrare problemi in Pakistan, il governo afghano non ascolterà le sue rimostranze né si occuperà delle sue questioni”. Nel corso della stessa conferenza stampa, il ministro dell’Industria e del Commercio, Nooruddin Azizi, ha rivelato che la chiusura del valico di Torkham, durata un mese, è costata ai commercianti afghani circa 200 milioni di dollari.

Le tensioni tra Pakistan e Afghanistan erano sfociate in un conflitto il mese scorso, a inizio ottobre, quando Islamabad ha lanciato una serie di attacchi, compreso il lancio di una serie di droni contro la capitale, Kabul. Sono poi scoppiati scontri transfrontalieri, a cui la mediazione del Qatar ha messo fine il 19 ottobre, ma una soluzione definitiva non è stata ancora trovata tra i due Paesi, e secondo gli esperti una de-escalation non sembra essere in vista.

Nel frattempo, però, le condizioni di vita della popolazione continuano a essere drammatiche: negli ultimi anni il Pakistan, per fare pressioni ai talebani affinché mettessero fine agli attentati dei TTP (una questione su cui Kabul dice di non avere potere) ha espulso milioni di profughi afghani che avevano trovato rifugio in Pakistan, in particolare dopo il 2021. Circa 4,5 milioni di persone sono rientrate a partire da settembre 2023.

Secondo un rapporto pubblicato oggi dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (UNDP), crisi sovrapposte (povertà cronica, rimpatri involontari su vasta scala, gli shock climatici e catastrofi naturali, il calo degli aiuti e l’esclusione delle donne dalla vita pubblica imposta dai talebani) hanno creato una “tempesta perfetta” che sta aggravando la povertà in tutto l’Afghanistan, al punto che 9 famiglie su 10 soffrono la fame. Più della metà delle famiglie che sono rientrate in Afghanistan rinuncia alle cure mediche per permettersi il cibo, mentre oltre il 90% ha contratto debiti per far fronte alla situazione. I debiti vanno dai 373 a 900 dollari, mentre uno stipendio medio in Afghanistan si attesta sui 100 dollari al mese. La disoccupazione è stimata tra l’80% e il 95% tra le famiglie rimpatriate, di cui una su quattro è guidata da donne, mentre circa il 30% dei bambini è costretto a lavorare. Il 75% delle famiglie rientrate risiede in aree rurali, dove i costi degli affitti sono aumentati dal 100% al 300% in alcune regioni.

Burqa o gabbia: le donne di Herat si ribellano al velo obbligatorio dei talebani

8am.media, 9 novembre 2025, di Amin Kawa

I talebani hanno intensificato la pressione sulle donne di Herat affinché impongano l’obbligo dell’hijab imposto dal gruppo. Alle donne che non indossano il burqa è stato impedito di entrare nelle istituzioni governative controllate dai talebani, compresi gli ospedali, e a coloro che si recano per prendersi cura di loro non è consentito l’ingresso. Allo stesso tempo, le insegnanti che insegnano alle bambine sotto la sesta elementare hanno ricevuto l’istruzione che se non indossano il burqa saranno considerate assenti e nessuno ha il diritto di sfidare questo ordine talebano. I talebani hanno persino costretto le studentesse delle scuole religiose sotto il loro controllo, che, secondo il gruppo, osservano già l’hijab completo e ricevono istruzione religiosa, a indossare il burqa. In risposta a queste restrizioni, diverse donne di Herat hanno protestato, bruciando il burqa come simbolo di coercizione e di gabbia, dichiarando che non si sottometteranno mai all’umiliazione e al silenzio.

Dopo aver imposto divieti su larga scala, i talebani hanno costretto donne e ragazze di Herat a indossare il burqa e il chador. Negli ultimi giorni, alle donne senza chadari è stato impedito di entrare nelle istituzioni governative controllate dai talebani, compresi gli ospedali, e nelle scuole religiose sono state costrette a osservare l’abbigliamento completo richiesto dal gruppo. Donne e ragazze affermano di non poter vivere in una “gabbia” e sottolineano di osservare già l’hijab completo richiesto dai talebani e di non poter sopportare una situazione ancora peggiore.

Nel frattempo, fonti affermano che negli ultimi giorni, alle donne e alle ragazze che si recano in ospedale viene negato l’ingresso perché non indossano il burqa. Secondo le fonti, la maggior parte di queste donne è malata e, nonostante le gravi condizioni fisiche, è costretta ad aspettare dietro le porte.

Una fonte racconta: “Sono andata in diversi uffici per sbrigare alcuni documenti. All’ospedale provinciale, donne e bambini malati venivano lasciati fuori dalla porta e la situazione era estremamente angosciante. A nessuno era permesso entrare. Una visitatrice, proveniente da un distretto remoto, teneva in braccio il suo bambino malato e non sapeva cosa fare. Ha chiesto preoccupata: quanto costa ora un burqa e dove possiamo procurarcene uno?”

Le fonti sottolineano inoltre che i presidi delle scuole femminili inferiori alla sesta elementare e delle scuole religiose femminili hanno ricevuto l’ordine di informare gli insegnanti che a nessuno è permesso entrare nella scuola senza indossare il burqa e che se violano questo ordine, saranno rimossi dal loro incarico.

Allo stesso tempo, un’insegnante di una scuola privata di Herat afferma di aver ricevuto una lettera ufficiale che impone loro di indossare il chadari. Secondo lei, nella Direzione Passaporti sotto il controllo dei talebani, alle donne che non indossano il burqa non verrà rilasciato il passaporto.

Alcune insegnanti di Herat hanno dichiarato di aver resistito ieri all’ordine dei talebani e di essersi rifiutate di indossare il burqa. Secondo loro, anche i presidi scolastici hanno appoggiato questa decisione delle insegnanti. Tuttavia, nella scuola religiosa “Ghiasia”, alle donne e alle ragazze senza burqa non è stato permesso l’ingresso.

Fonti affermano che giovedì della scorsa settimana e sabato di questa settimana, un gruppo di donne e ragazze ha protestato all’interno della scuola “Ghiasia” e ne ha chiuso il cancello. Secondo loro, circa 200-300 studentesse, che indossavano scialli da preghiera, aspettavano dietro l’ingresso, ma non sono state autorizzate a entrare. Poi, a causa del raduno delle ragazze, il vicolo della scuola è stato bloccato e hanno iniziato a gridare “Morte ai talebani”.

Una fonte aggiunge: “Oggi ho visto una delle preside ricevere una telefonata in cui le veniva detto: Domani, segnate come assente qualsiasi insegnante che si presenti senza burqa. Il suo viso è impallidito. Non indosserò il chadari-burqa e non andrò a scuola. Un mese dopo sarò licenziata, ma poi cosa dovrei fare? Come pagherò le mie spese di sostentamento? Indicatemi una strada – a me e ad altre donne come me – e la seguirò. Mezz’ora fa, la nostra scuola ci ha contattato e ci ha detto: Non incoraggiate le insegnanti a non indossare il chadari. Vedete, loro sanno esattamente chi chiamare e cosa dire. Naturalmente, da domani, anche nella nostra scuola, il chadari è stato dichiarato l’abbigliamento ufficiale”.

Reazione delle donne e delle ragazze che protestano

A seguito dell’intensificarsi delle pressioni dei talebani affinché indossassero il burqa, una donna di Herat, in risposta a questo ordine, ne ha dato fuoco a un burqa e ha dichiarato: “Sono una donna, non un’ombra. Non mettete a tacere la mia voce. Respirare è un nostro diritto. Il blu non è il colore della coercizione. Siamo ancora qui, ad aspettare il sole dietro questo telo. Dentro questo blu c’è una donna che sogna ancora. Portate il mio chadar al vento e restituitemi la mia voce. Sono una donna. Ho il diritto di respirare, il diritto di vedere e di non coprirmi lo sguardo”.

Anche le membri del Movimento per la Solidarietà e l’Unità delle Donne Afghane di Herat hanno bruciato il burqa imposto dai talebani in un atto simbolico e hanno danzato in segno di protesta contro l’obbligo di indossarlo. Il movimento ha annunciato in una dichiarazione: “Le donne afghane non si arrenderanno mai alla coercizione e all’umiliazione”.

Hoda Khamoosh, una delle donne che hanno protestato in risposta al nuovo ordine dei talebani a Herat, afferma che i talebani temono le voci e i pensieri delle donne e che negli ultimi quattro anni hanno agito duramente contro di loro.

Fariha Jaberi, membro dell’Afghanistan Women’s Justice Movement, commentando l’imposizione del burqa a Herat, afferma: “L’hijab, se scelto con il cuore, è dignità; ma se imposto per paura e coercizione, è una catena. Una catena alle mani e ai piedi di donne che vogliono solo essere umane”. Aggiunge che i talebani vogliono una società con una sola voce e un solo genere, ma “le donne non saranno messe a tacere”.

Bahar Khamoosh, una delle donne che hanno protestato in risposta all’ordine dei talebani di imporre il burqa a Herat, ha affermato che imporre l’hijab obbligatorio non significa solo coprire il volto, ma anche mettere a tacere metà della società. Ha aggiunto che con questo decreto i talebani non stanno difendendo la fede, ma si stanno nascondendo dietro la propria paura. Si nascondono sotto il burqa per nascondere il loro vero volto e vogliono soffocare le voci delle donne.

I Talebani, nella loro Legge per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, hanno definito il concetto di “hijab della Sharia” secondo la loro interpretazione. Secondo la Clausola 10 dell’Articolo 3 di questa legge, “l’hijab della Sharia si riferisce a un indumento che copre l’intero corpo e il viso di una donna, escluso l’uomo non mahram, e che non è sottile, corto o stretto”.

L’articolo 13 della Legge talebana per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio rende obbligatorio coprire tutte le parti del corpo di una donna. In questo articolo, ascoltare la voce delle donne attraverso altoparlanti, canti e recitazioni è descritto come “awrah”. L’articolo afferma: “Coprire l’intero corpo di una donna è obbligatorio. Nascondere il viso di una donna per paura della tentazione è necessario. Le voci femminili (cantare a voce alta, canti e recitazioni) in generale sono awrah. Gli abiti femminili non devono essere sottili, corti o attillati. Le donne musulmane sono obbligate a nascondere il proprio corpo e il proprio viso agli uomini non mahram”.

Nella clausola 6 dell’articolo 13, coprire il viso e il corpo di una donna è descritto come “obbligatorio”. La clausola afferma: “È obbligatorio coprire [i corpi] delle donne musulmane e delle donne giuste da quelle non credenti e immorali per paura della tentazione”.

Nel frattempo, Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani, in un recente rapporto intitolato “Accesso alla giustizia e al sostegno per donne e ragazze e l’impatto di molteplici e intersecanti forme di discriminazione”, ha affermato che dal 2021 i Talebani hanno sistematicamente privato donne e ragazze di diritti fondamentali come l’istruzione, il lavoro, la libertà di movimento e la tutela giudiziaria, e hanno smantellato le precedenti istituzioni legali e di supporto. Secondo questo rapporto, sotto il controllo dei Talebani, il sistema giudiziario e legale dell’Afghanistan è diventato uno strumento di repressione, discriminazione di genere e violenza contro donne, ragazze e minoranze sessuali, e le donne si trovano ad affrontare ampie barriere economiche, sociali, culturali e linguistiche.

Inoltre, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto per Hibatullah Akhundzada, il leader supremo dei talebani, e Abdul Hakim Haqqani, il capo della Corte suprema del regime, con l’accusa di “aver commesso crimini contro l’umanità”.

[Trad. automatica]

Influencer occidentali banalizzano la brutale realtà dell’Afghanistan

blue News, 10 novembre 2025, di Lea Oetiker

Sempre più influencer occidentali si recano in Afghanistan e nei loro video mostrano il lato ospitale del Paese. Gli osservatori criticano il fatto che il regime repressivo dei talebani venga ignorato.

Bevono tè con i talebani, sorridono alla macchina fotografica per foto e video, nuotano in laghi blu turchese o addirittura hanno appuntamenti con i combattenti della milizia.

Sempre più influencer – tra cui molte giovani donne – si recano in Afghanistan. I loro filmati ottengono centinaia di migliaia, a volte addirittura milioni, di visualizzazioni.

Anche il travel influencer Harry Jaggard ha visitato l’Afghanistan. Nei suoi video, descrive il Paese come il suo numero uno e sottolinea l’eccezionale cordialità della gente. I suoi contributi sono accolti con grande incoraggiamento e reazioni entusiaste nei commenti.

Da quando, quattro anni fa, i militanti islamisti talebani hanno ripreso il potere a Kabul, un numero impressionante di influencer dei Paesi occidentali è stato attirato in Afghanistan.

C’è anche un calcolo dietro questo fenomeno: mentre i giornalisti e gli osservatori dei diritti umani sono raramente ammessi nel Paese, gli influencer diffondono immagini che banalizzano, o addirittura normalizzano, il regime.

«Il turismo porta molti benefici a un Paese»
«Gli afghani sono calorosi e ospitali e non vedono l’ora di accogliere turisti di altri Paesi e interagire con loro», ha dichiarato il viceministro del turismo Quadratullah Jamal in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Associated Press (AP) all’inizio di giugno.

«Il turismo porta molti benefici a un Paese. Li abbiamo considerati e vogliamo che il nostro Paese li sfrutti appieno».

Il turismo è un’importante fonte di reddito per molti Paesi. In Afghanistan però l’isolamento internazionale, dovuto principalmente alle rigide restrizioni imposte dai talebani sulle donne, ha portato gran parte dei 41 milioni di abitanti a vivere in povertà.

Dato che è difficile attrarre investitori stranieri, il Governo riconosce comunque chiaramente il grande potenziale economico del turismo.

9.000 turisti nel 2024
«Attualmente stiamo generando entrate significative da questo settore e speriamo che continui a crescere in futuro», ha dichiarato Jamal. Che ha inoltre sottolineato che la spesa dei visitatori raggiunge più fasce della popolazione rispetto alle entrate provenienti da altri settori.

Sebbene il numero di visitatori sia ancora basso, è in aumento. L’anno scorso quasi 9.000 turisti stranieri hanno visitato l’Afghanistan, mentre nei primi tre mesi di quest’anno sono stati quasi 3.000, ha detto Jamal.

In Afghanistan esistono anche regole chiare per i turisti. Ad esempio è vietato avvicinare o filmare le donne. Molti utenti esprimono anche critiche nei video postati dai viaggiatori e dagli influencer sui social network, soprattutto in considerazione del fatto che il governo del Paese continua a discriminare massicciamente metà della popolazione.

Le donne sono ancora oppresse
Da quando i talebani hanno preso il potere, molti diritti fondamentali delle donne sono stati drasticamente limitati o completamente vietati. Le donne sono in gran parte bandite dalla vita pubblica e la loro libertà di movimento è fortemente ridotta.

Dall’introduzione della legge sulla virtù, avvenuta al più tardi nel 2024, sono in vigore codici di abbigliamento restrittivi e le donne possono uscire di casa solo completamente velate e accompagnate da un uomo.

Inoltre, non possono più andare a scuola a partire dalla sesta classe. Anche i saloni di bellezza sono stati chiusi. Studiare? Vietato. Lavorare? Quasi impossibile.

Non possono praticare sport, guidare, cantare o parlare ad alta voce in pubblico. La legge vieta anche agli autisti dei mezzi pubblici di trasportare le donne senza una scorta maschile.

Alla fine di dicembre 2024, i talebani hanno preso un’altra decisione controversa: un nuovo decreto vieta l’installazione di finestre negli edifici residenziali attraverso le quali si possano vedere le aree utilizzate dalle donne.

In futuro, i nuovi edifici non potranno più avere aperture che consentano di vedere cortili, cucine, pozzi dei vicini o altri luoghi solitamente frequentati dalle donne.

Regole anche per gli uomini
Le regole valgono anche per gli uomini: ad esempio, secondo la legge della virtù, devono indossare pantaloni al ginocchio e barba. Sono vietate le relazioni omosessuali, l’adulterio e il gioco d’azzardo, così come la produzione e la visione di video o immagini che ritraggono esseri viventi. Anche le preghiere mancate e la disobbedienza ai genitori possono essere punite.

Chiunque violi queste rigide regole deve aspettarsi avvertimenti, multe, carcere o altre sanzioni. Persino la morte.

Inoltre, i talebani hanno bloccato o severamente limitato l’accesso a internet in Afghanistan in diverse occasioni, tra cui nel settembre e nell’ottobre 2025. La ragione ufficiale addotta per l’interruzione è stata quella di impedire contenuti immorali.

Il DFAE sconsiglia di recarsi in Afghanistan
«I viaggi in Afghanistan e i soggiorni di qualsiasi tipo nel Paese sono sconsigliati a causa degli elevati rischi per la sicurezza», scrive una portavoce del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) su richiesta di blue News. La valutazione della situazione sarà riesaminata costantemente e, se necessario, modificata.

«I viaggiatori decidono la pianificazione e l’esecuzione di un viaggio sotto la propria responsabilità», prosegue. «Devono essere consapevoli che la Svizzera ha solo possibilità molto limitate – e a seconda della situazione, nessuna – di fornire assistenza nelle aree di crisi o di sostenere la loro partenza», ha dichiarato il portavoce a blue News.

Secondo gli attuali consigli di viaggio del DFAE, «la situazione rimane fragile e instabile. Combattimenti e attacchi possono avvenire ovunque e in qualsiasi momento. In tutto il Paese vi sono elevati rischi per la sicurezza: attacchi missilistici, attacchi terroristici, rapimenti e attacchi criminali violenti, tra cui stupri e rapine a mano armata».

Secondo le informazioni, i cittadini stranieri sono sempre più nel mirino delle autorità. Gli arresti avvengono sempre più spesso per sospette violazioni della legge o per non aver rispettato le tradizioni locali.

«In caso di rapimento, le autorità locali sono responsabili; il DFAE e le sue ambasciate e consolati all’estero hanno un’influenza limitata», ha dichiarato il portavoce.

«Alcune cose non mi sembravano moralmente giuste»
Perché le persone vogliono ancora recarsi in Afghanistan? Molti riferiscono di voler semplicemente vedere il Paese di persona.

Una turista ha raccontato all’AP che lei e il suo compagno hanno passato circa un anno a pensare di attraversare l’Afghanistan come parte di un viaggio in camper dal Regno Unito al Giappone. «Alcune cose non mi sembravano moralmente giuste», ha detto.

Ma una volta qui, hanno riferito di un popolo caldo, ospitale e accogliente e di paesaggi bellissimi. Non hanno avuto l’impressione che la loro presenza rappresentasse una forma di sostegno ai talebani. «Viaggiando si mettono i soldi nelle mani della gente e non del Governo», ha detto il turista.

La tiktoker che ha avuto un appuntamento con un talebano ha anche detto a «Der Spiegel» che con i suoi video voleva soprattutto mostrare i lati belli dell’Afghanistan, perché il Paese è troppo spesso associato alla violenza e ad altri aspetti negativi.

Gli influencer sono accecati dai talebani
Questo «turismo delle catastrofi non solo distorce sistematicamente la realtà sul campo, ma si prende anche gioco delle persone che devono vivere sotto un regime brutale», ha dichiarato a «Der Spiegel» la scrittrice tedesco-afghana Mina Jawad.

Gli influencer che viaggiano nel Paese non parlano la lingua locale e hanno poca idea dei costumi, delle tradizioni e del carattere del regime talebano. Questo permette ai talebani di elogiarsi come protettori delle donne.

Alcuni influencer si lasciano accecare dall’apparenza ingannevole e dipingono un quadro che fa comodo solo a chi è al potere: l’Afghanistan sembra essere un Paese tradizionalista, ma sicuro.

«Si tratta di travisamenti grotteschi, ma è proprio così che funziona la logica dei social media», dice Jawad. Molti di questi video le ricordano i diari di viaggio coloniali in cui i visitatori occidentali esplorano il «selvaggio Afghanistan».

Sotto i talebani il turismo è promosso da influencer occidentali


Aumentano i viaggiatori che scelgono l’Afghanistan, spinti dal fascino dell’esotico e dai racconti degli influencer. Ma ogni scatto condiviso rischia di oscurare la verità di un paese dove alle donne è negato tutto

Lucia Bellinello, Wired, 8 novembre 2025

Paesaggi mozzafiato. Cime coperte di neve e una natura incontaminata. Non siamo in Svizzera, ma tra le montagne dell’Afghanistan. Uno dei paesi meno liberi al mondo, dove il governo dei talebani ha abolito tutti i diritti politici e civili, introducendo di fatto l’apartheid di genere per le donne.

Cosa ci fanno degli influencer occidentali in Afghanistan?

Nonostante le gravi violazioni che hanno portato il governo dei talebani a non essere riconosciuto da nessuna nazione al mondo, ad eccezione della Russia, si sta registrando un curioso aumento degli influencer occidentali che visitano il paese. E che raccontano sui social una realtà edulcorata, fatta di paesaggi pittoreschi ed “esperienze culturali autentiche”, senza però menzionare le barbare condizioni di vita alle quali sono costrette le donne.

In alcuni casi, dietro a questi contenuti che diventano virali ci sarebbe la mano del governo locale, che sta cercando di attrarre turismo, denaro e legittimazione internazionale proprio grazie alla potenza del web. Una pratica che in parte ricorda quella del tourismwashing adottata da Israele, che di recente ha portato dieci influencer a Gaza per diffondere propaganda proprio da quei luoghi dove la stampa internazionale da quasi due anni non può più entrare.

Il turismo (e il tourismwashing) in aumento

Sebbene il numero di visitatori in Afghanistan sia ancora limitato, le cifre sono in aumento. Secondo le dichiarazioni del viceministro del Turismo Qudratullah Jamal, nel 2024 i visitatori stranieri sono stati quasi 9mila; circa 3mila nei primi tre mesi del 2025. Per fare un confronto, nel 2022 erano stati 2.300.

La guerra in Afghanistan lanciata dagli Stati Uniti nel 2001 dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle ha tenuto i turisti alla larga per molti anni. Il ritiro delle truppe americane e la salita al potere dei talebani, nell’agosto del 2021, hanno spinto il paese nel caos e migliaia di afghani alla fuga. Ma con la fine dell’insurrezione, lo spargimento di sangue si è in parte placato. E anche se i paesi occidentali continuano a sconsigliare i viaggi nell’Emirato islamico, c’è chi si avventura lo stesso. I turisti stranieri arrivano in aereo, in moto, in camper e persino in bicicletta. Arrivano da soli o accompagnati. E il governo talebano è molto felice di accoglierli.

“Attualmente ricaviamo un fatturato considerevole da questo settore e speriamo che cresca ulteriormente”, ha detto il vice ministro del turismo Qudratullah Jamal.

“Il 95% dei turisti ha un’opinione negativa dell’Afghanistan a causa delle informazioni errate diffuse dai media”, ha dichiarato Khobaib Ghofran, portavoce del ministero dell’Informazione e della Cultura di Kabul. E così si cerca di invertire questa tendenza.

Il governo talebano infatti promuove il turismo sui propri siti ufficiali e sui social network. E le agenzie turistiche locali (circa tremila) hanno lanciato campagne promozionali per farsi conoscere all’estero, talvolta con pubblicità di dubbio gusto.

Un video che calpesta la dignità di chi ha vissuto la violenza talebana

Ad esempio, ha fatto scalpore un video in cui si vedono tre uomini inginocchiati e con la testa coperta. Dietro di loro c’è un plotone di esecuzione con i fucili in mano. “Abbiamo un messaggio per l’America”, dice uno degli uomini in piedi, togliendo il sacco nero dalla testa di uno degli ostaggi. Da sotto il sacco spunta il sorriso sornione di un ragazzo occidentale, che dice, ridendo: “Welcome to Afghanistan”. L’agghiacciante spot pubblicitario è stato girato da un operatore turistico afghano-americano, Yosaf Aryubi, che vive tra la California e la capitale afghana Kabul. Con quel video, ha detto, voleva prendere in giro il modo in cui la maggior parte degli occidentali vede l’Afghanistan.

Di recente, poi, un influencer di viaggi britannico ha sollevato un polverone per aver incoraggiato altri viaggiatori a partecipare a un tour per soli uomini in Afghanistan, dove secondo lui si mangiano i migliori kebab del mondo e ci sono montagne maestose che fanno impallidire le Alpi svizzere. Nella caption di un video pubblicato sul suo profilo Instagram, seguito da 150mila persone, l’influencer ha scritto: “Dimentica Ibiza o Marbella, perché non vai in Afghanistan con gli amici quest’estate?”.

Per attrarre i turisti e dare l’impressione di stabilità, infatti, i talebani si affidano anche a youtuber e influencer, molti dei quali parlano di un paese sicuro, pittoresco e accogliente. Nella vita reale, però, la situazione è molto più complessa. Soprattutto per le donne.

La condizione delle donne in Afghanistan

L’Afghanistan è un paese che ha completamente escluso le donne dalla vita pubblica, vietando loro di frequentare scuole, università e spazi pubblici. Non possono lavorare in moltissimi settori e sono costrette a uscire di casa con il capo coperto e solo se accompagnate da un uomo. Con la chiusura delle palestre femminili e dei saloni di bellezza, gli spazi dove le donne possono incontrarsi al di fuori della propria casa sono sempre più limitati. Ma proprio per lanciare un segnale di apertura verso i visitatori stranieri, l’unico hotel a cinque stelle del paese, il Serena, dopo mesi di chiusura ha riaperto la spa e il salone femminile per le donne straniere. Per accedere ai servizi, le clienti devono mostrare il passaporto. Le locali invece non possono entrare.

“Le Nazioni Unite hanno definito l’Afghanistan sotto i talebani come un paese dove vige l’apartheid di genere”, ha detto Elaine Pearson, direttrice Asia di Human Rights Watch. E la corte penale internazionale ha addirittura emesso dei mandati di arresto contro due leader talebani per la persecuzione delle donne e delle ragazze.

L’isolamento dell’Afghanistan sulla scena internazionale, dovuto in larga parte alle gravi violazioni dei diritti umani, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita delle persone. Secondo Human Rights Watch, su una popolazione di 40 milioni di abitanti, più della metà nel 2024 ha avuto bisogno di assistenza umanitaria urgente; 12,4 milioni di persone sono affette da carenza alimentare e quasi tre milioni soffrono la fame in maniera grave.

La perdita del sostegno internazionale ha colpito duramente anche il sistema sanitario e molti programmi umanitari sono stati chiusi per mancanza di fondi. Inoltre, un rapporto del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite segnala la presenza di gruppi terroristici, considerati un potenziale fattore di instabilità nella regione.

La Farnesina sconsiglia i viaggi in Afghanistan a qualsiasi titolo e avverte che il rischio attentati in tutto il paese resta elevato.

Il punto di vista delle viaggiatrici occidentali

Tra gli influencer che negli ultimi anni hanno avuto la possibilità di visitare questa terra ci sono anche delle donne. Come Zoe Stephen, una travel vlogger britannica con migliaia di follower su Instagram, che sotto ai suoi post scrive: “La sicurezza è relativa. Può essere molto più sicuro viaggiare in Afghanistan che viaggiare in alcune capitali europee. Naturalmente, ci sono problemi e rischi specifici di cui bisogna tener conto”. E aggiunge: “Ogni volta che visito l’Afghanistan mi rendo sempre più conto di quanto i media siano polarizzati su questo paese, che non è solo la somma della sua politica. Non è che qui sia davvero così folle o pericoloso, ma è che la normalità e la quotidianità non fanno notizia”.

L’attivista e studiosa afghana Orzala Nemat, ricercatrice ospite presso il think tank londinese Royal United Services Institute (Rusi), ha definito preoccupante l’ondata di influencer stranieri in Afghanistan. “Quello che vediamo è una versione edulcorata e censurata del paese, che cancella la brutale realtà a cui sono costrette le donne sotto il regime talebano”, ha detto.

“In un momento in cui le ragazze e le donne afghane sono private dei loro diritti più elementari, è profondamente preoccupante e inaccettabile vedere qualcuno che si reca in Afghanistan e fa lobby a favore dei talebani”, ha affermato Niloofar Naeimi, attivista per i diritti umani che si occupa delle questioni relative alle donne afghane.

Di opinione contraria invece la turista franco-peruviana Ilary Gomez, che con il suo compagno britannico ha visitato l’Afghanistan in camper. “Alcune cose non mi sono sembrate moralmente giuste”, ha detto. Ma ha aggiunto di non credere che la loro presenza abbia rappresentato una forma di sostegno ai talebani. “Viaggiando si mettono i soldi nelle mani delle persone, non del governo”, ha argomentato Gomez.

Chi sono i turisti che visitano l’Afghanistan

Secondo quanto riferito dai funzionari locali, i visitatori stranieri provengono perlopiù da Cina, Russia, Irlanda, Polonia, Canada, Taiwan, Germania, Francia, Pakistan, Estonia e Svezia.

Molti si avventurano nel distretto di Bamiyan, a ovest di Kabul, per vedere i resti delle statue del Buddha, scolpite nelle rocce più di 1.600 anni fa e demolite all’inizio del 2001 dai talebani per motivi ideologici. La maggior parte delle visite avviene senza particolari problemi, ma in questo luogo nella primavera 2024 tre turisti spagnoli sono stati uccisi nel primo attacco mortale contro turisti stranieri da quando i talebani hanno ripreso il potere.

Un altro argomento sensibile è la distruzione dei reperti archeologici e delle opere d’arte antiche compiuta dai talebani all’inizio del 2001 nel museo nazionale dell’Afghanistan, a Kabul, uno dei luoghi più visitati dai turisti.

Un dilemma morale e la questione sicurezza

Il problema, dunque, non è mostrare le bellezze dell’Afghanistan, la sua storia millenaria o l’accoglienza della gente. Il vero problema, dicono gli esperti, è quello che non viene raccontato, ovvero la difficile quotidianità alla quale sono costrette le persone che vivono sotto un regime autoritario che impone l’apartheid di genere, reprime ogni forma di dissenso e limita diritti civili, politici e giuridici.

“Non è che si vogliano incolpare solo gli influencer. Il problema è la comunicazione superficiale fatta sui social”, ha commentato a Wired Eleonora Sacco, esperta di viaggi, fondatrice di Kukushka Tours, un operatore turistico specializzato in viaggi responsabili. “Gli influencer ovviamente hanno bisogno di fare visualizzazioni e contenuti accattivanti; dall’altro lato c’è un pubblico grandissimo che intercetta quei messaggi senza conoscere il contesto del paese. Di per sé magari non si tratta sempre di contenuti falsi o inesatti, ma se letti senza contesto portano a dei messaggi fuorvianti. Ciò non vuol dire che non si possa viaggiare in maniera sicura, o che non esistano zone relativamente sicure in paesi come l’Afghanistan o l’Iraq. Si può viaggiare in maniera sicura se sei nelle mani giuste, se sai dove stai andando, se hai buoni contatti, se conosci il contesto. Bisogna sempre tenere un comportamento e un abbigliamento adeguati, bisogna avere rispetto e comprensione delle usanze locali. Tutte cose che non si riescono a comunicare in un reel di venti secondi su Instagram”.

Se da un lato non è corretto accusare tutti coloro che visitano l’Afghanistan di simpatizzare con i talebani, bisogna ricordare che ogni immagine, ogni reel, ogni post contribuisce a costruire o distorcere la percezione di un luogo. E che non si è esenti dal rischio di contribuire, anche inconsapevolmente, a una campagna di propaganda per ripulire l’immagine di un paese dove le libertà e i diritti vengono gravemente calpestati ogni giorno. La domanda, allora, non è più soltanto “dove andiamo”, ma “che storia scegliamo di raccontare”. Perché viaggiare non è solo un privilegio, ma è un’azione che ha un impatto. Può generare conoscenza reciproca, empatia, solidarietà. Può portare benefici economici alle comunità o, al contrario, alimentare pratiche dannose che snaturano luoghi e tradizioni e, in alcuni casi, finanziare chi abusa del potere.

La differenza sta nel compiere scelte etiche e consapevoli, domandandosi sempre chi trae beneficio dalla nostra partenza.