L’impunità incoraggia solo i gruppi armati a continuare le loro violenze contro la popolazione civile.
Quando viene data una scelta tra sicurezza e libertà, le persone scelgono sempre la sicurezza. Questo è il motivo per cui così tanti dittatori e demagoghi sopravvivono creando un falso senso di minaccia e si presentano poi come salvatori.
La stessa logica si applica quando alle persone viene data una scelta tra sicurezza e giustizia. Sceglierebbero la sicurezza alla giustizia. Nel caso dell’Afghanistan, negli ultimi decenni questo ha alimentato un ciclo vizioso di violenza.
Il risveglio sociale in Kurdistan e il suo appello per un mondo di giustizia sociale affascinano le persone di tutto il mondo che desiderano una democrazia radicale, la liberazione della donna e l’ecologia. Tuttavia, questa culla della speranza continua ad essere esposta ad attacchi: che si tratti della guerra di aggressione e occupazione della Turchia in Rojava / Siria settentrionale, la guerra contro il popolo del Kurdistan settentrionale e la guerra spietata contro l’opposizione democratica in Turchia da parte del regime dell’AKP, così come l’operazione militare in corso nel Kurdistan meridionale / Iraq settentrionale. Questa politica è tacitamente sostenuta dal governo tedesco e dall’Unione Europea.
Dopo otto giorni dall’avvio dei colloqui inter afghani e cinque di contatti di lavoro le delegazioni governativa di Kabul e talebana hanno deciso di ridurre a venti gli articoli su cui stipulare un concordato. Inizialmente erano ventitré, ma sul nome dato al conflitto, sul sistema religioso scelto per le negoziazioni e sull’inclusione del precedente accordo firmato da Stati Uniti e turbanti, quale premessa per questo successivo patteggiamento, non c’è concordanza fra le parti.
Le tre questioni restano in sospeso e potrebbero costituire un ostacolo insormontabile qualora non si arrivasse a compromessi. Non è comunque detta l’ultima parola perché i due fronti si mostrano collaborativi. Certo, i taliban non vogliono rinunciare al termine “jihad” usato per indicare la lotta che li ha visti finora combattere contro la Nato e l’esercito afghano da lei sostenuto. I governativi parlano di “guerra” e chi cerca di superare la contrapposizione ha proposto il termine “problema”.
Selay Ghaffar nasce il 5 Ottobre del 1983 nella provincia di Farah, nell’Afghanistan Occidentale. Rivoluzionaria e combattente, Selay Ghaffar ha ereditato la sua forza, la sua tenacia e il suo spirito di ribellione dalla sua famiglia, quella stessa famiglia che fuggì dall’Afghanistan verso l’Iran e, successivamente verso il Pakistan, quando lei aveva appena tre mesi di vita. Una fuga dettata dall’esigenza di liberarsi da un sistema fatto di violenza e discriminazione, nonché dal desiderio di assicurarsi un futuro diverso.
RAWA, insieme alle compagne italiane, promettono di continuare a sostenere le cause per le quali s’impegnava.
La mattina del 7 agosto 2020 siamo rimaste sconvolte dalla notizia della morte di Cristina Cattafesta, amata amica e sorella di RAWA. Porgiamo le nostre condoglianze a Edoardo Bai, il suo compagno, a sua madre, alle sue sorelle e alle compagne del CISDA per la terribile perdita di questa donna magnifica.
Cristina era un’attivista italiana che sosteneva le nostre posizioni e battaglie sin dal suo primo incontro con delle attiviste di RAWA a un evento in occasione dell’8 marzo 2000; da allora non ha mai smesso di sostenere RAWA e altre forze rivoluzionarie e democratiche in Afghanistan. È stata diverse volte in Afghanistan e Pakistan durante il periodo medievale dei talebani, e ha poi iniziato a organizzare ogni anno delegazioni in Afghanistan per sensibilizzare le organizzazioni, i media e gli intellettuali italiani sul lavoro e la lotta delle forze rivoluzionarie afghane.
Afghanistan. All’ombra degli Usa, difficile sapere se l’esito andrà a beneficio della popolazione
È una sfida enorme, un passaggio storico e complicato quello che si è aperto ufficialmente ieri allo Sheraton hotel di Doha, in Qatar, dove i Talebani e i rappresentanti della Repubblica islamica d’Afghanistan si sono seduti al tavolo negoziale. Per la prima volta dopo quasi vent’anni di guerra e decine e decine di migliaia di morti, perlopiù civili.
Si sono aperti in Qatar, i primi colloqui di pace intra-afgani, tra rappresentanti del governo di Kabul e dei Talebani, per mettere fine a 19 anni di guerra. Presente anche il Segretario di Stato
DOHA – Il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, ha dato il via alla cerimonia di apertura degli storici negoziati tra Kabul e i Talebani, in un hotel di lusso a Doha, a fianco del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo e dell’inviato speciale di Washington per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad.
Ospitava quasi 13mila persone, più di quattro volte la capienza massima prevista: i migranti sono stati tutti evacuati, ma alcuni sono rimasti intossicati dal fumo
Il più grande campo per migranti della Grecia, quello di Moria, nell’isola di Lesbo, è stato completamente distrutto da un incendio. I migranti sono stati tutti evacuati, ma alcuni sono rimasti intossicati dal fumo. Il campo ospitava quasi 13.000 persone, più di quattro volte la capienza massima prevista. «Migliaia di persone non hanno un posto dove andare», ha fatto sapere il viceministro greco all’Immigrazione, Giorgos Koumoutsakos. Anche prima dell’incendio le condizioni a Moria erano assai precarie fra insediamenti fatiscenti, condizioni igieniche deficitarie e pochissime prospettive per i richiedenti asilo ospiti del campo.
Conflitti permanenti. Il rapporto della Brown University: dal 2001 al 2019 lo sfollamento forzato da 8 paesi, dall’Iraq alla Siria, fino all’Afghanistan. Numeri al ribasso: allargando al resto dell’Africa, si toccano i 59 milioni, pari alla popolazione italiana. E gli effetti sono duraturi: frammentazione della società, impoverimento, radicalizzazione e fame
«Lo hanno rifiutato in tutti i porti, hanno portato via il suo piccolo amore, poi hanno detto “Profugo!”. Tu che hai piedi e mani insanguinati, la notte è effimera, né gli anelli delle catene sono indistruttibili».
Ai rifugiati di ogni latitudine si rivolgeva con questi versi il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Parole che scavano nel dolore intraducibile del dover abbandonare casa propria e che danno, oltre qualsiasi statistica, il costo umano di una guerra. Che è fatta di morti, feriti, infrastrutture distrutte, reti sociali tanto sfibrate da spezzarsi. Ma anche di fughe, individuali e collettive.
I rifugiati – che ancora oggi rischiano la vita per trovare, appunto, un rifugio lungo le coste europee – sembrano arrivare ma non partire. Da dove vengono e perché, per quale ragione lasciano la loro casa, il loro villaggio, le strade familiari e i volti degli amici non interessa.
Salvo per miracolo sebbene lui minimizzi “Ho solo qualche bruciatura su una mano e al volto”, Amrullah Saleh era l’obiettivo d’un attentato compiuto stamane nell’area nord est di Kabul, a Taimani. Mentre il suo convoglio transitava per via è esploso un ordigno che ha fatto dieci morti e una ventina di feriti, anche per il coinvolgimento d’un deposito di bombole di gas. E’ probabile che chi ha organizzato l’agguato esplosivo sapesse di quello spostamento. Attualmente Seleh è vicepresidente afghano sulla sponda di Ghani, che l’ha voluto in quel ruolo reclutandolo anche per la campagna elettorale. Ma nel Paese ha ricoperto altri incarichi, facendosi diversi nemici interni ed esteri. Dal 2004 al 2010, dunque durante il primo mandato presidenziale di Hamid Karzai e all’inizio del secondo, è stato il capo della sicurezza. C’è da considerare che la carriera ufficiale di Saleh era iniziata prestissimo, aveva 22 anni. S’era forgiato nelle file dell’Alleanza del Nord, post guerra civile, avendo come riferimento il comandante Massud, tajiko come lui. E sul tema delle etnìe Saleh non ha mai nascosto il suo pensiero: occorreva trovare una coabitazione fra le componenti, dunque nessuna concessione alla maggioranza pasthun.