Romina Gobbo, 5.20.3023, FamigliaCristiana.it
Enaiat Akbari (S) e Fabio Geda (D). (Ansa)
In Afghanistan ti guardi attorno e le persone ti sembrano simili, la fisionomia riconoscibile, finché non incappi in qualcuno con “il naso schiacciato e gli occhi a mandorla”. Si dice che discendano da Gengis Khan (che nel 1222 invase l’Afghanistan, ndr), e infatti i tratti ricordano quelli mongoli.
È l’etnia hazara, la più vituperata e perseguitata, considerata inferiore dai pashtun, l’etnia maggioritaria. Poi però si scopre che, oltre all’antropologia, c’entra la religione: gli hazara sono musulmani sciiti, quindi odiati dai talebani, che sono sunniti. Un odio di cui ha fatto le spese Enaiatollah Akbari, giovane hazara, fuggito dall’Afghanistan, e che oggi vive a Torino. Venerdì 5 ottobre, alle 9.30, sarà a San Giuliano Milanese (al cinema Ariston, in via Matteotti), nell’ambito delle iniziative del Cisda, per raccontare ancora una volta la sua storia, che è diventata la trama del romanzo Nel mare ci sono i coccodrilli, scritto da Fabio Geda, per Baldini e Castoldi editore. Il libro è uscito nel 2010, è stato tradotto in oltre 30 lingue e sarà la trama di un film diretto da Francesca Archibugi. Da allora la vita di Enaiatollah è cambiata: è stato intervistato da giornali e televisioni e chiamato a portare la sua testimonianza nelle scuole.
«Ho partecipato a più di 500 incontri ed è stancante» dice. «Ma devo farlo, perché le persone che ho di fronte cambiano. Io non cerco compassione, ho avuto la mia vicenda, le mie sofferenze, ma ne sono uscito. Però c’è chi si trova ancora nella mia situazione, e la gente deve sapere. Se, davanti a un grande pubblico, riesco a trasmettere qualcosa, e almeno due persone cominciano a comprendere, è già un risultato».
Enaiat è nativo di Nava, città situata nella provincia di Ghazni, nel sud-est dell’Afghanistan. Si tratta di una zona dove l’instabilità politica è accentuata, e dove spesso si verificano bombardamenti, sparatorie, attentati e le strade sono disseminate di mine e ogni genere di ordigno. Ha appena dieci anni Enaiat quando diventa “merce di scambio” per saldare un debito paterno. La madre sa che non c’è modo di salvarlo se non lasciandolo andare.
«Non far uso di droghe, non impugnare armi, non rubare. Khoda negahar, addio». Dieci anni in Occidente sono pochi, ma in Afghanistan si diventa adulti presto. Comincia per Enaiat un’odissea, che nulla ha di fantastico, ma che sa di botte, strada e fame. Il futuro è un pensiero lontano, la parola d’ordine è sopravvivere.
Che rapporto hai con la paura?
«La paura mi è stata compagna per tanto tempo. Oggi la paura resta ma, come dice Jung, è anche una risorsa. Se hai paura, stai più attento e rischi di meno. Anche se io ormai mi butto anche quando una cosa è rischiosa».
Perché Enaiat la morte l’ha vista in faccia più volte. Come quando per arrivare in Iran ha dovuto affidarsi ai trafficanti di uomini, oppure quando, per raggiungere la Turchia, è rimasto chiuso nel doppio fondo di un camion – “groviglio di carne” – per tre giorni, dividendo cinquanta centimetri di spazio con altre ottanta persone. Per non parlare di quando si è gettato in mare per raggiungere la Grecia. Una traversata rischiosa perché, dice Hussein Alì, uno dei ragazzini che si tuffa con lui, “nel mare ci sono i coccodrilli”». Otto anni di calvario, poi Eniat “approda”: l’Italia, Venezia, un affido e un permesso di soggiorno. Una nuova prospettiva, la scuola, la speranza…